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Scritture solidali: memorie di cittadinanza attiva / A cura di Valeria Pecere / Vol.22 N.3 2024

Racconti brevi

DOI: 10.17613/yt5tj-42k91

Maria Rosaria Faggiano

magma@analisiqualitativa.com

Vice presidente Camera degli Avvocati Immigrazionisti Pugliesi.

 

Abstract

I migranti non viaggiano con valigie, come facciamo noi quando andiamo all’estero. Tutto quello che hanno lo portano addosso, dentro al cuore, nell’anima. I volti delle persone care, le difficoltà, le paure, le sofferenze subite… e i sogni.

 

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Laboratorio della memoria e del volontariato del Terzo Settore
LabTS Laboratorio di cultura politica del Terzo Settore

È stato forse un sogno?

Da bambina mi era stato regalato un libro nel quale mi aveva colpito un’immagine che raffigurava dei medici tutti uguali nei loro camici bianchi ma dal colore della pelle differente. Tra i colleghi bianchi spiccava il bel colore bruno di un medico nero.

Erano gli anni Settanta e sebbene in Italia non ci fosse ancora il fenomeno dell’immigrazione, ero certamente al corrente delle lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti e credevo che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.

Non so se già allora ho sognato di poter vivere in una società dove non conta il colore della pelle e le persone sono apprezzate per i loro valori e le loro competenze.

Di certo, diventando adulta ho deciso di dedicare il mio lavoro alla realizzazione del sogno di una società multietnica e multiculturale, convinta che l’apporto di così tante esperienze diverse avrebbe arricchito la vita di tutti e la mia.

A pensarci bene, l’Italia tutta è sempre stato un crocevia di popoli in cammino. Forse la lunghezza delle sue coste e il suo protendersi nel Mediterraneo hanno favorito lo scambio non solo commerciale ma soprattutto culturale. Basta ascoltare i nostri dialetti del sud: laddove non sono vere lingue differenti, come il griko o l’albanese di alcune aree calabresi, nei nostri dialetti ritroviamo parole latine, arabe, spagnole.

Così anche le caratteristiche somatiche rispecchiano spesso la stessa miscellanea genetica.

C’è chi pensa che siamo sempre stati terra di conquista. In realtà la ricchezza culturale e materiale delle costruzioni nelle nostre città e nei nostri paesi dovrebbe farci comprendere che quegli scambi, a volte forzati, ci hanno permesso di evolvere e svilupparci più facilmente.

E allora, perché tanta paura dello straniero? Perché non riconoscere in lui un altro uomo capace, ad esempio, di aiutarci ad avere una visione differente della vita o a riportarci verso i valori autentici, differenti dal materialistico possesso? Perché abbiamo paura di perdere la nostra identità culturale se essa stessa è un insieme di differenti culture che si sono incontrate nel passato?

In realtà è altro che minaccia le nostre culture in questo momento storico, ma tutti gli occhi dei media sono puntati verso lo straniero e il diverso.

Nello stesso tempo la politica di qualunque matrice, sull’onda del crescente razzismo indotto nella società, non fa altro che restringere sempre più la possibilità di trasferirsi e vivere regolarmente in Italia. Si è realizzato questo obiettivo con leggi sempre più restrittive e con accordi internazionali che tengono intere popolazioni di migranti segregate nel carcere libico o in Tunisia.

È stato così: sognando una differente società, ho incrociato i sogni di altri colleghi.

Sognando abbiamo creato una associazione che sta crescendo e sta diventando anche punto di riferimento per gli altri e …per i loro sogni.

Katia Botrugno: l’avvocato immigrazionista

Fare l’avvocato immigrazionista è una scelta di campo. Non è solo attività di interpretazione di una legge, ricerca del cavillo, impugnazione di un provvedimento. È molto di più. È immedesimazione, conoscenza approfondita della persona e del suo vissuto. È conoscenza dell’altro.

Solo così si riesce a stabilire una relazione franca che ti fa comprendere dinamiche e realtà a noi sconosciute. Per anni ho fatto le domande sbagliate ai miei clienti. Domande che dimostravano una difficoltà a entrare in un mondo, in delle vite che sono lontane anni luce dalle nostre.

