Segretaria Associazione Compagni di Strada OdV - Casa Betania.
Abstract
Gli incontri narrati qui di seguito sono le impronte lasciate nella mia vita dall’incontro con altre vite. Impronte profonde lasciate da storie pesanti, impronte più leggere, tutte ben identificabili Tutti hanno lasciato il segno perché nessun incontro per quanto fugace, non lascia traccia del suo passaggio.
Laboratorio della memoria e del volontariato del Terzo Settore
LabTS Laboratorio di cultura politica del Terzo Settore
Ho scelto di dare ai miei racconti il titolo di Impronte. Il dizionario dice che un’impronta è il segno lasciato da un corpo premuto su un materiale cedevole.
Gli incontri narrati qui di seguito sono le impronte lasciate nella mia vita dall’incontro con altre vite. Impronte profonde lasciate da storie pesanti, impronte più leggere, tutte ben identificabili Tutti hanno lasciato il segno perché nessun incontro per quanto fugace, non lascia traccia del suo passaggio.
Le chiavi di casa
Ci sono esperienze della vita che sembrano arrivare per caso, non cercate, quasi mosse dall’esterno; invece, a distanza di tempo, ti accorgi che si preparavano la strada zitte zitte, si scavavano uno spazio adatto, creavano i presupposti indispensabili per realizzarsi. Così mi pare sia accaduto per la mia esperienza di volontariato in Casa Betania: un approdo naturale.
Già mio marito aveva iniziato da qualche anno il suo servizio e la Casa era entrata nei ritmi della nostra vita quotidiana: mercoledì notte a Casa Betania.
Che potevo fare una volta andata in pensione? A chi dedicarmi con i figli partiti per le loro mete di vita autonoma? Come non inaridirmi dietro interminabili partite di burraco con amiche isteriche? E, soprattutto, come incanalare la voglia di essere di aiuto concreto a qualcuno? La risposta era a portata di mano, l’avevo in casa!
Ho iniziato con il mio turno di cucina al lunedì pomeriggio, raccomandando a me stessa di stare un po’ in disparte, di non coinvolgermi troppo. Macché! Neanche un paio di mesi e mi è stato affidato il compito di fare la spesa e questo ha comportato il fatto di avere in consegna Le chiavi di casa. Ed è questo l’oggetto che ho scelto.
Insieme a quelle chiavi mi è stata affidata una responsabilità, mi è stato consegnato un mandato, non ho visto in quelle chiavi solo lo strumento per accedere alla Casa, ma il riconoscimento ufficiale di una scelta.
Casa Betania è una realtà di accoglienza piccola e semplice, dove l’unica pretesa è un’accoglienza dignitosa, una permanenza che offra un tempo di ripresa della vita, una possibilità di ripartenza e, per gli stranieri, un aiuto a orientarsi e addentrarsi in una burocrazia complicata e pedante e, da qualche tempo a questa parte, cinicamente ostile. Essere volontaria a Casa Betania permette di accostare tante storie, tanti volti, tanti nomi. Alcuni sono passeggeri e superficiali, tanti lasciano il segno per vari motivi che a volte sfuggono a ogni logica, altri si mantengono nel tempo e si solidificano in relazioni stabili di amicizia, di stima, di affetto. E allora può accadere di essere chiamati a fare da padrini di battesimo a una piccola, bellissima bimba dalla pelle di cioccolata, figlia di due nostri ospiti. Ed ecco la foto di Annachiara, la nostra “sciuscetta” (figlioccia) come si dice a Brindisi dagli occhi di cerbiatto. Questa parola, me la faccio prestare da don Milani, ed è I Care, mi importa, mi riguarda, mi sta a cuore, perché la considero l’antidoto all’indifferenza che è il male subdolo e strisciante di oggi e non solo.
Mirella… Forse!
Svolgo la mia attività di volontaria in Casa Betania ormai da dodici anni e nella mia mente si è creato un puzzle fatto di volti, di sguardi, di nomi. Alcune immagini restano un po’ sbiadite, in secondo piano; altre emergono nitide, espressive e si impongono sulle altre per raccontare ancora una volta la loro storia, per riportare al cuore una relazione, a volte prolungata, altre volte breve, anzi brevissima.
La più breve? É anche la più nitida. Disse di chiamarsi Mirella, ma sono convinta che era un nome che aveva inventato al momento. Arrivò una sera di tardo autunno fermandosi sul terrazzino d’ingresso, non bussò, ci accorgemmo di lei per caso. Nella penombra si vedeva appena un ammasso di stracci, dal cappello di lana spuntavano fuori ciocche di capelli insieme a brandelli di giornale, ai piedi portava stracci tenuti insieme con lo spago… Chiese qualcosa da mangiare, la invitai a entrare, si rifiutò categoricamente:- Non posso imporre il mio cattivo odore agli altri.
