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Donner : cet acte devenu une ambiguïté sociale / Sous la direction de Bernard Troude / Vol.22 N.2 2024

L’arte del donare: significanze singolari e plurali

DOI: 10.17613/fqy42-nr974

AnnaMaria Calore

magma@analisiqualitativa.com

Socia Collaboratrice dell’Osservatorio dei Processi Comunicativi, fa parte del Comitato di Redazione della rivista elettronica M@GM@; presidente dell’Associazione RaccontarsiRaccontando; responsabile Attività Sociali e Volontariato dell’ANRP Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari; socia LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari; docente e consulente, formatrice adulti. Raccoglitrice volontaria di testimonianze e narrazioni individuali e sociali, progetta e conduce percorsi formativi sussidiari e gratuiti finalizzati alla maturità cognitiva ed affettiva dei giovani, in stretta collaborazione con i docenti, presso gli istituti scolastici di ogni ordine e grado. Supporta gli insegnanti degli I.C del Territorio Romano, nella maturazione cognitiva ed affettiva dei giovani in difesa della pace, della tolleranza e della diversità quali valori ineludibili.

 

Abstract

Per meglio mettere a fuoco l’aspetto fondamentale del dono e le sue significanze singolari e plurali, non ho potuto che partire da una delle affermazioni dell’Antropologo Marcel Mauss che, nel suo famoso saggio, illustra con estrema chiarezza il come, le relazioni tra gli esseri umani, nascano e si rafforzino essenzialmente grazie ad un continuo contatto sociale che può anche essere espresso e simboleggiato da un dono di una delle parti all’altra e come, colui che abbia ricevuto il dono, potrà anche, sua volta, contraccambiare il donatore con un altro dono. Questo processo di mutualità di doni, è in grado di innescare una catena positiva di reciprocità sia attraverso l’oggetto-dono sia attraverso l’inequivocabile espressione di affettività espressa dai donatori nel momento che hanno donato. Una reciprocità, quindi, capace di creare un legame speciale ed unico tra persone, profondamente diverso dallo “scambio economico” insito negli oggetti donati.

 

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Whisk ferns - Fukami, Gyokuseidō, and Kanga Ishikawa. Seisen Matsuranfu : shokoku bonsai shashin. Mikawa: Gyokuseidō zōhan, 1837.

“Si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona” (Carl Gustav Jung).

Per meglio mettere a fuoco l’aspetto fondamentale del dono e le sue significanze singolari e plurali, non ho potuto che partire da una delle affermazioni dell’Antropologo Marcel Mauss che, nel suo famoso saggio, illustra con estrema chiarezza il come, le relazioni tra gli esseri umani, nascano e si rafforzino essenzialmente grazie ad un continuo contatto sociale che può anche essere espresso e simboleggiato da un dono di una delle parti all’altra e come, colui che abbia ricevuto il dono,  potrà anche, sua volta,  contraccambiare il donatore con un altro dono.

Questo processo di mutualità di doni, è in grado di innescare una catena positiva di reciprocità sia attraverso l’oggetto-dono sia attraverso l’inequivocabile espressione di affettività espressa dai donatori nel momento che hanno donato. Una reciprocità, quindi, capace di creare un legame speciale ed unico tra persone, profondamente diverso dallo “scambio economico” insito negli oggetti donati.

Quindi, l’atto del donare va oltre il  passaggio di beni, mettendo in gioco e positivamente la totalità degli elementi culturali, affettivi e relazionali che possono positivamente caratterizzare, relazioni sociali di valore tra persone diverse.

Il voler perseguire le significanze implicite che il concetto di dono suggerisce significa il dover riflettere sulla «circolazione delle cose» nei rapporti tra le persone, al fine di comprendere l’importanza, più o meno consapevole, contenuta nella relazione funzionale tra il dono e lo scambio di doni.

Il dono rappresenterebbe, quindi, un elemento sia libero che vincolante, poiché aprirebbe l’opportunità, per colui che riceve un dono, di poterla ricambiare attraverso un controdono, dando luogo ad un continuo andirivieni di doni offerti e di doni compensativi. Grazie a questi passaggi è possibile creare uno scambio che non si limita al rapporto tra i singoli individui, ma contiene una significanza profonda connotata da attenzione, condivisione, riconoscenza e rispetto.

Questo perché, lo scambio di “oggetti”, non avviene in base a patti economici stipulati tra le parti, ma, lo scambio di doni e quindi l’alternarsi tra il dare, il ricevere ed il ricambiare, accenna sommessamente, ma in modo pregnante, all’esistenza di una relazione sociale di valore anche emotivo ed affettivo, la cui origine è da ricercarsi nel concetto stesso di dono capace di attivare “relazioni positive” connotate anche da simbolica affettività.

Infatti, nel dono e, anche se diversamente nello scambio di mercanzie, “gli oggetti, il tempo e le relazioni personali” sono al servizio dei legami e costituiscono un mezzo di congiunzione sociale.

I doni, spesso non si esplicano solo attraverso oggetti, ma anche attraverso scambi di idee per comuni progettualità ed intese profonde che possono divenire condivise e messe in comune. Questo tipo di condivisione, che si presuppone possano appartenere ad una concezione più elevata della qualità della relazione umana, richiede di rapportarsi all’esperienza personale e collettiva in modo compiuto e finalizzata al bene comune.

Il dono resta comunque un prodotto squisitamente umano in quanto esteriorizza la personalità e gli intenti del donatore che si proietta al di fuori di sé oggettivando e dando forma ai propri pensieri e alle proprie azioni; uscire fuori da se stessi significa, per le persone positivamente orientate, il proprio personalissimo “spazio/oltre se stessi” nel quale si creano le condizioni per entrare in relazione con gli altri. Quindi riuscire a mettere in atto quella dimensione costitutiva del legame sociale che si genera sia con altri esseri umani, ma non solo, anche con altri esseri viventi, natura compresa.

Il legame, una volta concretato per mezzo di ciò che l’uomo produce sia di materiale che di intellettuale, non può che acquisire forma sociale elevata. Ogni soggetto umano coinvolto pone, quindi, parte della propria interiorità all’interno del ruolo da “essere sociale”. Solo in questo modo ogni persona coinvolta può esteriorizzare liberamente e consapevolmente funzioni e sapere propri con il fine che possano essere condivisi.

Donare sapere, competenze, tempo ed abilità personali, significa quindi costruire relazioni sociali di qualità sociale elevata per se stessi e per gli altri.

Seguire una tale prospettiva necessita, però, il voler considerare l’insieme dell’umanità come soggetta ad un movimento generale di esteriorizzazione e di scambio umano di qualità. Lo scambio di umane competenze messe al servizio del sociale, può essere posto come una caratteristica primordiale ed ineludibile perché, il concetto di dono non si esplica semplicemente nell’atto del ricevere o in quello del dare Il dono non si manifesta attraverso una cessione unilaterale ma attraverso uno scambio tanto necessario quanto ineludibile.

Soltanto lo “scambio consapevole del proprio ed altrui valore” potrebbe, forse, garantire il rispetto e la tolleranza tra gli esseri umani attraverso il dono ed il contro-​dono come pure, tentando un concetto parallelo azzardato simile ma non uguale, quello dell’acquisto e della vendita e l’acquisto di beni e merci che, per millenni i popoli della Terra hanno praticato creando ricchezza economica unita a ricchezza esperienziale.

La relazione, la comunicazione ed il dono ( in altre parole lo scambio) rappresentano, in fondo, l’esteriorizzarsi della comune dimensione umana poiché tale esteriorizzazione costituisce una proprietà caratteristica dell’uomo stesso, dei suoi bisogni e della sua crescita personale e collettiva che interessa non solo al singolo individuo, ma che diventa valore di una intera collettività e che ha permesso, all’uomo, di differenziarsi dagli altri mammiferi creando sapere e culture.

