Vice presidente Associazione Compagni di Strada OdV - Casa Betania.
Abstract
Io sono Marcello Petrucci, volontario dell’associazione Compagni di Strada OdV sin dal 2008. Ho iniziato facendo le notti nella vecchia sede che poteva ospitare una dozzina di persone. Sono molti i volti e le storie che ricordo di quella prima fase. Le persone che passano da Casa Betania, restano nei pensieri e nelle opere dei volontari anche dopo l’uscita dalla struttura. La stessa cosa, ovviamente, è valida anche al contrario e cioè che alcuni ospiti continuano a farsi sentire dai volontari anche dopo anni.
Laboratorio della memoria e del volontariato del Terzo Settore
LabTS Laboratorio di cultura politica del Terzo Settore
Io sono Marcello Petrucci, volontario dell’associazione Compagni di Strada OdV sin dal 2008, e sono stato invitato a dare il mio contributo da una suora secolare. Ho iniziato facendo le notti nella vecchia sede che poteva ospitare una dozzina di persone. Sono molti i volti e le storie che ricordo di quella prima fase, due in particolare Antonio eternamente ubriaco che ho seguito per una dozzina di anni sino al termine della sua travagliata esistenza e Alexander un bellissimo ragazzo nigeriano, omosessuale scappato dalla sua Nigeria per non essere ammazzato; è finito sui manifesti di Benetton e ora fa il modello a Parigi. Essendo io un tecnico informatico mi sono reso conto che la vita dell’associazione era tutta rivolta all’accoglienza e poco attenta alla parte amministrativa relativamente alla gestione degli ospiti.
Da Casa Betania sono passate circa 60 persone all’anno, per un totale di oltre 1500 ospiti in 25 anni di attività. Ho ritenuto quindi indispensabile realizzare un primo archivio utilizzando Word, con i dati anagrafici e le foto organizzati in modo testuale. Dopo qualche anno, ci siamo trasferiti nella nuova e più confortevole sede di via Bruno Buozzi e qui ho realizzato un vero e proprio archivio digitalizzato utilizzando il motore di database Access. In questo archivio sono memorizzate tutte le informazioni degli ospiti da quelle anagrafiche a quelle dei permessi, alla fototessera, alla scannerizzazione dei documenti salienti che riguardano le singole persone, alla loro storia.
Questo database rappresenta il Cuore e la Memoria storica di tutta l’attività dell’associazione e dei suoi volontari.
È qui evidente che la scheda di ciascun ospite suscita un ricordo, una emozione, un problema, una vita rinata e così via. Decine sono gli esempi che potrei portare ma ne cito solo alcuni. Il più emblematico è stato Rahim un giovane gambiano gravemente malato psichiatrico, estremamente pericoloso per sé e per gli altri che strappava e mangiava le pagine della Bibbia, o che mangiava le ghiande in piazza Santa Teresa, trattenuto in carcere per aver sfasciato molte auto.
E come non ricordare Alì, l’avvocato siriano di Aleppo scappato dalle carceri di Assad, il quale ha i genitori che vivono negli scantinati sotto le macerie dei palazzi della capitale, ora scappato in Moldavia con moglie e bambina.
E ancora Arshad, l’anziano pakistano che facendo il lavapiatti per 15 anni, senza mai tornare in patria, ha fatto laureare in Pakistan la figlia in economia e il figlio in ingegneria.
Il secondo elemento, l’immagine che può sintetizzare la nostra associazione è una fotografia scattata in un inverno alla targa che indica la nostra sede di Casa Betania, posta all’ingresso dell’associazione circondata dalla neve, la metafora mi sembra sin troppo evidente, noi accogliamo persone italiane e straniere in difficoltà socio abitative, e non solo, particolarmente disagiate soprattutto nel periodo invernale.
Il terzo elemento su cui riflettere è la parola che possa racchiudere il senso della mia presenza e attività all’interno dell’associazione della quale sono stato il Rappresentante legale per diversi anni ed è il mio motto: “Agere non loqui”.
La cosa più difficile è combattere con la burocrazia, con le istituzioni dove spesso gli impiegati fanno quello che possono ma senza mezzi e con direttive spesso inique, o quando ti devi scontrare con funzionari proprio stronzi che esercitano il potere con i meno fortunati di loro.
Ma tutti questi sforzi sono ricompensati dalle telefonate che, magari a distanza di tempo, qualche ex ospite di Casa Betania, fa chiamandoti dall’Olanda dalla Svezia dal Senegal, dal Pakistan e ti dice che non si è dimenticato di te, ti ringrazia, ti racconta quello che fa e magari ti fa parlare con la sorella, il figlio o magari ti richiama chiedendoti di rientrare nuovamente a Casa Betania per quel piccolo e indispensabile aiuto a rinnovare il permesso di soggiorno.
