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M@gm@ Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali Motore di Ricerca interno Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali
Donner : cet acte devenu une ambiguïté sociale / Sous la direction de Bernard Troude / Vol.22 N.2 2024

Riflessioni sul dono

DOI: 10.17613/4msz6-b8n15

Carmine Luigi Ferraro

magma@analisiqualitativa.com

Laureato in Filosofia presso l’Università di Lecce, ha conseguito il Dottorato di Ricerca presso l’Universidad de Salamanca (poi omologato in Italia), ottenendo il massimo dei voti, oltre al Premio Extraordinario de Doctorado. La tesi dottorale è stata poi pubblicata con il titolo: Benedetto Croce e M. de Unamuno. Comparazione di due ‘sistemi’ di pensiero, Perugia 2004. Ha seguito anche un corso di dottorato in Bioetica e Diritti Umani, presso l’Università di Bari. Ha pubblicato altri due libri: Studi unamuniani, Lecce 1999, e M. de Unamuno (1864-1936), Nardò 2000. È autore di circa 40 articoli pubblicati in riviste nazionali ed internazionali, oltre a numerose recensioni. Oltre a studiare il pensiero e l’opera di M. de Unamuno, spesso in comparazione con autori come L. Pirandello, G. Verga, oltre che B. Croce, ha anche studiato aspetti di autori come: P. Laín Entralgo, M. Zambrano, A. Machado, Azorín.

 

Abstract

In questa breve riflessione, presentiamo i lineamenti di una analisi sul dono, che cerchiamo di indagare dal punto di vista filologico, formativo, filosofico, religioso. Stabilite le direttrici della nostra riflessione, abbiamo cercato di trovarne conferma, cercandone riscontro nelle opere di due autori della filosofia spagnola del Novecento: M. de Unamuno e J. Ortega Y Gasset.

 

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Whisk ferns - Fukami, Gyokuseidō, and Kanga Ishikawa. Seisen Matsuranfu : shokoku bonsai shashin. Mikawa: Gyokuseidō zōhan, 1837.

Se apriamo un qualsiasi dizionario etimologico, alla ricerca del termine dono, possiamo leggere come esso corrisponda a ciò che si dà volontariamente, senza esigere nulla in cambio.

In latino è donum: dono, dono votivo, offerta agli dei, onori funebri; in greco è δωρον (= doron): offerta, voto sacro, imposta, tributo.

Ma è nel sanscrito che troviamo il suo significato/valore più profondo: dānapāramitā e dharmadāna. Il primo termine possiamo tradurlo con Generosità Trascendente e nel buddhismo corrisponde alla prima tappa del percorso religioso: la perfezione di carità. Dharmadāna può invece essere tradotto con Generosità Spirituale.

Possiamo quindi affermare che il dono contiene contemporaneamente un valore che trascende l’uomo ed uno che afferisce direttamente allo spirito dell’uomo. Donando l’uomo compie un atto che è insieme consustanziale alla propria natura, ma è anche un atto per il quale va oltre sé, verso l’incontro con l’altro.

Scavando nei nostri ricordi, sicuramente ricorderemo qualche dono, regalo fattoci, durante la nostra infanzia, da una zia, dal nonno, dai genitori… Nello specifico, di un dono fattoci in cambio di qualcos’altro: la promessa, mantenuta, di essere buoni.

Ma allora il dono è un ricatto? Oppure è egoistico perché usato per controllare certe situazioni, perché vadano come noi vogliamo?

Forse non è così! Quell’esser buono, in realtà, è un trascendere se stessi in quel dato momento e l’affermazione di un Io-Sono.  Quando si accetta di essere, non si fa altro che colmare una distanza esistente fra l’oggetto dono e l’atto del donare. Il dono è una scelta d’amore che coinvolge chi dona, ma anche chi accetta il dono, ponendoli in comunicazione.

Da qui nasce quel: grazie, intrinsecamente unito ad un altro termine: grazia, che congiunge il dono al perdono.

Il dono ci permette di ricordare la nostra infanzia e di come siamo ed attivo (= ricordo) sulla nostra coscienza. Se ancora esercita un’emozione in noi, significa che lo abbiamo saputo sfruttare nel migliore dei modi: secondo lo spirito.

Per questi stessi motivi, dal punto di vista più strettamente filosofico, il dono acquista una duplice valenza: quella della gratuità, un gesto esclusivamente altruistico; ma anche quello dell’ambiguità, perché il donatore assume una posizione di superiorità.