Di seguito, i contributi più preziosi che ho ricevuto, quale graditissimo dono al mio sforzo di mettere a fuoco il concetto e la pratica del dono. Contributi preziosi poiché pervenuti da persone che hanno adottato uno stile di vita e di lavoro centrato non solo sui propri bisogni, ma anche su quelli delle persone con le quali vengono in contatto. Contributi umanissimi concretati nel “dono” spesso immateriale che non prescinde dalla centralità dei propri bisogni e necessità, ma riesce a contemperare anche le altrui necessità diventando pratica e dono sociale.

Si tratta di testimonianze dirette di volontariato attivo quale espressione, almeno per me, del “dono dei doni” in quanto viene donato il personale tempo di vita, il proprio sapere e le proprie risorse attive personali. Ovvero il patrimonio più prezioso che ogni essere umano possiede poiché il tempo di vita non è infinito ma ha una scadenza e va speso sempre nel migliore dei modi per se stesso e per gli altri dando senso profondo alla propria esistenza. Senso profondo che non può prescindere dal riconoscere onestamente anche esistenze, competenze ed il sapere altrui. Come pure, il saper riconoscere la voce, la presenza e le necessità della natura che ci circonda, rispettandola innanzitutto e proteggendola quale dono incommensurabile, necessario all’equilibrio non solo umano, ma di tutti gli esseri animali e vegetali nonché l’equilibrio complessivo del pianeta Terra che, insieme all’uomo, condividono spazi di vita, di tempo e di risorse.

Le testimonianze

La testimonianza di Sergio Cametti

Volontario dell’Associazione Volontari Televita O.D.V. e dell’AGESCI (ETS)

«Non vorrei essere frainteso, ma ritengo che il volontariato possa addirittura essere considerato come un atto di egoismo e presunzione, è talmente tanto quello che si riceve rispetto a quanto si dà che il bilancio è certamente più positivo per il volontario rispetto al beneficiario.

La mia attività di volontariato può essere considerata iniziare verso i venti anni quando, già inserito nel lavoro e rientrando a Roma dopo un periodo trascorso in Sardegna, chiedendo nella mia parrocchia se ci fosse qualcosa da fare, mi sono sentito richiedere di “salvare” un gruppo scout che stava chiudendo per mancanza di capi educatori…

Non sapevo neanche cosa significasse fare lo scout, ma con tanta presunzione, e con la sensazione che avrei imparato io stesso tante cose sulla natura, sul territorio (sono stato sempre molto attirato dalle “narrazioni” che riguardano la storia e le vicende umane che hanno modellato lo comunità locali) ed anche sulla testimonianza religiosa che fino ad allora era stata più una consuetudine che una presa di coscienza personale.

Cominciai a seguire campi scuola, convegni, dibattiti, esercitando con i ragazzi che mi erano stati affidati le competenze che via via imparavamo insieme, con una base di curiosità e ricerca che mi ha sempre contraddistinto.

Era un momento magico, le due associazioni scout italiane, maschile e femminile, stavano fondendosi, ed io mi trovai protagonista di una simbiosi tra quello che facevo nel lavoro e l’azione educativa nello scautismo. Ho sempre ammesso che portavo il bello dell’uno nella seconda, divertendomi.

Di fatto ero stimato, e da allora il volontariato è diventato un mio stile, col quale ad esempio trattavo i colleghi, e ben presto i miei collaboratori nel lavoro una volta diventato capo anche lì, portando il senso dell’Educare (… fare emergere da ciascuno il meglio di se…) in tutti i rapporti umani che intrattenevo. Questo ha fatto sì che io, semplice ed umile metalmeccanico, venissi fatto dirigente per i risultati che ottenevo, anche in ambiti internazionali dove prima che la competenza si riteneva fosse necessaria una gestione grintosa degli obiettivi.

Per me gli obiettivi sono sempre stati ricercati in un forzo comune, collegiale, in cui la complementarietà dei talenti risultasse più ricercata della emergenza personale.

Anche adesso, nel volontariato, nella mia associazione ma anche tra i ragazzi che nonostante la mia età continuo ad “accudire”, i risultati si ricercano insieme, e si raggiungono, lo posso garantire!

Gli anziani? Non mi sento “altro” da loro con cui faccio servizio in Televita, ci sentiamo in cammino insieme, e finché durerà continuerò a raccogliere più che seminare…»

La testimonianza di Giovanni Grauso

Volontario dell’Associazione Volontari Televita O.D.V.

«Il volontariato a favore degli anziani è un atto di generosità e compassione, che può essere motivato da diverse ragioni personali e sociali.

A 78 anni, ci sono molte ragioni per cui ho scelto di continuare dedicarmi a questa attività.

Alla mia età, ho accumulato una vasta esperienza di vita e di lavoro (sono un ingegnere in pensione e le mie competenze le ho potute svolgere in diversi e svariati campi) e penso di avere una profonda comprensione delle sfide che gli anziani possono affrontare. Questo mi permette di offrire un sostegno empatico e prezioso, che può fare una grande differenza nella vita di altri anziani.

Il volontariato offre un forte senso di scopo e significato. Dopo il pensionamento, molti anziani cercano modi per sentirsi utili e coinvolti nella comunità. Aiutare gli altri può riempire di soddisfazione e dare una ragione per alzarsi al mattino.

Il volontariato è un ottimo modo per costruire e mantenere relazioni sociali. Lavorare con altri volontari e con gli anziani può aiutare a ridurre la solitudine e l’isolamento, che sono comuni tra le persone anziane.

Dedicare il proprio tempo agli altri è un modo per restituire alla comunità e contribuire al suo benessere. Questo senso di altruismo e di impegno civico è spesso molto gratificante.

Numerosi studi hanno dimostrato che il volontariato può avere effetti positivi sulla salute fisica e mentale. Può ridurre lo stress, aumentare la longevità e migliorare il benessere generale.

Essere un volontario anziano può servire come esempio positivo per le generazioni più giovani, mostrando che l’età non è un ostacolo per contribuire e fare la differenza.

Il volontariato offre anche opportunità di apprendimento continuo e di sviluppo personale. Può coinvolgere nuove sfide, conoscenze e abilità, mantenendo la mente attiva e impegnata.

Gli anziani spesso possiedono una saggezza unica che può essere incredibilmente utile per gli altri. Condividere storie, consigli e lezioni di vita può arricchire non solo la vita degli altri anziani, ma anche quella dei giovani e dei volontari stessi.

Fare volontariato a 78 anni è una forma di dono prezioso, sia per me stesso che per gli altri. È un modo per restare attivo, connesso e impegnato, e per continuare a contribuire alla società in modo significativo. La mia decisione di fare volontariato riflette una profonda comprensione del valore del tempo, dell’esperienza e della connessione umana, mostrando che il desiderio di aiutare e di fare la differenza non ha età.»

La testimonianza di Enzo Roberti

Pensionato abitante in Roma Quartiere Salario

«Nonostante l’età non giovanissima, ho una vita attiva con diversi impegni fuori casa. Prima uscivo per andare a lavorare, oppure per frequentare il Circolo del tennis di Villa Borghese, .. ma ora, dopo 45 anni di iscrizione a quel circolo (ero uno dei soci storici) ho smesso di giocare a tennis per ovvii motivi di età, ma anche perché l’ambiente del Circolo è molto cambiato.

Ma ad una attività non mi va assolutamente di rinunciare: Quella di volontario al Vittoriano. Si tratta di un servizio di vigilanza attiva a tutela ed a supporto dei visitatori, dei turisti stranieri ed italiani e delle scolaresche. Fare il volontario e stare tra le persone, mi fa sentire ancora giovane ed utile agli altri!

Molti ancora pensano che il Vittoriano sia stato costruito dopo la prima guerra mondiale da Mussolini. Invece risale al 1885, quando si mise mano all’inizio della costruzione che fu terminata nel 1911. La salma del Milite ignoto arrivò molto più tardi, e molti confondono quell’evento alla nascita del Vittoriano.