Antonio dentro e fuori Casa Betania: una storia lunga 20 anni
Quando io sono arrivato a Casa Betania nel 2008, il signor Antonio era già ospite da diversi anni.
Sicuramente Antonio è stata la persona che è rimasta nostra ospite per il periodo più lungo. Credo che sia stato accolto introno all’anno 2001, lui era amico della bottiglia di vino rosso sin da quando era giovane ma a un certo punto della sua vita si è trovato ad attraversare una strada con il figlio di 8 anni il quale fu investito e ucciso da un camion davanti ai suoi occhi. Da quel momento l’unico scopo della sua vita era bere e bere, la moglie lo allontanò da casa e si trovò a dormire sulle panchine della stazione. Un volontario lo vide è lo portò a Casa Betania, lui usciva la mattina girovagando per recarsi al baretto della signora Albanese della piazza mercato del centro di Brindisi, qui una birra chiamava la successiva appoggiata a un tramezzino. La sera non sempre era in grado di ritirarsi a Casa Betania e, quando ci riusciva, prima di entrare faceva un ultimo sorso alla bottiglia di vino sapientemente nascosta dietro un muretto poco distante dall’ingresso. Le condizioni igieniche nelle quali si trovava erano raccapriccianti (si faceva tutto addosso) e solo il coraggio e la passione di Antonella riuscivano a farlo lavare e cambiare. Moltissime volte mi sono fatto carico di accompagnarlo al SERT per tentare un percorso di disintossicazione, ma lui sul metadone ci beveva il vino con evidenti effetti disastrosi, sospendevamo e poi riprovavamo, ma nulla da fare. Poi provammo con la terapia di gruppo degli alcolisti anonimi, ma anche in questo caso senza nessun risultato.
Intorno al 2012 con Carmela, l’allora responsabile di Casa Betania, capimmo che non stavamo facendo il bene di Antonio continuando a ospitarlo in Casa Betania e, contro la sua volontà, con il suo amministratore di sostegno, l’avvocato ... , decidemmo di farlo curare in una struttura adatta alle sue condizioni e riuscimmo a farlo accogliere nella casa protetta di Madre Teresa vicino al santuario dei santi Medici di Oria.
Qui per Antonio è iniziato un periodo difficile in quanto nella casa protetta erano ospitati per la maggior parte malati psichiatrici, io per oltre due anni sono andato a trovarlo tutti i sabati, diverse volte veniva con me anche l’amica Antonella. Non è stato facile fargli capire che lui stava in quel posto per il suo bene, gli è stato di conforto e di grande aiuto sperimentare che comunque era rimasto qualcuno che non lo aveva abbandonato e che gli voleva bene.
Terminato il periodo di permanenza presso il centro di Madre Teresa, siamo riusciti a fare entrare Antonio, per un ciclo terapeutico, nella comunità Emmanuel di Matagiola. Qui Antonio è stato un po’ meglio, abbiamo continuato a seguirlo, incontrandolo più volte alla settimana, e partecipando anche noi agli incontri terapeutici di gruppo. In questa realtà Antonio ha iniziato a credere nelle sue capacità sino a gestire la campagna della comunità, con gli ortaggi da lui coltivati tutti gli ospiti potevano mangiare le verdure a Km zero, questo fatto lo ha gratificato molto.
Trascorsi due o tre anni in questa situazione di ripresa in mano della sua vita, abbiamo fatto in modo di farlo accogliere in una casa famiglia di Latiano, anche questa protetta, dove ha iniziato a trascorrere una vita quasi normale, siamo riusciti a fargli affidare un pezzo di campagna di Pino, il proprietario della struttura, dove lui trascorreva in solitudine e serenamente tutta la giornata, lavorando e sentendosi utile, ovviamente non senza problemi, ma gestiti con qualche sacrificio coltivando anche qui ortaggi e frutta per il fabbisogno degli ospiti della struttura. Durante la permanenza a Latiano siamo riusciti a dargli la possibilità di venire da solo a Brindisi, sempre da noi seguito e controllato per evitare che ricadesse nella tentazione dell’alcol, cosa che inevitabilmente è accaduta. Per premio una volta la settimana gli veniva concesso di venire a Brindisi e lui puntualmente si recava dall’amico Osvaldo (venditore di cozze nere in piazza mercato) e da lì al bar dell’albanese il passo era breve. Con molta peripezia siamo riusciti a gestire questi conflitti, magari invitandolo a casa a mangiare gli spaghetti con le cozze.