Per esempio, non ho mai chiesto se la sera avevano l’energia elettrica in casa perché lo davo per scontato. Sbagliando.

Ho pensato che bere Coca-Cola fosse un vezzo. Sbagliando.

Che avere il cellulare fosse un lusso. Sbagliando.

Che scappare da Paesi dove non c’era la guerra solo perché mancano opportunità occupazionali fosse un azzardo. Sbagliando.

E tante altre domande, convinzioni, preconcetti che, da avvocato immigrazionista non avrei dovuto avere.

Poi col tempo, con la conoscenza di quella parte di mondo che spesso in modo prepotente bussava alla mia vita, mi son resa conto dei miei errori.

Ho capito che avere l’energia elettrica in un villaggio in cui, anche un semplice temporale cancella strade e collegamenti, è un lusso, una chimera.

Che bere coca cola in un Paese abusato dalle multinazionali del petrolio che hanno inquinato falde, fiumi, oceani, è necessario per non morire intossicati da una qualità dell’acqua pessima.

Che avere un cellulare è tenere il filo che lega con gli affetti lasciati nel Paese d’origine, dove mamme e papà, anche se neri, hanno le stesse ansie e le stesse preoccupazioni di mia madre e mio padre quando sono all’estero.

Che scappare da Paesi dove non ci sono conflitti, ma c’è la disoccupazione, l’abuso dei governi locali e la fame è come scappare dalla guerra, poiché in ogni caso si rischia di morire: o di fame o uccisi.

Che essere in Paese maggior produttore di cacao al mondo e avere un popolo che non ama il cacao è una contraddizione allarmante che fa capire il grado di sfruttamento di un territorio ricchissimo di risorse, ma le cui risorse arricchiscono e sfamano noi occidentali.

Racconti, consapevolezze, scoperte fatte dopo anni di ascolto, a volte distratto e superficiale, altre attento e indagatore. E grazie all’ascolto attento e interessato, oggi, sono finalmente libera da costruzioni mentali che mi

La costituzione

“Quanti stranieri possiamo ancora accogliere in Italia? Un milione, due, dieci milioni?”

Insistentemente, qualche giorno fa, mi è stata posta questa domanda.

Ovviamente non ho dato la risposta numerica che l’interlocutore desiderava ascoltare, ma gli ho parlato degli stranieri residenti.

È un concetto che reputo realmente rivoluzionario, capace di far cambiare totalmente prospettiva, non solo per quanto riguarda le politiche migratorie, piuttosto come fondamento di un nuovo modo di pensare e vivere nella società.

Fulminante, per me, è stato l’ascolto delle parole della filosofa Donatella di Cesare, intervistata qualche anno in un programma radiofonico, Presentava il suo saggio filosofico Stranieri Residenti. Non voglio banalizzare il suo pensiero, compiutamente sviluppato nel libro, ma in estrema sintesi, sostiene che siamo tutti stranieri residenti perché la terra è inappropriabile e inalienabile, così siamo solo degli affittuari e ospiti temporanei, quindi stranieri residenti.

Immaginate per un attimo se tutti pensassimo di essere stranieri residenti sulla terra, allora non avrebbe senso domandarsi quanti immigrati possiamo accogliere e, di conseguenza, alzare muri, bloccare navi cariche di essere umani in mare, pensare di avere diritto più di altri di vivere in un posto.

La filosofa osserva come lo jus migrandi sia realizzato solo in parte, come diritto di uscire dal proprio paese, non anche come diritto di entrare in un altro stato oltrepassandone i confini.

Ogni stato cerca di regolare e limitare il diritto di ingresso attraverso i propri confini e da questo momento entra in gioco la figura dell’avvocato immigrazionista che è colui che difende gli stranieri in quanto esseri umani. Al centro c’è sempre la persona, l’uomo migrante e la necessità di tutelarne la dignità e di difendere i diritti umani.