Nella filosofia antica troviamo un primo esempio di una concezione del filosofo come dono; l’esempio è sicuramente Socrate, che troviamo nei Dialoghi di Platone[1], ed in particolare nell’Apologia. In quest’opera, viene rappresentato il racconto del processo a Socrate, il quale si difende dall’accusa di non venerare gli dei della città e di corrompere l’educazione dei giovani. Ebbene Socrate, sul finire della sua autodifesa, rivendica il suo ruolo e afferma di essere il dono del dio alla città (Apologia, 30d-31c). Dio quindi dona il filosofo e la sua attività critica: dire la verità; la vocazione del filosofo coincide con il dono di dio alla città. Compito del filosofo non è solo cercare la verità, ma trasformare tale ricerca ed i suoi risultati in un’azione, in un’opera di verità offerta agli altri, una provocazione degli altri. Il dono del dio è quindi la funzione critica della verità; un dono nella prospettiva della sua origine (= dio), ma anche dal punto di vista attuale, vista la dedizione con cui Socrate si prodiga per la verità, e trascura i suoi affari, mettendo a repentaglio la sua stessa vita in nome della vocazione critica, cui è chiamato. La funzione critica della verità è un atto disinteressato, non collegato all’avere ed al possesso; infatti, lo stile di vita di Socrate improntato alla verità, non produce per lui profitto o compenso, e ciò è testimoniato dalla sua povertà, come anche la capacità di rimanere in carcere per l’accusa mossagli e, in seguito, di affrontare la morte.

Ancora una volta troviamo una Generosità Trascendente, ed una Generosità Spirituale insita nell’uomo Socrate.

Questo stesso tema della filosofia come dono del dio ricompare in altri Dialoghi di Platone, come il Timeo. Qui possiamo leggere che al di là della filosofia non vi è nessun bene maggiore agli uomini, quale dono elargito dagli dei (47b). In questo caso, la filosofia è intesa come attività teoretica, che porta il filosofo alla felicità teoretica della contemplazione (un’attività Trascendente); un percorso tracciato da Platone e che porterà alle virtù dianoetiche dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Il dono diventa dono individuale di una pratica teorica che modella la vita del filosofo secondo la massima eccellenza che è concessa ad un essere umano. In questo caso, parliamo di un’acquisizione del filosofo, di un beneficio per la sua esistenza, di un avere che solo in seconda istanza si rivolge alla città e viene ad essa elargito (= Generosità Spirituale). Nell’Eutrifone, a tal riguardo, troviamo Socrate che si rivolge ad un Sacertode (= Eutrifone) dicendogli: «tu, forse, hai l’aria di tale che raramente fa dono di sé, e il proprio sapere non ha voglia di insegnarlo; io, invece, per certa mia natura socievole, ho l’aria, temo, di uno che quel che sa lo riversa e profonde a chicchessia; e non solo senza mercede, ma anzi prodigandomi lietamente a chiunque mi voglia ascoltare» (3d).

E gli esempi di Generosità Trascendente e Generosità Spirituale possono continuare con Dialoghi come: Alcibiade minore e maggiore, Simposio[2].

Sarà poi Clemente Alessandrino nei suoi: Stromata a definire il dono come atto di coraggio: una forma di innocenza in cui non bisogna dimenticare le caratteristiche della rinuncia. Come nel perdono si rinuncia alla vendetta, così nel dono si rinuncia al possesso ed alla simmetria dello scambio, che, diversamente, diventerebbe mercanzia. Al dono si risponde con la gratitudine, non con una catena illimitata di doni e contro doni. Da qui che la generosità è la spontaneità donatrice; una generosità che può essere frutto della sovrabbondanza: il donare dipende da un surplus di produzione/guadagno, avendo quindi la generosità del filantropo. C’è poi la generosità che è frutto della rinuncia, un atto d’amore che cambia noi stessi prima degli altri. Un esempio che possiamo fare, a tal proposito, è quello di Francesco D’Assisi. Prima della rinuncia all’eredità, da ricco, manda un suo addetto a portare da mangiare ai lebbrosi. Una volta spogliatosi dalla ricchezza ed abbracciata la povertà, porta personalmente il cibo ai lebbrosi, si ferma a mangiare con loro e non ha paura di abbracciarli.