Il lavoro dei volontari come me, consiste nel preservare e far rispettare un luogo che appartiene a tutto il popolo italiano. Diamo anche informazioni storiche utili e conosciamo anche il minimo indispensabile di qualche lingua straniera per dare informazioni a turisti di altri paesi.

Ti racconto un episodio che mi ha colpito, perché a volte sanno più cose gli stranieri, dei nostri monumenti romani, che non gli italiani. Non ci crederai, ma  una volta una professoressa di matematica torinese, disse che la statua sul monumento al milite ignoto che rappresenta Vittorio Emanuele era quella di Garibaldi… “ma come!”, ho detto io, “lei è torinese e confonde la statua di Vittorio Emanuele con quella di Garibaldi?” e lei mi ha risposto “ma io insegno matematica, mica Storia!” Io ci sono rimasto malissimo ma ho anche capito l’importanza dei volontari preparati e seri come me presso i monumenti di Roma!

Il servizio che faccio al Vittoriano, fa capo ad un servizio particolare che fa riferimento al comando dei carabinieri. Insomma è un servizio serio e molto utile alla collettività. Abbiamo anche una divisa per farci identificare ed un numero di matricola. Siamo un nutrito gruppo di anziani e svolgiamo il nostro lavoro anche presso mostre, presso il Cimitero Monumentale di Campo Verano, come pure al Cimitero di Prima Porta ed a quello Laurentino. Nei cimiteri si controlla che tutto vada bene, che non ci siano malintenzionati che possono creare danni o non rispettare le tombe. Purtroppo questi fatti dissacranti sono successi, ed è stato grazie alle nostre denunce che i malintenzionati sono stati scoperti e denunciati!

Continuo ad avere una vita sociale molto intensa perché sono anche membro di una Confraternita, la stessa alla quale era iscritto mio padre, una delle più antiche di Roma, che risale al 1504. È la Confraternita di Sant’Eligio dei Ferrari, che si trova in via San Giovanni Decollato. Mio padre apparteneva a questa congregazione, perché di mestiere era “callelaro”, ovvero calderaio, e fabbricava oggetti di rame, stagno, alluminio, era un operaio e le congregazioni a Roma, erano legate ai mestieri. In quella chiesa mi sono sposato e, sempre in quella chiesa, abbiamo fatto il funerale a mia moglie quando purtroppo è deceduta lasciandomi in un inconsolabile dolore. Nella casa dove abito mia moglie non c’è più, non ci sono più i genitori di Lidia e di Maria, Paola si è sposata e vive con i suoi figli in un’altra casa… la grande famiglia che eravamo una volta si è assottigliata. Ora, quando il resto della famiglia si siede intorno al lungo tavolo di legno… ci rendiamo conto di essere sempre più soli! Mi aiutano le attività volontarie che faccio a dare comunque senso alle mie giornate

Mio padre era confratello, ed io ho scelto di essere confratello come lui. Il nostro compito di confratelli è anche quello di fare servizio di chiesa; andiamo in visita alle Sette Chiese nel mese di Marzo e, la prima oppure la seconda domenica di novembre si partecipa alla storica processione dentro il Cimitero di Campo Verano per visitare le tombe dei confratelli deceduti. Si organizzano anche dei pellegrinaggi come quelli a Lourdes oppure in Terrasanta. Lo spirito di mutuo aiuto è molto forte tra noi aderenti alla confraternita ed alla Chiesa di Sant’Eligio dei Ferrari che è una Chiesa che possiede anche diversi beni avuti come donazioni o lasciti.»

La testimonianza di Rosaria Cirone

Volontaria centro Caritas S. Maria della Mercede ed abitante nel Quartiere Coppedè

«Quando da giovane ho incominciato a lavorare presso l’INPS, più che alla carriera, ero interessata ai rapporti umani che riuscivo a costruire. Poi mi sono sposata ed ho avuto due figlie ma sono sempre stata attenta a quello che, a livello sociale, accadeva intorno a me.

Poi le mie figlie sono cresciute ed è arrivata, per me, l’età della pensione. Mi sono chiesta, allora, in che modo potessi spendere le competenze sociali che avevo acquisito nel mio lavoro. Pensavo al volontariato, ma non volevo che questa scelta venisse fatta solo per colmare il vuoto lasciato dall’attività presso l’INPS.

Ci ho pensato su per due anni, finché ho compreso che il mio era un desiderio autentico di rendermi utile e non una sorta di surrogato. Così ho scelto di dedicare parte del mio tempo presso il Centro di Ascolto Caritas della mia Parrocchia e della Consulta per il Volontariato Sociale del II Municipio. Il tempo che spendo in queste attività mi torna tutto in termini di “senso” del mio vivere quotidiano. Perché rendersi utile socialmente può dare molto a coloro che credono in questo spendersi; è come sentire di “esserci”, nonostante l’età e gli acciacchi ………. ed i miei piedi, nonostante i miei anni siano ormai davvero tanti, continuano a portarmi come sempre, in Via Alessandria, per respirare quell’aria di strada popolare, ancora schietta ed accogliente lontano, ma non troppo, dal villino dove abito, nel quartiere Coppedè di Roma.»

Testimonianza di Flavia Finn

Abitante a Roma, nel “Pincetto” tra Via Nomentana, Via Alessandria e Via Cagliari

Ma prima di dare spazio alla testimonianza di Flavia, necessitano due parole per spiegare ai lettori cosa sia il “Pincetto” ovvero questo piccolo colle chiuso tra gli isolati tra via Nomentana, via Alessandria e Via Cagliari.

Nel luogo dove sorge il grande fabbricato nel quale abita Flavia, C’è molto più di una «leggenda» sentimentale, quella racchiusa in quella collinetta boscosa che si erge all’interno del cortile del fabbricato. Da qui, all’alba di quel 20 settembre risorgimentale, i cannoni piemontesi puntarono contro le Mura Aureliane su ordine del generale Cadorna e proprio dalla collina del “Pincetto”, quel rialzo del terreno a poca distanza dall’obiettivo, che si trovava nella vigna Capizzucchi, tra Porta Pia e Porta Salaria - come raccontano le cronache dell’epoca.

Ora i residenti del palazzo che circonda il cortile con il ”Pincetto” (soprattutto quelli del condominio con ingresso da via Cagliari) hanno lanciato una petizione per chiedere al Comune che sia riconosciuta la valenza storica del luogo, con l’apposizione di una targa commemorativa in ricordo dei fatti, e l’inserimento di quel luogo nelle prossime celebrazioni della Breccia di Porta Pia in programma a settembre di ogni anno. La localizzazione del ”Pincetto” trova pieno riscontro sulla cartografia delle indicazioni contenute nei documenti storici dove si parla di un rialzo del terreno con terrapieno posto a circa 500 metri dalle Mura Aureliane. La localizzazione della collina è coerente anche con l’episodio dei primi scontri a fuoco con il vicino avamposto delle truppe pontificie asserragliate a Villa Patrizi, l’edificio all’esterno di Porta Pia inizio Nomentana, poi demolito per la costruzione dell’attuale sede del ministero dei Trasporti. Fu proprio da questo avamposto che partì (ore 5.10) una scarica di fucileria che fulminò il caporale Michele Plazzoli (prima vittima della giornata) mentre stava puntando verso le Mura il cannone a lui assegnato. Dal punto di vista bellico la postazione della collinetta era ben rialzata e in perfetta linea con la parte più debole delle Mura Aureliane. Ma secondo la tradizione orale dei residenti, la collinetta fu scelta anche perché nelle vicine tenute degli aristocratici vi era stata diffidenza nel far piazzare i cannoni, per non parteggiare apertamente contro il Papa. Poi, l’attacco avrebbe preso di mira la vicina Villa Bonaparte, lanciando un segnale ben preciso ai francesi. I segni della battaglia sono ancora presenti sulle Mura Aureliane. In particolare, nel tratto di fronte a via Po e a via di Santa Teresa è ben visibile incastonata su un torrione una palla d’epoca perfettamente conservata.