Da almeno vent’anni assistiamo all’involuzione del diritto dell’immigrazione, iniziata con la criminalizzazione del migrante e la sovrapposizione del tema dell’immigrazione con quello della sicurezza; uno dei momenti più critici degli anni passati è stato nel 2018 con il famoso “Decreto sicurezza”.

I migranti sono ormai il capro espiatorio dell’incapacità dello Stato di garantire i diritti dei cittadini e il pensiero discriminatorio permea tutta la società. In realtà non ci rendiamo conto che quando le leggi riguardanti l’immigrazione sono in palese contrasto con la Costituzione, non sono in pericolo solo i diritti dei migranti ma anche i nostri.

Di recente abbiamo visto come anche i nostri diritti di cittadini possono essere limitati con di disapplicazione della Costituzione o con sue spregiudicate interpretazioni.

Nei momenti critici, si sa, affiorano le migliori opportunità. Fu così che nell’estate del 2018 facendo la fila per poter parlare con l’unico funzionario incaricato dal dirigente dell’Ufficio stranieri della Questura di Lecce, Serena Pugliese e io abbiamo iniziato a chiacchierare e a sognare.

Serena è una giovane collega, piena di entusiasmo e molto determinata. Mentre attendevamo il nostro turno per interloquire con il funzionario ci siamo detto: “Sarebbe bello poter riunire tutti gli avvocati immigrazionisti per formare una associazione e acquisire maggiore forza nei confronti delle istituzioni”.

Dal Salento il nostro pensiero correva sino a Roma dove al Ministero dell’Interno si era insediato Matteo Salvini ed eravamo ben consapevoli delle sue intenzioni di riformare la materia dell’immigrazione per limitare, a suo dire, il numero degli immigrati.

“Dobbiamo riunirci in associazione se vogliamo avere un minimo di forza per contrastare quello che sta per accadere”.

Di lì a poco ci siamo salutate con l’impegno reciproco di parlarne ognuna con i colleghi più vicini e di organizzare entro l’estate una prima riunione.

Così è nato l’embrione della nostra associazione.

Il primo scoglio da superare è stata la diffidenza reciproca e durante le prime riunioni ci si è impegnati innanzitutto a essere maggiormente leali e rispettosi del lavoro di ognuno. Ne è nata una meravigliosa colleganza, in cui ci si confronta, ci si sostiene e ci si aiuta.

Già questo penso sia stato un enorme successo.

Dopo qualche mese, abbiamo deciso di costituirci in associazione, di formare una Camera di Avvocati Immigrazionisti e abbiamo cominciato a redigere lo statuto.

Quando eravamo quasi pronti a fissare l’Assemblea costituente, abbiamo lanciato una call ai colleghi immigrazionisti di tutta la Puglia. Ci hanno risposto colleghi di Bari, Brindisi, Foggia e Taranto.

L’Assemblea costituente è stata fissata per il giorno 1° giugno 2019 a Lecce, presso la Biblioteca Bernardini dove abbiamo fissato la sede sociale, sottoscrivendo un patto con la Regione Puglia - Polo Biblio-museale.

I giorni precedenti abbiamo raccolto le adesioni alla nostra Associazione da parte dei colleghi pugliesi e con nostro grande piacere qualcuno di loro ha chiesto di far parte dei soci fondatori, mentre all’assemblea hanno partecipato anche avvocati non leccesi.

L’interesse suscitato dalla nostra iniziativa ci ha dato una grande carica e le emozioni di quella mattina di sole in cui ci siamo riuniti per la costituzione della Camera degli Avvocati Immigrazionisti Pugliesi restano sempre vive.

I primi passi

La grande gioia seguita alla nascita e il fermento dei mesi successivi alla costituzione dell’Associazione hanno dato subito i loro frutti.

Sin da subito, abbiamo sentito l’esigenza di ’dire la nostra’ su temi scottanti come il soccorso in mare dei migranti che ancora oggi resta di estrema attualità.

Erano i giorni in cui Carola Rackete, la ’capitana’ della ’Sea Watch 3’, veniva arrestata e iscritta nel registro degli indagati, dalla Procura di Agrigento, per i reati di violenza o resistenza contro nave da guerra, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rifiuto di obbedienza a nave da guerra.

