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Thrinakìa sesta edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.22 N.1 2024

La mia Sicilia

Edith Dzieduszycka

magma@analisiqualitativa.com

Roma (Italia). Uno stralcio della prima opera classificata nella sezione Diari di viaggio della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.

 

 

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Riccardo Migani, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.

Contrariamente a tanti altri svolti in “duo” nella mia vita, questo viaggio in Sicilia, il primo in assoluto, dunque molto tardivo, è stato un viaggio corale. Ora lo posso confessare, lo temevo un po’ per le inevitabili differenze di abitudini e piccole manie, gusti, orari, ecc. con le difficoltà che avrebbero potuto scaturire da una convivenza prolungata.

È stato invece il viaggio più caldo che ricordi, sia dal punto di vista climatico (forse avete ancora in mente l’estate del 2003, particolarmente torrida), sia dal lato calore umano, intesa, simpatia, affetto.

È scaturito dalla mente vulcanica di Antonio Ducci, ex compagno insieme a sua moglie Annalisa di mio marito Michele all’Università Scienze Politiche di Firenze. L’avevo già incontrato alla fine degli anni 60, al Consiglio d’Europa a Strasburgo dove lavoravo e dove conobbi Michele. Direttore poi al Parlamento Europeo per lunghi anni, faceva regolarmente la spola Strasburgo-Bruxelles.

Organizzatore deciso ed efficiente, prese in mano le redini e la programmazione del viaggio, stabilendo date, orari, luoghi, macchina da affittare, ecc. Contattò amici siciliani di Roma e di Sicilia e stabilì tappe e percorsi, tenendo conto del clima e della nostra resistenza fisica.

Abbiamo preso il treno a Roma il 9 giugno direzione Lentini. Lunghe ore allietate dalla conversazione brillante e spiritosa di Antonio, dalle chiacchierate con Annalisa, reduce da un’operazione a un piede e preoccupata per le fatiche che ci aspettavano, a cominciare dalla discesa dal treno e da una salita sul ponte del ferry-boat, per ammirare lo stretto di Messina luccicante sotto il sole, e scoprire al bar i saporiti arancini di riso. Poi ultima tappa del viaggio e primo contatto con il paesaggio siciliano fino a Lentini, dove ci aspettava Giovanni d’Andrea.

Michele e io lo avevamo incontrato insieme a sua moglie Laura anni prima a una festa, in mezzo a tante altre persone. L’ho conosciuto meglio in seguito a Roma, qualche mese prima del viaggio, quando Antonio venne a pranzo con lui a casa nostra. In questa occasione mi era diventato subito molto simpatico.

Con una deviazione a Donnafugata, piccola reggia e al tempo stesso fattoria nel deserto, dove placide mucche e un enorme toro dagli occhi fuori dalle orbite ci guardavano dietro staccionate di massi, ho potuto sentire i primi profumi dell’Isola. Un‘atmosfera da “OK Koral” regnava in giro: un grande spiazzo davanti alla villa, e un ragazzino solitario seduto davanti ai resti della passata grandezza. Mancavano i cow boy con la pistola fumante!

Da lì Giovanni ci condusse alla scoperta di un’altra residenza meravigliosa e decrepita, proprietà di un suo amico purtroppo assente, affacciata su una doppia scalinata maestosa, dentro un parco enorme con filari di palme.

Ecco: con questi primi due assaggi, ho già potuto intuire l’anima della Sicilia, il suo passato di struggente bellezza, lasciato sfiorire, degradare, con un rassegnato fatalismo che, se da una parte era pane per i miei denti e occhi di “voyeuse fotografica” come mi aveva descritta Sandro Genovali nella sua presentazione ad una mia mostra, provocava in me anche moti di rabbia e tristezza.

Siamo poi arrivati alla casa di Giovanni e Laura a Camarina , ex colonia di Siracusa, nell’estremo sud est dell’isola, la parte forse più africana, m’avevano detto. E tuttavia malgrado la vicinanza all’Africa, la loro casa mi ha evocato quella di Hansel e Gretel : romantica, un po’ vecchiotta, accogliente e piena di charme, ovviamente senza nessuna insidia d’orco cattivo, anzi, solare e impertinente, piantata su uno scoglio, e con unico vicino, un bellissimo museo archeologico, pieno di reperti pescati nelle acque sottostanti, molti da Giovanni stesso. Un giardino affascinante, un po’ brullo e selvaggio, scendeva fino al mare, con cactus, agavi, fichi d’India, oleandri, buganvillea in cascata.

Giovanni e Laura d’Andrea, lui persona affabile, generosa, un pozzo di cultura, che ci fece da cicerone in gran parte del viaggio, con disponibilità e gentilezza, portandoci nei posti da non perdere, spiegandoci storia e arte dei luoghi con competenza e completezza da erudito. Laura, artista, (lavora per i musei), dinamica, piena di calore e simpatia. L’abbiamo purtroppo vista poco perché partiva il giorno dopo per Londra per organizzare una sua mostra.