In questo caso il dono non è tanto l’oggetto, ma il donatore stesso che si ferma per far spazio agli altri. È, come nel caso si Socrate, rinunciare al proprio interesse, da cui nasce il sapere critico che ha il dovere di dire la verità ai cittadini. L’unico dono possibile che facciamo è quello del nostro tempo, dei nostri pensieri, dei nostri gesti, del nostro lavoro. Nel dono si manifesta e concretizza il prendersi cura dell’altro. Nell’espressione: è solo un pensiero, diciamo la cosa più importante del dono.

Ciò prefigura non tanto una metafisica del dono, quanto un’ontologia. Un’ontologia collegata, sembra strano, ad una incoscienza del dono, senza con ciò volerlo sminuire. L’incoscienza, si trova nel fatto che non si dona solo attraverso un regalo, ma si dona quando si insegna, quando si parla con qualcuno…; ed è tanto più disinteressato, quanto meno coscienza si ha del donare. Da qui anche la difficoltà di trovare un concetto preciso del dono. Se pensiamo al dono come a qualcosa che ha bisogno di un donatore, di un donatario e di qualcosa di donato, inteso in questo senso il dono scompare. Se il donatore, in quanto dona, viene riconosciuto come tale, di fatto sta ricevendo una sorta di pagamento – sebbene simbolico- per il dono fatto.

Ma il rimborso simbolico è destinato a durare ben più di un rimborso materiale, e modifica i rapporti sociali, personali e psicologici.

Da parte sua, il donatario (chi riceve il dono) riceve di fatto un debito, perché il dono ricevuto è vissuto sempre come un debito, che non potrà restituire (= umiliazione, impotenza). Sviluppa quindi una consapevolezza di dipendenza, tale quella presente nella dialettica fra servo e signore della Fenomenologia dello Spirito di Hegel[3].

Diverso, in ambito cristiano, il dono di Gesù, in cui abbiamo delle evidenti analogie con la vita di Socrate ed il suo insegnamento.

In questo caso, Dio, Logos dona suo Figlio, si incarna, svuotando la sua potenza per riversarla nel Figlio, suo erede. E Gesù, nella sua predicazione non fa altro che rendere eredi tutti gli uomini, rendendoli liberi, liberi dai debiti; liberi di vedere la verità fra il bene ed il male; liberi di scegliere quale strada seguire. Per chi vuol seguire la sua strada, ha un Nuovo Comandamento: Amare! Ama il tuo nemico dice Gesù, cambiando radicalmente quanto detto dal Padre nel Vecchio Testamento: Occhio per occhio!

Ribellione del Figlio contro il Padre? No! Anzi Egli avrà modo di affermare per due volte: Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo! Ma, nel Vecchio Testamento si trova, forse, una maggiore distinzione fra coloro che seguono le regole e chi non lo fa. Troviamo la presenza di un Dio irascibile, che punisce coloro che non lo rispettano o ascoltano. Nel Nuovo Testamento, l’attenzione si sposta sul per-dono: rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo già rimessi ai nostri debitori. Troviamo quindi la misericordia, l’amore.

È il per-dono, in questo caso, che ci consente di vivere l’oggi, dischiude orizzonti di vivibilità, là dove erano sbarrati; è un atto di grazia che dà senso ai nostri giorni, un’esperienza di resurrezione che consente il transito dalla morte alla vita[4].

Gesù invita ad uscire dal risentimento, per dar-si pace, far-si pace per essere liberi. La sua è una religione (re-ligare) che cerca di tenere insieme tutta l’Umanità.

Se, allora, Dio parla ad un popolo particolare: Israele. Gesù parla all’Umanità, perché il perdono può coinvolgere chiunque, nelle parti più remote della terra: Ecco, io vi mando… dirà ai suoi discepoli. E dopo il dono dello Spirito Santo, inizieranno a parlare molte lingue.

Il dono nella cultura spagnola del Novecento: Miguel de Unamuno e Ortega y Gasset

Il dono come momento trascendente è presente anche in autori del Novecento spagnolo. Troviamo, ad esempio, Miguel de Unamuno (1864-1936) che nel 1905 scrive: Vida de Don Quijote y Sancho, che rispetto all’opera di Cervantes è un commento. È cioè un modo per rendere viva un’opera letteraria, trovare una sua applicazione alla realtà concretamente vissuta. Unamuno lo scrive in un momento in cui la Spagna vive una crisi politica-economica-culturale, che culminerà con un evento simbolo: la guerra e la perdita di Cuba (1898).