Ma torniamo alla testimonianza di Flavia Finn.

Flavia Finn racconta

«A Roma, durante la guerra quando avevo circa una decina d’anni, frequentavo una scuola di danza, ed ho nelle orecchie il fischio delle bombe che cadevano durante uno dei bombardamenti di San Lorenzo. Qualcuna di quelle bombe è caduta anche in altre zone di Roma, come ad esempio in Via Messina, tra la Via Nomentana e Via Alessandria. Colpirono un intero palazzo e ci furono dei morti. Si individua ancora il luogo dove, tra le costruzioni umbertine del quartiere, fa spicco un palazzo molto più recente e di colore giallino.

All’inizio, i palazzi umbertini di Porta Pia, mi davano un senso di severità e non mi sentivo a mio agio; era tutto così diversa dal centro storico, dalle costruzioni che portavo scritta tanta storia sulle loro facciate e dalle belle chiese marmoree. Il complesso della Birra Peroni, poi, che si affacciava su piazza Principe di Napoli, ora Piazza Alessandria, mi creava un senso di angoscia con il suo stile che voleva essere una applicazione dello stile Liberty ad un edificio industriale. La torretta aveva qualcosa di medievale e cupo, ed a me sembrava quella di una prigione.

Le botteghe lungo Via Alessandria, quando sono venuta ad abitare in zona, erano gestite, perlopiù, da commercianti di origine ebraica. Erano persone che avevano perso parenti nei campi di concentramento ed avevano tutta la mia disponibilità, quando mi raccontavano eventi atroci che li avevano toccati da vicino. Debbo dire che non erano affabili come i negozianti di via del Tritone e di Via Crispi. Se chiedevo loro più di un oggetto da vedere prima di acquistarlo, oppure se chiedevo qualcosa che al momento non avevano, con modi spicci e bruschi mi dicevano:” Questo è quello che ho, se lo vuole bene, se no se lo cerchi da qualche altra parte!” all’inizio ci rimanevo male, ma poi ho capito e compreso la loro schiettezza popolare.

Nonostante tutto, Via Alessandria era e continua ad essere, la meta dei miei giri quotidiani. Continuo a fare acquisti nei negozi che ora sono più moderni ed a frequentare l’Ufficio Postale di Via Alessandria e quando vado alla posta per qualche versamento e magari mi tocca fare un poco di fila, mi consolo poi con un crocchetta di patate o con un bel supplì di riso che prendo nella pizzeria a taglio di fronte all’Ufficio Postale.

Pochi negozi di Via Alessandria, sono rimasti invariati nel tempo e veramente preziosi; uno di questi è la bottega di ferramenta di Raffaele, un israelita di origini nordafricane. Raffaele parla correttamente l’arabo e, per questo motivo ha tra i suoi clienti, anche persone provenienti da ambasciate di stati arabi, presenti qui a Roma. Nel suo negozio si può trovare tutto il possibile e immaginabile; dai chiodini di ogni genere, alle serrature più sofisticate.

Ora, anche se sono avanti con gli anni, continuo ad occuparmi di volontariato sociale nel mio Municipio, dove porto il mio contributo del Centro Italiano Femminile, dove sono impegnata, volontariamente, da moltissimi anni.

Questo dell’impegno sociale volontario è una scelta profonda, dettata dalla mia appartenenza all’ordine secolare delle Carmelitane Scalze. Insomma, con i figli ormai adulti, e dopo aver portato a compimento il mio ruolo materno, ho ancora energie e voglia di dedicarmi alla possibilità di migliorare, qui ed ora, la società nella quale vivo.»

Testimonianza di Serenella Massoud

Medico in pensione racconta

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano.” (Antoine De Saint - Exupery)

«Quando ancora lavoravo in ospedale, al pronto soccorso del San Giacomo ed al pronto soccorso della Camera dei deputati. Al San Giacomo spesso facevo il turno di notte, naturalmente pagata con uno stipendio, ma io aggiungevo molto del mio spirito volontario e di attenzione all’altrui sofferenza in quello che facevo. Poi un bel giorno hanno deciso di chiudere l’Ospedale e, nel giro di un mese l’hanno fatto, buttandoci tutti nello sconcerto e nella disperazione più nera. Anche queste sono cose che succedono!

Per me è stata, veramente, una crisi profonda. Erano 30 anni che lavoravo in ospedale. Mi piaceva quella struttura storica, al centro di Roma, non troppo grande ed a dimensione umana. Ci conoscevamo tutti. E, anche quando facevo il turno di notte, cosa che capitava abbastanza spesso, mi piaceva tornare a casa all’alba con la città mezza vuota. Per me è stato un vero dramma. L’ospedale ha chiuso nel mese di ottobre di un paio di anni fa ed io, per superare il vuoto che questo trauma mi stava dando, ho pensato che forse potevo dare ancora l’attenzione agli altri, ospitando un bambino Lituano. Era un sogno che accarezzavo da tempo, quello di potermi occupare di un bambino. Quindi, per le feste di natale, l’ho ospitato a casa mia a Roma, in via Alessandria 63. Speravo di dare e di avere, ancora un poco di gioia. È arrivato un bambino che viveva in un istituto lituano con una storia familiare molto particolare. Questo bambino venuto da così lontano, di gioia ce ne ha data tantissima a tutti noi.

Si chiama Dominykas e quando è arrivato in via Alessandria, aveva appena compiuto 9 anni. Così abbiamo iniziato, nella mia famiglia, a far posto nel nostro cuore, nei nostri spazi abitativi e nel nostro vivere quotidiana a Dominykas.

Sia quando lui è qui da noi, ma soprattutto quando torna in Lituania, noi continuamente viviamo con lui e pensiamo a lui. Incespicando nei suoi giochi lasciati in giro o commuovendoci guardando un suo disegno o una sua foto. Anche il nostro cagnolino di famiglia, è un poco più triste quando Dominykas va via. Dominykas non passa inosservato. Con mia figlia Michela che ormai è una giovane donna, litigano qualche volta, ma si vogliono un bene dell’anima. Anche Renato, mio marito, è molto tenero con lui ed è felice di uscire in giro per Roma con il nostro figlio maschio venuto da lontano, da soli come due vecchi amici.

Nel palazzo e nel quartiere tutti ormai lo conoscono e gli vogliono bene. L’elettricista, i ragazzi del supermercato, i ragazzi del bar, tutti sono conquistati dai suoi occhi chiari e dalla sua innata eleganza. La mia amica Annamaria, che abita nel palazzo al piano sopra il mio, dice che sembra un piccolo principe nordico. L’arrivo di questo bambino ha ridato senso alla mia vita.

Si era chiusa una fase che mi aveva richiesto tanto impegno ed abnegazione perché, essendo medico rianimatore di pronto soccorso, mi permetteva di sentirmi utile socialmente, donando la mia competenza di medico non disgiunta da empatia verso chi soffre e cercando di salvare vite, aiutare persone che arrivavano in stato di profonda fragilità mi faceva sentire utile. Avevo al San Giacomo, anche un mio reparto. Era un lavoro che mi chiedeva tanto, è vero, ma mi dava tanto in termini umani.

Prendermi cura di questo bambino, ha riaperto un’altra porta sulla mia vita, facendomi imboccare una strada capace di dare altrettanta gioia unita a responsabilità. Che poi non è solo gioia per il mio bambino. Sono diversi i bambini che vengono in Italia e sono tutti dolcissimi, sorridenti e ci guardano con occhi limpidi, chiedendoci solo attenzione ed affetto. Io non li accolgo tutti a casa mia. Ospito solo Dominykas. Gli altri sono ospitati da famiglie altrettanto disponibili. Ma è come se i bambini fossero di tutti noi ed i bambini ci vogliono bene a tutti noi.

