Presidente Associazione Compagni di Strada OdV - Casa Betania - A.A.A. Ascolto, Accoglienza, Accompagnamento.
Abstract
Compagni di Strada assieme ad altre associazioni porta avanti progetti di opposizione alla cultura dello scarto, di opposizione a tutti i tipi di stigma, di opposizione alla burocrazia, di opposizione a leggi che limitano il sostegno all’inclusione e soprattutto di opposizione a ogni potere ogni qual volta produce vittime, in definitiva opposizione a ogni tentativo di limitare la libertà, perché la resistenza è una scelta di vita.
Laboratorio della memoria e del volontariato del Terzo Settore
LabTS Laboratorio di cultura politica del Terzo Settore
Un sacco a pelo per essere sempre in viaggio
C’era una volta e c’è ancora un sacco a pelo. Passano gli anni e mi ritrovo ancora con un inseparabile bagaglio dei miei viaggi.
Erano gli anni della mia giovinezza quando l’inquietudine di quegli anni 70 spingeva una generazione a partire per le mete più svariate in cerca di un senso alla propria vita, alla ricerca di risposte al desiderio di cambiamento di sé e della società.
La mia formazione maturava in quegli ambienti cattolici che erano molto attivi a partire dalle istanze di cambiamento suscitate dal Concilio Vaticano II. Si incrociava con la crisi che attraversava il panorama politico italiano e internazionale con i significativi mutamenti del mondo comunista. Fu così che il sacco a pelo divenne l’inseparabile compagno delle mie lunghe estati in viaggio in Italia e all’estero per incrociare esperienze che interpretavano il cambiamento dei tempi. Molte in campo religioso specialmente quelle che più cercavano di intrecciare fede cristiana e impegno politico.
Tra le più significative per una maturazione personale fu quella dei Cristiani per il Socialismo. Un movimento che voleva infrangere l’unità politica dei cattolici affrancandola dalla egemonia della DC. Il locale nucleo brindisino del movimento vedeva tra l’altro la convinta e travolgente adesione di un membro, di formazione cattolica anch’egli, inviato nella nostra città dal partito di Lotta Continua. Molte le iniziative che ci videro partecipi di lotte politiche e sociali, a cominciare dalla campagna per il no al referendum sull’abrogazione del divorzio, l’adesione a un comitato promotore per una iniziativa di legge popolare per lo scioglimento del MSI, inchieste e campagne informative sull’inquinamento della Montedison che voleva impiantare una linea di produzione del fosgene, gas altamente tossico e aggressivo. Per supportare e veicolare tutte queste iniziative furono pubblicati tre numeri di una rivista che ebbe un discreto successo e che rappresentò anche un esempio di collaborazione fra varie anime ideologiche e politiche.
Tutto questo fermento in parte decantò con gli anni cosiddetti del riflusso. Non si assopirono però le profonde istanze di lotta di molti di quei protagonisti di quegli anni che seppur non più protagonisti di movimenti e partiti politici hanno maturato scelte che a vario modo mantengono sveglia l’attenzione per i profondi malesseri dell’attuale momento storico. Forme di associazionismo che cercano di dare risposta al disagio giovanile, alle diseguaglianze sociali, o che sono sentinelle del perenne attacco all’inquinamento ambientale ed fra questi quanti si adoperano in vario modo all’accoglienza dei nuovi poveri che si affacciano nelle nostre città con i flussi migratori.
L’associazione di cui faccio parte tenta di dare una risposta a tutte quelle persone che risultano sganciati da meccanismi di solidarietà. I senza tetto, gli extra-comunitari in cerca di permesso di soggiorno, donne che fuggono da situazioni di violenza e quelli afflitti dalla sempre più presente multi-fragilità rappresentata soprattutto da uomini separati e che hanno perso il lavoro.
