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M@gm@ Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali Motore di Ricerca interno Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali
Donner : cet acte devenu une ambiguïté sociale / Sous la direction de Bernard Troude / Vol.22 N.2 2024

Annotazioni e donazioni: diario per una riflessione etnografica

DOI: 10.17613/mgn6q-ztk37

Vito Antonio D’Armento

magma@analisiqualitativa.com

Collaboratore Scientifico dell’Osservatorio dei Processi Comunicativi, fa parte del Comitato Scientifico della rivista elettronica M@GM@; già professore associato in Sociologia della devianza e Sociologia della marginalità e della devianza, facoltà di Scienze della Formazione, Scienze Politiche e Sociali, Università degli Studi del Salento; ha fondato e dirige il Centro Studi Qualitative Approach in Ethnography (AQuE), promuovendo laboratori, gruppi di lavoro e di ricerca, seminari; ha co-fondato la Società Internazionale di Etnografia, di cui ricopre la carica di direttore generale.

 

Abstract

Lo scandaglio dei concetti di dono e donare qui proposto, attraversando differenti prospettive disciplinari, consente di accantonare tardigradi schemi predefiniti – da dar garanzia ad una più viva curiosità creativa –, in tal modo accomodando considerazioni che legittimano tutto quanto possa apparire ad un diverso modo di guardare un mondo instabile e comunque indisponibile a farsi incamiciare da modelli canonici – classici o tradizionali che siano. Ne è conseguita la elaborazione per un piano di ricerca – sintetizzato in un “indice” che dà conto sia dell’ontologia del dono/oggetto che della fenomenologia del donare/azione – che prende in carica implicazioni pluridisciplinari libere da subalternità filosofiche, antropologiche, etnografiche et al., prefigurando approcci inter-testuali che consentono di analizzarne le questioni proposte in modo conseguenziale – intrecciando cioè “esperienze” e “senso comune” o “informazioni” filtrate da semplice “buon senso” –, così evitando schemi predefiniti ed aprendo nuovi orizzonti per riflessioni che possano dar spazio a problematiche addirittura imprevedibili (un utile supporto a tali considerazioni sta in: Giuliano da Empoli, Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo, 2013).

 

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Whisk ferns - Fukami, Gyokuseidō, and Kanga Ishikawa. Seisen Matsuranfu : shokoku bonsai shashin. Mikawa: Gyokuseidō zōhan, 1837.

Per una Introduzione

Se l’uomo vuole essere soggetto, attore cosciente della propria storia, deve analizzare le istituzioni dalle quali dipende e trovare nell’azione di gruppo una via d’uscita all’atomizzazione burocratica della quale è vittima (Georges Lapassade).

L’idea stessa del dono – che da qualche tempo viene studiata soprattutto da antropologi e sociologi – è caratterizzata non solo da una inesplicabile complessità, risultando altresì contrassegnata da una tale ampiezza di significati da rendere provvisoria ogni investigazione che sembra rimanere sistematicamente impigliata in approcci che tendono ad ignorare le tante altre sfaccettature che lasciano appena intravvedere connotazioni che principiano da curiosità destinate a rimanersene comunque in zone d’ombra.  Per quanto ogni ricerca, infatti, si misuri con questioni che sembrano fondamentali per comprendere la natura di chi dona e di chi riceve, di percepire l’essenza di cosa viene donato e di cosa si riceve – nessuna chiusura riesce a saldare paletti che impediscano l’emergere di altre curiosità che sembrano accompagnare elementi talvolta neanche cercati … provando a darsi conto di una relazione tra materialità ontologica e astrazione fenomenologica che non sai mai se inciampano in elementi oggettivi o di pure supposizioni di chi si interroga mai accontentandosi di dare uno sguardo distratto ad un oggetto che sfugge ad ogni tentativo di metterne a fuoco una rappresentazione attendibile … così che da ciascun attore coinvolto nell’attribuzione di significati (che possono riguardare l’oggetto che viene donato oppure l’esperienza che ne vien fatta - da chi dona e da chi riceve) si passa al modo con cui ognuno s’interroga sul senso che ritiene necessario per comprendere ogni altro significato possibile di quanto gli si agita nel suo campo visivo – così da doversela cercare da solo una ragione sufficiente all’azione donativa. E come – se non attraverso un processo con cui ciascuno s’interroga se possa impegnarsi in risposte che tentano di esplorare le diverse dimensioni del dono e del donare, concentrandosi sulla relazione tra il gesto stesso del donare e il significato attribuito agli oggetti donati da parte degli attori sia del donare che del ricevere.

Ebbene, da un tale caleidoscopio si possono scorgere immagini che pur rinviando ad una sicura ontologia, poi, di fatto, ad una loro lettura – che segua una particolare logica – possono apparire come manifestazioni imperfette rispetto ad un’idea più elevata che non ha ontologia potendola solo intravvedere in forme fenomeniche in cui si presentano i sentimenti di coloro che si fanno scambio. Il dono ci permette così di aprirci a visioni di una metafisica materiale e addirittura ad una tessitura di differenti metafisiche – ma questo non è che un’altra ipotesi su cui si diluiscono le domande che possono esser fatte sul dono.

Una sorta di blocco concettuale a cui può esser data risposta solo se a discutere del dono non sia il solito sapiens che immutabilmente trattiene in sé conoscenza e saggezza esercitate col supporto di saperi disciplinari, agendo sguardi tanto specialistici quanto assoluti.

Che se poi dovesse risultare accreditabile una tale utopia, non ci resterebbe che regalarci quella democrazia che sogna un epifanico homo faber in cui risulti coniata l’energia istituente perché si realizzi tutto quanto sia stato preliminarmente discusso da individui liberi e da cittadini responsabili.

Come avvertenza

L’iniziale intenzione di realizzare una scrittura etnografica prodotta con la registrazione di conversazioni pre-ordinate con interlocutori elettivi impegnati a far cenno preliminare, quasi del tutto occasionalmente, al tema del dono/donare, ha dovuto infine ripiegare sulla soluzione qui di seguito riportata. I testi hanno comunque conservato l’impronta lasciatavi dagli auditi che solo dopo la conversazione hanno conosciuto l’utilizzo delle loro considerazioni riversate in una trascrizione comunque filtrata dal mio modo di gestire suggestioni più che suggerimenti.

Peraltro, anche a tutela della prova etnografica che si è venuta compiendo piuttosto in un cantiere che non su un campo – si è dato rilievo a significative “distinzioni” prodotte più per la confidenzialità delle conversazioni che per i contenuti così tanto effervescenti da lasciar tracce sicure di quanto la ricerca possa evolvere in un orizzonte pratico in cui necessita sempre più coinvolgere una umanità rinnovata per la presenza di soggetti attivi e dialoganti (per una lettura a supporto d’una tale considerazione, si vedano: Gűnther Anders, L’uomo è antiquato, 2003; e Mike Singleton, L’uomo che (non) verrà, 2012).

1. Ansia e determinazione

* L’argomento è stato lungamente discusso telefonicamente con Giuseppe Santarsiero (Ploieşti-Romania) – autentico e generoso sollecitatore di questioni che molto spesso se ne restano accucciate in “pensieri” singolari mentre talvolta fanno da apripista per risultati che solo un “general intellect” può, più ordinatamente, portare a compimento.

La scrittura è una sequenza di scintille impresse (Erri De Luca).

Allorquando decisi di accogliere l’invito di M@gm@, lasciai passare qualche giorno per definire un piano della scrittura: se elaborare piuttosto un saggio o appuntare una riflessione sul tema del dono/donare; se limitarmi a riassumere la più recente letteratura antropologica o se portare a bilancio taluni studi avanzati della ricerca psicologica.

Cominciai così a predisporre qualche titolo che mi facesse da traccia: (a) un diario non scontato del donare; (b) considerazioni socio-antropologiche sul dono; (c) strategie narrative del dono/donare; (d) il dono a senso unico; (e) orchestrazione per le donazioni e tanti altri ancora che via via si sono persi tra le note cestinate – risultandone poi salvati alcuni che hanno invece finito col costituire la pista che mi è riuscito di seguire in questo che considero un brogliaccio tutto sommato creativo (!).

E forse dovrei anche dar conto di questa presunta creatività di un testo che inizialmente non mi capacitavo di considerare come un saggio né come un trattatello e neanche come un diario di una riflessione che mi ha comunque impegnato in una prospettiva aperturista (in ciò seguendo una suggestione di Jean-Paul Sartre: La responsabilité de l’écrivain, 1946). Che se questa risultasse davvero una mia ferma persuasione – sul carattere del pezzo inviato alla rivista – ne lascerei ovviamente il giudizio al lettore come lascio la valutazione ai curatori del monografico.

Proverò ora ad emendare e impaginare le note non seguendo la mappatura dei titoli dai quali mi son lasciato inizialmente suggestionare. Ogni qualvolta mi persuadevo, infatti, di aver colto aspetti di un pur rilevante interesse per la tematica trattata – di fatto mi sentivo se non proprio “censurato” di certo “allertato” da qualche rilievo annotato da uno dei titivillus sempre presenti nelle esperienze di letto-scrittura. Un “effetto” – tuttavia – che agisce solo quando le idee progettuali (intenzionali!) risultano già riversate nella scrittura – e in questo senso il titivillus potrebbe risultare, piuttosto che quello spiritello che agirebbe nella trascrizione di progetti, quell’altra possibile figurazione (professionale e deontica) che innesca l’autocontrollo che ogni autore attiva come forma di rispetto per i lettori (come raccomandava Ortega y Gasset, allorquando annotava che la chiarezza dello scrittore altro non è che un atto di gentilezza per il lettore).