I fatti. Il 12 giugno 2019, l’equipaggio della Sea Watch 3 aveva soccorso 52 persone da un gommone al largo della Libia. Carola Rackete, aveva navigato per giorni con a bordo i naufraghi stremati dal caldo e dalle sofferenze, chiedendo più volte ai Paesi competenti di indicare un porto sicuro. Il 29 giugno, di fronte al silenzio dell’Europa e trovandosi “in stato di necessità” il capitano, in prossimità delle acque Italiane si era diretta verso Lampedusa.

Malta era lontana e non era pensabile per Carola Rackete dirigersi verso Tripoli, riportando i naufraghi nell’inferno libico né tanto meno in Tunisia da dove, in più occasioni, i profughi ivi approdati erano stati riportati in Libia.

La Guardia di Finanza ordinava di fermare il mezzo, ma Carola Rackete adottava «manovre evasive ai reiterati ordini di alt imposti dalla vedetta, azionando i motori di bordo e indirizzando la rotta verso il porto». Una volta avuto accesso al porto, il capitano avrebbe effettuato manovre non consentite e rischiose, urtando la motovedetta della Guardia di Finanza e per questo motivo era stata arrestata.

Allora come oggi il tema del soccorso in mare dei profughi suscitava in noi il desiderio di esprimere chiaramente il nostro punto di vista. Il disappunto per l’arresto di Carola Rackete era forte e abbiamo deciso di scrivere e inviare un appello al Presidente della Repubblica.

Sentivamo il dovere giuridico e morale, di ribadire la sussistenza nella condotta contestata alla ’capitana’ delle scriminanti dello stato di necessità (art. 54 c.p.) e dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), nell’intento di mettere in salvo le vite umane in osservanza anche dell’art 10 Cost..

L’obbligo di salvare la vita dei naufraghi in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Inoltre, la paventata “chiusura” dei porti italiani, non poteva né può consentire deroghe al principio di non respingimento in

Paesi non sicuri, affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra

Sentivamo la necessità di ribadire ’forte e chiaro’ questi principi.

Abbiamo continuato a farci conoscere anche attraverso articoli e lettere su altre tematiche di attualità.

La morte di un immigrato a nel C.P.A. di Restinco, ci addolorò molto e decidemmo di scrivere un articolo per sollevare il problema del continuo prolungamento dei termini di trattenimento.

Anche le offese alla Senatrice Liliana Segre da parte di un collega leccese, ci hanno fatto sentire l’urgenza di esprimere il nostro disappunto.

I miei colleghi della Camera mi avevano designata come presidente dell’associazione e nei mesi successivi alla costituzione ci siamo impegnati a scrivere e inviare le lettere di presentazione alle Istituzioni, ai Tribunali e alle Procure di tutta la Puglia.

Tutta questa attività ci ha consentito di farci conoscere e, sin da subito, abbiamo iniziato la collaborazione con l’Università del Salento - Dipartimento di Scienze Giuridiche che continua ancora oggi con grande soddisfazione da parte nostra.

Tutti quanti noi, abbiamo avuto l’opportunità di farci conoscere e partecipare a momenti formativi rivolti agli studenti del corso di Laurea in Governance Euromediterranea che si dimostrano sempre attenti e interessati.

Il nostro Statuto ha previsto anche la possibilità, attraverso il Comitato Scientifico, di promuove forme di collaborazione con altri enti, associazioni, istituzioni, od organismi pubblici o privati, nazionali o internazionali.

Proprio nell’ambito di questa attività, la nostra Avv. Donatella Tanzariello ha promosso un ciclo di incontri informali, per la presentazione della Camera degli Avvocati Immigrazionisti alle altre associazioni salentine.

Sono nati così gli incontri di ’Call into the bar’ con l’intento di ritrovarsi a chiacchierare su argomenti giuridici di attualità come i mutamenti normativi, le pronunce giurisprudenziali e gli effetti pratici dell’applicazione delle novità legislative e sul sistema di accoglienza con gli attori del territorio, in un ambiente accogliente dove poter consumare una tisana o un bicchiere di vino.