L’Unamuno di questo periodo è fondamentalmente quello dei saggi En torno al casticismo (1895), nei quali si apre al razio-positivismo europeo e francese in particolare; attento ai bisogni del popolo, ma anche alle problematiche della scienza economica, cui si avvicina attraverso il socialismo. Nei saggi, inoltre, egli distingue due tendenze nel panorama culturale spagnolo: i tradizionalisti, che ritengono che la Spagna debba chiudere i propri confini a qualsiasi tipo d’influenza europea; i progressisti che, per risolvere la situazione spagnola, ritengono necessario importare tutto ciò che in Europa si produce in materia di scienze positive, per poter creare menti e condizioni nuove per sollevare la Spagna dalla sua crisi. Nei confronti di queste opposte posizioni, Unamuno proporrà di risolvere il dualismo con il fondo; opta cioè per uno sprofondamento nella tradizione eterna, nella quale solo si può trovare la vita autentica, che è al contempo progresso e conservazione del passato. Se nella prima tappa intellettuale, il Chisciotte è un elemento antistorico per la Spagna e quindi è meglio che muoia per lasciare il posto ad Alonso Quijano el bueno, espressione di una Spagna razionale e lavoratrice; nella seconda tappa, il Chisciotte diventa per don Miguel un eroe della fede, del risorgimento morale spagnolo, dotato di una forte volontà nella ricerca della verità e votato all’umanità. In questa fase, ed in considerazione della rigenerazione di cui necessita la Spagna, don Chisciotte diventa necessariamente un simbolo. E simboli, eroi, infatti, si ricercano nei momenti in cui è necessario avere esempi di coraggio e di virtù morali, quando occorre liberarsi da una schiavitù: sia essa politica, economica, culturale, morale… Hegel, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ben definisce che cosa sia il simbolo: la metà di una moneta spezzata in due come pegno per l’esecuzione di un compito. Ma anche la metà di un mattone, o la frazione di una cosa che rievoca e rinvia all’altra metà. Il simbolo è, insomma, qualcosa che sta in luogo di un’altra, ma che è già, essa stessa, la cosa cui rinvia. Don Miguel quindi sfrutta una potenzialità che vede insita nel Chisciotte del Cervantes; esso, da libro, diventa eroe reale, personaggio.

Quali caratteristiche assume questo simbolo spagnolo, ed in quanto tale segno che diventa dono per gli altri? Nelle avventure del Chisciotte cervantino, si possono ritrovare le strutture universali dell’io umano, in virtù del fatto che il vero autore del libro è l’intendimento; caratteristica che possiamo riscontrare nell’hidalgo cervantino, visto che viene connotato come ingenioso (= piano speculativo), piuttosto che come valoroso: la caratteristica comune agli hidalgos. Ed è ingenioso perché si dedica alla lettura, piuttosto che alla cura delle sue terre, come invece erano soliti fare molti proprietari della Mancha. Ha, inoltre, desiderio di fama e, per questo, ordina se stesso cavaliere in un’età matura: cinquant’anni, contrariamente a quanto avveniva in quei tempi; e considera Sancio –suo scudiero- come hombre de bien, per la sua condotta, non per il grado del suo benessere sociale: è infatti povero. Ma povero è anche il Chisciotte, la povertà può essere causa di paura e meschinità, contrariamente al benessere che ci dà sicurezza di fronte alla miseria e che quindi può diventare una risorsa di tipo psicologico ed etico. Per questo, don Chisciotte promette a Sancio il governo di un’isola o di un regno; promessa che Sancio più volte gli ricorderà, dimostrando che il suo orizzonte mentale culmina nell’interesse, anche se comunque affida il suo futuro nelle mani del suo condottiero.

