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Thrinakìa sesta edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.22 N.1 2024

Le combinazioni della vita

Pierpaolo Fiore

magma@analisiqualitativa.com

Cosenza (Italia). Uno stralcio della prima opera classificata nella sezione Diari di viaggio della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.

 

 

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Sonia Pazzini, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.

Il riverbero dei raggi solari sull’asfalto dava fastidio agli occhi. Il manto stradale dell’autostrada Messina-Catania sembrava cosparso da un numero infinito di pozzanghere tremolanti che si allontanavano o scomparivano all’avvicinarsi dell’auto. Erano da poco passate le quindici e l’Alfa 156 rossa avanzava pigra come lo era in quel momento il suo guidatore. Si andava a Taormina, località che molto tempo prima ci aveva conquistato il cuore per la sua grande bellezza e per l’atmosfera di vitalità che vi si respirava. Rappresentando il punto centrale, o quasi, della vacanza, era stato scelto come luogo di pernottamento. Da lì, infatti, dovevano iniziare e terminare le diverse escursioni programmate. Sbarcati dal traghetto, la mattinata del primo giorno l’avevamo trascorsa nel piccolo borgo di Roccalumera, ospiti della cara Rosalia che, essendovi originaria, vi trascorreva i periodi dell’anno in cui le scuole erano chiuse.

Dopo una fugace visita alla Torre Saracena, alla Chiesa Matrice della Madonna del Rosario ed al Parco Letterario dedicato alla figura e alle opere di Salvatore Quasimodo, che in quel luogo trascorse l’infanzia, ci catapultammo in spiaggia. Era il primo giorno di mare e il cospargerci di crema protettiva non servì a non scottarsi la pelle sotto quell’intenso sole siciliano. A mezzogiorno in punto, Palma, la madre di Rosalia, richiamò la nostra attenzione dalla veranda di una tipica casetta di pescatori che si affacciava direttamente sulla spiaggia. Con i costumi e i capelli ancora bagnati, mangiammo, ammirando l’incantevole panorama, delle enormi porzioni di pasta ‘ncasciata, degli involtini di pesce spada e, per finire in dolcezza, dei balò di ricotta. Il cibo, troppo per una giornata calda come quella, fece sentire subito il suo effetto. Tutti e tre ci assopimmo cullati dal lieve oscillare di un dondolo.

Ci eravamo conosciuti sette anni prima in un Istituto Tecnico di Bologna, confusi e spauriti per quel primo incarico precario di docenza. Da allora le nostre vite si erano intrecciate indissolubilmente. Fu il ritrovarsi a vivere una comune condizione di disagi e sacrifici che, sicuramente, fece sorgere in noi un forte senso di reciproca solidarietà e di grande sintonia. A scuola, avendo orari diversi, ci vedevamo pochissimo. Qualche fugace incontro nei corridori o in sala professori o durante i consigli di classe o di istituto. I pomeriggi e le serate li passavamo quasi sempre insieme. Fu a fine novembre, con l’anno scolastico iniziato nemmeno da tre mesi, che Camilla, durante una delle tante passeggiate da Via dell’Indipendenza a Piazza Maggiore, buttò giù la proposta di lasciare i rispettivi posti letto e cercare un alloggio dove avremmo potuto vivere insieme.

Io e Rosalia restammo a bocca aperta. Camilla era milanese e come tale aveva una mentalità aperta, sicuramente, molto di più di chi come noi proveniva da due piccoli paesi del profondo Sud. A frenare me era il forte imbarazzo di dover condividere l’appartamento con delle ragazze, il problema di Rosalia era, invece, la reazione che avrebbe avuto la mamma una volta comunicatole la notizia. La sua decisione fu di non dirglielo. Una settimana dopo la proposta, armi e bagagli al seguito, ci trasferimmo al primo piano di una delle palazzine situate tra via Santo Stefano e Via Castiglione, a due passi dalle Due Torri. I locali non erano il massimo, necessitavano di una ristrutturazione, ma, visto la collocazione e la non carissima pigione richiestaci, potevano passare.

In serata arrivammo in una Taormina che ferveva di preparativi, si stava allestendo la festa in onore di San Pancrazio, patrono cittadino. C’erano operai ovunque: montavano luminarie, festoni, transenne, palchi. L’albergo, dentro e fuori, era rimasto uguale a com’era cinque anni prima. Avevamo chiesto, venendo accontenti, la stessa stanza di allora. Una di quelle che si affacciava sul Corso. Sistemati i bagagli, una doccia servì a toglierci di dosso salsedine e sudore. Al rinfrescarsi dell’aria, scendemmo a farci una passeggiata per le caratteristiche viuzze del centro storico.