Ecco che il sacco a pelo ritorna a essere protagonista della mia vita. Infatti, nelle notti in cui devo presenziare la nostra casa di accoglienza, più che di un lenzuolo e di una coperta, il mio sacco a pelo evoca il mio girovagare dei miei anni giovanili e mi avvicina al girovagare di questa umanità che non sa dove posare il capo.
Nella nostra associazione, che si chiama “Compagni di strada”, tutti i volontari hanno maturato nel profondo il senso della fratellanza universale e si esercita il rispetto di ogni convincimento religioso e della sua praticabilità. In occasione del Ramadan, per i musulmani che ne assolvono l’obbligo, vengono slittati gli orari di consumazione dei pasti. E poiché da noi è censurato ogni comportamento discriminatorio in tutte le sue possibili forme ed espressioni, in particolare per quelli razziali, qualche anno fa abbiamo allestito un presepe con due bambinelli, uno bianco e l’altro nero.
La nostra casa di accoglienza però ha un connotato preciso e cioè quello di accompagnare gli ospiti verso un processo di superamento dello stato di indigenza. La loro permanenza dura giusto il tempo necessario per riuscire a riprendere il cammino da soli dopo il tracollo. In questo i volontari devono spesso scontrarsi con la burocrazia delle istituzioni o sulla loro stessa incapacità a trovare soluzioni di riscatto per i propri ospiti. Ecco perché ho voluto citare la frase con la quale Davide Maria Turoldo coniò una nuova beatitudine: “Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione”.
Compagni di Strada assieme ad altre associazioni porta avanti progetti di opposizione alla cultura dello scarto, di opposizione a tutti i tipi di stigma, di opposizione alla burocrazia, di opposizione a leggi che limitano il sostegno all’inclusione e soprattutto di opposizione a ogni potere ogni qual volta produce vittime, in definitiva opposizione a ogni tentativo di limitare la libertà, perché la resistenza è una scelta di vita.
Gli altri da sé
Il mio sacco a pelo, se vogliamo, rimane una immagine simbolo dell’impegno nella mia associazione. Non solo per i motivi personali di cui ho raccontato, ma anche perché evoca continuamente la precarietà che giornalmente hanno provato i nostri ospiti prima di approdare in un letto accogliente della nostra casa. Ogni volta che arriva uno di loro, specie se straniero, provo a immaginare i percorsi tortuosi che hanno dovuto sfidare per arrivare da noi. Sicuramente mai un luogo in cui posare il capo in qualcosa di soffice e confortevole. Nelle notti in cui presidio la casa però, steso nel mio sacco a pelo mi sento in sintonia con quasi tutti gli ospiti stranieri soprattutto perché rifiutano l’imposizione occidentale delle lenzuola e dormono sempre avvolti dalla sola coperta.
Ho raccontato la volta scorsa più che altro degli anni della mia formazione e della inquietudine di molti dei giovani di allora. Si potrebbe pensare che l’impegno e l’attivismo di quegli anni sia, a monte, la motivazione principale della mia scelta di impegnarmi in un servizio di volontariato. In realtà così non è stato. Ho vissuto anch’io gli anni del riflusso anche se non è mai stato un deporre le armi, ma un momento di riflessione di attesa di capire meglio le svolte sociali e politiche. Tuttavia, la mia formazione che nasceva, come ho raccontato, sul solco del rinnovamento ecclesiale voluto dal Concilio Vaticano II, da un lato mi spingeva a una chiusura drastica nei confronti di quello che a mio avviso era il finto rinnovamento di un papato mass-mediatico e dall’altro mi orientava a impegni e frequentazioni che sia pur dirompenti rispetto alla restaurazione in corso erano slegati dal contesto cittadino. Tra questi i contatti e le frequentazioni con alcuni amici che animavano la Casa della Pace di Impruneta divenuta poi la segreteria italiana del movimento Pax Christi, partecipazione a progetti di cooperazione internazionale direttamente orientati in Nicaragua prima e Messico dopo, a supporto delle attività di una fraternità religiosa di cui faceva parte un mio carissimo amico pugliese. Il legame con il territorio si concretizzò solamente con l’arrivo degli albanesi nel marzo del 1991. Fui coinvolto per motivi strettamente familiari, perché mia moglie fu sequestrata, per così dire, in una task force di assistenti sociali incaricati di sistemare i numerosissimi minori sbarcati in quei giorni. La gara di solidarietà che si scatenò a Brindisi non risparmiò la mia famiglia che ospitò per una quindicina di giorni un ragazzo di 15 anni, Krenar era il suo nome, prima di consegnarlo a una famiglia di Urbania che lo adottò. Ricordo che fu una esperienza fortemente pedagogica nei confronti di mio figlio che allora aveva appena sei anni. La cittadinanza attiva che si sviluppava a Brindisi essenzialmente intorno ai temi ambientali, mi vedeva impegnato con partecipazioni alle numerose manifestazioni completamente slegato da un impegno diretto in associazioni o gruppi organizzati.