Parlammo per un po’ appoggiate alla balaustra e da quella bocca sgangherata veniva fuori una voce ancora giovane, un eloquio raffinato di persona colta e sensibile, un racconto dolente e rassegnato. L’avrei abbracciata, ma sicuramente si sarebbe allontanata, non mi sono permessa di fare domande, le ho portato una tazza di latte e del pane, si è accucciata sulle sue borse e ha cominciato a mangiare. Sono rientrata per non disturbarla, quando sono tornata a riprendere la tazza, non c’era più. Aveva lasciato sul terrazzino un segno: l’odore terribile di un dolore senza speranza.
Casa Betania non risolve situazioni, non è il suo compito, non ne avrebbe le forze. Casa Betania, accoglie, ascolta, lascia riposare, accompagna per un po’, aiuta a ritrovare la strada… A volte basta questo!
Nutrire la vita
C’è una cucina a Casa Betania, una cucina in tutto uguale a quella delle nostre case, niente che faccia pensare a una mensa e tanto meno a un ristorante. É il luogo dove ho iniziato il mio servizio nella Casa e dove desideravo stare, un po’ come tutte le donne che scelgono di offrire un servizio qui. Noi donne abbiamo questo bisogno ancestrale di nutrire la vita e il cibo è il primo strumento di questa relazione. Attraverso il cibo non passano solo proteine, vitamine, carboidrati, passa la cura, l’attenzione, la dedizione, l’amorevolezza.
Tutto questo mi gratificava molto.
Poi è arrivata la proposta di lasciare la cucina e di collaborare nel Centro di Ascolto. Qualcosa sapevo su questo servizio: avevo letto, avevo fatto un po’ di formazione, ma non immaginavo quanto faticoso sarebbe stato.
Il Centro di ascolto è l’avamposto, la prima linea, quella che assorbe il primo urto, i colpi più diretti e forti.
Devi avere orecchie buone, capaci di ascoltare le parole soffocate, quelle mascherate, quelle taciute, cercandole nei gesti delle mani, nella postura del corpo, nel silenzio a volte.
Devi avere parole giuste, poche, delicate ma precise, capaci di sollecitare senza ferire, di dare fiducia senza illudere, di comprendere senza diventare complici.
Devi avere occhi limpidi che guardano senza scrutare, che si accostano senza giudicare.
E poi devi decidere. Accogliere? Attendere? Rimandare? O anche respingere?
È una grande fatica!
Sempre con una consapevolezza precisa: non lasciarsi prendere dall’ansia di prestazione, dalla smania di risolvere le situazioni, dal carico emotivo. Casa Betania non risolve problemi, non ha poteri magici, può orientare, suggerire, sostenere per un pezzo della strada, magari aiutare a guardare con lucidità alla propria situazione.
E forse non è poco! A volte basta.
La convivialità delle differenze
Pur nella sua piccolezza, a Casa Betania si vede passare il mondo e la sua storia: i cambiamenti nella geopolitica, le crisi economiche, i grandi esodi di guerra… Scorrendo le statistiche delle presenze si può individuare l’anno degli albanesi, quello dei rumeni, dei kosovari, degli afghani, degli iracheni, dei siriani, degli ucraini e l’eterno stillicidio degli africani. Ognuno porta a Casa Betania la sua cultura, ancora addosso odori di spezie, abiti tradizionali indossati nel giorno di festa con orgoglio e nostalgia, preghiere sussurrate, cantate mai esibite, racconti di vita quotidiana spezzata, a volte tragicamente. Regola della Casa è rispettarsi reciprocamente nella diversità e permettere ogni manifestazione di fede, dagli spazi di preghiera, ai tempi sacri, alle regole alimentari. In questo clima di tolleranza accade che a Natale compaia accanto all’albero di Natale, in bella mostra, anche il nostro presepe un po’ arrangiato, ma completo in ogni suo dettaglio. Qualche anno fa un ragazzo afghano, molto giovane, di fede islamica, osservando tutti questi preparativi, prese a fare qualche domanda. Coglieva sicuramente che nell’aria c’era qualcosa di importante e che quel presepe un po’ sbilenco ne era la rappresentazione. E fu così che un pomeriggio arrivò con una grande palma intrecciata artisticamente, simile a quelle che noi usiamo a Pasqua, e la posò davanti al presepe spiegando che quello era il suo dono. Aveva colto l’importanza di quel segno e aveva voluto partecipare con i segni della sua cultura, allora era andato a raccogliere quel germoglio di palma lungo il canale Patri, lo aveva intrecciato lui stesso con grande maestria e lo aveva messo davanti al presepe.
Lui non ha avuto paura di tradire la sua fede, noi non abbiamo temuto di contaminare la nostra. Quella che don Tonino Bello chiamava la convivialità delle differenze è la capacità di vivere assieme, riconoscendo che l’altro esiste nella ricchezza della sua persona e della sua cultura. Ogni uomo o donna è la tessera di un immenso mosaico già bella di per sé, ma solo con altre tessere compone un’immagine, l’immagine dell’umanità.