Il desiderio di fama fa sì che don Chisciotte, nelle sue avventure, sovrapponga alla percezione dei sensi il suo mondo immaginario. Ed è ciò che succede nell’avventura dei mulini a vento, come in quella con i monaci di San Benito, nella vendita. In tutte le situazioni avventurose nelle quali si lancia in duello, don Chisciotte è vinto; ma anziché riflettere sui suoi errori, trova una spiegazione della sconfitta in situazioni parallele di altri cavalieri, o nella cattiva influenza dei nemici incantatori. A partire da questa auto-consolazione si alza dalla caduta, si riprende dalla sconfitta e si dispone verso una nuova avventura. Avviene così che don Chisciotte dimostra le sue caratteristiche fondamentali: un cuore intrepido, il sentimento d’onore, l’adempimento degli obblighi presi verso se stesso e gli altri, la volontà come dovere, la signorilità intesa come superiorità morale e quindi il bene assoluto come meta di tutti i suoi atti. La timidezza che contraddistingue Alonso Chisciano nel suo amore per Aldonza Lorenzo del Toboso e che probabilmente scatenò la sua voglia di fama; la pazzia come momento di rottura dell’intendimento nelle sue due parti: il giudizio che viene perso e l’ingegno, la creazione di assoluti che si esalta e che vuole raddrizzare i torti, liberare gli schiavi, soccorrere i bisognosi… impegnarsi in tutto ciò che c’è di nobile. Per questo don Chisciotte, da una parte, suscita compassione nei suoi interlocutori e lettori; dall’altra, coloro che si prendono burla di lui si ritrovano burlati e perplessi, compiendosi il detto popolare, secondo cui i bambini ed i pazzi dicono la verità. Ora, Unamuno confrontandosi con l’opera di Cervantes, sostiene che il Chisciotte s’impose a Cervantes proprio perché incarna alcune caratteristiche permanenti dell’essere umano; ragion per cui, egli per primo non intese il suo personaggio. A partire da ciò, a don Miguel non interessa quello che Cervantes vuol dire nella sua opera, ma ciò che il Chisciotte gli dice: ossia tutte quelle problematiche della vita del suo tempo e che lui proiettò sul testo classico. In questo modo, il Chisciotte trascende se stesso e dona all’umanità il valore delle idee, la volontà di cercare la verità, uno spirito critico, oltre che una morale che potremmo definire evangelica, con i quali salvarsi.

Il Chisciotte infatti è colui che incarna la volontà, la volontà di guidare il proprio popolo verso un cammino di rinnovamento religioso, morale, verso una rivoluzione interiore, verso un culto per la verità contro la mentira; una volontà (= individualità) quindi che vuole essere e continuare ad essere nella storia (= fatto, pratica, poiesis) e che non può farlo se non per un contatto con l’universalità, con le altre individualità che sono l’Umanità: Sancio. Siccome poi tale volontà (pratica) vuole realizzare se stessa in quanto ansia d’immortalità, ecco che Dulcinea è identificata con tale ansia, con la Gloria (= theoria), e l’amore per essa è ciò che determina l’inserimento nella storia della volontà del Chisciotte, che senza l’amore resterebbe senza finalità, senza quindi il carattere di necessità. Don Chisciotte è insomma l’eroe che unisce la theoria (coincidente in lui con l’ansia d’immortalità) alla pratica, alla poiesis (volontà produttiva), mediante il suo operare per l’Umanità, ricordandoci in tal modo anche la figura del Cristo, evangelico naturalmente. Ed opera per l’umanità in quanto è uomo virtuoso, perché fondamentalmente buono; in più è povero ed ozioso, introducendo così la caratteristica della contemplazione e della ricerca.

La povertà, tenendolo lontano dalla sazietà materiale, ossia da tutto ciò che in questa vita può offrirci la ricchezza facendoci dimenticare qualsiasi aspirazione spirituale, qualsiasi ricerca di auto trascendimento; mentre l’ozio dal lavoro, lo favorisce nella contemplazione, di quanto va leggendo nei libri di cavalleria. Ed è proprio da ciò che nasce la nuova filosofia chisciottesca di Unamuno, indipendente rispetto alle altre, perché pur tenendo conto di quanto detto dai predecessori (= contemplazione), continua nella ricerca (= azione) di una verità, ed è filosofia proprio in quanto arte contemplativa ed attiva, come definita da Seneca. L’allontanarsi dalla materialità, questa cura socratica per l’anima, a discapito del corpo, quale si può osservare anche nella lotta che Don Chisciotte intraprende contro i mulini a vento, quale lotta contro la sazietà corporale, in favore dell’ideale, della cura dell’anima; e contemporaneamente la volontà di lasciare ricordo di sé, la ricerca di rinomanza e di fama, fanno sì che egli appaia agli occhi degli altri uomini come un folle, quand’è invece solo saggio, spiritualmente generoso e perciò desideroso di servire alla rigenerazione della propria patria e dell’umanità. Solo in questo modo infatti, egli può acquisire la gloria che ricerca: storicizzandosi, agendo nel tempo e nello spazio e con tale azione ingrandire la propria personalità perché continui a vivere nella storia e non muoia completamente, perché diventi eterna, perché continui a donare[5].