Succedono poi nel corso della vita degli episodi apparentemente insignificanti in cui ti trovi coinvolto senza che tu li avessi cercati. Mi piace raccontare sempre come mi trovo coinvolto in questa avventura che è l’associazione Compagni di strada. Non è stata una solidarietà cercata e voluta nei confronti dei nuovi poveri ed esclusi che si affacciavano con le ondate migratorie del nuovo millennio. Sollecitato da mia moglie, ho risposto soltanto al grido di aiuto di un fraterno amico che a lei aveva confidato la difficoltà di volontari che si impegnassero nel turno di notte a Casa Betania. L’altro da sé, per dirla con le parole del filosofo Levinas, non era lo straniero o lo sfortunato che chiedeva un posto dove posare il capo, ma era l’amico che chiedeva aiuto.
Non ci pensai due volte e la sera stessa in cui mia moglie mi manifestò questa sofferenza, mi feci avanti dando il mio contributo. Sempre citando Levinas, il volto del mio amico da forma plastica è diventato un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio.
Da allora siamo tutti al servizio di “altri da sé” che sono gli ospiti di casa Betania.
Il primo giorno a casa Betania
Era un pomeriggio inoltrato quando entrai per la prima volta in casa Betania, luogo di accoglienza e speranza per i più bisognosi.
Appena messo piede, fui accolto da un caloroso benvenuto da Carmela, allora responsabile della casa. Grazie alla sua personalità accogliente e premurosa, Carmela riusciva a creare un’atmosfera familiare e piacevole. Era sempre pronta a fare due chiacchiere e ad ascoltare le storie di tutti.
Mi presentò subito agli altri ospiti, un gruppo eterogeneo di persone provenienti da diverse situazioni di disagio, ma tutti uniti dalla stessa ricerca di conforto e di una nuova possibilità di vita.
Nonostante tutti gli ospiti fossero accomunati da una certa fragilità, casa Betania era ed è un luogo dove le differenze si annullano e tutti si accettano a vicenda, facendoci sentire reciprocamente amati e accolti.
Il primo giorno a casa Betania fu solo l’inizio di una nuova avventura, un percorso di crescita personale che mi avrebbe cambiato per sempre. Non passò molto tempo e mi sentii già parte di questa grande famiglia.
Non ricordo più quante persone ci fossero esattamente. A distanza di anni ne ricordo solo due con i quali si instaurò un rapporto più stretto. Erano due ragazzi Afghani di nome Anwuar e Amin in cerca di una sistemazione in Italia e che erano stati accolti per garantire loro un alloggio sicuro e confortevole durante il loro processo di regolarizzazione della loro posizione legale nel Paese, attraverso la richiesta di un permesso di soggiorno.
Anwuar era un ragazzo sempre allegro e sorridente ma parlava poco l’italiano e pronunciava sempre dei si ripetuti in senso di assenso su tutto ciò che ascoltava, col dubbio che capisse l’oggetto delle conversazioni.