Come famiglie ospitanti ci teniamo in continuo contatto. Quando i bambini sono in Italia facciamo delle cose insieme e la felicità di ogni famiglia è come se fosse centuplicata dal rapporto con le altre. Andiamo spesso in Lituania a trovarli per seguirli negli studi e per far sentire la nostra attenzione alla loro crescita. io non finirò mai di essere grata agli operatori L’associazione che mi ha aiutata a mettermi in contatto con Dominykas. Perché è un regalo immenso ed insperato vedere bambini che, partendo da condizioni disagiate, riescono a gioire e ad esprimere una immensa felicità di vivere.»

Testimonianza di Nadia

Infermiera del quartiere racconta (salva una vita e sei eroe, salva cento vite e sei infermiere)

«Son di più 40 anni che vivo e lavoro in questa zona di Roma, tra Porta Pia e Piazza Regina Margherita e sono molto conosciuta nel quartiere. Faccio di tutto, pulizia nelle case, pulizie nei cortili interni dei palazzi, assistenza infermieristica, ma soprattutto, mi occupo di assistenza a persone anziane ed a famiglie che abitano su Via Messina, Via Alessandria, Via Ancona e Via Mantova.

Il mio nome è Nadia, diminutivo di Annunziata, il nome che ho preso da mia nonna che si chiamava così. Sono nata in Sicilia, a Messina, e mia nonna è stata una figura determinante per la mia crescita. Viveva in una fattoria molto grande, nella campagna messinese. Io come potevo scappavo da lei, perché amavo più lei di mia madre e perché in campagna mi sentivo libera. Nella fattoria di mia nonna non c’era la luce elettrica. C’erano ancora, negli anni ‘50, i lumi a petrolio per illuminare la casa nel buio della sera. La fattoria era circondata da un muretto basso, che ne delimitava i confini. Nelle sere d’estate, io bambina raccontavo a lei ed alle altre donne della fattoria, quello che avevo visto in televisione, oppure il film che avevo visto al cinema.

Perché io vivevo in città e vedevo queste cose, loro in campagna non avevano la televisione e non potevano andare al cinema. Su quel muretto, raccontavo ma ascoltavo anche e con molta attenzione, lei e le altre donne. Quando ero seduta tra loro, sentivo una forza salirmi dentro. Perché, ascoltandole, imparavo tantissimo sulla vita. Quello scambio di informazioni, emozioni, ricordi e sogni, hanno formato il mio carattere. Ricordo che un giorno mia nonna mi chiese: “Cosa desideri di più, sia per adesso che per un domani, per la tua vita? “. Io risposi di getto: “tre cose nonna. Occuparmi di bambini piccoli, di persone anziane e difendere la natura”. Mia nonna rimase colpita, perché ero ancora una bambina. Mi chiese allora perché proprio questi tre desideri. Io pensando che forse ero stata troppo presuntuosa, fui tentata di rispondere “nonna è un gioco”. Ma lei mi guardava profondamente negli occhi ed allora capii che potevo cercare senza timore nel mio animo la risposta e dissi: “Nonna, perché mi sembra che abbiano bisogno di me ed io sento di avere la forza dentro per prendermi cura di loro”.

Era quello che sentivo davvero nel profondo del mio cuore; e non mi sono sbagliata. Ho speso la mia vita in questa direzione ed è quello che continuo a fare, seguendo la vocazione che avevo già da piccola. Questa forza interiore, mi viene dalle donne della mia famiglia. Siamo sempre stati una famiglia non benestante, direi sempre piuttosto povera di soldi e beni, ma ricca di amore e di compartecipazione. Sono rimasta in Sicilia sino agli otto anni. Poi siccome mio padre lavorava a Roma, ci siamo trasferiti in questa città. Abito a Porta Pia, e passo tutti i giorni per Via Alessandria per andare a lavorare. Mia nonna, che adoravo, mi è mancata molto quando ho lasciato la Sicilia. Ma è come se avesse continuato a tenermi per mano mentre da bambina diventavo donna, continuando a raccontarmi in tutti questi lunghi anni che vivo a Roma del coraggio, dell’amore e della pietà.

Così, quando io entro in queste case del quartiere, dove ci sono persone anziane è quella forza legata al “sentire gli altri” che emerge, come un sapere antico. Nelle case trovo persone anziane e malate. Forse da giovani erano forti e si sapevano difendere, ma ora sono fragili ed indifese, esposte a prepotenze, spesso proprio da parte dei loro parenti, figli compresi.

È una cosa sgradevolissima, ma succede. Io trovo persone allettate, bisognose di tutto, oppure persone ancora con una certa autonomia, ma stanche della vita e molto, molto sole. Quando io entro nella loro casa, comprendo subito cosa manca. Il bisogno più diffuso e quello dell’attenzione ed allora io divento una figlia, una sorella, qualche volta anche una mamma.

Ecco il mio sogno più ambizioso era quello di diventare medico. Per diversi anni ho lavorato anche al Policlinico di Roma come infermiera. Poi ho dovuto lasciare questa attività, ma anche se ora il mio lavoro è precario, la vocazione profonda non è tradita. Mi affeziono sempre alle persone per le quali lavoro. Non riesco ad essere distaccata. Ci metto tutta me stessa e, mi capita, di accompagnarle sino alla fine, dando loro quella vicinanza che figli e parenti non sanno o non possono dare. Affianco il medico, l’assistente sociale, consapevole che, quello che io offro loro, è l’attaccamento del quale hanno bisogno. Ogni volta che uno di questi anziani “mi muore” e se ne va per sempre, per me è un rinnovato doloroso lutto. Ma non cambierei il mio modo di essere. Sono consapevole di quello che mi da questo lavoro: compartecipazione ed affetto da una parte e sofferenza dall’altra: vita e morte.

Io non lascio mai un lavoro quando sento che una persona sta per morire, la accompagno sino alla fine e soffro quando non c’è più. Da poco mi è accaduto di veder morire un vecchio signore al quale mi ero legata tanto. Non era facile la situazione familiare di questa persona e più volte avevo pensato di andarmene via. Ma avevo fatto una promessa non richiesta a questo vecchio. La promessa era che sarei stata con lui sino alla fine. Lui non parlava più ormai, era senza voce e molto malato. Parlava con me attraverso lo sguardo e con le mani. Le vedi le mie mani? Sono tormentate dal lavoro che faccio. Quando curo una persona, non mi schifo di nulla, Non ho paura a toccare la carne di una persona vecchia e malata. Faccio tutto quello che c’è da fare anche le cose più umili. Poi le lavo le mie mani, ma loro sono ormai segnate dai lunghi anni di questo lavoro.

Questo anziano di cui ti stavo parlando, era triste e spaventato di dover morire. Per sollevarlo, scoprendo che amava sentir cantare, rispolverai tutte le canzoni dei tempi andati che sapevo a memoria. Cominciai con il cantare “come pioveva”, una canzone nostalgica per  un’ amore ritrovato e poi di nuovo perso sotto la pioggia. Lui cercava di cantare con me, con i pochi deboli suoni che gli uscivano dalla bocca, ma con una tale intensità dello sguardo che era più di un canto. E poi ancora cantai “Signorinella Pallida” e ancora “Io te voio bene assaie”. Poi, ancora, tutte le canzoni della sua giovinezza. Canzoni antiche, che lo legavano al suo vissuto di amante della musica. Ogni giorno aggiungevo un’altra canzone, e faceva bene anche a me cantare. Lui mi seguiva, sentivo che la sua mente cantava con me. Non muoveva le mani, ma io gli dicevo: “ascolta, poggio la mia mano sulla tua, e tu immagina di stringerla forte, io posso essere la tua voce! Anche il dottore che veniva a visitarlo, si meravigliava di questa cosa e del fatto che lo trovava sempre più sereno. È morto accompagnato dalla mia voce che cantava per lui ed il mio cuore è andato in pezzi. Ho pensato che non lo avrei fatto mai più, e invece sono di nuovo pronta e cullare un’altra persona anziana.