L’idea di Donatella è stata geniale e agli incontri che si sono svolti tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 hanno partecipato tante associazioni con le quali abbiamo avuto modo di tessere relazioni importanti.

I sogni degli altri

La prima volta che ho visto Birame mi ha colpito il suo sguardo triste e sfuggente. È un ragazzo mingherlino e non molto alto, ha sedici anni ma mi sono accorta subito che la vita è stata dura con lui.

Quella prima volta ha sempre tenuto gli occhi bassi senza mai fissarmi.

È stato accompagnato dalla sua tutrice la quale si è rivolta allo sportello per chiedere informazioni sulla pratica di richiesta della protezione internazionale. Dopo essersi presentata, si è voltata verso il ragazzo che la seguiva dicendo: “Lui è Birame. È ospite di una struttura per minori con la quale collaboro”.

Poi rivolgendosi a lui: “Birame, presentati all’avvocato”.

Il ragazzo si è avvicinato porgendomi la mano senza troppa convinzione, ho approfittato di quel contatto fisico obbligato per stringere la mano tra le mie due, nel tentativo di comunicargli empatia. Lui ha colto e per un attimo mi ha guardata, abbassando subito dopo lo sguardo.

Mentre noi parlavamo di come si presenta una richiesta di protezione internazionale e della procedura che ne segue, Birame era seduto in silenzio e non ci osservava, come se tutto quel parlare non lo riguardasse.

“Birame, comprendi quello che stiamo dicendo?” gli ho chiesto dopo un po’. “Poco” ha risposto lui.

“In realtà, ha una eccellente capacità di imparare le lingue e, anche se è arrivato da poco, riesce a comprendere l’italiano. Però ha timore a parlarlo” ha subito aggiunto la tutrice.

“Birame, mi dispiace, io non conosco il francese e non posso parlare con te nella tua lingua. Per la richiesta di protezione di cui stiamo parlando con la tua tutrice, abbiamo bisogno di sapere per quale motivo sei andato via dal tuo Paese.”

Il ragazzo è restato in silenzio per un attimo come per concentrarsi e poi ha risposto: “Per studiare”.

Non ho insistito con le domande per non metterlo ancora più in imbarazzo e con la tutrice, ci siamo dato un altro appuntamento con Birame e un interprete.

La volta successiva, con l’aiuto della mediatrice della sua lingua, Birame ci ha raccontato la sua storia.

Sino a otto anni la sua vita è stata tranquilla, viveva in una famiglia che non aveva problemi economici, il padre aveva diversi terreni dove si coltivava il cacao e alla famiglia non mancava nulla. Lui è il più giovane dei figli, prima di lui un fratello e una sorella.

Vivevano tutti in una grande casa, con la nonna e uno zio, fratello del padre che a sua volta è sposato con figli.

Purtroppo, quando Birame aveva otto anni, il padre è morto. Pochi giorni dopo il funerale, lo zio ha chiamato la cognata e madre dei suoi nipoti e le ha detto che doveva lasciare subito quella casa insieme ai suoi figli. La donna si è disperata e gli ha chiesto come faceva a buttare per strada i figli di suo fratello.

Quell’uomo per tutta risposta ha preso un foglio ingiallito dove c’era scritto qualcosa che lei non comprendeva perché in una lingua a lei non nota. Lo zio di Birame urlava dicendo che in quel foglio c’era scritto che suo fratello non poteva avere figli a causa di una malattia contratta quando era ragazzo e che, pertanto, i figli della cognata non erano suoi nipoti.

La mamma di Birame, non si è data vinta, si è rivolta al capo villaggio ma anche quest’ultimo ha confermato la versione del fratello del suo defunto marito. Allora si è rivolta alla gendarmeria, ma lì le hanno detto che non potevano fare nulla per lei e i suoi figli.