Meditazioni del Chisciotte (1914) è l’opera prima di José Ortega y Gasset (1883-1955), uno dei più brillanti scrittori del Novecento spagnolo. L’opera è composta – come lo stesso Ortega sostiene – da saggi mossi da desideri filosofici, ma non sono filosofia, perché difettano di prove scientifiche esplicite. Ad ogni modo, in queste meditazioni ritroviamo in nuce tutto il pensiero che caratterizzerà la produzione letteraria del madrileno negli anni a seguire. A muoverlo nel profondo è l’intraprendenza del nuovo tentativo spagnolo, ossia fungere da sprone per il suo Paese a una rinascita, una presa di coscienza del suo valore per farsi grande, o quantomeno per non fossilizzarsi in una cultura che perde la sua ragion d’essere rimanendo sospesa nel passato.

Ortega vede nella sua Spagna l’esempio di una cultura “impressionista” mediterranea (di fronte alla quale preferirà quella tedesca), discontinua, che non fa tesoro delle sue conquiste per progredire e aumentare la propria consapevolezza e soprattutto la propria “sicurezza”, strumento essenziale per una vita autentica. E questa sicurezza non può che essere fornita dal concetto, dalla ragione. Una ragione che è parte fondamentale del vitalismo di Ortega – detto appunto razio-vitalismo – il quale ritorna fenomenologicamente alle cose per non smarrirsi in idealismi e individualismi. Io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo non salvo neanche me stesso è forse la frase più celebre dello spagnolo, perché la più rappresentativa. La vita è un’irriducibile interazione con la particolare circostanza che stiamo vivendo e nella prospettiva da cui la stiamo guardando. Se si dimentica questo, cade ogni senso e significato e rischiamo di perderci nell’idea allucinata – questo vale per gli uomini e a maggior ragione per le nazioni.

Una chiarezza salvifica Ortega la ritrova nello stile cervantino del Don Chisciotte, che egli descrive nel breve trattato estetico sul romanzo che chiude le sue Meditazioni. Un pretesto per mostrare “una pienezza spagnola”, nonché la filosofia e la morale che lo stile poetico dell’opera più celebre di Cervantes porta con sé. Per Ortega il romanzo – e il Don Chisciotte è considerato il primo romanzo moderno – è uno strumento di analisi del mondo attuale, che assume vigore letterario nel momento in cui rende “miraggio” la realtà avventurosa di cui tratta. Interpreta la realtà mettendola sotto la luce critica del comico o del tragico. Tragico è l’eroe, colui che ha il coraggio di essere se stesso contro la tradizione e il senso comune. Comico lo diventa quando la nostra “interiorità plebea” che odia l’ambizione lo rimette al suo posto, tifando per la sua caduta, rendendolo ridicolo agli occhi del “conservatore”. Il Don Chisciotte orteghiano è un eroe tragico perché la sua volontà eroica, d’avventura, si scontra inevitabilmente con la sua circostanza reale (cosa sono i mulini a vento?) –; ma viene letta come follia, incapacità di adeguarsi al reale, facendosi così ridicolo. Di qui la tragicommedia. Una frattura insanabile tra individuo e circostanza, il cui peso deve tuttavia essere sopportato dall’essere umano per non smarrirsi.

Bisogna salvare la nostra circostanza per salvare anche noi stessi, dandole un senso, attraverso la cultura, attraverso la nostra ragione vitale, quella che ci dà sicurezza e ci permette di andare avanti. È come se Ortega ci esortasse a essere anche noi eroi tragici, a sfidare il ridicolo, a donarci all’Umanità, ad essere autentici.