Amin invece era molto interessato a imparare la lingua. Nel pomeriggio frequentava una scuola di italiano e il suo grado di apprendimento era sbalorditivo. Era convinto che l’acquisizione di un attestato della sua frequentazione alla scuola era un viatico per trovare un lavoro certo e sicuro.
Questa sua voglia di imparare la lingua ebbe un risvolto nel rapporto mio con lui. Tutte le sere del mio turno mi chiamava per controllare che la coniugazione dei verbi, oggetto dei suoi esercizi, fossero corrette. A dir la verità era un compito, il mio, che non gradivo molto nei primi tempi. Il suo attaccamento a me fu però motivo di un cambiamento del mio approccio con lui.
Mi resi conto che la sua motivazione a imparare la lingua era sincera e che aveva fiducia nella mia competenza. Questo mi fece sentire valorizzato e mi spinse a prestare maggiore attenzione alle sue esigenze. Iniziammo a dedicare più tempo a spiegare le regole grammaticali e a fare esercizi insieme. Durante queste sessioni, potevo percepire il suo impegno e la sua determinazione nel migliorare. Questa sua volontà di mettersi in gioco e di spingere oltre i suoi limiti mi ispirò e mi fece sentire orgoglioso di essergli di aiuto. Il nostro legame si rafforzò sempre di più e mi sentii privilegiato a essere parte del suo percorso di apprendimento.
Dove eccelleva era senza dubbio la coniugazione dei verbi. Dimostrava una padronanza sorprendente nei congiuntivi, condizionali senza mai commettere errori. Questa abilità era ancora più impressionante considerando che in quei tempi non c’erano telefoni cellulari collegati a Internet, che facessero sorgere il sospetto che i suoi progressi non fossero frutto della sua costante applicazione e del suo impegno.
Conservo di lui una foto. Era bassino, un fisico minuto. Diventammo amici. Conversava con me su tutto, era curioso di tutto. Dopo alcuni mesi, andò via. Seppi che era andato in Germania e ne rimasi sorpreso perché pensavo che la sua conoscenza dell’italiano sarebbe stata inutile e che avrebbe dovuto ricominciare da zero per imparare il tedesco.
Di Anwuar invece, abbiamo poi scoperto che è diventato un cuoco di punta di un famoso ristorante specializzato in ricevimenti, dove tra l’altro ha dimostrato di avere una grande maestria nel taglio artistico delle angurie ed esperto nel creare spettacolari centrotavola per eventi speciali e ricevimenti. Abbiamo avuto modo con lui di incontrarci negli anni successivi. Si è sposato ed è perfettamente inserito nella nostra società. La storia di Anwuar ci mostra come il talento e la passione possano portare al successo e alla realizzazione personale. Dall’essere un ragazzo cresciuto in circostanze difficili è riuscito a trovare la sua strada nel mondo culinario, diventando un professionista rispettato e apprezzato. La sua integrazione nella società è un esempio di come la determinazione e la dedizione possano superare le sfide e aprire porte per una vita migliore.
La sua storia è anche la dimostrazione che il nostro impegno per accoglierli e accompagnarli spesso paga ma soprattutto ci riempie l’anima e il cuore.
I flussi migratori: il termometro di casa Betania
A distanza di tanti anni dal mio ingresso a casa Betania mi sono chiesto cosa sia cambiato dai primi giorni a oggi nella popolazione degli ospiti. Sono dati soggettivi, non avvalorati da statistiche, che pur potremmo approfondire, a partire dal nostro database. La presenza degli extra-comunitari provenienti dall’Africa sembra in diminuzione in contrapposizione all’aumento di quelli dell’est asiatico o mediorientale. Un dato però è assoluto, che i reiterati tentativi, le misure restrittive di controllo e freno dei flussi migratori si stanno rivelando sostanzialmente inefficienti, a tutto vantaggio dei trafficanti di migranti. Il nostro osservatorio ci porta a constatare che le conoscenze e le competenze diversificate di cui sono spesso portatori questi ospiti contribuiscono a rivitalizzare alcuni ambiti lavorativi.