È il destino che ho scelto, perché io sono Nadia e basta.

Sono Nadia, mamma, figlia, sorella, nonna. La mia nipotina, figlia di mia figlia, ora ha 18 anni, ed è cresciuta con mia madre che era malata di sclerosi multipla. Ha vissuto a lungo con questo male mia madre, cosa rara per una malattia di questo tipo. Io, tra un lavoro e l’altro, sempre nei paraggi di casa per non allontanarmi da lei, mettevo la piccina tra le sue braccia; la sistemavo in modo che la bambina non cadesse, con il biberon sistemato in modo tale che la bimba succhiasse da se. Mia madre era così felice di allattare questa bambina ed anche la bimba era serena e tranquilla. Mentre succhiava il latte, guardava mia madre nel viso e negli occhi. Così, dandosi amore reciproco, una vecchia vita prendeva energia da una giovane vita ed una giovane vita beveva saperi antichi da una donna ormai anziana ma piena di amore da dare. La bambina, la sera, si addormentava tra le braccia della bisnonna che le cantava antiche ninne nanne con una dolcezza unica.

All’altezza del 153 di via Alessandria, io vado a fare le pulizie nella casa di un signore. Questa casa era stata di sua madre, che io aiutavo, quando lei era molto avanti negli anni, nella gestione della casa. Ebbene, questa signora quando è morta ha lasciato scritto, nel suo testamento, che fin che il figlio fosse rimasto in vita, voleva che la cura della sua casa fosse affidata a me. Così io vado ancora lì a lavorare, pensa, proprio sopra il Centro Culturale “Come un Albero”(nota dell’autrice: Come un Abero (bistrot, caffetteria, servizio cucina a pranzo e cena e location per convegni e conferenze) è una associazione che si occupa di inserire ragazzi con disagio mentale nel lavoro.»

Testimonianza di Maria

Del piccolo bar all’interno del mercato di piazza Alessandria, racconta l’aiuto dei suoi genitori quale dono ricevuto al tempo giusto

(Soltanto gli alberi che hanno radici salde e profonde, sanno dialogare con il cielo ed il mare).

Maria inizia a raccontare.

«Sono nata in un piccolo paese della Calabria in provincia di Cosenza, un paese di montagna, semplice e raccolto ma dal quale si ammira un panorama che permette di vedere il mare sino all’orizzonte più lontano mentre, volgendosi dalla parte opposta, la catena montuosa della Calabria che d’inverno si ricopre spesso di neve, rende l’idea di quali bellezze sia ricca la Terra dove ho vissuto i primi anni della mia vita. Sono andata via dal mio paese non appena ho compiuto i 18 anni, perché sentivo di volere qualcosa di diverso dalla vita che, per tutte le ore della giornata, passavo piegata su di una macchina da cucire. Infatti, subito dopo le scuole medie, avevo preso a lavorare in una grande sartoria che produceva capi di tessuto in serie ed a ciclo continuo.

Io stavo al lavoro dalle sette di mattina sino alle 9 di sera e non potevo alzare la testa dal tessuto che stavo cucendo poiché da quella sartoria tutti i giorni dovevano uscire mille capi rifiniti. E siccome io ero veloce e precisa, la mia macchina da cucire era la capofila di tutte le altre anche perché, oltre a cucire, tagliava anche i tessuti. I mille capi che cucivo ogni giorno,  venivano poi distribuiti agli altri lavoranti perché il lavoro veniva distribuito tra chi faceva le tasche, chi le pettorine chi le asole e le rifiniture. Io per tutte quelle ore di lavoro senza sosta prendevo solo 300 mila lire al mese.

Ogni mattina, con il sole il vento o la pioggia, prendevo la corriera che, dal mio paese, scendeva verso Amantea dove aveva sede la fabbrica dove lavoravo e la sera, a fine giornata, facevo il percorso inverso. Avevo solo 14 anni quando iniziai, tutto quello che guadagnavo lo portavo a casa e lo consegnavo ai miei genitori. Ma appena compii 18 anni, decisi che dovevo andare via, sentivo che era un dovere verso me stessa scappare lontano. Lo dissi ai miei genitori che si dimostrarono preoccupati e dispiaciuti per questa mia scelta ma poi, leggendo nei miei occhi colmi di disperazione tutta la determinazione di questa scelta, capirono che non potevano trattenermi. Del resto proprio loro mi avevano inculcato il valore della ricerca continua di dignità: “devi essere umile” mi dicevano, “ma non devi mai dimenticare di difendere la tua dignità nelle scelte che farai nella vita”. Così mi avevano sempre detto sin da bambina. Ora che i miei genitori non ci sono più, sento di dover essere veramente fiera di loro e di quello che mi hanno insegnato. Quindi lasciai il mio paese e la Calabria senza rimpianti, perché avevo capito che la mia terra così bella, di lavoro per i giovani non ne aveva e non mi poteva offrire il futuro al quale aspiravo.

Avevo due sorelle a Roma ed andai ad abitare presso una di loro, ma dovevo e volevo, comunque mantenermi da sola. Così iniziai a lavorare senza rifiutare neppure i lavori più umili come ad esempio, pulire le scale, pulire gli uffici e comunque sempre lavori sotto padrone e pagata poco. Per due lunghi anni ho lavorato sodo e, pur di perseguire il mio sogno sono arrivata a fare la dog sitter io, che ero terrorizzata dai cani, ho dovuto superare questa paura se volevo non dover tornare indietro e sconfitta nella mia Terra di origine. Gran parte di quello che guadagnavo lo mettevo da parte per il mio sogno: avere una attività tutta mia. Andai a lavorare, per circa due anni, in un bar a Piazza Bologna i cui proprietari erano calabresi come me. Lavorando con loro ho capito che il lavoro che volevo fare era proprio quello della barista, lavoro nel quale professionalità, accoglienza e capacità comunicativa erano le doti vincenti. Era proprio il lavoro che faceva per me che amavo stare in mezzo alla gente. Anche in questo bar stavo sotto padrone, ma comunque io lavoravo come se il bar fosse il mio. Avevo tutte le responsabilità e tutte le incombenze sulle mie spalle. Poi approdai al piccolo bar di Piazza Regina Margherita e, a soli a vent’anni ero già amministratrice unica di una piccola attività commerciale, anche se il bar era un piccolissimo bar.

Allora cominciai a pensare che forse era il caso di cercare il modo di avere una attività veramente tutta e solo mia. Ed ecco che un giorno arriva la mia grande occasione, quella che aspettavo da sempre. Un mio amico mi disse che era in vendita la licenza del bar interno al mercato coperto di Piazza Alessandria. Il mio cuore iniziò a battere dalla gioia perché un bar all’interno di un mercato era il mio sogno. Non so perché, ma i mercati mi sono sempre piaciuti. Mi ispirano socialità, vivacità e poi mi piace il fatto che inizino a vivere all’alba con le merci che entrano e vengono distribuite tra i banchi e mi piace il clima di familiarità che si crea tra chi nel mercato ci lavora e chi entra per acquisti. Insomma “il mercato” era il posto dove, senza saperlo, avevo sempre desiderato stare. Questo bar l’ho amato dal primo momento che l’ho visto, già lo sentivo mio prima che me lo vendessero. Ho chiesto al proprietario di poter stare un poco di tempo vicino a lui, per affiancarlo nel lavoro, senza essere pagata, ma solo per conoscere la clientela, vedere come lui si relazionava con le persone, per fare in modo che, quando sarei stata io da sola dietro il bancone, i clienti abituali non se ne andassero via ma rimanessero conoscendomi già.