Come lui stesso afferma circa i temi trattati nella sua opera: alcuni vertono su temi altisonanti; altri su temi più modesti; alcuni su temi umili; tutti, direttamente o indirettamente, finiscono col fare riferimento a circostanze spagnole; ma sono tutti modi diversi di svolgere una stessa attività, di dare sfogo a uno stesso affetto. Un affetto che lo spinge verso il suo Paese ed il suo popolo, che è consustanziale al suo cuore, e che definisce come amor intellectualis (Spinoza). Tali saggi amore intellettuale, pur essendo privi di valore informativo, pur non essendo neppure epitomi, sono invece ciò che un umanista del XVII secolo avrebbe denominato: salvataggi. Ossia: a partire da un fatto -un uomo, un libro, un quadro, un paesaggio, un errore, un dolore- Ortega cerca di portarlo per il cammino più breve alla pienezza del suo significato. Mette i materiali che la vita, nella sua perenne risacca, getta ai nostri piedi come resti di un naufragio, in una posizione tale da poter scoprire i tanti riverberi che ci possono fornire, per trovarci le loro possibili pienezze. Un’anima aperta e nobile sentirà l’ambizione a perfezionarla, a coadiuvarla, affinché raggiunga questa pienezza. Questo è l’amore -amore per la perfezione dell’amato. Questo il dono più grande che a partire da un romanzo come quello del Chisciotte ci può venire[6].

Conclusioni

In questo breve excursus storico-filologico abbiamo cercato di delineare cosa sia il dono, anche dal punto di vista religioso. Il dono è soprattutto andare oltre se stessi, per incontrare l’altro, gli altri. È il dono della propria vita per gli altri. Che corrisponde alla missione del politico nei confronti dei propri concittadini, come del genitore nei confronti dei propri figli/famiglia; come della guida spirituale nei confronti dei fedeli; come quella dell’insegnate, o del dirigente nello svolgimento del proprio officio… . Il tutto nel rispetto degli interessi dell’altro, di coloro ai quali è diretta la propria azione. Da qui la vocazione al sacrificio che ogni professione implicitamente contiene, reso quasi invisibile proprio da quella missione che ognuno di noi è disponibile ad abbracciare e che rende quasi naturale l’apertura all’altro ed ai suoi bisogni. Il dono ci consente di uscire dal nostro egoismo, dalla tentazione di restare chiusi nel nostro solipsismo individualistico, che ci spingerebbe a rimanere fermi ad una sorta di auto-contemplazione psicologica, per la quale ci realizziamo solo se soddisfacciamo i bisogni del nostro , solo se misuriamo il mondo a partire dal me stesso.

Per avvalorare questa riflessione generale, ed a partire dalle sue direttive, abbiamo cercato di analizzare le letture del Chisciotte di Miguel de Unamuno e di José Ortega Y Gasset. Abbiamo potuto vedere come il dono sia un gesto eroico per la rigenerazione morale, intellettuale, politica e religiosa di tutto un popolo, quello spagnolo.

Il dono è sempre, e prima di tutto, amore per gli altri, che si confonde con l’amore per la propria cultura, la propria terra, il proprio modo di essere, che proviene dalla propria tradizione; quel proprio condiviso con gli altri. E la follia necessaria a che tutto ciò avvenga.

Ama il prossimo tuo come te stesso!

Note

[1] Cfr. Platone, Dialoghi socratici, Firenze, 1970.

[2] A. Tagliapietra, Il dono del filosofo. Il dono della filosofia, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio - ottobre 2002, URL: www.giornalediconfine.net. Ed inoltre: J. Luc Marion, Dialogo con l’amore, Torino, 2016.

[3] S. Zamagni, Il principio della gratuità e la logica del dono, in Riflessione di Stefano Zamagni all’incontro di gestione calabriana dell’8-9 giugno 2017 a S. Zeno in Monte (Vr). URL: www.doncalabria.it. Ed inoltre: G. Paolo II, Coscienza del significato del corpo e innocenza originaria. Udienza Generale del 30/01/1980, in www.vatican.va. Cfr inoltre: G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Milano, 2000.

[4] Cfr: AA.VV. Significato del perdono. Religione, antropologia, diritto (a cura di Claudio Tugnoli e Michele Cozzio), Trieste, 2023.

[5] Cfr.: M. de Unamuno, Vida de don Quijote y Sancho, in Obras Completas, Madrid 1966, vol. III; C. L. Ferraro, Simbologia del Don Chisciotte Piccolo saggio riflessivo, in “Amaltea. Trimestrale di cultura”, anno VII / numero due, Giugno 2012, pp. 33-41; C. Morón Arroyo, Hacia el sistema de Unamuno, Palencia, 2003.

[6] J. Ortega y Gasset, Maditaciones del Quijote, trad. it.: Meditazioni del Chisciotte, a cura di G. Ferracuti, in www.ousia.it. Dello stesso Autore: Vieja y nueva politica, Madrid 2024. Cfr. inoltre: C. Morón Arroyo, El sistema de Ortega y Gasset, Madrid, 1968.

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