Purtroppo, nel marzo del 2021, Antonio ha preso il COVID, è stato ricoverato presso l’ospedale di San Pietro Vernotico dove non abbiamo potuto vederlo mai fino a maggio, quando è deceduto.
Questa è una storia di riscatto, la quale dimostra il fatto che se una persona, sia pur disperata e abbandonata a sé stessa dai parenti, se trova l’ascolto, l’accompagnamento può ritrovare la via della speranza e della vita, da soli non si va da nessuna parte.
Questa storia dimostra anche il fatto che le persone che passano da Casa Betania, restano nei pensieri e nelle opere dei volontari anche dopo l’uscita dalla struttura. La stessa cosa, ovviamente, è valida anche al contrario e cioè che alcuni ospiti continuano a farsi sentire dai volontari anche dopo anni.
Concludendo possiamo dire che da Casa Betania sono passate circa 1500 persone di ogni razza e religione, ma i volontari hanno a che fare con persone e non con numeri.
Ancora una volta le parole chiave restano Ascolto, Accoglienza, Accompagnamento.
Incontro: l’incredibile storia di Rahim
Era quasi arrivata la mezzanotte del giorno 09 gennaio 2018, quando bussano alla porta di Casa Betania due poliziotti di una pattuglia di Ostuni, i quali mi chiedono di ospitare per un paio di giorni un ragazzo di colore, un Gambiano di 20 anni di nome Rahim, che nel pomeriggio aveva bussato alla loro porta, il tempo necessario a trovargli una sistemazione; loro al momento non sanno dove portarlo. L’agente signor Michele mi tranquillizza dicendo che non ci sono problemi e non aggiunge altro, io non me la sento di farlo dormire in mezzo alla strada e lo accolgo senza fare domande, non potevo immaginare quello che sarebbe successo nei successivi due mesi.
Il giorno dopo mi faccio consegnare da Rahim i documenti in suo possesso, dai quali scopro che giorno 8 gennaio è stato dimesso dal dipartimento di salute mentale dell’ospedale Niguarda di Milano e accompagnato dalle forze dell’ordine alla Stazione Centrale e messo su un treno con destinazione Ostuni, dove risulta domiciliato. Il buon Rahim giorno 5 gennaio era stato ricoverato in TSO perché si era arrampicato sull’albero di Natale in piazza Duomo a Milano e aveva tirato giù il crocefisso posto sulla punta. Nel referto ospedaliero si legge “Decorso clinico: Tranquillo e collaborante. Indagini eseguite: Nessuna.” Nella ordinanza del Questore di Milano si legge: “si ORDINA che il signor Rahim Ibrahim sia rimpatriato con foglio di via obbligatorio al comune di sua abituale dimora e nel contempo si INIBISCE al predetto di fare ritorno in Milano, senza la preventiva autorizzazione, per un periodo di anni DUE.” Ovviamente con la luce del sole mi sono immediatamente reso conto dei serissimi problemi che attanagliavano il povero Rahim.
È cominciata così una lunghissima via crucis, durata più di due mesi, durante i quali abbiamo combattuto con tutte le istituzioni presenti sul territorio con un inenarrabile scarica barile generale che ho provveduto a denunciare alla Procura della Repubblica, ovviamente senza alcun esito. Non mi dilungo qui nell’elencare il diario di quei giorni ma allego la cronistoria dettagliata nella denuncia appunto alla Procura, sono solo 10 pagine. Di seguito mi limito a raccontare solo gli episodi più significativi per evidenziare la drammaticità di quei giorni con l’indifferenza delle persone delle istituzioni, a qualunque livello, confrontata con la sensibilità e l’operatività dei volontari di Casa Betania.
Giorno 10 gennaio ho accompagnato Rahim in Questura per dichiarare che lo stesso si era allontanato da Milano, come ordinato dal Questore, ed era stato accolto da noi in Casa Betania, essendo stato rifiutato dal CAS di Ostuni (dove era stato sino al 2017). Dichiaro che Rahim ha seri problemi psichiatrici e di conseguenza chiedo di sistemarlo in una struttura adeguata. La risposta, quasi premonitrice, è stata che lui è un libero cittadino con regolare permesso di soggiorno che può andare dove vuole e fare quello che vuole. Ribadisco che se il Questore di Milano lo ha espulso dalla città, forse c’è da intraprendere una qualche attività.
Giorno 12 gennaio mi chiamano i carabinieri chiedendomi di andare in caserma dove mi riferiscono che Rahim ha sfondato i vetri della biglietteria della stazione ferroviaria e che quindi è stato arrestato. Nel pomeriggio è stato scarcerato e riconsegnato al sottoscritto per tornare a Casa Betania, il magistrato non si è posto nessun problema di nessun tipo.