Come sempre, le vetrine delle boutique erano sfavillanti e quelle dei negozi di cibarie invitanti. Facemmo una capatina al Duomo, la cui struttura ci aveva colpito alla prima visita. Presentando delle merlature sui muri perimetrali, più che una Chiesa dava l’idea di essere un bastione. I proponimenti di salire gli oltre trecento gradini che portano alla Chiesetta della Madonna della Rocca e quello di visitare il Teatro Greco furono rimandati ai giorni successivi. Tornati indietro ci fermammo al Belvedere che fronteggia la Chiesa di San Giuseppe. Da quella terrazza il panorama è mozzafiato. Il verde della macchia mediterranea degrada velocemente verso il blu del mare. Un incontro di colori che forma una cartolina punteggiata di case e barche che non si vorrebbe più smettere di guardare. Con quella veduta negli occhi, seduti al tavolino di un bar, consumammo una squisita granita di gelsi neri e una brioche col tuppo. Quella sarebbe stata la nostra cena, il pranzo di Palma ancora si faceva sentire.

Palma venne a sapere della nostra convivenza dopo più di un anno. Ne fu informata durante una delle, ormai, rituali telefonate del dopo cena. Ci rimase male ed esprimette, burrascosamente, la sua irritazione alla figlia. Per Rosalia era come essersi tolta un macigno di dosso. Non ce la faceva più a nasconderle quella bugia che, anche se bianca, le provocava un forte senso di colpa. Lei e la mamma vivevano in simbiosi, l’una per l’altra. Entrambe figlie uniche che durante le loro rispettive infanzie subirono la stessa crudele sorte che le segnò per sempre. Il mare gli aveva portato via i padri durante delle uscite di pesca. Essendo famiglie operaie, seguirono anni difficili da vivere, ma con rinunzie e, soprattutto, rimboccandosi le maniche li avevano superati. Dopo quella telefonata era venuta a vedere di persona quel sacrilegio che, secondo lei, la figlia aveva  perpetuato.

Comprese, immediatamente, che la coabitazione non aveva basi maliziose, eravamo tre anime in pena che si facevano forza a vicenda. Pianse quando venne a conoscenza delle storie che facevano parte del nostro passato e che, dolorosamente, ci trascinavamo dietro. Appena poteva tornava a trovarci portandosi dietro ogni ben di Dio che la sua terra offriva e che lei aveva forza di trasportare. Durante le sue permanenze più volte fece battute allusive ad una possibile unione tra me e Rosalia. Si rideva sorvolando sull’argomento, ma la realtà era ben diversa. Quelli che stavano diventando una coppia eravamo io e Camilla, mentre Rosalia non era ancora pronta a confessare alla mamma un altro suo, più intimo, segreto.

Il verso stridulo di una ghiandaia, appollaiata sulla ringhiera del balconcino, ci destò prima del suono della sveglia che avevamo programmato per le sette. I gestori di quel piccolo albergo sapevano come coccolare i clienti ancora assonnati con una colazione ricca e prelibata. Accompagnammo un cappuccino fatto con latte di capra con dei macallè ancora caldi e delle fette di torta Fedora. Eravamo pronti. Zaino in spalla, recuperammo l’auto dal parcheggio situato fuori dal centro storico. Ci aspettava una scarpinata di più di due ore che ci avrebbe portato nella parte meridionale dell’isola. Alle otto in punto, con una temperatura già elevata che preannunciava una giornata torrida, partimmo alla volta dei luoghi di Montalbano. Era da tanto che volevo visitare le località in cui venivano girate le scene del famoso Commissario creato dalla penna del grande Camilleri. Mi avevano sempre affascinato la figura e le vicende di Salvo, prima sulla carta e poi nella trasposizione televisiva. Quel velo di malinconia e di solitudine che avvolgevano le storie mi catturavano catapultandomi in quei paesaggi aridi e vitali allo stesso tempo. La dimensione intima del personaggio ed i suoi stati d’animo intrisi di inquietudine, ansia, incertezze, paure, tutte cose derivanti da un trauma, rispecchiavano in tutto e per tutto la mia esistenza.

Dopo più di vent’anni, la mia vita era, ancora, segnata da quell’atroce evento deciso e attuato da altri. Era, soprattutto, la notte che gli incubi tornavano a farmi visita. Mi svegliavo di soprassalto sudato e con il cuore in gola. Rivivevo quella giornata che doveva essere di festa ma che si era tramutata in un dramma. La Fiat Marea procedeva a velocità sostenuta sul quel tratto in discesa della statale che portava in Sila, il mangianastri riproduceva le canzoni dell’ultimo Festival, con mia mamma e mia sorella che ci cantavano dietro. Questo bel quadretto fu interrotto dall’affiancarsi di una grossa moto grigia e dai devastanti proiettili di una mitraglietta azionata dall’uomo vestito di nero che stava dietro al guidatore.