Ebbene – mi è capitato puntualmente di dover prendere atto che, per ogni sezione in cui andavo trascrivendo note, un titivillus ha sistematicamente (re)-agito con qualche considerazione critica talvolta anche serenamente argomentata, per quanto il suo vero obiettivo sembra essere quello malefico di infilare, in chi abbia comunque titolo ad operare, l’ansia dell’errore o del limite – o magari solo producendo la sgradevole sensazione di non aver chiuso al meglio il proprio lavoro (interessanti considerazioni su tale questione sono in: Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, 2003). A tal punto che ho finito col considerare ogni suo intralcio sulla mia scrittura un po' come un “paratesto” imprevisto che chiedeva chiose integrative o correttive (non saprei – a dire il vero), anche se poi, revisionandone la narrazione, puntualmente mi persuadevo che la creatività del brogliaccio risultasse attribuibile proprio all’effetto di una (co)-azione combinatoria inter-testuale che s’era infilato tra le mie note sin dalla loro prima trascrizione, già quando la consideravo “inviabile” e addirittura continuando ad agire anche sul testo ormai “trasmesso” (per un qualche chiarimento sull’argomento, si rinvia a: Gianrico Carofiglio, La nuova manomissione delle parole, 2019.

Titivillus, insomma, ha avuto una funzione più che attiva nella elaborazione di queste mie note – così tanto da riconoscergli uno specifico compito istituente (o, se si vuole, co-istituente). Da indurmi, poi, a prospettare altri eventuali condizionamenti che operano alla maniera dei tanti altri titivillus – che,con la medesima carica istituente, finiscono col rendere ibrido ogni testo d’autore che abbia riversato in scrittura delle idee che, dal mondo pensato (astratto, mentale e spirituale), se ne sono scese in quello semantico e scrittorio, fino a concretizzarsi nella “sonorità del testo”, per es., o nella stessa “materialità” del libro, nelle comparazioni che possono farsene – e così via (indicativamente si rinvia a: Gloria Politi, a c. di, Testo interartistico e processi di comunicazione, 2014 – e in particolare ai saggi di Carlo Alberto Augieri, di Cosimo Caputo, di Eugenio Imbriani, di Susan Petrilli). Un parametro, questo, che la dice lunga sull’infinita ri-apertura a cui si destina ogni scrittura – che, di fatto, è sempre “prova di scrittura” – così legittimando l’approccio sempre aperto su un illimite di sguardi fenomenici che ci interrogano sul senso che succede a percezioni che già apparvero empiriche e che sfumano poi in sensazioni che si sgomitolano su un cordame di vibranti sonorità e di sfumati cromatismi che ci riempiono la vita (mi sia consentito di rinviare, per un approfondimento, ad un mio saggio: Ri-scritture - Tecnica ed espressione, in Gloria Politi, cit., pp. 277-291).

E la catena della inter-testualità qui mostra subito le potenziali ed ulteriori successioni che solo un acuto sguardo fenomenologico può contenere in un insieme coerente di osservazioni e nominazioni (da far teoria!), cogliendone le forme percettive e le correlazioni logiche, aprendo ad una complessità incontenibile che è giusto la dimensione di un universo mondo che si manifesta a chi non ponga limiti a domande che vengono formulate e comunque poste in un’agorà che ci tocca ripristinare e riavviare quanto prima. Si son resi così evidenti – sic stantibus rebus – gli effetti correttivi e censori prodotti per ogni testo che si presti al controllo dei tanti altri titivillus che, con sguardo critico, agiscono sulla scrittura inducendo gli autori a “ri-vedere” sempre plus ultra (ben oltre quell’astratto confine convenzionale della data di pubblicazione dei testi).

Sulla medesima scena occorre poi aggiungere (e soprattutto vederli!) i tanti altri “correttori” – come i lettori formali, per es., sempre più richiesti dagli editori, o le recensioni di riviste specializzate fino ai commenti su giornalini di parrocchia, in una miriade di tant’altre occasioni imprevedibili e mai del tutto controllabili che rendono complicata e complessa l’avventura dei testi in un’epoca che non risulta ancora classificata sulla base di un tale caleidoscopio che registra l’infinita fruizione di scritture che la lettura moltiplica oltre ogni possibilità di prevederne i confini.

Ben venga allora il dono di questi titivillus che anticipano forse il protagonismo di cittadini che con la loro partecipazione concorrerebbero non a destabilizzare la scrittura, agendo piuttosto per darle la forza di un riconoscimento così aperto da identificarlo come gesto democratico.

Un modo come un altro per riappropriarsi dell’uso della parola – così organizzandone manciate in pensieri che hanno suoni interiori e profondi a cui offrire il supporto di una loro liberazione metafisica (come suggeriscono le diciotto lezioni di Theodor W. Adorno in Metafisica, 2006).

2. Note da sviluppare

* L’argomento è stato discusso con Carmine Luigi Ferraro (dottorato di ricerca in filosofia conseguito all’Università di Salamanca) – appassionato studioso della cultura spagnola quanto del pensiero filosofico del ventesimo secolo – ed ancor più prezioso amico e collega, interlocutore attento e costruttivo di iniziative editoriali ed istituzionali che ci accomunano non poco. “Sul da farsi” – che è il senso di questo suggerimento per come strutturare la riflessione sul dono/donare – il suo contributo mi è risultato assolutamente utile per scandire le tematiche nello sforzo concettuale di rappresentarle in modo coerente.

Non dimenticare che dentro ai problemi sociali ci sono sempre persone che li vivono sulla loro pelle (Piero Amerio).

Tentare approcci che consentano di orientare criticamente l’analisi del dono/donare, dando rilievo alla metodologia delle domande, così da aprirsi continuamente a nuovi percorsi di ricerca – piuttosto che rimanere intrappolati in canoni che galleggiano in discipline già tutte definite da cui possono ricavarsene giusto delle (non)-risposte pre-confezionate. Per questa ragione è bene raccomandare che vengano assunte sane pratiche di “rottura epistemologica” e di “discontinuità” (a tal proposito può tornare utile il riferimento al vol. curato da Andrew Pickering, La scienza come pratica e cultura, 2002 – soprattutto per le accorte riflessioni con cui vengono accorciate le distanze tra le conoscenze tecnico-scientifiche e le nuove prospettive delle scienze umane).

Concetto di dono (tra ontologia e semantica)

Esaminare il concetto di dono, distinguendo tra una sua ontologia che intenda assumerlo come oggetto/cosa e l’atto del donare inteso come manifestazione di “relazioni di reciprocità” affidate allo sbroglio fenomenologico – così dando visibilità alla complessità intrinseca del donare e alla fatica che un tale impegno richiede alla condizione speculare in cui agiscono chi dona e chi riceve. Rilevanti, al fine di averne una prospettiva inedita, i codici linguistici che commentano gesti donativi e ne rappresentano i contesti in cui vengono praticati (utile a questo proposito può risultare la strategia pluridisciplinare fondata su una visione comparata che cointeressa linguaggio e rappresentazione simbolica, cognitivismo e biologia, come propone: Michael Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, 2005)

Atto del donare (lettura fenomenologica)

Concentrarsi sull’atto del donare inteso come processo carico di significati (non del tutto manifesti) e intenzioni non sempre esplorabili. Analizzare l’instabilità e la precarietà dell’oggetto donato inteso come risultato dell’impegno e dell’intenzione del donatore; e dunque evidenziare la rilevanza non solo dell’oggetto del dono ma anche del contesto e delle dinamiche attivate dalle relazioni che includono sia chi dona che chi riceve – così da dar rilievo ad uno scambio donativo che finisce col dilatarsi oltre misura (per un utile supporto all’argomento, confermato dalla tenuta temporale delle tesi sostenute, si rinvia al volume curato da: Pietro Barrera, Partecipazione e nuovi poteri dei cittadini,1989).

Approcci antropologici ed etnografici

Passare in rassegna le prospettive antropologiche sul dono, rilevandone la inammissibile comparabilità con pratiche rilevate in più recenti contesti. Prospettive e pratiche abusivamente ritenute equivalenti, da richiedere una loro analisi correttiva per spiegare il vulnus che ha consentito di darsene spiegazioni teoriche. A dimostrazione che occorre ormai una revisione radicale dell’approccio agli studi sul dono e sul donare. E neanche con interventi etnografici si aprono effettivamente nuove piste – risultando un tale approccio un riepilogo dei metodi antropologici e sociologici realizzati in campi più ristretti, senza giungere ad un effettivo coinvolgimento degli attori cointeressati. Resta aperta la questione di come consentire loro azioni libere dai controlli tipici delle scienze sociali (un ormai scontato riferimento al classico Sul dono di Marcel Mauss potrebbe essere quasi più vantaggiosamente sostituito con il suo Manuel d’ethnographie, 1967 – in cui vengono offerte ragioni culturali che potrebbero sanare l’approccio mono-direzionato con cui son venuti comparandosi così distanti parametri culturali che solo un astratto teoreticismo può tollerare e giustificare. E ancor più può valere lo scandaglio agito da Susy Zanardo che, esplorando il modo in cui si dà il dono, ne giustifica le correlazioni e le affinità: Il legame del dono, 2007).