Negli attuali sistemi post-industriali, che non riescono a garantire la piena occupazione, il ruolo assunto dalla forza lavoro immigrata è quella di riempire i vuoti che si manifestano in alcuni rami produttivi, della capacità da parte degli stranieri di far fronte a una domanda di lavoro che non è garantita dagli italiani, soprattutto per quei lavori considerati di scarso prestigio, particolarmente faticosi e ad altamente nocivi.
Aprendo una parentesi ricordo che, alcuni anni fa, dovendo l’azienda in cui lavoravo effettuare una indagine a tappeto sulla presenza dell’amianto nei nostri siti disseminati in tutt’Italia, appaltò i lavori a una società italiana con maestranze sul campo tutte di nazionalità albanese, non vi era un italiano.
I volontari della notte di casa Betania si alzano alle 4 o alle 5 del mattino per preparare la colazione agli ospiti che vanno a lavorare in agricoltura che sono quasi tutti africani. La forte presenza negli ultimi tempi di extracomunitari di provenienza dal sud-est asiatico, colma i vuoti nel campo della ristorazione, e i nostri numerosi ospiti pakistani e afghani, trovano occupazione svolgendo i lavori più umili come lavapiatti e addetti alle pulizie.
La sfida costituita da una narrativa migratoria di fatto negativa e dalla strumentalizzazione politica della paura verso lo straniero non può nascondere l’opportunità che i migranti e i rifugiati ci offrono di riscoprire il valore della relazionalità e dell’alterità come aspetti distintivi di ogni essere umano.
È questa sfida a rendere appagante il volontariato a casa Betania.
(...)
Quelli che lasciano il segno
Ci sono periodi in cui a casa Betania è stato più facile instaurare un rapporto e un clima fraterno e conviviale con gli ospiti, non sempre è così, visti i dolorosi casi e i problemi di cui queste persone sono carichi. In particolare, alcuni anni fa, tra gli ospiti vi era una ragazza, che chiamerò Paola per nascondere il suo vero nome.
Era una ragazza solare ma molto provata dalla vita. I genitori erano morti. La solitudine l’aveva portata a frequentare compagnie equivoche. Arrivò da noi perché non aveva un tetto dove stare nel mentre cercava un lavoro. Le sue frequentazioni l’avevano portata a innamorarsi di una persona che era in carcere per omicidio. Lei affermava di esserne perdutamente innamorata. Pertanto, di tanto in tanto partiva per il nord Italia dove il suo compagno era detenuto. Dalle nostre informazioni la persona oltre a essere un omicida aveva vissuto una vita fuori dalle regole in tutti i sensi.
Paola era convinta che lui fosse l’uomo della sua vita e che lui sarebbe cambiato per lei. Noi tutti cercavamo di farle capire che quella relazione non le avrebbe portato nulla di buono, ma lei era testarda e non voleva sentire ragioni.
Era di modi gentili aveva una voglia matta di parlare sempre con qualcuno, si mostrava sempre radiosa e disponibile, ma dietro quegli occhi allegri si intravedeva sempre una tristezza profonda. Non riuscivamo a capire come una persona così dolce potesse finire coinvolta in una situazione del genere.
Ciò che ci colpiva di più era la sua capacità di vedere il lato positivo delle persone, anche di quelle che gli altri consideravano irredimibili. Forse era questa la ragione per cui si era innamorata di quell’uomo. Ci insegnava forse che l’amore può essere cieco e che, nonostante tutto, valeva la pena lottare per ciò in cui si credeva. Ma allo stesso tempo ci fece capire quanto la solitudine e la mancanza di figure genitoriale possa portare una persona verso scelte sbagliate.