Lo schianto sul guardrail fu terribile, se mai mio padre e mia mamma fossero sopravvissuti agli spari non avrebbero avuto scampo, il corpo motore si incassò dentro la scocca spappolando le membra di guidatore e passeggero e incastrando in una morsa chi stava dietro. Mi risvegliai in ospedale con la vista annebbiata per i forti anestetici somministratimi, le gambe e il bacino ingessati e con di fianco la nonna materna che mi teneva la mano. Di quella che era stata una bella famiglia ero sopravvissuto solo io. Fu spazzata via da gente a cui mio padre non si era mai voluto piegare. Diceva che piuttosto che pagare si sarebbe fatto ammazzare. È così fu. La licenza del Sali e Tabacchi fu venduta ed il ricavato, dissero i nonni, sarebbe dovuto servire a pagarmi gli studi che mi avrebbero dovuto aprire la strada verso un lavoro lontano da quella terra che, sia a me sia a loro, tanto ci aveva tolto.

Ragusa Ibla, Punta Secca, Marina di Ragusa, Scicli e Modica furono le tappe di quella mattinata. La televisione non rendeva giustizia alla reale bellezza di quei luoghi. L’unica cosa positiva del piccolo schermo è che filtrava quella eccessiva calura. Alle quindici il termometro segnava quarantuno gradi. Anche stando fermi si grondava di sudore. Il ristorante consigliatoci da Rosalia era nei pressi della maestosa Chiesa di San Giovanni Evangelista. Dal locale vedevamo due ali di persone, imbellettate e sofferenti per l’afa, ai lati della lunga scalinata a più rampe il cui centro era coperto da un appariscente tappeto rosso, nella penombra dell’ingresso un omino in marsina e bouquet in mano era in attesa della sua futura sposa.

Ci dicemmo che era il momento della giornata meno adatto allo scopo. Il piatto del giorno erano le busiate con le sarde, che, visto l’orario e le energie consumate, venne, letteralmente, divorato. Per non appesantirci troppo, di secondo ordinammo dei più leggeri carciofi a sfincione. Il pasto e la funzione religiosa ebbero la stessa durata. Pagammo il conto proprio quando un grosso lancio di riso e confetti investivano gli sposi che stavano varcando il grande portone della Chiesa. Dopo l’acquisto, d’obbligo per chi visita Modica, di qualche tavoletta di cioccolato artigianale, ci mettemmo sulla strada del ritorno. Imboccata la  provinciale, Camilla si rilassò contro lo schienale assopendosi.

Il piglio del suo viso, anche quando dormiva, non era mai completamente sereno. Una specie di velo offuscava il bel ovale del suo volto che, specie in quel periodo, era punteggiato di attraenti efelidi.

Il dolore, che non sempre riusciva a dissimulare, proveniva dal suo vissuto adolescenziale. Il fulcro di tutto era stata la figura del papà. Un uomo amorevole negli anni dell’infanzia ma che si trasformò in un padre padrone, violento, geloso e che dilapidò, in donne, alcool e gioco d’azzardo, l’ingente patrimonio che i suoi ascendenti avevano costruito con fatica ed ingegno. Tante volte, senza validi motivi, le avevano prese lei e la mamma. Forse solo per imporre loro quell’autorità che, per la vita dissoluta che conduceva, ormai non gli veniva più riconosciuta. In diverse occasioni, al limite della sopportazione, avrebbe voluto denunciarlo ma, puntualmente, veniva fermata dalla mamma che non voleva creare scandalo.

Botte, violenze psicologiche, castighi, proibizioni, erano alla base della sua smaniosa volontà a voler andare via di casa una volta diventata maggiorenne. Quando lo divenne, nonostante quanto subito, rimase ad occuparsi di colui che le aveva rovinato gli anni più belli e spensierati della vita e che fu la causa di tanti futuri problemi della sua sfera emotiva. Gli rimase accanto per tutto il decorso della malattia che in poco meno di due anni se lo portò via. Non lo fece per l’amore paterno di cui ebbe solo un accenno, ma solo per non avere rimpianti futuri. Il rimorso avrebbe avuto, sicuramente, esiti ben più devastanti sulla sua stabilità psichica.

Era ancora pieno giorno quando lasciammo, momentaneamente, l’autostrada per  dirigerci verso la capitale del Barocco. Noto meritava di essere visitata, anche solo con una toccata e fuga come fu la nostra. Il tempo a disposizione ci permise di ammirare solo la scenografica Cattedrale di San Nicolò e parte del Centro storico, entrambi facenti parte del patrimonio culturale dell’Unesco. Prima di rimetterci in marcia acquistammo in una invitante rosticceria il vitto per quella sera: scacce con ricotta e melanzane, cartucciate con cipolla giarratana e dello sfincione. Dopo una rinfrescata rigenerante, banchettammo dal balconcino dell’albergo mentre sotto il via vai incessante di altri turisti solcava quelle stradine mai quiete. Prima di concederci una bella e meritata dormita, sentimmo Rosalia, il giorno appresso ci avrebbe raggiunti insieme al suo grande amore per festeggiare con noi il nostro quinto anniversario di matrimonio e continuare in quattro la vacanza siciliana.

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