La mattina seguente abbiamo visitato Noto, con l’imponente cattedrale purtroppo nascosta da teli e impalcature, i suoi balconi magici dalle figure antropomorfe, i palazzi grandiosi, piantati in fila lungo la strada principale, una famosa pasticceria dove abbiamo degustato un assortimento di gelati, cassate, dolcetti da leccarsi i baffi, offerti da Giovanni.

Ragusa Ibla, ancora più suggestiva vista al chiaro di luna nel silenzio e nella pace, la cattedrale S. Giorgio, con la scalinata e la bella facciata barocca, la sua grande piazza dove si riunisce la sera la gente per chiacchierare e mangiare gelati giganteschi.

Caltagirone, votata alla ceramica da una tradizione secolare, con la lunghissima scala di maiolica policroma (142 gradini), ogni alzata diversa dall’altra, illuminata da lucignoli avvolti in carte colorate in occasione delle feste. I suoi negozi traboccanti di oggettistica, non tutta di ottimo gusto… ma la guida sicura di Giovanni ci condusse in quello più raffinato dove Annalisa ed io, trascinate dall’entusiasmo, acquistammo fin troppi regalini.

Piazza Armerina e la Villa romana di Casale, con i suoi mosaici murali e pavimentali, che raccontano come se il tempo si fosse fermato, la vita di quasi 2000 anni fa: scene casalinghe, di caccia, erotiche, di agonismo – le famose sportive in bikini! -. Oltre ad essere un documento insostituibile, dimostra la bravura degli artigiani e artisti dell’epoca, il loro senso della bellezza e anche dell’ironia.

Pantalica, e il suo profondo abisso fra l’Anapo e il Calcinara, in un paesaggio selvaggio di una grandiosità unica. Laggiù, alla ricerca dell’acqua e di una vertigine alla rovescia, stile Friedrich, solo Michele e Giovanni riuscirono a scendere fino in fondo. Antonio, operato al cuore pochi mesi prima, e Annalisa, provata dal caldo e, anche se molto stoica, dal suo piede dolorante, rinunciarono; io feci metà della discesa, poi vinta dalla paura di dovermi fare riportare a spalle su sentieri buoni soltanto per le capre, risalii faticosamente, disfatta dalla stanchezza. Il barometro al sole segnava 40°, all’ombra poco meno….

Abbiamo poi lasciato la casa di Giovanni e Laura, dopo essere stati circondati dalle loro premure: cene a base di pesce freschissimo, prime colazioni prelibate in veranda, amene chiacchierate, visite ripetute nelle pasticcerie della zona lasciando Camarina, dove Giovanni ci regalò vassoi di specialità alle mandorle da riportare a casa. Soltanto al pensiero mi fanno venir l’acquolina in bocca ancora adesso…

E siamo partiti per la seconda parte del nostro viaggio. Direzione Sambuca, dove ci aspettavano Rori e Mammola Amodeo, anche loro amici storici e carissimi, scesi da Roma apposta per accoglierci. Tutti i due, come Antonio e Annalisa, compagni di Scienze Politiche di Michele a Firenze. Altra accoglienza festosa e affettuosa, e scoperta della famosa e mitica casa paterna di Rori, per lui tempio, riparo, “utero paterno” dove riprendere periodicamente forze ed energia.

E devo dire che “l’oggetto” corrisponde perfettamente allo scopo. Si tratta di una casa protetta da alti muri, ad incastri e successive aggiunte, dove ci vuole tempo per orientarsi, un po’ labirintica, con un tripudio di terrazze, di stanze disseminate ai vari piani, a destra e a sinistra, piena di ricordi, cimeli, quadri e foto, un vecchio pianoforte in salotto sul quale sua madre, francese come me ed insegnante di francese suonava e cantava per lui e i suoi fratelli vecchie canzoni del suo paese. In poche parole, una casa con anima incorporata.

Poi il giardino, “il giardino dei miei pensieri” al quale ho dedicato una poesia. Me ne innamorai, perché mi sembrò l’essenza di tutti i giardini: colori, profumi, canto dell’acqua che sgorga dalla fontana moresca, dove rilassarsi e lasciarsi andare facendo tutt’uno con quello che ti circonda. Lì Rori passa le sue giornate in pantaloncini a curare le sue piante, annaffiare, tagliare, raccattare, “sparassitare”, con un amore viscerale!