Alla fine, è stata costretta ad abbandonare la casa del marito defunto. Non sapendo cosa fare, ha accettato la proposta di matrimonio di un uomo di un altro villaggio. Questi però ha altre due mogli e numerosi figli, per questo motivo, le ha detto che avrebbe potuto mantenere solo uno dei suoi figli.

La mamma di Birame ha mandato il figlio più grande in una scuola coranica dove danno anche l’alloggio e per la figlia ha trovato un marito un po’ più anziano.

Lei e il figlio più piccolo sono andati nella casa del nuovo marito. Birame, sebbene fosse molto addolorato per la morte del padre e per l’allontanamento dai fratelli, ha seguito la madre e nei primi mesi è andato tutto abbastanza bene. Lui ha ripreso a frequentare la scuola che aveva dovuto interrompere a causa della morte del padre e piano piano si stava rasserenando.

Dopo meno di un anno, il nuovo marito della madre, ha annunciato che non poteva mantenere lei e il figlio e che quest’ultimo doveva lasciare la scuola e seguirlo al lavoro.

Birame non aveva neanche dieci anni, quando è stato costretto ad abbandonare la scuola e andare a lavorare con il patrigno, il quale non gli dava nessuna retribuzione perché: “Devo mantenere te e tua madre” così diceva.

Se al mattino non si svegliava per tempo o sbagliava qualcosa sul lavoro, il patrigno lo picchiava.

Un giorno Birame è scappato per andare a scuola con gli altri figli dell’uomo. Quando è tornato a casa è stato picchiato e ha perso un dente. La madre, dispiaciuta per il comportamento dell’uomo, si è rivolta ad alcune associazioni per chiedere se potevano aiutare il figlio a continuare gli studi. I loro programmi però non prevedevano l’assistenza ai ragazzi con genitori e così non è riuscita nel suo intento.

Dopo un anno di lavoro e maltrattamenti, Birame si è rifiutato di continuare a lavorare gratuitamente per il patrigno e ha trovato un altro lavoro dove è restato circa tre anni. Ha guadagnato abbastanza per pensare di affrontare il viaggio verso l’Europa.

Ha conosciuto un commerciante che viaggia molto all’estero ed essendo in grado di parlare diverse lingue gli ha proposto di accompagnarlo e per convincerlo gli ha raccontato la sua storia.

Il commerciante ha accettato e sono partiti insieme. Hanno attraversato diversi Paesi, Birame faceva il suo lavoro di traduttore e guadagnava un po’ di soldi. Quando sono arrivati in una città ai margini del deserto ha chiesto informazioni ed ha saputo che da lì partivano le Jeep dirette verso la Libia. Ha parlato con l’uomo che lo aveva aiutato a uscire dal Paese e hanno deciso di separarsi. Si sono salutati e Birame è rimasto nella città ad aspettare il momento giusto per salire su una Jeep e affrontare il deserto.

Nell’attesa ha conosciuto una ragazza maliana della sua stessa età. Hanno iniziato a parlare e raccontarsi le loro storie, si sono sentiti subito in sintonia. È arrivato il momento di partire e sono saliti sulla stessa Jeep. Erano dietro, sotto il sole. Intorno l’aria stessa sembrava evaporare. Birame ha sentito un gemito e ha guardato la ragazza. Pallidissima, si stava sentendo male. Si è alzata in piedi, chiedendo all’autista di fermarsi. In quel momento una disconnessione nel terreno ha fatto sobbalzare tutti, Birame si è attaccato con le unghia al bordo della Jeep, la ragazza è stata letteralmente sbalzata via. È caduta fuori dal mezzo e il ragazzo ha fatto in tempo a vederla cadere rovinosamente sul terreno sbattendo la testa. Gli è sembrato di vedere del sangue. Ha urlato di fermarsi nella lingua dell’autista che ha continuato a correre via veloce. È riuscito ad avvicinarsi all’autista continuando a chiedere di tornare indietro per salvare la ragazza, per tutta risposta ha sentito alle tempie il freddo della canna di un fucile di un uomo che gli ha intimato di tornare a sedersi, tacendo.

Mentre raccontava, Birame piangeva e abbiamo dovuto interrompere il colloquio.