Avevo però bisogno di venti milioni di lire e non li avevo tutti. Allora scesi giù in Calabria dai miei genitori e dalla mia famiglia, consapevole che erano persone non ricche ma comprensive. Rassegnai loro la mia situazione dicendo “so che voi non li avete questo soldi, ma non so proprio a chi rivolgermi, mi basterebbe anche solo un piccolo aiuto, se potete darmelo” non so perché feci questo viaggio sapendo che i miei non erano ricchi, ma fu il cuore a guidarmi insieme ad una grande fiducia nell’amore dei miei genitori. Raccontai loro il mio sogno e le mie difficoltà, pronta ad aspettarmi da loro quello che già pensavo di sapere, cioè che non avevano soldi da darmi ma solo affetto e comprensione. Non sapevo dove avrei trovato tutti i soldi necessari ma ero convinta che li avrei trovati. Invece accadde che mia madre mi guardò a lungo e poi mi disse: “Maria, i soldi per te ci sono. Sono tutti quelli del tuo lavoro quando stavi alla sartoria di Amantea. Io non li ho mai spesi ma li ho messo da parte per te, sapendo che sarebbe arrivato questo momento e sapendo quanto, la tua fierezza ti avrebbe guidato in scelte come quella che stai facendo”. La gioia e la commozione si impadronirono di me e compresi quanto i miei vecchi genitori mi conoscessero, mi volessero bene e avessero sempre saputo della mia personalità che non si arrende facilmente quando ha in testa qualcosa.

Comprai “il mio baretto” che si chiama proprio così e ormai sono 17 anni che questo “baretto” è il posto dove mi reco ogni mattina, che curo con amore anche nei dettagli, dove incontro la mia clientela affezionata e quella di passaggio, insomma “il mio baretto” è una finestra aperta su scorci di umanità con le sue gioie e le sue pene. È un ritrovo di donne che si siedono al tavolino e sorseggiando un caffè o un cappuccino e si fanno le loro confidenze, è un punto di incontro di anziani che, prendono sempre lo stesso tavolino per discutere di tante cose, fanno commenti sui fatti del giorno letti sui giornali ritrovando quella socievolezza che rischiano di perdere se restano chiusi in casa. Questi anziani frequentano il mio baretto da anni, mi hanno vista crescere e mi dimostrano affetto. Io ricambio il loro affetto con il mio sorriso, sempre sentito e mai solo di circostanza.

E poi il mio baretto, non so perché, attira i bambini sia quelli che vengono con gli adulti a fare acquisti, sia i figli di rivenditori stranieri che hanno la licenza di alcuni banchi del mercato. Tutti bambini bellissimi che mi riempiono il cuore di gioia e loro ne sono consapevoli per questo vengono a ricercare il mio sorriso e la mia accoglienza ed i miei abbracci sinceri. Il mercato e la sua gente, sono per me una grande forza che mi ripaga del lavoro che svolgo e che dà un senso alla mia passione per questo lavoro. Non lo cambierei mai e poi mai.

Al mio paese ci torno ogni tanto, ma poi sento sempre la necessità di fuggire via, perché quando fuggi da un luogo che non ti ha offerto un futuro da giovane, ti resta impresso questo sentimento di rifiuto. Ringrazio tutti i giorni I miei genitori che mi hanno educato spronandomi a crescere da sola perché solo se si affrontano da soli le difficoltà della vita puoi diventare una persona capace di apprezzare le piccole gioie che la vita offre. E quando qualcuno sentendomi parlare mi chiede “sei calabrese ? ” io rispondo subito di sì, sentendomi orgogliosa di essere calabrese e sono fiera di ammette che vengo dalla Terra di Calabria . Perché se la tua Terra non può dare ai suoi figli un futuro dignitoso te ne puoi anche andare lontano ma porterai sempre con te i valori che hai avuto da chi, in quella Terra, è nato prima di te. Valori immortali come la dignità, il saper gioire delle piccole cose, il coraggio di prendere la tua vita tra le mani e crescere con le tue forze ed il profondo affetto verso i tuoi genitori che, comunque, ti hanno messo al mondo. Perché io sono orgogliosa di essere nata in un paese forse piccolo, forse sperduto tra i monti e dal quale ammetto di essere fuggita , ma un paese dal quale potevi vedere il mare sino all’orizzonte più lontano ed immaginare per te un futuro diverso e, soprattutto, scelto e voluto con forza.»

Testimonianza di Paola

Racconta la sua esperienza di volontariato nelle isole Filippine

(Quanto pesa una lacrima? La lacrima di un bimbo capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra).

«Era una sera come un’altra di fine ottobre, ancora abbastanza calda, quando andai quasi per caso ad una cena per raccogliere fondi per i Padri Cavanis. Davo una mano in cucina e servivo ai tavoli cercando di rendermi utile.

Padre Diego iniziò a spiegare come, i sacerdoti e le suore Cavanis, nell’arco di circa 200 anni di apostolato, erano riusciti ad aprire, in tutto il mondo, scuole per bambini e ragazzi insegnando loro un mestiere. Alla fine del suo discorso chiuse con questa frase: “è così che, tante piccole gocce, fanno un mare.

Mi colpì la semplicità di questa affermazione perché, forse anch’io, come una piccola goccia, potevo fare la mia parte per quel “mare”. Chiesi allora,, a Padre Diego come potevo rendermi utile. Era quasi Natale, avevo ancora un periodo di ferie da prendere, forse avrei potuto utilizzare quei giorni per fare volontariato con loro!

Fu così che, Padre Diego, mi suggerì di andare nelle Filippine a Davao (città industriale con due milioni di abitanti situata nell’isola di Mindanao) nella quale due suore stavano cercando di gettare le basi di una scuola elementare in un quartiere molto degradato. In quel quartiere della città, le strade, a tutt’oggi non sono asfaltate e la gente, piccoli contadini e modesti commercianti vive in mezzo alla strada ma si riversano nella grande Chiesa senza porte e senza finestre perché, nelle Filippine, la temperatura si aggira sui venticinque gradi tutto l’anno.

Nella grande Chiesa, tutti partecipano alle messe cantate durante le quali non si può fare a meno di percepire una grande fede unita a tanta gioiosa allegria.

Così arrivai a Davao nel bel mezzo del periodo natalizio. Le feste si susseguivano da un punto all’altro della città e, per noi volontari, era una gioia immensa sentir cantare i bambini, perché il karaoke è per loro il gioco preferito. A Davao, aiutando le suore nelle piccole/ grandi incombenze quotidiane, ho potuto incontrare bambini poveri, sì, ma ricchi di spontaneità e felici di mostrare i loro disegni ed i loro quaderni pieni di piccole storie locali.

Da quel Natale, ogni anno, cerco di dare il mio piccolo contributo alle Suore Cavanis. Loro, in cambio, mi tengono informata sul procedere dei lavori. Mi raccontano di come hanno costruito la scuola e dei progressi scolastici dei 350 bambini che attualmente seguono.

I bambini seguiti dalle suore hanno anche un pulmino che li va a prendere verso le 5 del mattino nelle varie località dove vivono. Vengono accolti nella scuola dalla prima colazione al pranzo e poi anche all’ora di merenda. Imparano a leggere ed a scrivere in filippino ed in inglese, giocano, cantano e pregano.

Le suore hanno costruito anche un “dispensario” che è una specie di ambulatorio punto di riferimento per i poveri del quartiere nel quale forniscono assistenza medica gratuita, qualche medicina, si occupano di bambini molto difficili o molto soli.

Insegnano a cucire e cucinare a qualche mamma di 15/16 anni che non saprebbe dove andare. Sono molto brave le suore ma hanno un immenso bisogno di aiuto, anche economico.

Quando alla fine delle mie ferie sono tornata in Italia, ho portato con me gli sguardi di quei bambini, poveri, ma pieni di gioia di vivere, di apprendere e di stare insieme nell’imparare.

Insomma, il mio piccolo contributo, unito a quello di tutti i sostenitori italiani, riesce ad essere un aiuto concreto al coraggio ed all’abnegazione delle suore Cavanis.

Come diceva Padre Diego “tante gocce fanno un mare” ed io mi sento di aggiungere: un mare di amore, perché l’amare è l’unica cosa che non si consuma con l’uso”.»