Mammola, aiutata dalla Signora Maria, cerbero un po’ burbero ma benefico, è la regina di una cucina immensa, concepita come le cucine di una volta, per famiglie numerose, tavolo smisurato, belle maioliche in giro, enormi ceste e coppe di ceramiche colme di frutta, una miriade di barattoli di conserve, banco di lavoro sempre a misura. Hanno cucinato per noi saporiti piatti tipici, come la minestra di zucche lunghissime da me mai viste, anche più lunghe delle baghette parigine, gratinata di melanzane croccanti e morbidissime e altre prelibatezze…

Mammola è una padrona di casa perfetta anche a Roma dove vivono. Riunisce spesso intorno al suo tavolo amici che apprezzano molto la sua ospitalità, le sue doti culinari e le sue battute spiritose. Mammola e Rori formano una coppia originale: lei toscana, attiva e versatile, colta, pungente, ironica, amica sincera, lui siciliano patriarcale, innamorato della storia, dei libri, della sua famiglia, del lavoro, con una venerazione particolare per il ricordo di suo padre, tutti e due grandi viaggiatori e pieni di interessi culturali.

Dopo un giorno ci raggiunse Giovanni che non era potuto venir subito con noi per ragioni di lavoro. E la cavalcata ripartì in senso opposto, di nuovo verso est, direzione Agrigento.

Agrigento… Sopra una collina dove sorgeva anticamente la città di Pindaro e dove fioriscono i mandorli perfino in pieno inverno, scopriamo un insieme di templi greci emergente dal “quasi” nulla, a parte la strana e un po’ raccapricciante visione della città moderna poco distante. Giganti a volte in piedi, a volte abbattuti, crollati sotto il peso dei secoli. Nella luce dorata del tramonto, una visione mozzafiato. Al ritorno, sosta al Caos per vedere la casa di Luigi Pirandello, e in lontananza, in riva al mare, il pino, purtroppo morto, sotto l’ombra del quale egli scriveva.

Tornati a Sambuca, il giorno dopo, partenza per Selinunte dove il mare all’orizzonte aggiunge ancora fascino allo spettacolo di quel gruppo di templi assai lontani tra di loro; edificati su un acrocoro, avamposto ideale; gli uomini, il tempo e i terremoti li hanno ridotti in rovine e saccheggiati per utilizzarne il materiale. Come ad Agrigento, lo spettacolo è grandioso e la solitudine gli conferisce più maestosità ancora. Non mi stancavo di guardare… e fotografare. Dopo la visita così esaltante, una corsa verso la spiaggia sottostante per rinfrescare il corpo accaldato. Per arrivarci si passa davanti a baretti insignificanti, con juke box, pubblicità per la coca-cola. Che contrasto penoso!

Deviazione per S. Trinità di Delia e la sua chiesa normanna con cupoletta araba, immersa nella folta vegetazione di un bellissimo giardino. Posto celebre anche per una specie di finto Parador dove si celebrano matrimoni.

Poi Mazara del Vallo, città che ricordo soprattutto per la sua bella piazza della Repubblica, circondata dal Duomo, il Seminario, il Palazzo vescovile, e poi una altra chiesetta normanna quadrata, S. Nicolò Regale; infine il porto famoso, celebre per le sue tonnare.

Ma il tempo stringeva e avevamo ancora tante cose da vedere. Così abbiamo salutato Rori e Mammola che ripartivano per Roma, Giovanni per Camarina, e con Antonio e Annalisa abbiamo puntato a nord. A Sambuca e nelle zone intorno mi hanno colpita molto la pulizia e l’ordine, che mi stupivano dopo aver attraversato città come Gela, e poi la sorprendente dolcezza del paesaggio, con alternanze tra il biondo del grano con il verde dei pascoli, degli aranceti e delle vigne; un paesaggio bucolico assai diverso di tante altre zone della Sicilia più brulle e aride.

A Castelvetrano, visitammo la casa-cortile dove era stato ritrovato il corpo del bandito Giuliano. Casa anonima in una strada anonima di un paesino abbastanza anonimo.

Come ho scritto all’inizio di questo diario era la prima volta che mi recavo in Sicilia e fu un’esperienza fortissima scoprirla con i suoi contrasti cosi violenti, la sua bellezza e il suo degrado, splendore e miseria, che mi hanno colpita anche quando sono arrivata a Roma anni fa. Hanno provocato in me gli stessi sentimenti contrastanti di attrazione e repulsione, ammirazione e sconforto, tenerezza e rabbia, ma soprattutto una sensazione di ineluttabilità e d’impotenza fatalista, accanto ad un barlume di speranza o forse d’illusione che qualcosa possa, debba cambiare.

E cosi mi sentivo quasi schizofrenica, felice davanti a tutto quel vecchiume che mi piace di solito fotografare, porte e finestre scassate, balconi fatiscenti, ma insieme colpevole per quella soddisfazione.