Non ho più avuto il coraggio di chiedergli di riprendere il racconto della sua storia. Nel frattempo Birame ha ottenuto una permesso di soggiorno con il quale può rimanere in Italia e soprattutto sta studiando.

Dopo aver acquisito in pochi mesi gli attestati A1 e A2 di conoscenza della lingua italiana, ha brillantemente superato l’esame di terza media e si è iscritto al liceo scientifico. Oltre che nelle lingue è portato per la matematica e vorrebbe andare all’università. Nei fine settimana va anche a lavorare in un ristorante e guadagna i soldi da mandare alla madre. Non ha dimenticato che è importante mettere da parte anche qualcosa. Si sta creando un gruzzolo per quando si iscriverà all’università.

Il suo sguardo adesso è decisamente più sereno e fiducioso verso la vita e gli altri.

Ha iniziato a realizzare i suoi sogni.

Conclusioni

In questi giorni basta collegarsi a Internet per parlare e vedere persone lontane in altri continenti.

Basta salire su un aereo e, con un costo modesto, si arriva in poche ore in nazioni lontanissime dove ognuno di noi può incontrare persone e culture differenti.

Anche se le comunicazioni fisiche e virtuali sono ormai estremamente semplificate, non ci è concesso tanto facilmente il diritto di stabilirci in un altro paese, ognuno di noi per poterlo fare deve richiedere apposite autorizzazioni. Oltre a questo, non è detto che la nostra presenza in un altro paese sia gradita alla popolazione del posto.

Questo accade anche in Italia dove, giorno dopo giorno, crescono l’insofferenza e il razzismo soprattutto verso alcune popolazioni e ci importa sempre meno di comprendere il motivo del desiderio di stabilirsi nel nostro Paese.

I migranti non viaggiano con valigie, come facciamo noi quando andiamo all’estero. Tutto quello che hanno lo portano addosso, dentro al cuore, nell’anima. I volti delle persone care, le difficoltà, le paure, le sofferenze subite… e i sogni.

Ogni persona che viaggia attraverso differenti Paesi, tra mille peripezie e abusi, ha un sogno da realizzare, almeno uno. Ho ascoltato tante storie di vita e ne avrei da raccontare. So che si può viaggiare per realizzare un sogno d’amore malvisto nel proprio Paese, per fuggire da una guerra o peggio da una persecuzione personale.

Chissà, forse ho aiutato più di qualcuno a realizzare i suoi sogni.

Ho sognato tanto e qualche volta sono riuscita anche io a realizzare i miei sogni. Uno di questi si è avverato con la costituzione della Camera degli Avvocati Immigrazionisti Pugliesi.

Ho ancora tanti sogni. Alcuni forse sono utopie.

Vorrei che ogni essere umano avesse il diritto di emigrare in un altro Paese senza dover chiedere un’autorizzazione/ visto e soprattutto senza dover rischiare la vita per entrare clandestinamente.

Se così fosse, non ci sarebbero più trafficanti che convincono i ragazzi ad affrontare viaggi pericolosi o che approfittano dello stato di bisogno altrui. Non esisterebbero banditi abusatori né centri di detenzione.

Vorrei che ogni essere umano venisse accolto benevolmente in un Paese diverso dal suo e aiutato a vivere accanto alle persone residenti.

Sono sogni impossibili? Penso che i sogni si avverano se ci crediamo veramente.

Ringraziamenti

Al termine di questo percorso, sento di dover ringraziare sentitamente il Professore Orazio Maria Valastro che ha condotto magistralmente anche questo laboratorio.

I miei ringraziamenti vanno a tutto il LabTS Laboratorio di cultura politica del Terzo Settore e in particolare al Presidente Guido Memo.

Ringrazio Valeria Pecere per aver voluto coinvolgermi anche in questa esperienza e tutti i compagni di viaggio che hanno generosamente raccontato le loro esperienze.

Ringrazio le mie colleghe Katia Botrugno e Serena Pugliese le quali hanno contribuito alla stesura dei Racconti brevi.

Buoni sogni a tutti!

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