Testimonianza di Rosina Zucco

Direttrice del Museo “Vite di IMI. Percorsi dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945”

Donare il mio tempo all’ANRP per custodire le memorie e costruire la storia.

(La pace è l’unica battaglia che valga la pena di intraprendere).

«Quando AnnaMaria Calore mi ha chiesto di scrivere due righe sulla mia esperienza di volontariato presso l’ANRP- Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari, ho sentito addosso tutta la fatica di trasferire sulla carta il concentrato di quell’esperienza quanto mai ricca e gratificante nella quale, in questi ultimi 25 anni, sto spendendo la mia vita di pensionata. Obiettivo: far conoscere la storia “scritta dal basso” degli oltre 650 mila internati militari italiani e circa 250 mila civili che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, hanno subito l’internamento nei lager del Terzo Reich, violenze e lavoro coatto per aver detto NO! alla collaborazione con il nazifascismo. Storie individuali, inserite in una storia collettiva a lungo taciuta, ma talmente importante da coinvolgere migliaia di famiglie, di affetti, di drammi, di ricordi e rimozioni. Una storia che nei manuali scolastici non è contemplata, tanto che io, in quarant’anni di insegnamento di Materie Letterarie nella scuola media, non ne avevo mai sentito parlare. Nel 1999 ho conosciuto l’allora Segretario generale dell’ANRP, prof. Enzo Orlanducci, poi presidente e oggi presidente onorario, che pian piano mi ha coinvolto nell’attività dell’Associazione, assegnandomi piccoli incarichi. Inizialmente come gost writer, o come redattrice di articoli per la rivista Liberi (allora Rassegna) o come supporter nella stesura di progetti europei finalizzati alla ricerca di testimonianze orali di reduci dall’internamento. Una svolta importante è stata, però, quando mi è stata affidata la trascrizione di due manoscritti, il diario di Giacomo Brisca e quello di Giuseppe Lidio Lalli. Il saggio, che fu pubblicato nei due volumi insieme alla trascrizione dei due diari, mi aprì importanti squarci sul significato di testimonianza in tempo reale, quale il diario, e testimonianza a posteriori, quale il memoriale, che invece comporta una rielaborazione dell’esperienza vissuta.

Nel 2011 sono andata in pensione. Un momento critico che mi ha messo di fronte a nuovi sviluppi e nuove frontiere da perseguire. Il lavoro di insegnante mi ha appassionato non solo per i contenuti e i saperi che ho cercato di trasmettere ai miei studenti, ma soprattutto è stata un’esperienza umana, sociale, psicologica, relazionale. Setteville di Guidonia non era certo una località appetibile per un insegnante alle prime armi, appena entrato di ruolo. Una realtà difficile, tante problematiche di degrado ambientale e sociale, ma anche tanta umanità, tanta vita vera anche nelle realtà più deprivate e complesse. Ho amato i miei studenti, soprattutto quelli più “teppa”, da cui cecavo di far emergere il lato buono, positivo e soprattutto l’amore per la conoscenza. Con i ragazzi di Setteville ho fatto teatro, il presepe vivente, la sacra rappresentazione, il Giorno della Memoria. Abbiamo girato un film: A come amore. Esperienza unica, irripetibile, indimenticabile.

Ho amato il mio lavoro di insegnante, anche nei momenti più critici e faticosi. Mi piaceva parlare con i genitori e i miei colloqui si protraevano finché il bidello, verso le 19,30 mi sollecitava: “Scusi, professore… che facciamo?”. Insomma un lavoro intenso che, soprattutto dal 2000 in poi, mi ha visto coordinatrice di Istituto per il POF (Piano dell’Offerta Formativa), un’esperienza in cui mi catapultò l’allora preside e che, comunque, nonostante la fatica scarsamente remunerata, mi ha aperto strade nuove, un taglio organizzativo che ho portato avanti con grinta e determinazione. Avevo il coordinamento di tutte le attività dell’Istituto, dalla scuola dell’infanzia alle Medie. Poi mi sono dedicata all’Orientamento per la scelta della scuola superiore. Anche questa, un’altra interessante esperienza.

Nel giugno del 2011 la mia vita scolastica si è conclusa con una settimana di lacrime e sorprese, di slanci affettuosi dei miei alunni che mi hanno tempestato di struggenti dediche, di video ricordo, di pensieri e parole affettuosissime. Fino al taglio del nastro in uscita. Fine. Stop.

Non sono più andata nella mia scuola. Mi sono subito proiettata con entusiasmo nell’attività dell’ANRP dove il rapporto con i giovani non manca, anzi si è fatto più motivato e significante.

Quante scolaresche vengono a visitare il Museo Vite di IMI! Per chi non lo conoscesse, questo spazio espositivo, sito in via Labicana 15, con il percorso cronologico tematico delle sue sei sale che vanno dall’8 settembre alla liberazione, offre uno spaccato quanto mai interessante e documentato sulla storia degli IMI. Documenti e reperti originali, donati dagli stessi internati e dalle famiglie sono accompagnati da approfondimenti multimediali, video emozionali e supporti interattivi.

Nell’allestimento del Museo, dalla progettazione dei contenuti alla collocazione dei reperti nelle teche, alla scelta di fotografie e filmati, alla descrizione delle didascalie, alle audioguide, il mio entusiastico intervento è stato… su tutto. Ho detto “entusiastico intervento” perché il lavoro è stato ad ampio raggio. Un lavoro a cui ho dedicato questi ultimi anni, sorretta da tanta passione e ricompensata da tanta soddisfazione nello scoprire quanto i visitatori, sempre più numerosi e motivati, apprezzino le scelte storico didattiche e gli accorgimenti metodologici per rendere il percorso accattivante, soprattutto per le giovani generazioni. Un lavoro working progress che si incrementerà prossimamente con la Biblioteca specialistica e l’archivio. Un percorso ancora tutto da tracciare, con la voglia di scoprire sempre nuove strategie e di condividere con gli altri le nostre conoscenze via via acquisite. Da custodi delle memorie a costruttori di Storia.»

Conclusioni

Nel chiudere questo mio lavoro che ha potuto esplicarsi solo e grazie ai numerosi contributi che ho ricevuto da coloro che hanno scelto di donare quanto più prezioso per ogni essere umano (il loro tempo) e quanto di più spendibile quale valore (le loro competenze) non posso che fare riferimento al pregevole lavoro sul “Dono” espresso con estrema chiarezza da Simona Pinelli e Chiara Pilati (Aula Lettere Scuola Zanichelli – Bologna) lavoro che mi è stato prezioso come pochi altri contributi che in merito al “dono” e del quale riporto integralmente soltanto un frammento

“… Le vite si mescolano tra loro ed ecco come le persone e le cose, confuse insieme, escono ciascuna dalla propria sfera e si confondono: il che non è altro che il contratto e lo scambio. Gli scambi non interessano i singoli individui, ma l’intera collettività.

Ogni aspetto di vita sociale che si consideri, sottende ad uno scambio reciproco, ad una relazione, ad una comunicazione che non si limita al mero transitare dell’oggetto mediatore tra due soggetti (come avverrebbe in uno scambio mercantile). Le cose scambiate non sono mai completamente staccate dal loro scambista.

Nel diritto maori, ad esempio, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perché la cosa stessa ha un’anima, appartiene all’anima. Donde deriva che donare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi; […] accettare qualcosa da qualcuno equivale ad accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima; […] esiste, prima di tutto, una mescolanza di legami spirituali tra le cose […], gli individui e i gruppi…

Il dono è dunque unione?

Ciò è vero, ma non in forma assoluta, il dono è anche mezzo di continue differenziazioni e opposizioni. La natura delle relazioni varia a seconda delle condizioni e delle circostanze che la generano, a seconda delle identità soggettive che si rapportano, rispetto alle culture che si confrontano.”

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