Nel fotografare quest’isola davvero speciale ho lasciato parlare il mio istinto e le mie sensazioni, senza pretendere di realizzare un reportage sapiente, completo e distaccato. Altri hanno reso mille volte e mille volte meglio di me tale genere di testimonianza, evidenziando in particolare il lato umano e sociologico della Sicilia. Io ho soltanto voluto riportare immagini care di ciò che più mi aveva colpito. La Sicilia è vasta e so che a questa carrellata mancano molti luoghi, monumenti, vestigia, ecc. ma potranno forse diventare oggetto di un altro viaggio!

Avevo fino a quel giorno soddisfatto il mio gusto vagamente perverso per il trascorrere del tempo, creatore dei segni e delle tracce che depone sulle cose, attraverso fotografie rubate in giro, dovunque mi trovo, muri e cantieri di Roma prima e in occasione del Giubileo, cimiteri di Parigi (Père Lachaise), Roma o Pisa, impalcature intorno al Teatro di Senigallia, materiali di varia natura, sparsi dove capita, foto prese in molte regioni d’Italia e all’estero. E penso che un abitante, per esempio della Cornovaglia, abituato a vedere intorno a sé casette linde e dipinte, fiori dappertutto, capitato in Sicilia all’improvviso, sarebbe piuttosto sconcertato!

Quando sono arrivata in Italia insieme a Michele, infatti m’interrogavo: quale strano paese è questo, dove le case sono “des palais”, i vagoni “des carrosses”, sontuose residenze “des villas” e uomini politici “des honorables”? Adesso non mi stupisco più! Abituata ormai a Roma da parecchi anni, e preda sempre di una tendenza a scegliere piuttosto il lato oscuro delle cose, mai però così forte come in quest’ultimo viaggio avevo sentito il contrasto violentissimo tra la solarità umana e geografica dell’isola e il suo contraltare cupo e direi arcano, una specie di fatalità, che pesa tanto sugli uomini quanto sulle cose, costringendoli a mostrare insieme il meglio e il peggio della loro natura. Il dubbio però mi rimane che il meglio sia ormai rifugiato nel passato…Molte cose della Sicilia poi, le ho capito di più leggendo i racconti di Stefano Malatesta e “La bolla di componenda” di Camilleri. Infatti anche se quest’ultima vicenda si svolge nell’ottocento, il filo conduttore non mi sembra tanto reciso.

Per quando riguarda quel passato evocato sopra, d’una ricchezza travolgente, mi ha molto colpito la giustapposizione, la coesistenza a volte armoniosa, a volte aspra, stratificata attraverso i secoli, delle varie civiltà e anime che hanno forgiato la Sicilia, regalandole la sua unicità proprio nella molteplicità delle radici: quella romana e quella greca, e poi araba, bizantina e normanna con una fioritura straordinaria, il barocco e il rococò prima spagnoleggiante e poi napoletano. Una colata continua di bellezza e grandiosità concentrata su un territorio grande più o meno un quarto dell’Islanda…

Scattando queste fotografie non immaginavo assolutamente che avrebbero potuto diventare oggetto di un libro, poi pubblicato dagli Editori Riuniti nel novembre 2004, con le prefazioni di Antonio Ducci e Giampiero Mughini, Premio Telamone nel 2005. La cosa è partita invece al ritorno, come una scommessa, un giuoco fra amici, una cosa poco seria, solo per ricordare le giornate simpatiche passate insieme e le scoperte fatte mano, una specie di giornale visivo. E poi la cosa ha preso radici e il frutto è nato.

Come si può vedere sulla prima pagina di La Sicilia negli occhi, l’ho dedicato all’amicizia. Perché è stata una costruzione alla quale tante persone hanno contribuito, portando ciascuna un mattone, ogni volta indispensabile a quello successivo. Erano tutte persone amiche di lunga data o diventate tali strada facendo. Aggiungerei che questo viaggio attraverso la Sicilia mi ha regalato, oltre la visione di un’isola fantastica di cui ho scoperto molto tardi le luci e le ombre, qualcosa altro, altrettanto prezioso: amicizie di lunga data rinforzate, amicizie nuove, e soprattutto la conferma della proverbiale ospitalità e generosità siciliane.

La sera in cui ho avuto in mano la prima copia del libro, c’era in programma in televisione lo sceneggiato sulla vita e la morte del giudice Borsellino. E mi è sembrato una coincidenza davvero strana che mi ha molto commossa. Così ho sfogliato le pagine in modo speciale, per vedere se ci avevo messo l’essenziale di quello che costituisce la specificità dell’isola: antico, greco, romano, arabo, barocco, bello di ieri e brutto di oggi; mare e terra, città e campagna, fiori e pietre, ma soprattutto in filigrane un grande interrogativo: perché?

Perché si mostra la Sicilia insieme così bella e così disperata? Saprà, quest’isola incomprensibile e magica, un giorno vicino o lontano, spezzare alcune sue catene invisibili e guardarsi negli occhi senza paura?

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