Tuttavia, nonostante i nostri sforzi, sembrava quasi impossibile farle capire che questa relazione tossica stava solo danneggiando la sua salute mentale ed emotiva. Era evidente che lei era profondamente legata a questa persona e che non riusciva a immaginare la sua vita senza di lui.
Abbiamo cercato di offrirle sostegno e consigli, ma sapevamo che alla fine la decisione spettava solo a lei. La sua resistenza al cambiamento ci faceva capire quanto fosse difficile per lei prendere una decisione così importante e dolorosa.
Nonostante tutto, continuavamo a essere presenti per lei, pronti ad ascoltarla e sostenerla in qualsiasi modo possibile. Speravamo che un giorno avrebbe trovato il coraggio di lasciare quella relazione velenosa e rincominciare a vivere una vita più sana e felice.
Parlare con lei era comunque un esercizio a cui non ci sottraevamo perché nel suo dialogare si leggeva tutta la sua solitudine. Aveva un linguaggio molto appropriato rispetto agli studi che aveva frequentato e scoprimmo che era dovuto al fatto che la madre era stata una professoressa e che quindi aveva vissuto in un ambiente culturalmente stimolante.
La sua apertura la portava a dialogare molto con gli altri ospiti, tra questi un ragazzo che viceversa non parlava una parola di italiano, si esprimeva quasi sempre in dialetto. Una storia la sua di abbandoni familiari, cresciuto in un istituto, ma con bassissima scolarizzazione. Trovò, mentre era da noi, un lavoro al mercato ortofrutticolo come aiuto a scaricare la merce. Paola con lui e gli altri ospiti aveva sempre modo di scherzare e una parola di conforto. Gianni, questo è il suo nome fittizio, andò via alla chiusura estiva della casa avendo trovato un lavoro in una struttura alberghiera nel basso Salento. Di lui non abbiamo avuto più notizie.
Paola trovò lavoro come badante e nonostante fosse vicina alla nostra casa non avemmo modo di incontrarla spesso. La rividi dopo molti anni, affranta e afflitta, al funerale del fratello di una mia conoscente. Appresi che quel morto era il compagno dal quale non era riuscito a staccarsi e con il quale era andata a convivere. Mi augurai che finalmente riuscisse a trovare la felicità che meritava e che fosse finalmente libera da quelle catene che la tenevano legata.
Nello stesso periodo erano ospiti da noi due donne armene di cui ho un ricordo particolarmente piacevole perché erano sempre allegre e canticchiavano spesso. Un giorno riconobbi una canzone che una di loro stava accennando e continuai con il verso. Era la canzone “She” di Charles Aznavour. Uscì fuori un dialogo in cui emerse tutta l’attaccamento alla loro terra e la grande rappresentatività che il cantante francese costituiva per questo popolo dalla storia dolorosa al pari dell’altro grande compositore francese di origini armene Michel Legrand. Nei loro racconti si sentiva un dolore stratificato per le storiche vicissitudini di questo fiero e glorioso popolo.
Questa ennesima esperienza mi ha insegnato che la diversità culturale e linguistica può arricchire le nostre vite e ci permette di crescere e imparare continuamente. E mi ha mostrato che non importa da dove veniamo o quale sia il nostro background, ciò che conta veramente è la volontà di aprirsi agli altri e di accettare le differenze come opportunità di crescita personale e di arricchimento reciproco.
Dopo quella vacanza, non ho più avuto modo di rincontrare Paola, ma il ricordo di quei giorni trascorsi insieme è rimasto vivo nella mia memoria. Era una di quelle persone che lasciano il segno, che ti fanno sentire speciale anche solo per aver avuto la fortuna di conoscerle. E penso che, in fondo, sia proprio questo il bello dei viaggi: incontrare persone straordinarie che ti arricchiscono la vita in modi che non avresti mai immaginato.