Conclusioni

Riassumere i principali approcci dell’analisi etnografica, sottolineando l’importanza di mantenere viva la curiosità e la creatività nel processo di ricerca e di sviluppare pratiche inclusive e rispettose nei confronti degli agenti dell’atto donativo. Aprire, insomma, nuovi spazi e offrire altre possibilità ad una scienza sociale affidata alla libera responsabilità di attori che possano così impegnare ed agire la propria energia istituente (un riferimento a George Lapassade è d’obbligo – lasciando libera la scelta dei suoi testi che convergono con appassionata coerenza sul tema della centralità della persona, a partire da: Il mito dell’identità, 2006; Decostruire l’identità, 2007; L’etnosociologia, 2009).

Suggerimenti

Sviluppare considerazioni sull’ormai improcrastinabile necessità di continuare ad esplorare il tema del dono e del donare, suggerendo possibili direzioni future per la ricerca e l’analisi di questo fenomeno da analizzare sullo sfondo dell’attuale contesto globale. Ci si chiede se sia ancora possibile scommettere sulle potenzialità degli individui considerati cittadini consapevoli – se poi vien rilevata l’implosione delle soggettività, prendendo atto della crisi della persona. Forse occorre partire da domande più radicali – salvare le potenzialità propriamente umane prima ancora di impegnare quel che resta delle loro identità disturbate con cui non si può certo aspirare a forme di conoscenze elaborate a partire da condizioni che son tutte da ritrovare (anche sui risvolti qui richiamati, sembra scontato il richiamo a Lapassade – individuando, per la tematica qui emersa, almeno questi quattro testi: L’arpenteur, 1971; Le bordel andalou, 1971; Les chevaux du diable, 1974; L’autobiographe, 1980).

* La sezione ipotizza un “indice ragionato” ricavato dal confronto con Carmine Ferraro col quale si è discusso sulle pieghe che potrebbe assumere l’analisi sul dono che, proprio cercandone sfumature diversificate, rinuncia a considerazioni accomodate dentro al dibattito in corso per dare piuttosto sguardi “fuori controllo” a tutto quanto può essere supposto della combinazione dono-donare sostenendola con serrata colloquialità. Ad integrarne siffatto quadro sono poi state le suggestioni che gli altri auditi hanno saputo proporre come base delle considerazioni riversate e sviluppate nelle altre quattro sezioni che completano la presente rendicontazione, rispettando e filtrando ogni singolo suggerimento. Che poi è giusto il carattere della scrittura etnografica che si affida alla capacità di ascolto partecipato di ogni singolo lettore.

3. Ricerca e disciplina

* L’argomento è stato discusso con Eugenio Imbriani (UniSalento) – lucido analista dei protocolli antropologici e raffinato ricercatore delle scienze umane – che, con la sua identità dialogante e per i serrati confronti con cui ha sempre inteso caratterizzare le nostre conversazioni, sistematicamente prolungandole nella lettura di testi scambiati e suggeriti, da darci testimonianza di suggestioni che son venute sempre riempiendosi di curiosità e quesiti – di desideri e sogni.

Chi vive senza follia non è poi così saggio come crede (Franςois de La Rochefoucauld).

Solo quando la ricerca scorre come energia “riflessiva e critica” di attori pienamente consapevoli della rete dialogica che li istituzionalizza come cittadini e persone – solo allora può risultare compiutamente umanizzata la socializzazione di quanti vi partecipano, prendendosene cura. Che, a ben vedere, è l’unico modo per conseguire quelle conoscenze destinali della loro più autentica mission. Se poi per la ricerca si fa valere il principio del cambiamento – (mundus est in varium) – se ne possono conseguire statuti essenziali per definire profili etici e deontici di ricercatori che devono attraversare, affrontare e governare i cambiamenti sociali e politici, cercando di non collassare individualmente e soprattutto di tutelare alcuni dispositivi acquisiti a tutela della loro funzione nell’ambito di diritti sanciti almeno nell’area della cultura occidentale.

Ebbene – giusto per fare un esempio pertinente con le questioni qui discusse – nessun ricercatore (che sia ricercatore) potrà mai legittimamente agire in contesti disciplinari ridotti ad alveo stantìo di nozioni che pure la scienza ha concorso a istituire e continua ad alimentare, grazie a uomini che hanno guadagnato risultati operando in ben riconosciute condizioni dialogiche e comunitarie che perciò vanno tutelate, in quanto tali, a garanzia di esiti “culturali-e-scientifici” tanto più autenticamente realizzati quanto più democraticamente conseguiti (più che opportuno qui il rinvio a: Paolo Martelli, La logica della scelta collettiva, 1983 – che svela quanto la rivoluzione epistemologica abbia prodotto ripercussioni sul modo di governare le politiche werfariste. Un autentico movimento culturale che negli anni ‘80/’90 propose una particolare distinzione, tra le altre, sia nel calcolo puramente economico che nelle sue conseguenze edonistiche. Una procedura che finì con l’introdurre criteri che, in qualche modo, allargarono le opzioni di scelte e di applicazioni sociali che risolvevano la questione della indecidibilità delle politiche distributive. Uno scontro titanico, in effetti, tra modelli teorici che miravano a risolvere una latente confliggenza ideologica tra teleologie contrapposte; e forse ancor più una graduale presa di coscienza che consentiva di reclamare un più deciso ricorso ad un pragmatismo da realizzare, ex-cathedra, in contesti sociali radicalmente ripristinati).

E se proprio fosse richiesto di argomentare quanto paventato a proposito di discipline del tutto sconnesse (sia dal punto di vista conoscitivo che etico) da quella scienza di cui dovrebbero invece essere espressione – gli esempi accademici ci pioverebbero addosso a cascata.

Come a dire che rimarrebbero alla vista impalcature di pseudo-culture confezionate non si sa bene in quali eremi e governate da chissà quali regole che s’affaticano a rivendicare statuti (sociali?) o a reclamare connotazioni (culturali?) o a vantare fondamenti (politici?) – fatue pretese a fronte di una totale assenza di criteri epistemici e logici o per la loro caotica applicazione – da non dare garanzia di alcuna fondatezza di conoscenza (sull’argomento, per la caustica laicità, si veda: Hans Magnus Enzensberger, Palaver. Azioni politiche, 1976). Peraltro, un più risoluto sguardo critico consentirebbe di guardare ben oltre le combinazioni prodotte da un mero effetto ping-pong tra le tante ipotesi interpretative dispiegate in una caotica letteratura di saggi specialistici che continuano a spacciare nient’altro che rappresentazioni di un mondo meccanicamente implementate da “critiche a critiche”– da svelare lo sfrangio di cognizioni intrappolate in un telo rappezzato da argomentazioni filate dall’unico accreditamento retorico e filologico consentito a chi starnazza in esercizi limitati nel puro confronto tra alfabetizzati che non hanno immaginazione per intravvedere le risorse che potrebbero offrire uomini liberati ed emancipati che non si sognerebbero mai di portare in discussione “bagagli di gonfie conoscenze” ma giusto quella disponibilità a “compiere esperienze con altri” – che è l’unico modo per istituire un mondo che non è mai conquista individuale ma risultato sociale a cui mira ciò che residua della nostra civiltà per sanare tanti errori e contraddizioni e non poche violente irresponsabilità (sull’argomento si rinvia tanto a: Georges Lapassade, Groupes, organisations et institutions, 1967 - quanto a: Paolo Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, 1994).

Ebbene – è proprio a tali specifici obiettivi che mirano taluni cultori del dono che hanno spostato al limite (Serge Latouche, 2012) le loro analisi, dando uno sguardo fuori dagli ormai asfittici confini accademici.

Tra gli altri – che vengono caratterizzando ben mirate riflessioni sugli effetti dei comportamenti donativi – si rileva la presenza di Antonio Malo – il quale conclude le sue considerazioni antropologiche sul modo con cui debba intendersi il passaggio da una identità moderna - fissa nella definizione teorica che inchioda il soggetto alla pura autosufficienza egoica – ad una identità in relazione - impegnata a realizzare l’uomo nuovo mediante il dono di sé (in particolare, si suggerisce di integrare la lettura delle opere di Malo, con: Mike Singleton, L’uomo che (non) verrà, 2012).

Come a dire che il suo progetto dell’uomo attuale (Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, 2016) deve passare per la crisi di quello che egli stesso è stato nel passato: occorrendo, per tale scopo, decostruire – col sostegno di Derrida (in particolare si veda: Della grammatologia, 1967) – quelle figure dis-umanizzate quanto più esposte a violenze e soprusi, prospettandone così tante differenze (come propone Foucault in: Le parole e le cose, 1967) da non trovare attendibili opposizioni alla sua proposta di realizzare una nuova quanto inedita identità in relazione. Alla quale Malo non fa mancare il supporto di una metafisica dell’uomo (Essere persona. Un’antropologia dell’identità, 2013) riconoscendone l’essenza nella determinazione che ognuno può liberamente adottare per decidere come disporre della propria natura e destinarsi al proprio fine proprio mediante il dono di sé.

Non è una trama facile da sciogliere – questa riflessione di Antonio Malo, ai cui nodi è bene far riferimento perché consentono di spostare lo sguardo ben oltre la barriera tardigrada degli studi sociali ricorrendo al paradigma del dono che consente di accogliere correttamente e coerentemente sviluppare le problematiche più che adeguate ai profili teorici che se ne intravvedono, così come proposte dalla rivista M@gm@: non semplicemente approfondendole, ovviamente, quanto piuttosto allargandone gli orizzonti con nuove domande anziché limitarsi a formulare risposte fondate sul déjà-vu. Ed è proprio in tale direzione che la terza via possibile elaborata e proposta da Malo traccia un percorso per comprendere l’identità intesa “in senso relazionale, per spiegarsi insomma come la relazionalità del sé sia fatta di relazioni e che, proprio perciò, cresce e si sviluppa con le buone relazioni, o beni relazionali. Per giungere a quest’identità, non è necessario distruggere la differenza trasformandola in diversità, riscoprendola piuttosto come un dono da integrare relazionalmente”.

E quasi sviluppando analoghe tematiche, anche Ornella Mancin (Presidente della “Fondazione Ars Medica” di Venezia) introduceva i lavori del “Convegno su Donazioni: vite per la vita” (23 marzo 2019) – constatando quanto risultasse inattuale “parlare del donare” in una società caratterizzata dal profitto e dall’accumulo di beni che continuano a produrre insane differenze sociali.

Ed ancor più sorprendono le sue argomentazioni a sostegno di una cultura che vien fondandosi su una idea di dono quale è stata elaborata da Marcel Mauss nell’ormai lontano 1924. Considera, infatti, la “struttura triangolare” che regge l’opera dell’antropologo francese (Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés arcaïques) – implementandone i tre momenti del dare, del ricevere e del ricambiare, che si danno a condizione di farvi corrispondere dei contraccambi, così da annullare quella particolare gratuità che si è portati a considerare come una super donazione che così mostra di non essere affatto un atto definitivo. Una chiusura tematica dovuta alla concezione socio-economica dell’epoca influenzata dalla forza accademica e politica di Durkheim (che peraltro fu suocero di Mauss, o zio – non si sa bene, se non facendola risultare notizia documentata da chi ne fa comunque cenno con maliziosa intenzione di attivare il sospetto che l’annotazione possa rimarcare un qualche discutibile potere accademico ed editoriale – e dunque in qualche modo anche politico – impalcato su un clan famigliare ancora troppo lontano da una cultura capace di dar sostegno ad una socialità di base reclamata forse senza convinzione, ma solo annotando qua e là limiti e difetti di una incultura implosa in un pervicace soggettivismo che può variegare nelle forme di una qualche egemonia accademica impalcata su un familismo amorale  (alla maniera in cui ne parla Edward C. Banfield in: Basi morali di una società arretrata, 1976) o sulle forme rilevate nelle strutturazioni corporative assunte da modelli teorici sul clientelismo (per il quale si rinvia alla documentata produzione editoriale di Marcello Clarich che compie un’attenta lettura critica delle procedure dello spoils system, analizzate in sede accademica oltre che nei procedimenti amministrativi filtrati da commentari e sentenze di alte Corti di giustizia) che continua a far danni nelle istituzioni che proprio democratiche non possono risultare.

Per tutte queste ragioni vien ritenuto urgente che almeno gli uomini di buona volontà possano donarsi l’occasione di realizzare una più autentica democrazia, avviandone la costruzione dal basso e dalle periferie – dove resiste la cultura di una donatività solidale – così che l’ontologia del dono possa riversarsi in una semantica che ne declini ogni altro senso nella pura logica dello scambio (sull’argomento, si rinvia a due importanti lavori di Mimmo Calbi: Il compromesso della penombra, 2009 – e Una lotta contro la solitudine, 2024). Come a dire che lo “scambio” (del dare, ricevere e ricambiare) non può che agire in contesti in cui “quelle azioni” riverberano gli effetti di una reciprocità che compensa gli attori che agiscono in ogni pratica donativa (così intesa), senza escludere che anche nelle cose e nelle idee sparpagliate nel teatro di una tale storia possa riverberare tutto ciò che può riuscire a ricavarne una corretta lettura fenomenologica supportandone l’azione ad essa conseguente – così offrendoci, di questa seconda immagine di mondo, nient’altro che uno spettro di quei suoni e cromatismi “che ci riempiono la vita” (come già ricordato nella precedente sezione) – garantendosi che ogni uomo possa totalmente ricomporsi per darsi contezza di sé medesimo in questo “secondo mondo” di cui, ove non ne avesse una pur minima percezione, non potrebbe mai conservarne un benché minimo barlume di memoria.

Ebbene, se si considerano le particolari connotazioni antropologiche del dono maussiano – che in qualche modo guadagna una sorprendente collocazione in territorio “anche” sociologico, come conferma lo stesso Mauss allorquando riconosce che il (suo) dono ha un implicito carattere istitutivo (e che dunque “è” e “produce” un atto costitutivo) – di fatto si fa chiaro che non di guadagno si è trattato ma di perdita. È del tutto evidente, insomma, che un tale sommovimento ha finito col rendere definitivamente alterato il senso del dono che ha revisionato lo sguardo disciplinare consentendo di avviare una serie di ricerche che aggiornassero i paradigmi per continuare a reggere l’impalcatura teorica del dono a cui si sono aggiunte teorie del regalo che tengono aperta la discussione – avendo in taluni casi proceduto per scavi in profondità (in cerca di nuovi contenuti) mentre per altri si è garantito un ampiamento degli orizzonti di senso (in cerca di dispositivi e metodologie adeguate).

Peraltro, se si considerano taluni particolari contributi presenti nel dibattito sul dono ripreso dopo cinquant’anni dalla comparsa degli studi di Mauss – e in particolare quelli di Jacques Godbout (L’ésprit du don, 1993) e di Jean-Luc Marinon (Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, 1997) – si può rilevare quanto il dono, non considerandolo come riduttivo elemento di scambio inter-personale, induce la ricerca a distinguere il puro gesto del donare (individuale) dal comportamento donativo (collettivo).

 Scandagliando con sguardo antropologico nelle pieghe della società contemporanea se ne possono rilevare comportamenti carichi di una particolare donatività da cui gli attori non si attendono gesti di reciprocità che corrispondono giusto agli scambi interpersonali di doni: si consideri, per es., il diverso modo con cui si strutturano il volontariato, l’economia del non-profit, il dono del tempo e soprattutto degli organi biologici – ambiti che sono accomunati da una logica totalmente diversa da quelle del puro profitto e dell’utilitarismo.

Esisterebbe, allora, un’accezione del “dono” che – in quanto realizzato con la gratuità della pura generosità – non richiede alcuna reciprocità. Come ha sostenuto Enzo Bianchi (Priore della Comunità monastica di Bose) che, in una riflessione offerta al pubblico del “Festival della Filosofia di Modena” (2012), ha riconosciuto che nel contesto socio-culturale del “donare” c'è il donatore che trasmette qualcosa ad un destinatario dal quale non si aspetta alcuna risposta. L’atto del donare gli appare così un movimento asimmetrico così tanto kantiano nella sua formulazione da risultare fondato su una sua assoluta spontaneità e soprattutto determinato da una personale libera scelta. In tale versione (confrontandola con: Roberto Esposito, Le persone e le cose, 2014) viene prefigurandosi un profilo di donatore che induce a dare uno sguardo al nuovo soggetto che esprime un atto che veicola non oggetti di scambio ma beni che si fanno immediatamente veicoli transattivi di relazioni infra-umane e inter-culturali (in quest’altro senso, si veda: Remo Bodei, La vita delle cose, 2009).

Una ragione sufficiente a giustificare un cambio di paradigma – formalizzato dall’entrata in campo di un’antropologia che non interroga più le cose (quando si riduceva a confezionare risposte coerenti con le domande del ricercatore – quando gli eventi finivano col perdere ogni legittima consistenza ontologica da far valere per una loro supposizione scientifica) passando finalmente la parola ai gestori di quel concreto mondo della vita in cui si mescolano ambizioni e preoccupazioni – consentendo il passaggio dall’homo œconomicus all’homo reciprocus che come individuo umano ha nelle inter-connessioni con i propri simili una sua specifica base storica (una seconda identità che non ha più niente di naturale, avendone acquisita una tipicamente culturale), che supera la condizione frustrante ed ancor più alienante dell’uomo superbamente autosufficiente, che con modi spiccioli dell’uomo autarchico fa sì che il donatore attivi una relazione “non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo” mettendo così in atto “un gesto eversivo” che genera un “debito buono che ognuno assume verso tutti gli altri con i quali costituisce la comunità” – come continuò ad argomentare Enzo Bianchi in quell’incontro modenese che fu tanto antropologico quanto filosofico, qua e là assumendo supporti sociologici ed economici, mescolandoli poi in politica e dunque sottraendo le variegate e differenti argomentazioni al controllo tanto delle discipline canoniche quanto dei loro … sacerdoti – nella particolare accezione di una sociologia impegnata a salvare l’umanità senza neanche implicarne la coscienza, così confermando un profilo ideologico che l’ha accompagnata nella crisi mondiale del xx secolo (James Clifford, Ai margini dell’antropologia, 2003).

Questa concezione del dono, intesa come modalità relazionale, è una spinta quanto mai necessaria in una società che continua a percepire l’altro come un nemico o un rivale, che vive una crisi economica persistente che evoca l’inadeguatezza e l’insufficienza delle economie di mercato e che vede un aumento delle aggressività che alimentano il dilagare di conflitti che non inquietano abbastanza chi ricopre responsabilità pubbliche (una interessante conseguenza in ambito educativo vien colta, non a caso, da due “non pedagogisti”: Sergio Anichini e Margherita Chiarugi, Pedagogia  relazionale: la comunicazione interpersonale e i suoi effetti nei rapporti educativi, 2003).

C’è dunque l’urgenza di assumere la gratuità morale tipica dei gesti solidali – i soli in grado, per Enzo Bianchi, di restituire segni di speranza e di pace a intere comunità e ai loro corrispettivi territori. Il dono diventa così fattore costitutivo del vivere comune.

E si giunge così a cercarsi soluzioni istituzionali escogitate ricorrendo alla combinazione delle diverse proposte teoretiche conseguite con i diversi approcci (antropologici e sociologici, filosofici ed economici, et all.) alle variegate tematizzazioni del dono. Come a dire, insomma, che quanto più i teorici del dono hanno combinato i diversi approcci e assommato i tanti risultati, tanto più si sono prefigurati scenari in cui risultano come due raffigurazioni di vasi: di qua – un vaso che tutela contenuti grazie alla stessa immobilità del contesto; di là, invece – un vaso aperto (come quello di Pandora) che vien svuotando contenuti inaspettati, così producendo mutazioni incontrollate.

Una metafora che rende mitologica ogni superba forma di potere, da lasciare che nell’altra metà del mondo sopravvivano generazioni che non saprebbero neanche immaginarsela una diversa realtà se solo si scrollassero di dosso la sepolcrale inintenzionalità in cui permangono consuetudini saldate in una moda antropologica che trasferisce modelli da una civiltà all’altra non riconoscendo la costitutiva incomparabilità delle decisioni – assunte ora per l’una ed ora per l’altra – che sembrano lasciar passare una dubbia accettabilità determinata da condizionamento culturale che porta a compimento un equilibrato (sic!) disegno politico di “salvaguardia-e-condanna” di gruppi umani comunque costretti a vivere in una nicchia in cui nessuna opzione potrebbe mai apparire come effetto di scelte umane, attribuendone l’origine a modelli culturali conseguiti da logiche che nessuno ha mai veramente sottoscritto.

Così che nei due vasi di cui sopra, si ritrovano narrazioni che riguardano persone che vengono facendo tesoro delle proprie esperienze, che hanno consapevolezza delle sensazioni che percepiscono e che producono esperienze che costituiscono piena consapevolezza delle loro esistenze. 

Nel primo vaso, allora, un rotolo di considerazioni relative ad un film del 1975: Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure – diretto da Akira Kurosawa –  del quale viene qui annotata una scena che equivale alla più etica interpretazione del dono. Ma andiamo con ordine: la narrazione filmica ruota intorno ai due personaggi – Dersu Uzala, un nomade appartenente al gruppo etnico Hezhen, che fa da guida ad un drappello comandato dall’esploratore russo Vladimir Arsen’ev.

Il comandante matura sul campo una particolare stima per la sua guida – per l’acuto senso di osservazione e per l’intelligenza con cui risolve problemi estremi imposti dall’inclemenza del territorio – che gli salva per ben due volte la vita da meritare un rapporto così confidenziale da lasciarlo sorpreso quando gli fa una strana richiesta di fiammiferi e biscotti. Che motivo aveva di chiedere qualcosa che era comunque nella sua totale disponibilità? E quando il capo della spedizione ascolta le ragioni della guida, nel modo in cui, in una lingua universale, gli viene detto che quei fiammiferi e quelle gallette vorrebbe lasciarli nel capanno dove avevano pernottato, perché potrebbero salvare la vita di un qualche viaggiatore che dovesse, attraversando la zona, trovarsi in difficoltà. L’ufficiale prende così consapevolezza della distanza tra due mentalità – due diversi modi di ragionare – che nel confronto modulato sullo sfondo siberiano gli consente di comprendere la necessità di un travaso delle due culture che non hanno poi motivo di restarsene nella distinzione. Soprattutto quando a riceverne meraviglia è la cultura che vanta l’orgoglio del potere – a fronte di una diversa modalità che fila una sensibilità non semplicemente dichiarandola (verba volant!) ma messa alla prova con atti che producono autentica solidarietà con effetti destinati a propri simili che potrebbe non incontrare mai.

Ecco, allora, un atto che – pur donativo (dò a te) – non prevede alcun contatto tra chi dona e chi riceve; solo un rinvio di emozioni combinate in assenza di reciprocità, giusto situandole nel particolare spazio-tempo agito da chi lascia nel capanno siberiano dei fiammiferi e delle gallette per qualcuno che potrebbe averne bisogno –  e fruendone l’effetto chi un giorno li trovasse per giovarsene, da salvargli la vita – perciò ringraziando chiunque possa avergliene fatto dono senza neanche avergliene fatto preghiera di soccorso. Come considerare la decisione di chi lasci “oggi” un tale dono per chi dovesse “domani” averne bisogno e che per caso si trovasse ad attraversare quello spazio-tempo che non è controllabile da chi comunque vi compie un gesto di solidarietà? Una neanche tanto aggrovigliata situazione in cui nel presente qualcuno mette a disposizione risorse che potrebbero servire ad un qualcun altro che forse nel futuro potrebbe averne bisogno; che può esser letta invece come una circostanza in cui qualcuno potrebbe trovarsi a fruire di un dono salvavita che gli giunge da un passato a cui non avrebbe mai potuto pensare di rivolgere una richiesta di aiuto – dando, in tal modo, un così diverso senso del dono a cui neanche Kant avrebbe mai potuto pensare nei termini della sua  precettistica laica che non lasciava alcuna possibilità per decisioni se non compiute nel concreto mondo della vita. Il suo Illuminismo s’era impegnato a dar forma di legge alle singolarità del cittadino, non indagando sufficientemente sulla identità dell’uomo – pur avendone individuato i tratti di una complessità che attraversava diverse forme del sapere, quasi anticipando talune questioni di cui prenderà consapevolezza il XXI secolo.     

In un tal vaso, troveremo dunque testimoniato – iuxta propria principia –  un duplice resoconto che per un verso dice di chi ritiene di “dover ancora far qualcosa” per far funzionare il mondo, mentre nell’altro si trova testimonianza di chi sente di “poter fare qualcosa” che torni utile all’umano evitandone ogni irresponsabile riduzione a pura astrazione di ragionamenti teoreticistici, riconoscendogli la capacità di divenirne artefice tanto più concreto quanto più risulteranno causa di meraviglia e sorpresa che dicano quanto il mondo possa ancora cambiare cambiando regole che lo lascino scorrere nelle stagioni dell’uomo.       

L’ufficiale, insomma, comprende le ragioni della sua guida, modificando gli schemi dei propri precetti etici e forse persuadendosi che un tale comportamento aiuterebbe a dar fondamento ad una società giusta; come a dire che la richiesta di Dersu lo sorprende così tanto (forse non ci aveva pensato!!) da persuaderlo ad includerla nella ratio della sua concezione del mondo – e che dunque esistono sempre ragioni che possono sostenere altri punti di vista; realizzando così una metamorfosi che non sgomitola una pura logica, semmai determinando azioni che possono diversamente far girare il mondo, salvando vite umane con gesti di solidarietà nel cui alone si mescolano “destinatari-e-mittenti”, riempiendo la vita di chi sa farsi dono donandosi nell’accezione più etica in cui è pensabile un mondo sociale del quale non occorrono testimonianze di cerimoniosi gesti di riconoscenza. Ed è forse proprio questa, la purezza di un dono a cui hanno continuato per secoli a pensare da cattedre e pulpiti uomini che di certo sarebbero ancor più rimasti meravigliati dal ragionamento di Dersu – ed anche questo è un modo di considerare il dono come l’indice più alto di una cultura autenticamente solidale che caratterizza la società giusta alla quale ha mirato la riflessione Etica di Arrigo Colombo (curatore della collana dell’editrice Dedalo di Bari, riguardante ”la società giusta e fraterna”). Meravigliandoci, cioè, di come un qualsiasi nostro interlocutore possa maturare un comportamento a cui può non aver pensato ma che riesce poi a strutturare non nel puro ragionamento deduttivo ma con l’esecuzione pratica di scelte comportamentali che tendono la mano del soccorso a qualunque fantasma attraversi il campo visivo dell’uomo – a dar forma al suo bisogno di riceverne vantaggio nei secoli dei secoli.  

Una procedura, insomma, che è tipica di soggetti a cui siano state fornite strutture cognitive che producono rappresentazioni di mondo affidate alla dura prova di una indubitabile deduzione; e che consente di prendere consapevolezza di come e quanto “cultura” e “sensibilità” possano consentire di scoprire modi alternativi di pensare – come siglato da Dersu, allorquando dà senso all’immotivabile ragione d’una richiesta di fiammiferi e gallette, semplicemente provocando la sorpresa del capitano Vladimir Arsen’ev; il quale comprende quanto un tal altro modo di pensare non solo sia possibile ma che soprattutto non residua in un mondo astratto e senza prova, dal momento che è proprio provocando meraviglia che se ne scopre il pragma – da doverne accettare una efficacia che non è logica ma etica, che non risolve sofismi ma garantisce sopravvivenze possibili a forme di vita anche quando si trovino in condizione di rischio estremo.

Come a dire, insomma, che allo sconcerto di un uomo preso nell’ingranaggio che tiene fissi i tempi che attraversa – sempre più uguali e ripetitivi – vengono contrapposte abitudini e assuefazioni che consentono solo d’inventarsi arzigògoli che gli rendano persuasive le rappresentazioni di mondo che sembrano dargli la sensazione che sia lui a gestirsele affidandosi alla dura prova di indubbie deduzioni. Sembrerebbe che a vincere possano ancora risultare i modelli filosofici, le astratte metafisiche – ma resta validato il suggerimento di Darsu come inteso da Vladimir Arsen’ev.

Nell’altro vaso troviamo invece una documentazione “lettrista” che nella narrazione presenta una tradizione culturale tutta napoletana – quella del caffè prepagato per quegli habitué che già entrando nei bar chiedono se ci sia per lui un prepagato.

A fare una tale richiestanon ci sono distinzioni di status, nel senso che a chiedere se per lui ci sia un prepagato è piuttosto segno di un bisogno di socialità che si compie giusto nella forma del rito sociale – “va preso insieme” – talmente radicato nella tradizione culturale napoletana da indurre gli stessi proprietari dei bar (quando stanno loro alla cassa, perché un cassiere non proprietario non potrebbe mai farlo) ad annunciare che un prepagato è disponibile per chi ne faccia richiesta – che non è proprio bisogno economico ma culturale e psicologico. Si può ancora assistere al comportamento donativo e anonimo di avventori che, soprattutto se sono soli, prepagare qualche caffè per chi ne facesse poi richiesta, magari a scelta del proprietario alla cassa … perché chi lascia un prepagato è come se non stesse solo a prendere il suo caffè.

Esempi, questi, di una istituente organizzazione antropologica agita da gruppi non astratti ma solo senza confini in cui ogni singolo attore concorre a dar perseveranza ad un’abitudine che s’è fatta costume, avvertendo e realizzando bisogni declinati con interlocutori già tutti presenti in ogni singola immaginazione così prepotentemente da reagire come fossero davvero lì presenti quando vengono offerti dei prepagati per il piacere di consumarli insieme – come rito comanda.

Un gesto culturale che ha altra forma nel comportamento di chi si trovi già a consumare un caffè e che avverte l’obbligazione di offrilo ad un amico o anche solo conoscente appena entrato nel bar. Qui la dinamica è tipica di un’altra procedura che ha sempre la forza del rituale antropologico – come dimostrano gli elementi osservabili di tali comportamenti che si recitano su scene di cui si è tutti spettatori e testimoni. Allorquando si è soli a consumare un caffè e nel bar entra un gruppo di avventori tra i quali c’è un amico col quale è vigente l’abitudine di scambiarci il rituale dell’offerta del caffè, può accadere che tutti diventino ospiti in quanto conoscenti dell’amico col quale normalmente viene gestito il rituale dell’ospitalità … ma può anche accadere che uno della comitiva dichiari il proprio desiderio di voler offrire “la consumazione” per tutti e che giusto per il gesto esplicitato da chi era già nel bar di voler offrire la propria ospitalità all’intero gruppo, dichiara il proprio compiacimento di volerlo suo ospite.

Un gesto che non potrà mai essere scordato perché espressione di un comportamento rituale dell’antropologia del luogo.

L’ospitalità compiuta diventa così un protocollo che istituisce la socialità, consentendo esperienze di reciproca conoscenza tra attori che utilizzano ogni opportuna circostanza per allargare l’orizzonte delle relazioni sociali – posto, magari, che ogni nuova amicizia è nient’altro che un rafforzamento di conoscenze leggere (“so che sei di qui”, “ti vedo qualche volta”, e formule di questo genere che servono a far da supporto ad una conoscenza che così viene meglio impiantata – da avviarla verso un tipo di amicizia che sarà poi confermata nei bar, prendendo insieme un caffè o offrendoselo con piacere quando capiti che l’uno entri in un bar e trovi l’altro che è come stesse lì ad aspettarlo).

Il meccanismo qui descritto non ha, ovviamente, alcun fondamento in una ipotetica reciprocità puramente economica, anche se può capitare casualmente che la gran parte del rituale venga assunto più dall’uno che dall’altro (senza che ne consegua una qualche differenza che, nella circostanza, non viene neanche rilevata).

Come a dire che un tale sbilanciamento non interrompe il rituale che richiede invece che ad offrire sia sempre chi si trovi già nel bar - toccando a lui il dovere (assunto come obbligo etico e sociale) dell’ospitalità. Anche se poi, più ravvicinate osservazioni (per es. quelle etnografiche) potrebbero consentire la rilevazione di altre sfumature comportamentali da svelare inediti singulti antropologici – quelli che solo nel donarsi (nel senso di una emotiva ed immediata reciprocità) merita davvero una diversa considerazione – da darci la sorpresa di scorgere finalmente l’inespresso (che è ben al di là di quanto possa essere rilevato dall’atto con cui si trasferisce un dono considerato come un banale regalo che sembra scorre “da … a …”).

È ben evidente, insomma, di quanto ogni indagine sul dono resti ancora aggrovigliata tra descrizioni di oggetti ed atti donativi, tra interpretazioni sociologiche ed antropologiche - quando non addirittura filosofiche o di puro buon senso, lasciando che ogni riflessione continui a dissipare energie sul crinale dell’ermeneutica piuttosto che liberarla dal vizio filologico; esercizio recintato in un sistema che si dà infinita giustificazione storicistica – così che ogni avvertito bisogno di cambiamento resti comunque inespresso, riducendo ogni descrizione sul dono a semplice interpretazione che, ancorché alterata da un abusato inquinamento di ogni possibile deduzione, resta immobilizzata nella presunzione di averne conoscenza definitiva.

Per cambiare, allora, occorre proprio che siano nuovi soggetti che parlino di sé – che ormai appare davvero l’unica condizione per legittimare la istituzionalizzazione di una conoscenza autenticata dalla partecipazione condivisa da attori così tanto liberati da risultare perciò stesso consegnati ad una responsabilità che ne certifica procedure e risultati.

4. Criteri di scrittura

* Dell’argomento ho approfonditamente discusso con Anna Stomeo (tòKalòn - Martano/Salento) – raffinata cultrice della letteratura semiologica che gestisce con accortezza critica in una prospettiva inter-culturale. Il suo profilo poliedrico di intellettuale impegnata a far pratica del mondo, senza rinunciare al bisogno di produrne rappresentazioni teoretiche, caratterizza il suo impegno riversato in una continua scrittura intesa come segno di autentica testimonianza etica.

La poetica diviene lingua limpida e chiara ogn’altro segno stagna in geroglifica nebbia (Anonimo del XXXIV sec.).

Non s’intende qui “trattare” la tematica del dono-donare in un qualche modo che potrebbe non conseguire risultati sensati e condivisibili. Quale “approccio” potrebbe infatti garantire considerazioni che non risultino sgomitolate da una qualche trama trattatistica che tenda a prefigurare comunque definizioni – nella forma di risposte, o di possibili risposte, a quesiti che istituzionalmente cercano sempre e solo conclusioni? Su una tale “base” non restava che avviare un’argomentazione che cercasse “quesiti e domande (ulteriori)” più che “risposte” collocate ai diversi piani da cui sia sempre possibile avviare una qualsivoglia riflessione sul tema del “dono-donare”.

Dai quali dislocamenti si pretende di poterne poi leggere ogni ipotizzabile infuturazione – e deciderle a piacimento – impegnandosi in previsioni di cui non è dato averne riscontri, dal concreto mondo della vita sociale, di un qualche tratto che possa dirsi lasciato da una moltitudine smarrita nella propria mescolata liquidità (Zygmunt Bauman, Futuro liquido. Società, uomo, politica e filosofia, 2014).

Nella letteratura filosofica ed antropologica – e poi sempre più sondando quella semiologica e linguistica (con taglio storico!) – le risposte elaborate di fatto obbligano ogni ulteriore ricerca a muoversi nel medesimo alveo, costringendo a sgomitolare “vecchie” matasse concettuali ed elaborarne versioni aggiornate e revisionate – una tessitura che sembra includere particolari sfuggiti o non considerati in precedenti “riflessioni” che s’erano prese il diritto di passare “il testimone” a interlocutori presenti in percorsi comunque già tracciati, da prendersi il diritto di governarne ogni sviluppo possibile.

In chiave filosofica, forse – che finirebbe col darsi con odore aspro e terrigno di cosa archeologica, un reperto, non certamente un’apertura, non consentendo nessun altro approccio che schiuda riflessioni liberandole da trappole disciplinari, così trasfigurando ogni considerazione, di dati empirici e deduttivi, con l’ambizione di archiviarli tutti in una ipotetica biblioteca universale e assoluta (sull’argomento valga il riferimento a: Christine Montalbetti, Le Voyage, le monde et la bibliothèque, 1997). E non v’è dubbio che proprio in tal modo le future generazioni – in progress – s’impaludebbero nell’autoinganno di arzigògoli a cui continuerebbero a mancare le prove d’una loro capacità istituente da cui soltanto principia la formalizzazione di ogni disciplina.

Le esperienze anti-accademiche, tuttavia, sono ancora ammesse ai confini di discipline che insistono nella tessitura di profili applicativi a cui sono negate le pulsioni d’una curiosità che potrebbe consentire approcci in grado di avviare e sostenere sorprendenti domande piuttosto che chiudersi in rassicuranti risposte protocollate. Domande non estemporanee, naturalmente – quanto piuttosto elaborate con la decostruzione di Derrida, per es. – oltre che avviate in percorsi intrapresi con inedite mappe cognitive, che potrebbero corrispondere alla ri-costruzione prevista dallo stesso Derrida a compimento di una igienizzazione culturale e politica di un mondo tutto da ri-pensare.

Si configura, in tal modo, un ragionamento sui temi del “dono” e del “donare” che evitano accortamente i sentieri già tracciati col lallismo di discipline coattive, per tentare approcci che consentano di nominare tutto ciò che potrebbe emergere nell’esplosione di tant’altri segni mescolati sulla scena sociale che possa descriversi con vocabolari che non consentono di dare immediate ed adeguate risposte al diverso modo di guardarla e di interrogarla. Né ci mancano parole nuove o concetti capaci di declinare inedite esperienze – perché, in questo caso, si tratta di assumere la consapevolezza critica che proprio di nuove esperienze si deve prendere atto e non già di riverberi semantici che si limitano a dare qualche diverso timbro d’una medesima tonalità di profili comunque scontati quanto più trattenuti nel pigro orizzonte di conoscenze che vantano più memorie che progetti.

Cognizioni – insomma – che non consentono di alzare lo sguardo oltre i confini di discipline che si sono sempre adeguate al protocollo del riconoscimento e della condivisione di una coscienza collettiva che abbia prodotto una cintura di sicurezza sociale – ignorando il principio elementare che basta sempre una eccezione per falsificare ogni arrogante pretesa di scientificità.

Tra l’altro, è il suo stesso lessema che, ove confermato in una connotazione di puro replicante si limiterebbe a produrre solo cecità cognitiva, riuscendo appena a far luce in un universo di esperienze parallele che sono sempre in attesa di farsi “protocollo scientifico” e “scienza tout court”, così impedendo che vengano alzate barricate disciplinaristiche e trincee professionali che possono solo costringere il mondo a roteare giusto per quel tempo consentito allo sguardo curioso dello scienziato lasciandolo inascoltato più che insoddisfatto – e dunque frustrato il suo bisogno di proporre nuove domande per ottenerne risposte sorprendenti. Con la consapevole persuasione, insomma, che le domande sono sempre nuove – incalzate dallo stesso scorrere della vita che sfida a nuovi sguardi (al furore vitale che sigilla un percorso tutt’ancora da esplorare – da Giordano Bruno a Frederich Nietzsche), mentre le risposte risulteranno sempre scontate –impegnate ad adattarsi a quanto risulti già supposto e rappresentato nei protocolli d’una tutela archeologizzata da chierici che fanno politica, come denunciato da una lucida Christine Montalbetti, Le Voyage, le monde et la bibliothèque, 1997).

Ed è giusto in una tale dinamica che lo scienziato si fa eterno ricercatore, mentre il professionista, il disciplinarista e l’accademico possono solo ridursi a meri applicatori di quanto son venuti servilmente tutelando. E mentre, infatti, lo scienziato può anche essere professionista, disciplinarista ed accademico: professionista che s’incuriosisce e s’interroga quando constatasse che la realtà su cui agisce non risponde in modo uniforme alla sua azione; disciplinarista che assume la potenzialità dei nessi epistemici per stimolare nuove ed inedite domande, ritenendo che i percorsi gnoseologici affrontati con le epistemologie di altre discipline non debbano dar solo conferma di conoscenze specialistiche, per consentire altresì di allargarne i confini; accademico che nella propria didattica evita il rischio di proporsi come congegno meramente trasmissivo, per niente interattivo da proporsi autenticamente innovativo – così che né il professionista, né il disciplinarista, né l’accademico potranno mai più guadagnare la deontologia che dà consistenza alla curiosità dello scienziato, al suo continuo interrogarsi sulla variabilità con cui la natura risponde alle sue domande reiterate, al suo modo di configurare in progress modelli e protocolli di ogni fantasioso approfondimento tematico come della cura con cui ne garantisce una corretta comunicazione (sull’argomento si rinvia a: Philippe Roqueplo, Le partage du savoir - Science, culture, vulgarisation, 1974 – del quale sono apprezzate le impalcature che reggono la funzione sociale della scienza proprio attraverso una comunicazione veicolata da un vulgarisateur che agisce propositivamente gli strumenti dell’enquête).

Una curvatura concettuale lucidamente colta ed espressa dal filosofo induttivista Francis Bacon che spianò la civiltà occidentale all’avvento d’una scienza operativa – quando ci ricorda che se il leggere fa l’uomo completo e il parlare lo rende pronto – solo lo scrivere lo rende veramente preciso. Una ragione perché l’impegno intellettuale venga sempre sottoscritto.

* Una considerazione – questa sui “criteri di scrittura” – che avrebbe meritato un diverso spazio, da immaginarcelo come autonomo saggio critico, per es. E questo giusto perché l’argomento risulta quasi del tutto inesplorato – soprattutto negli spazi tra disciplina ed inter-disciplinarità. Brevemente – allora: giusto per prendere atto che, in qualche modo, la interdisciplinarità dichiara la fine delle singole discipline, riconoscendone ormai la insufficiente carica gnoseologica, dal momento che nel laboratorio dell’interculturalità (che non corrisponde affatto alla interdisciplinarità !!) possono agire spezzoni così frammentati da non rendere facile la loro attribuzione a precisi spazi disciplinari. Tali spezzoni, infatti, l’interculturalità li vede attivati lungo una curvatura dei processi interdisciplinari che di fatto se ne serve per dar sostegno a ragionamenti che non hanno più una locazione specifica. Per es. – alcuni elementi della matematica possono supportare questioni biologiche; o della fisica per interpretare comportamenti geologici; o della chimica che chiarisce questioni biologiche che servono a problematiche di neurologia, e così via, procedendo in un percorso illimitato indicato da Lévinas che non ne dava una lettura empirica (si veda, a tal proposito: Emilio Baccarini, “Lévinas – Soggettività e Infinito”, 1985). Non si è detto niente di nuovo, qui, anche se la gran parte dei testi canonici continuano a tutelare una così forte autonomia disciplinaristica da non riconoscere il più fondato diritto del ricercatore che deve poter fare libero riferimento alle conoscenze così come combinate dalle proprie energie e dai propri diritti di libera esplorazione – posto che tali condizioni sono sancite da alcuni statuti e negati da altri, così che nella confusione che ne consegue lo scienziato resta frustrato e il cittadino resta alienato. Le stesse argomentazioni qui sostenute hanno fatto riferimento intenzionale ad una letteratura di vecchia data, giusto per dar prova che le argomentazioni a sostegno esistono da tempo e che se nella letteratura più aggiornata le medesime questioni sono affrontare con modelli teorici da cui si continua a non attendersi soluzioni – forse il problema potrebbe non essere epistemologico ma socio-politico. E in effetti, ci sono esperienze di ricerca internazionali che non risultano affidate a specialisti ma a scienziati che non solo ritengono che un altro mondo è possibile se rendiamo possibile un altro modo di elaborare processi culturali, ma che addirittura hanno espresso la consapevolezza che un altro mondo è a portata di mano se si attiveranno processi che uniscano il sapere alla politica che altro non vuol significare che il sapere dev’essere realizzato da un diverso modo di far politica – che sia politica autenticamente democratica che possa emancipare ogni diversa tipologia dell’umano, perché tutti possa concorrere alla istituzione di una società giusta.

5. Intenzione – non impegno

* L’argomento è stato discusso con Paolo Protopapa (tòKalòn – Martano/Salento) maestro di generazioni che ancora gli riconoscono l’efficacia di un magistero profondo e polifonico – col quale lucidamente ha inteso fornire lo sfondo di una cultura classica per consentire a chiunque di poter rintracciare il filo per tessere individuali rappresentazioni grazie alla partecipazione dialogica agitata dal suo magistero che ancora risulta eccentrico e creativo. Con un tale habitus l’ho ascoltato per coglierne lo spirito ed averne sollecito a saldare le condizioni del dialogo e autentica testimonianza del confronto, per averne documentazione di impegno e di intenzione.

La cosa più emozionante è quello che non ti aspetti (Humberto Maturana).

Si affronterà qui il tema del dono e del donare in modo che non se ne ripetano schemi pre-definiti e conclusioni pre-confezionate, evitando accortamente di cadere nella trappola delle risposte pre-confezionate e delle conclusioni pre-stabilite, preferendo invece la navigazione cieca determinata di volta in volta da nuove domande per esplorare nuovi percorsi di pensiero. Potrà pure tornare utile una tale apertura avventurosa – a dar stimolo di cambiamento, per rendicontare narrazioni che non intendano assuefarsi a regimi e protocolli propriamente accademici, ma neanche smettendo del tutto la consuetudine di ascoltare la voce di chi abbia comunque già detto qualcosa sull’argomento che vien trattandosi (in ciò muovendoci sulla pista tracciata dal mio filosofo elettivo Sergio Moravia in: L’enigma dell’esistenza, 1996).

In questo senso assumiamo come necessario e pratico non fissare alcuna traccia tematica, soprattutto quando si sia provata l’ebrezza di cambiamenti adattivi come dovettero certamente avvertire i navigatori allorquando “aggiustavano” le mappe proprio mentre venivano compiendo i viaggi di cui rendevano conto nei loro diari di bordo.

Per conseguire un tale risultato viene adottato un particolare approccio che consenta di mettere in primo piano l’importanza delle domande piuttosto che delle risposte. Invece di cercare di arrivare a conclusioni definitive, si propongono domande che aprano nuovi orizzonti di riflessione per inaugurare nuove indagini – cercando inedite suggestioni senza averne disorientamento per delle eventuali quanto augurabili sorprendenti risposte. La qual condizione comportare una necessaria de-costruzione delle concezioni convenzionali e un’esplorazione di territori concettuali non tanto inesplorati quanto piuttosto ancora impensati – considerato che il mondo reale è quello che pensiamo per potergli dar forma, così da ragionarci ed esplorarlo quanto più lo riempiamo di desideri e sogni – che sono gli elementi che non garantiscono prova empirica alla libido scientistica.

E poi – dovrebbe ormai essere fin troppo chiaro il nostro intento di voler qui evitare ogni limitazione ad unidirezionali prospettive disciplinari, cercando piuttosto di integrare approcci provenienti da diversi settori (una nuova visione deve osare non solo di fondarsi su diverse scienze ma soprattutto deve inaugurare un nuovo “atteggiamento” – confermando l’opzione per un dispositivo che di conferma di quanto “una scienza deve essere più scienze”). E così permettere di guardare al fenomeno del dono da angolazioni diverse e di coglierne sfumature e complessità che altrimenti potrebbero sfuggire – in quanto intrappolate in idee canonizzate nell’astrazione formale delle discipline accademiche. In definitiva, l’intenzione di queste note potrebbe consistere nel voler mantenere viva la curiosità e la creatività nel processo di ricerca, evitando di cadere nella trappola della staticità concettuale e dell’ortodossia disciplinare.

Si potrebbero così avviare considerazioni filosofiche sul dono ma giusto per dedurne un evidente non senso in quanto non è presumibile, per es., che si possa fare un dono filosofico – semmai constatandone solo il carattere che lo rende indonabile. Come a dire che con la riflessione filosofica sul dono non si fa altro che condividere una conoscenza che è nella disponibilità di chi voglia prenderne atto … ma il fatto che si diluiscano considerazioni sul dono non significa che nella comunicazione venga agito lo sforzo di far conoscere ad altri qualche concetto inedito e ancora inesplorato, non ancora considerato … qui si è più semplicemente inteso per dono un ente con una sua ontologia espressa da una parola che ne riferisca il profilo (concetto linguistico e semantico).

Il dono, pertanto – che dalla sua accezione indeterminata di “un dono” passa poi alla connotazione definita di questo dono – consente di considerare nell’atto del donare l’azione del verbo “donare” che agisce una energia che esprime un movimento, una instabilità: come a dire che per donare il donatore deve impegnare la propria volontà e intenzione così da configurare l’ente da donare come qualcosa in cui poter riconoscere tracce della intenzione e della volontà del donatore – così da rendere instabile, inerte e precario l’ente (regalo), anche per chi lo riceve.

È il donare dunque che fa trovare gli attori della donazione impreparati e li sorprende perché si trovano a dover fare delle puntuali distinzioni: l’uno a definire tipici connotati del regalo… a connotare; l’altro a percepirne suoi significati allusivi… a interpretare; come a dire che il donare è parte costitutiva di una comunicazione complessa perché si espleta sui due piani dei due attori implicati in una problematica che ci porta fuori dalla portata antropologica, obbligandoci ad interrogarci oltre la stessa fenomenologia dello scambio. Ed è per questa ragione, infatti, che M@gm@ ha invitato a riflettere sul donare piuttosto che sul dono, sottintendendo che l’approccio puramente antropologico può risultare talvolta riduttivo e contraddittorio, perché: a) fa riferimento a culture primitive semplicemente per trovare un metro di lettura dei comportamenti tipici delle società consumistiche e post-moderne (compatibilismo); b) tenta di produrre una comparazione improponibile tra culture incomparabili (omologazionismo).

Ma, oltre agli approcci antropologici ci sono forse soluzioni etnografiche che possano esser fatte valere? Anche l’approccio etnografico – che pure si era dichiarato ab imis rispettoso dei soggetti osservati nelle circostanze donative – di fatto ha finito col ridurre il profilo degli attori del campo confermandone una natura di (s)-oggetti piuttosto osservati e da descrivere… e dunque oggettivati – proprio nel senso che diventano oggetti di un’osservazione agita da osservatori che rivendicano di appartenere all’anagrafe scientifica. L’analisi può così mettere in luce una serie di punti interessanti riguardanti il concetto di dono e l’atto del donare anche se spesso si tende a concentrarsi sull’ontologia del dono (sul suo essere semplicemente oggetto/cosa – quell’oggetto, quella cosa) piuttosto che sull’atto del donare (sull’intenzione di attori che, pur declinando rapporti tra cose/oggetti, di fatto tessono una evidente complessità intrinseca di relazioni/reciprocità immateriali.

L’idea che il donare implichi un impegno da parte del donatore, quale si riflette nell’instabilità e nella precarietà dell’oggetto donato, è particolarmente intrigante. Questo mette in evidenza il fatto che il donare non è semplicemente un atto meccanico, ma piuttosto un’azione carica di significati e intenzioni manipolatorie.

Per non dire, poi, che dono-e-donare implicano approcci antropologici e etnografici ben saldi nelle migliori tradizioni di ricerca come nei comportamenti antropo-culturali. Troppo spesso, lasciando opacizzate queste prospettive, si riducono le persone a semplici oggetti di studio anziché riconoscerne la complessità e la ricchezza delle loro esperienze e pratiche culturali elaborate anche nelle procedure donative.

Lo sforzo da compiere consiste nello sviluppare approcci più inclusivi e rispettosi che tengano conto dell’azione e della prospettiva dei soggetti coinvolti, anziché ridurli a stereotipi o categorie predefinite in un orizzonte di bassa quanto astratta cultura. E questo richiede, ovviamente, un impegno costante nel riconoscere e valorizzare la diversità delle esperienze umane e delle corrispettive pratiche culturali.

Avviando ora a conclusione questa riflessione sul donare – anche per non ridurre le considerazioni svolte in insulso suggerimento a far passare come comparabili taluni modelli assunti dall’antropologia storica che li aveva già protocollati per la loro stretta correlazione con le comunità tribali senza alcuna pretesa di renderli compatibili con esperienze delle società avanzate considerandole forzosamente analoghe su un piano di puro divertissement teoreticistico.

Possono invece tornare più sensate le considerazioni conclusive che rimanendo sul terreno della vita pratica sottolinea la necessità di portare a compimento la mission che segnala inderogabile la partecipazione dialogica agita da cittadini messi nella condizione di esercitare con autonoma responsabilità i propri costumi sociali e praticare liberamente le proprie abitudini personali. In buona sostanza - un modo utopico perché uomini nuovi possano darsi la possibilità di produrre una conoscenza di sé regalandosi le condizioni per pervenirvi in autentica democrazia.

*Nella presente riflessione – che qui si chiude – il dono appare come ultima scelta autenticamente libera che resti all’uomo che sta per venire. Ed è per questa ragione che l’intento qui trascritto sottolinea la necessità di sottrarlo all’ipoteca tutta ideologica ed egemonica dei giochetti teoreticistici con cui vengono ancora divertendosi certi intellettuali di un regime che sta per passare di moda. I quali – a dire il vero – insistono a declinare ogni possibile interpretazione del dono come espressione di un più ampio contenitore in cui vengono controllate logiche economiche che fanno valere dispositivi escogitati da esperti in questioni non umane e dunque mortifere per l’uomo (quello che comunque  non verrà). E allora – quando finalmente si potrà dire che l’attualità è un altro giorno rispetto all’illimitato perpetuarsi dei tanti ieri in cui la vita resta ingabbiata – a soffocare e negarsi. Una mutazione, probabilmente – più che un semplice cambiamento. La quale, dunque, potrà evolvere grazie ai micro-cambiamenti adottati da singoli individui che abbiano compreso quanto la forza venga dal modo con cui le singolarità convergono in una progressiva molteplicità che dia forma ad una tanto più solida democrazia partecipata quanto più sostenuta dalla forza istituente di cittadini finalmente liberati. A condizione, dunque, di non omologare alcuno dei contenuti culturali essiccati nelle forme filologiche delle culture che volgono al tramonto – adottando finalmente dispositivi di rottura, di discontinuità – agendo considerazioni e pensieri tanto critici quanto anarchici, che sono giusto il modo di quelle energie che promuovono e sostengono i cambiamenti di cui necessita un autentico progetto di democrazia certificato dal basso e impegnato a risolvere bisogni di cui venga assunta la piena consapevolezza.

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