Giorno 13 gennaio l’ho accompagnato in ospedale per sottoporlo a una visita psichiatrica, ha dato di matto senza che nessuno intervenisse, risultato del referto: Stato di agitazione psicomotoria, affidato alle cure del medico curante.
Giorno 16 gennaio Rahim viene arrestato in fragranza di reato a Ceglie, avendo sfondato i vetri di sei autovetture. Vado in via Appia, ma non mi fanno nemmeno recapitare il foglio con l’elenco dei farmaci che deve assumere giornalmente. La sera ha spaccato tutto quello che poteva rompere nella cella del carcere ed è stato portato in TSO alla Stanza 100 del Perrino, forse se gli avessero somministrato la terapia tutto questo non sarebbe successo.
Giorno 2 febbraio si celebra il processo per direttissima, il perito (è il direttore del DSM di Brindisi) dichiara che il prevenuto non è in grado di intendere e di volere, ma che non è da considerare persona socialmente pericolosa. Dichiara che l’imputato non ha i requisiti per poter partecipare al processo. Nello stesso giorno il giudice, non sapendo dove collocarlo nella immediatezza, mi ha chiesto se potessi continuare a prendermi cura di Rahim garantendomi la presenza quotidiana di un infermiere. Ho risposto che non potevo lasciarlo da solo e che lo avrei accolto ancora in Casa Betania per il tempo necessario alla sua sistemazione, mi assicuravano per pochi giorni.
Giorno 6 febbraio accompagno Rahim al SERT nella speranza di trovare una sistemazione in qualche comunità, dai test risulta positivo ai cannabinoidi ma non a livello di tossicodipendenza, quindi niente comunità. Mi piace ricordare che in piazza Santa Teresa Rahim ha strappato dell’erba intorno alla fontana l’ha mangiata insieme a un po’ di ghiande ed ha bevuto all’acqua della stessa fontana.
Giorno 7 febbraio lo trovo seduto per terra, nella stanza della preghiera di Casa Betania, a strappare tutte le pagine della nostra Bibbia, dopo aver spaccato il crocefisso. Chiamo i carabinieri, i quali verbalizzano l’accaduto e concludono che trattasi di un comportamento innocuo non punibile, dovrebbe essere vilipendio della religione, per questo da Milano lo hanno espulso.
Il 13 febbraio i volontari di Casa Betania chiamano il 118 perché Rahim cade a terra in preda a una crisi epilettica, viene ricoverato in ospedale e dimesso a mezzanotte con diagnosi “Psicosi di tipo depressivo in stato di agitazione, si avvia al medico curante x monitoraggio e terapia”.
Gorno 23 febbraio mi contattano dal CSM dicendomi che dall’ospedale di Galatina hanno dato la disponibilità per il ricovero. Mi metto in macchina Rahim e lo porto a Galatina dove, dopo tante peripezie lui ha rifiutato il ricovero dicendo che sta bene, senza il suo consenso il ricovero non è possibile, viene dimesso non la diagnosi di Psicosi delirante.
Giorno 24 febbraio con tutti gli ospiti di Casa Betania e alcuni volontari, ci siamo recati in Prefettura con il pretesto di vivere nel terrore che Rahim possa commettere qualche altro atto violento e minacciando la chiusura di Casa Betania per motivi di sicurezza. Il funzionario di turno non ha voluto riceverci dicendo che era sabato e non avevamo alcun appuntamento. È stato però bello apprezzare la solidarietà tra gli ultimi, che hanno partecipato alla protesta.
Il primo marzo, dopo tanti incontri, in collaborazione tra i servizi sociali e il CSM si è finalmente concluso l’iter per destinare il signor Rahim alla struttura protetta Bartolo Longo di Latiano, dove è seguito professionalmente.
Giorno 6 marzo ho accompagnato Rahim a Latiano e da quel giorno sono andato diverse volte a trovarlo, lui ogni tanto mi manda i saluti su WhatsApp. Ci sono voluti due mesi ma alla fine la tenacia ha vinto. Si dice che il diritto alla salute sia un diritto garantito a tutti, ma che fatica ottenerlo.
In conclusione, l’aspetto che mi preme evidenziare è che, nonostante la paura di violenze incontrollate da parte di Rahim, sia tutti i volontari che tutti gli ospiti si sono prodigati in uno slancio di vera umanità e Carità che, credo, sia stata alla base del comportamento mite di Jibba quando era in Casa Betania. Per questo mi sento di ringraziare indistintamente tutti i volontari e gli ospiti che si sono presi cura di Rahim accompagnandolo per un breve tratto della sua esistenza pur non avendo nessuna competenza medica.
Ritornano nuovamente le parole chiave accoglienza, accompagnamento, ascolto, in assoluta gratuità.