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Thrinakìa sesta edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.22 N.1 2024

Nonna Italia racconta

Massimiliano Zitelli Conti

magma@analisiqualitativa.com

Reggio Calabria (Italia). Uno stralcio della seconda opera ex aequo classificata nella sezione Racconti autobiografici della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.

 

 

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Rebecca Aurora Ferraccio, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.

Prologo

«Come è la generazione delle foglie, così è anche quella degli uomini. Le foglie, alcune il vento ne versa a terra, altre il bosco in rigoglio ne genera quando giunge la stagione della primavera: così una generazione di uomini nasce, un’altra s’estingue. (Omero, Iliade)

Quando la piccola Luna è venuta al mondo, abbiamo sentito la necessità di narrare, a noi stessi innanzitutto ma anche alla nuova venuta, una storia che, nello stesso tempo, raccontasse qualcosa sia della nostra famiglia che dei luoghi di quella parte della Sicilia centrale, dalla quale proviene il cognome che portiamo. Abbiamo anche fatto un’altra scelta: far narrare fatti e luoghi da Italia, nostra antenata, nonché bisnonna di Luna che ciascuno di noi ha potuto conoscere, direttamente o indirettamente. Italia, nata nell’anno millenovecento e partita da Piazza Armerina a soli quindici anni, lasciando il luogo nel quale era nata per raggiungere il resto della sua famiglia che si era trasferito a Roma, è scomparsa ormai da molti anni ma delle narrazioni raccolte dalla sua viva voce, trascritte e custodite nel tempo, abbiamo fatto tesoro da condividere tra di noi. Come pure dei suoi “diversi saperi”.

La gestione quotidiana della casa le interessava poco, ma era bravissima nel raccontare ricordi, storie e fiabe, ad inventare nuovi profumi, ordinando e reperendo essenze di piante e fiori per posta ed altrettanto brava a confezionare le ciliegie sotto spirito scegliendo i frutti uno ad uno e tagliando il picciolo a perfetta misura. Ma sapeva anche, come aveva imparato in Sicilia, fare la pasta di mandorle, pestando con tenacia e pazienza mandorle sgusciate e private delle pellicola protettiva. Di tutto questo, ma soprattutto dei suoi racconti, trasformati in testo scritto, abbiamo pensato di far dono alla piccola Luna. Il risultato è quello che leggerete, quale eredità immateriale alla nuova nata, che abbiamo consegnato alla sua mamma ed al suo papà, perché possano raccontare alla piccina, la ricchezza insita in un sentiero immaginario percorso insieme che vuole raccontare sia di affetti familiari tenacemente costruiti e difesi, sia di narrazioni mitologiche che hanno fatto di Thrinakìa una terra privilegiata, sia di quel profondo legame con una terra ricca di contrasti e tesori, la Sicilia, custode di Storia, leggende e miti, che portiamo nel nostro sangue.

«Il testo che segue è il frutto della affettuosa collaborazione di coloro che, fra i nipoti e pronipoti di nonna Italia, hanno potuto e voluto raccogliere la sua storia e le sue narrazioni collocate nel Territorio di Piazza Armerina.»

I racconti di Nonna Italia

«I nomi propri sono poesia allo stato grezzo, e come tutte le poesie, sono intraducibili.» (W. H. Auden)

Cara piccola Luna, Il mio nome è Italia e sono una delle tue bisnonne. Quando sono venuta al mondo a Piazza Armerina, una cittadina di antichissime origini che sorge su di una altura dei Monti Erei, correva l’anno millenovecento. L’Italia era già stata fatta in gran parte grazie alle lotte risorgimentali ed alla presa di Roma e gli Italiani si apprestavano a vivere i grandi cambiamenti, legati ai progressi della scienza e della tecnica, che il nuovo secolo sembrava promettere. Negli anni seguenti all’Unità d’Italia, diversi genitori, che avevano fatto proprio - quale sogno finalmente realizzato - quello di una Patria unita, chiamarono le loro figlie con l’amato nome di Italia. Anche mio padre, cancelliere presso la “Cancelleria Civile e Penale di Piazza Armerina”, volle che io portassi questo nome.

Nel tuo corredo genetico, piccola Luna, porti la memoria dei tuoi molti avi nati in luoghi diversi del nostro Bel Paese: Lombardia, Piemonte, Campania, Lazio, Abruzzo, Calabria e Sicilia. Questo grazie ai tuoi nonni e bisnonni che, pur provenendo da luoghi diversi d’Italia, in questi ultimi centotrenta anni, si sono incontrati, amati ed hanno messo al mondo i loro figli.

Non ti elenco tutti i loro nomi e cognomi che formerebbero un albero genealogico dalle folte foglie e da innumerevoli ramificazioni, non occorre e non voglio annoiarti anche perché il risultato finale di tutti questi incontri d’amore e di tutti gli incroci di cognomi e luoghi di origine sei tu, nata nell’anno 2021 grazie all’amore sbocciato tra i tuoi meravigliosi genitori.

Tra l’altro potrei narrarti solo una parte della lunga e complessa storia dei tuoi avi. Per l’esattezza solo la storia del ramo siciliano, del quale tua mamma porta il cognome appartenente ad una famiglia che dalla natia Piazza Armerina giunse a Roma nei primi anni venti del ‘novecento dopo la scomparsa di mio padre.

Mio padre morì che io ero una bambina di soli sei anni e mia madre, pensando che il modo migliore per educare un’orfana fosse quello di un buon istituto religioso, mi affidò alle suore di Sant’Anna che gestivano il collegio femminile “Casa della fanciulla San Giovanni di Rodi” a Piazza Armerina. Rimasi in quel collegio sino all’età di 14 anni quando mamma ed il resto della famiglia si erano già trasferiti a Roma. Per me che ero nata e vissuta a Piazza Armerina, raggiungere Roma viaggiando con la sola compagnia di mio fratello Ottorino, poco più grande di me, fu qualcosa che affrontai con molti timori e con l’unica speranza di potermi ricongiungere ai miei.

Quando da Piazza Armerina giungemmo a Messina, quello che vidi mi riempì il cuore di sgomento, perché a Messina ancora erano evidentissimi i danni, la distruzione e la faticosa opera di ricostruzione. Si percepiva, ancora e chiaramente la disperazione provocata dal maremoto del 1908. Io e mio fratello ci guardavamo intorno attoniti e con il timore di non poter riuscire a prendere il traghetto per il Continente a causa delle macerie e del materiale edilizio di ricostruzione che ingombravano ancora le strade di Messina. Comunque riuscimmo ad imbarcarci, a raggiungere Roma e la nostra nuova casa nella quale mia madre ci aspettava insieme a nostra sorella Enrichetta, giovanissima e promettente cantante lirica, ed ai nostri fratelli: Antonio e Filippo.

Così iniziò la mia nuova vita nella casa in Via delle Muratte, in pieno centro di Roma, ai piedi del colle Quirinale. