Professore associato di Discipline demoetnoantropologiche, Dipartimento di Scienze umane e sociali, Università del Salento. Area di competenza: Antropologia culturale; Storia delle tradizioni popolari; Antropologia dei processi culturali e comunicativi; Patrimoni culturali e sviluppo dei territori; Sociologia e ricerca sociale. È in servizio presso l’ateneo leccese dal 2000; in precedenza, dal 1989, è stato in servizio presso l’Università della Basilicata. I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e dei discorsi sulle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; è direttore della rivista “Palaver”; dirige la Sezione etnografica del Museo Civico di Giuggianello (Le).
Abstract
Il presente contributo si divide in due parti. Nella prima, si parte dal Saggio sul dono di Marcel Mauss, uscito giusto cent’anni fa, in cui l’autore studia le forme dello scambio nelle società antiche e d’interesse etnologico, comparandole con quelle che si sono imposte con il capitalismo. Il dono costituisce una modalità di trasferimento di beni “in perdita”, basato, comunque, su una regola di reciprocità che si articola nei momenti del dare, ricevere, restituire; lo stesso autore, tuttavia, invita a riflettere sugli spazi e le opportunità che anche nelle società moderne, avanzate, si aprono agli scambi di tipo non commerciale e a gesti di solidarietà spesso gratuiti. Nella seconda parte, propongo gli esiti di una ricerca etnografica che ho condotto in Puglia e riguarda un complesso cerimoniale finalizzata a una offerta di cibo alla comunità in occasione della festa di san Giuseppe.
Whisk ferns - Fukami, Gyokuseidō, and Kanga Ishikawa. Seisen Matsuranfu : shokoku bonsai shashin. Mikawa: Gyokuseidō zōhan, 1837.
Premessa
Il presente contributo si divide in due parti. Nella prima, si parte dal Saggio sul dono di Marcel Mauss, uscito giusto cent’anni fa, in cui l’autore studia le forme dello scambio nelle società antiche e d’interesse etnologico, comparandole con quelle che si sono imposte con il capitalismo. Il dono costituisce una modalità di trasferimento di beni “in perdita”, basato, comunque, su una regola di reciprocità che si articola nei momenti del dare, ricevere, restituire; lo stesso autore, tuttavia, invita a riflettere sugli spazi e le opportunità che anche nelle società moderne, avanzate, si aprono agli scambi di tipo non commerciale e a gesti di solidarietà spesso gratuiti. Nella seconda parte, propongo gli esiti di una ricerca etnografica che ho condotto in Puglia e riguarda un complesso cerimoniale finalizzata a una offerta di cibo alla comunità in occasione della festa di san Giuseppe.
Doni
In uno dei suoi ultimi scritti, certo l’ultimo di cui ebbe il tempo di vedere la pubblicazione, Pietro Sassu, il noto etnomusicologo e compositore, toccò il tema della cortesia e delle buone maniere: esse, spiegava, hanno una convenienza sociale, a prescindere dalla gentilezza e dal garbo come valori in sé[1]. Cedendo il passo a una signora si fa bella figura, e inoltre si stabilisce un turno di passaggio che consente di evitare fastidiosi ingorghi. Pratiche del genere hanno natura convenzionale e valgono a seconda dei contesti sociali, ovviamente, non rispondono a norme necessarie o generali, anche se un po’ dappertutto i vari gruppi individuano modelli preferenziali che regolano, in maniera più o meno rigida, le relazioni tra i loro membri e con figure estranee. In altri casi, come lasciare il posto a una persona anziana, il gesto è visto come un segno di premura per la supposta fragilità della persona e il rispetto dovuto all’età. Piccoli sacrifici, minuscole attenzioni nei confronti di un altro, sconosciuto, magari, possono ogni tanto segnare le nostre giornate: minuscoli doni, potremmo dire, che non pretendono certo di essere ricambiati (o forse capiterà di beneficiarne, una volta o l’altra).
Nella nostra società, chi si mostra indifferente a queste minime regole di convivenza normalmente viene bollato come maleducato o cafone. Pietro insorge a questo punto, perché nel mondo rurale, oggi in gran parte cambiato, dove non è scomparso, i pastori e i contadini seguivano codici piuttosto rigorosi nel gestire i tempi e i modi delle azioni nei momenti che segnavano la vita delle loro comunità. Per esempio, un accurato cerimoniale distingueva la distribuzione del cibo tra i pastori sardi in occasione del banchetto della tosatura: gli uomini cuociono alla brace agnelli e maialini, e, quando l’arrosto è quasi pronto, a parte, il fegato, che ha una cottura più veloce e sarà servito per primo con un bicchiere de vino; la carne cotta viene adagiata a piccoli pezzi (non si usano posate) su vassoi di sughero che assorbono una parte del grasso; c’è molta attenzione perché non si crei alcun disagio, e i vassoi sono portati ripetutamente tra i commensali. Le mansioni collettive richiedevano un aiuto reciproco e ciò valeva anche per i momenti di festa; entrava in gioco uno scambio di prestazioni non formalizzato, perché ciascuno conosceva il grado di impegno richiesto e profuso, e poteva essere sufficiente affidarsi alle buone maniere, senza calcoli o pretese. Ancora un esempio:
Superate le penurie del passato, la richiesta di prestito di derrate alimentari è molto rara, ma se si chiedono prodotti aridi (riso, grano, farina, zucchero) il recipiente sarà a raso mentre la restituzione sarà a colmo; non è il pagamento di interessi, è un atto cortese, come è cortese non restituire vuoto un cestino o un recipiente che conteneva doni alimentari (frutta, dolci o altro). Che questo criterio della restituzione (proprio con la formula del raso e del colmo) fosse sancito da antichi regolamenti di ampia diffusione è vero, ma nessuno lo sa, pur continuando a rispettarlo come gesto di buona creanza (Sassu P. 2006: 24).
Appare evidente che queste atti di mutuo aiuto producono debiti, piccoli quanto si voglia, ma sono proprio questi a generare la necessità della restituzione e quindi il mantenimento della relazione; consegnare un po’ di più (a colmo) di quello che si è avuto (a raso) significa impegnare le persone interessate a un rapporto di fiducia e di buona convivenza e sapere di poterci fare ancora affidamento in caso di necessità. La gentilezza e la cura degli ospiti nei banchetti della tosatura è certo un modo per ringraziare, ma mette anche in scena la tacita negoziazione di un accordo che non ha bisogno di essere esplicitato[2].
Gli atti di gentilezza e di cortesia possono non richiedere una contraccambio vicino o immediato, che non sia l’approvazione dei presenti e la gratitudine del beneficiato; in altri casi si traducono invece in sistemi di collaborazione che procura vantaggi a chi vi è parte. Nelle comunità descritte da Sassu accadeva. Ma anche oggi, nella nostra società, postmoderna, interconnessa, consumatrice di risorse, capitalista, immersa nei flussi finanziari globali, guidata dalle ubbie del mercato, esistono spazi di solidarietà e di protezione che si aprono, talvolta faticosamente resistono. Ci torneremo.
Giusto cent’anni fa, nelle annate 1923-1924 apparve sulla rivista «L’Année sociologique» il testo, ormai classico, di Marcel Mauss Essai sur le don, nel quale l’autore indagava, in chiave comparativa, le forme dello scambio di beni nelle società arcaiche, tra le quali comprendeva anche i gruppi di interesse etnologico. Egli riteneva che il dono costituisse la modalità fondamentale della cessione e diffusione di oggetti e prestazioni nel mondo preindustriale, in cui, invece il modello elettivo è il mercato.
La sua impostazione generale segue una modello evoluzionistico che applica, particolarmente, ai gruppi della Polinesia, della Melanesia, dell’America settentrionale, società, scrive, «che hanno oltrepassato la fase della ‘prestazione totale’ (da clan a clan, da famiglia a famiglia), ma che non sono ancora pervenute al contratto individuale puro, al mercato in cui circola il denaro, alla vendita propriamente detta e, soprattutto, alla nozione del prezzo calcolato in moneta di cui è determinato il peso e il titolo» (Mauss:2002: 87). In questi casi, il principio dello scambio-dono costituisce una regola arcaica del trasferimento di beni per cui a una cessione deve corrispondere una restituzione; il dispositivo si articola nei momenti del dare, ricevere, restituire, non come gesti di cortesia, ma come obbligo (personale e del proprio gruppo di appartenenza). Non si tratta, aggiunge, di norme sociali che riguardano solo le persone, ma l’insieme più complesso di tutti gli elementi coinvolti nello scambio, oggetti compresi; questi, infatti, non occupano una posizione passiva, ma sono carichi di spirito e interagiscono con gli uomini. Si prenda il caso dei famosi potlatch della costa nordatlantica americana, le grandi cerimonie in cui i capi tlingit, haida. kwakiutl sfidano i loro rivali in gare di offerta, ostentazione, distruzione delle proprie ricchezze: «Tutto è collegato, si confonde; le cose hanno una personalità e le personalità sono in qualche modo cose permanenti del clan. Titoli, talismani, oggetti di rame e spiriti dei capi sono omonimi e sinonimi, dotati della stessa natura e funzione. La circolazione dei beni segue quella degli uomini, delle donne e dei bambini, dei banchetti, dei riti, delle cerimonie e delle danze, persino quelle degli scherzi e degli insulti» (ivi: 86-87). Ciò avviene perché esiste un dovere del donare – agli dei, gli antenati, ai parenti, ai sodali, ai rivali –, così come è doveroso prendere, ricevere e poi ricambiare, restituire.
Presso i Maori, lo spirito che anima le cose ha un nome, hau; esso è inquieto e spinge chi abbia ricevuto un oggetto (taonga) in dono a ricambiare; lo spirito della cosa donata pretende di viaggiare in entrambe le direzioni, di andata e di ritorno. Nel circuito di scambio kula studiato, come è noto, da Malinowski, nel quale le persone coinvolte sono numerose, e vivono anche a distanze considerevoli le une dalle altre, la laboriosa e impegnativa consegna, in seguito a lunghi viaggi via mare, dei bracciali mwali, ricavati da conchiglie, e delle rosse collane sulava, di madreperla lavorata, segue itinerari circolari. Sono oggetti pregiati, benevoli, tesaurizzati, che è necessario recare a personaggi rispettabili i quali, a loro volta, sono impegnati a riceverli e a riprendere e continuare il percorso.
Componenti fondamentali in scambi del genere, nell’ostentazione della propria ricchezza, nel dono eccessivo sono, aggiunge Mauss, il prestigio e l’onore. Negli scambi competitivi il donatore tende ad offendere i suoi avversari, fino a umiliarli, con elargizioni esagerate alle quali sarà difficile rispondere; si rischia di perdere la faccia, in questi casi, se la restituzione non avviene o non è considerata adeguata.
Si tratta di comportamenti che, confrontati con le finalità utilitaristiche dell’economia di mercato, risultavano del tutto irrazionali agli occhi degli osservatori, coerenti con lo stato mentale infantile e prelogico, caratterizzato da una esperienza partecipativa, che non ha ancora acquisito l’abilità della distinzione che sarebbe propria della mentalità moderna[3].
Georges Bataille ha letto nella prodigalità il segno dell’atteggiamento glorioso: la regalità, la nobiltà devono essere dispendiose, per manifestare una superiorità rispetto al normale piano dei consumi e una sorta di indifferenza verso la spreco, che va, anzi, perseguito. Invece la borghesia, continua, è attenta all’utile, «disprezza i comportamenti gloriosi e li reputa inferiori a quelli utili. Ammette i comportamenti gloriosi solo a patto che siano utili. La borghesia, in verità, fa dell’uomo un animale servile e meccanico» (Bataille 2000: 46). L’opinione di Bataille, così radicale, si precisa quando il filosofo accosta al dispendio l’idea della rinuncia e del sacrificio, elementi che scompaiono nei mondi del consumo privato e nei sistemi chiusi di arricchimento: nel paese dei balocchi non c’è gloria, perché non c’è rinuncia. Il potlatch è un esemplare sistema di economia gloriosa, lo è la ridistribuzione dei beni, lo è la festa; egli enfatizza la rilevanza della grande festa collettiva rinascimentale, aborrita dalla Riforma e dall’ideologia puritana governata dallo spirito del capitalismo; la borghesia preferisce la festa privata ed esclusiva, impedisce alla collettività di godere del lusso e dello splendore della ricchezza esibita:
Questo lustro naturale delle ricchezze è diminuito per colpa elle feste private. La festa nascosta, data dietro le pareti, è un travestimento rispetto a cui il popolo è impotente. L’eccesso dei godimenti solitari attira sulle ricchezze la maledizione degli umili. Questa maledizione può essere nefasta al punto da ledere lo stesso splendore e distruggerlo […]. I poveri si dolsero per aver subito il fascino degli sperperi e dei giochi del circo. E non senza motivo, poiché in definitiva i ricchi si fanno beffe di loro. Stornano per un uso egoista gli splendori che possiedono (ivi: 53).
Le spese signorili istituiscono il rango. La classe borghese lo ha compreso, ma, anche nei momenti di grande espansività non ha rinunciato alla logica utilitarista, la gente se ne accorge, dello splendore non resta che l’abbaglio.
Mauss, però, aveva spiegato lucidamente che, attenzione, le cose non stanno proprio così; se si superano gli schematismi troppo rigidi, è facile riconoscere anche nelle società avanzate sistemi di scambio paragonabili a quelli che ha descritto. Non esiste, affermava, una morale mercantile, non tutto è classificabile in termini di vendita e acquisto; inoltre, ricevere un dono che non si può ricambiare, rende inferiori, per questo è umiliante ricevere un’elemosina o la carità. L’assoluta dipendenza, come l’eccessiva prodigalità producono relazioni distorte, quando non le interrompono o le negano Il punto di equilibrio tra il dare e l’avere, aggiungeva, è il lavoro, che consente di non dipendere dagli altri e di difendere i propri interessi; non si tratta di svalutare il principio di solidarietà, ma di renderlo operativo in una logica di gruppo, affinché i vantaggi, per esempio, delle rivendicazioni sociali siano collettivi. Del resto, le attività di compravendita non sono esenti da elementi mitici, simbolici, rituali. Si pensi al costume, che si direbbe laico, del regalo, così legato ai tempi calendariali, al passaggio a nuove classi di età, all’assunzione di titoli e ruoli, al cambiamento di stato, viviamo in una cerimonialità ricorrente e diffusa, diversa ma non del tutto dissimile dal regime illustrato da Mauss.
La solidarietà si istituisce sulla base della reciprocità, la quale, però, non si regola con la bilancia. Marshall Sahlins (2020) ha avuto il merito di aver allargato l’applicazione di questo concetto anche a momenti della vita non esattamente coincidenti con quelli studiati da Mauss; distingue, infatti, senza separarle, le forme di reciprocità generalizzata (per esempio nei rapporti amicali e parentali di collaborazione), bilanciata (per esempio, inviti e doni di nozze, acquisti), negativa (prendere senza dare, pretendere qualcosa in cambio di nulla, sfruttamento, tornaconto personale, fino al furto); in questo vasto campo vanno collocate le pratiche sociale nel loro svolgimento effettivo. La proposta di Sahlins consente di evitare sia l’impostazione evoluzionista sia uno schematismo che, per quanto attenuato, può lasciare spazio a esercizi di classificazione dei gruppi.
Quindi per Mauss non si dà una dicotomia dono/merce[4], non sono universi totalmente separati, perché se la modernità non è immersa in una totalizzante regolamentazione mercantile degli scambi e delle prestazioni; lo spirito del dono, scrive Jacques Godbout (1993), testardamente vivifica le relazioni sociali, attraversa le trame di incontri tra persone che tessono legami affettivi, di aiuto reciproco, anima la mutualità, il volontariato di sostegno e di sollievo dei bisogni; si oppone, quindi, allo spirito del capitalismo, alla razionalità del profitto, all’istituzione, lo stato, che ne è prodotto ed espressione. Il binomio stato-mercato, troverebbe, al suo interno la resistenza di un modello alternativo[5].
Se è vero che il profitto e il mercato sono costitutivi del capitalismo, si può aggiungere che non costituiscono un impedimento alla costruzione di reti solidali, anzi è la modernità stessa a fornire i saperi e gli strumenti che li rende possibili: penso al dono del sangue e di organi, atti che non richiedono alcuna forma di restituzione diretta o, al massimo ne prevedono una molto vaga e ampiamente dilazionata. Perché ciò avvenga sono necessari una organizzazione sanitaria efficiente, un apparato costoso dotato di strutture, una tecnologia molto sofisticata e l’opera professionisti altamente competenti, che hanno seguito un lungo iter formativo. Sono le condizioni che la modernità fornisce, in un sistema di mercato (medicinali e attrezzature sono pur sempre prodotti industriali) perché chi lo desideri possa dare una porzione di sé, del proprio corpo.
Offerta
Il mio campo elettivo di studio è la cultura popolare; è un campo molto ampio, come è evidente, nel quale si registrano costantemente più o meno veloci cambiamenti nei fenomeni, sebbene l’accezione comune tenda a sottolinearne gli aspetti maggiormente conservativi, con un uso troppo scontato di concetti e parole: tradizione, radici, tipicità, identità… Non mi fermerò ora su questo argomento, se non per ribadire invece, la mobilità e il carattere ibrido dei fatti culturali.
Il caso che propongo riguarda una specifica pratica diffusa in alcune località della Puglia meridionale (non esclusivamente, ma qui riferisco, seppur brevemente, quel che ho potuto raccogliere nel corso di una prolungata etnografia[6]). Come accennavo in Premessa, si tratta di una complessa cerimonia che prevede l’allestimento, in occasione della festa di san Giuseppe (19 marzo), da parte di famiglie devote, in una stanza della loro casa, di grandi tavole, le Tavole di san Giuseppe, coperte di fiori e di cibo destinato ad alcune persone chiamate a rappresentare la sacra famiglia e gli apostoli; il numero di questi personaggi può variare da tre – vale a dire Giuseppe la Madonna e Gesù bambino, il nucleo minimo – a tredici: ad essi possono essere aggiunti i genitori della Madonna e alcuni apostoli. Siccome anche le pietanze devono raggiungere il numero di tredici, si comprende come alcune di queste tavole possano assumere dimensioni notevoli; ma questo dipende sia dalle situazioni familiari che dalle consuetudini locali. In alcuni paesi della provincia di Taranto è ancora viva la cerimonia del “pranzo dei santi” in cui i personaggi, con san Giuseppe a capotavola, dopo aver recitato una preghiera, e seguendo le sue indicazioni, assaggiano le pietanze a loro riservate e poi se le portano via.
Frequentemente, alcune tavole vengono allestite a cura di associazioni di volontariato, di pro loco, delle stesse amministrazioni comunali. Anche ai visitatori delle tavole, la sera della vigilia, viene offerto un assaggio di cibo, talvolta cotto al momento, o una pagnotta di pane, un fritto.
Anche se non è quasi più esplicitato il contesto calendariale, non si può trascurare il fatto che la festa di san Giuseppe ricorre in piena Quaresima, tempo di penitenza per antonomasia, durante il quale, secondo la norma religiosa stabilita, non si dovrebbero consumare carne e altri alimenti di origine animale come uova, latte, formaggi; sono esclusi dalla proibizione il pesce, i molluschi e, naturalmente, tutti gli alimenti di natura vegetale. Ormai queste indicazioni vengono poco seguite e forse se ne ricordano solo le persone più anziane, tanto che anche sulle tavole del santo compaiono talvolta dei cibi che a rigore dovrebbero essere proibiti, specialmente dolciumi con panne e creme. Le tredici pietanze sono costituite da pasta, legumi (fave, ceci, fagioli), verdure, pesce, frutti di stagione, pane; in Puglia non possono mancare i famosi bulbi amarognoli chiamati a seconda dei luoghi lampascioni, pampasciuli, pampasciuni…, dolci fritti e rivoltati nel miele o ripieni di marmellate. I maccheroni sono conditi con mollica di pane fritta e miele, i vermicelli preferibilmente con le cozze. I legumi sono spolverati di pepe. Non dappertutto ma è ricorrente il grano cotto. Condimento indispensabile è l’olio d’oliva, e la bevanda altrettanto indispensabile è il vino.
Devo anche aggiungere che, indipendentemente dalle Tavole, il piatto per antonomasia del periodo è la pasta e ceci, laddove per pasta si intende la cosiddetta laina o làgana, denominata anche trìa.
Il significato prevalente è quello dell’offerta. San Giuseppe è il prototipo del pellegrino che è dovuto scappare in Egitto con moglie e figlio per sfuggire alla persecuzione di Erode; nelle Egadi, come ha raccontato Gianfranca Ranisio (1981), questo episodio è rappresentato da personaggi/attori che bussano alle case per chiedere qualcosa da mangiare. Mi è stato raccontato che negli anni difficili che seguirono la guerra, i più poveri infilavano un cucchiaio in tasca e se ne andavano a passare le ore della sera presso le Tavole dove avrebbero trovato da mangiare. Gli stessi santi, oggi scelti normalmente tra familiari e amici, erano individuati tra le persone povere. Se allarghiamo il piano simbolico, in un passato non molto lontano, poveri e pellegrini erano visti come una immagine dei propri cari defunti, anch’essi lontani da casa e bisognosi, desiderosi di suffragi. In base a questo principio, donare qualcosa a una persona povera o a un estraneo equivale a farlo per i propri defunti. Sappiamo di emigranti all’estero che, in occasione della festa di san Giuseppe preparavano del cibo in abbondanza, particolarmente una minestra di pasta e ceci e ne portavano ai vicini; è un caldo gesto di comunione, in cui i vivi, i morti, i conoscenti e gli estranei entrano in comunicazione e partecipano di una seppure strana coesistenza; a tessere i fili di questa ragnatela nelle famiglie offerenti sono normalmente le donne o, per meglio dire, la padrona di casa, sono le sue intenzioni a valere, gli uomini le assecondano, costituiscono un’indispensabile manovalanza.
Un altro significato forte è quello della devozione per il santo. Il sacrificio di tempo e di denaro può essere notevole, ma la benevolenza della figura sacra è un bene superiore. La Tavola può essere il risultato di una promessa votiva, un ringraziamento per una grazia ricevuta, oppure la risposta a una richiesta più o meno esplicita del santo stesso, manifestatosi in sogno o che ha mandato un qualche segno inequivocabile della sua presenza.
Nell’allestimento delle Tavole non manca talvolta un evidente esercizio di ostentazione del proprio benessere, che si manifesta nella esposizione di oggetti del corredo, tovaglie, ricami, di servizi di qualità e anche nella scelta di alimenti qualitativamente pregiati, in sostituzione di altri più poveri. Nella province di Taranto e di Brindisi esistono anche altre modalità di esposizione di cibo, all’esterno delle botteghe di fornai, per esempio (Montemesola, Monteiasi), o in lunghe file di tavole che si dispongono tutt’intorno alla piazza (Erchie).
Vengo rapidamente nel Salento meridionale, dove in ogni località che, tra l’altro, sono poco distanti una dall’altra , le Tavole sono molto numerose, oltre a quelle esibite a cura delle amministrazioni comunali; non sarebbe possibile per la comunità riuscire a consumare per tempo tutto il cibo preparato, solo una parte degli alimenti viene cotta, gli altri sono disposti crudi sulla tavola e distribuiti ai “santi” la mattina della festa, dopo la benedizione del sacerdote. La cerimonia del cosiddetto “pranzo dei santi” viene meno: non siederanno a tavola, ma riceveranno la parte che a loro spetta. Nell’abbondanza dell’offerta, si cerca di evitare lo spreco. In teoria si potrebbe ridurre il numero delle pietanze, come si fa con il numero di santi, in realtà no, perché l’offerta non deve mancare di nulla. Il numero dei tredici cibi lo ritroviamo nel pasto serale della vigilia di Natale, pratica, peraltro, non più attuale, perché sostituita dalle cene o dai cosiddetti cenoni. Gli anziani raccontano che per arrivare a tredici si contavano per esempio uno spicchio d’arancia, uno di mandarino, una noce, un fico secco, che se aveva la mandorla dentro valeva per due, un pezzo di pane, una frittella e così via; anche nelle case più povere si poteva raggiungere, in questo modo, il numero magico.
Queste manifestazioni sono entrate ormai nel circuito mediatico e nei processi di patrimonializzazione, per cui le ritroviamo nei pacchetti della promozione turistica preparati dagli uffici stampa delle istituzioni locali: nuovi significati si aggiungono a quelli che abbiamo individuato; il dato calendariale, che sul piano simbolico sarebbe molto rilevante viene soppiantato dal concetto di tipicità territoriale, non di rado viene evocata la dieta mediterranea. Tutto ciò non toglie nulla alle intenzioni degli offerenti, ai loro sentimenti più intimi, al loro sacrificio, al loro impegno, ma ne fornisce una narrazione almeno parzialmente distorta.
Mi fermo qui, ho voluto solo fornire un esempio, tra i tanti possibili, di un modo di declinare il dono nel mondo contemporaneo; la pietà popolare richiede spesso, se non normalmente, il dispendio di sé, sia sul piano economico (le aste per ottenere il diritto a trasportare in processione le statue dei santi), sia sul piano fisico (tra l’altro, i pellegrinaggi o il lentissimo andamento dei partecipanti ai cortei della settimana santa, la costruzione per settimane di altissime pire che bruceranno in una notte, il trasporto a spalla di macchine pesantissime tanto da lasciare segni permanenti sul corpo…). E che dire dello sperpero glorioso dei fuochi d’artificio? E dei giochi?
Forse lo spirito del dono esiste davvero, chissà; aiuta a costruire legami: con altre persone, con gli antenati, attraverso i meccanismi del credito e del debito, agisce nelle nostre vite, invita a non pareggiare i conti, creando sistemi di obblighi e cortesie, talvolta genera conflitti, e probabilmente non sarà possibile liberarsene.
Bibliografia
Appadurai Arjun (ed.), The Social Life of Thing: Commodities in Cultural Prospective, Cambridge, Cambridge University Press.
Aria Matteo, Dei Fabio (a cura di), Culture del dono, Roma, Meltemi, 2008.
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Graeber David, Debito. I primi 5000 anni, Milano, Il Saggiatore, 2012.
Godbout Jacques T., Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
Imbriani Eugenio, La sarta di Proust. Antropologia e confezioni, Bari, Edizioni di Pagina, 2008.
Id., Sull’ironia antropologica, Bari, Progedit, 2014.
Id., Cucina nella Grecìa Salentina, in Popoli senza frontiere. Cibi e riti delle minoranze storiche d’Italia, vol. I, Bra, Slow food Editore, 2016, pp. 183-211.
Mauss Marcel, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002.
Pigliaru Antonio, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Nuoro, Il Maestrale 2021.
Ranisio Gianfranca, Il paradiso folklorico. San Giuseppe nella tradizione popolare meridionale, Napoli, Colonnese, 1981.
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Salsano Alfredo, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
Sassu Pietro, Signorilità di pastori e cafoni. Antichi codici popolari di comportamento, in «Archivio di etnografia», n. 1, 2006, pp. 23-25.
Sassu Simone, Le Rasgioni in Gallura. La risoluzione dei conflitti nella cultura degli stazzi, Roma, Armando, 2009.
Note
[1] L’articolo, con il titolo Signorilità di pastori e cafoni, apparve nel numero di maggio 2004 della rivista on line «Golem l’Indispensabile», diretta da Umberto Eco; successivamente, fu pubblicato nel numero speciale della rivista «Archivio di etnografia» dedicato a Pietro Sassu (1, 2006). Pietro scomparve il primo luglio 2001.
[2] Non stiamo parlando di un mondo ideale, ma di una realtà in cui i conflitti esistevano, e potevano essere molto violenti, per cui divenivano estremamente importanti i dispositivi consuetudinari di composizione delle controversie (Sassu S. 2009, Pigliaru 2021). David Graeber ha affermato che in molti casi la reciprocità alla pari determina la cessazione o un raffreddamento del rapporto o non lo crea, mentre l’altalena dei debiti (ti offro un caffè) genera socialità (Graeber 2012).
[3] L’opera La mentalité primitive di Lucien Lévy-Bruhl uscì nel 1922. Era molto diffusa tra gli studiosi l’opinione secondo cui i “primitivi” o “selvaggi” o “semicivilizzati” rappresentassero l’infanzia dell’umanità, cioè una condizione umana più elementare rispetto alle popolazioni evolute.
[4] Appadurai e Kopytoff ci hanno insegnato che un oggetto non è automaticamente né permanentemente merce (cfr. Appadurai 2003; Imbriani 2014).
[5] Godbout è un importante esponente del Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali (non casualmente l’acronimo è M.A.U.S.S.) che a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, in Francia, ha riscoperto e riletto il Saggio sul dono nella prospettiva critica sopra sinteticamente riferita e che diede vita a «La revue du MAUSS», intorno a cui si sono raccolti alcuni tra i più influenti intellettuali, sociologi, filosofi, economisti (cfr. Salsano 1993; Caillé 2007; Aria, Dei 2008).
[6] Ho dato conto di queste esplorazioni in più occasioni, ne cito due: Imbriani 2008, 2016.
[7] È davvero notevole il numero di Tavole devozionali, che può ammontare a varie decine, allestite a Giurdignano, Minervino, Specchia Gallone, Uggiano la Chiesa, Giuggianello, Cerfignano, altre località della cintura di Otranto, in provincia di Lecce.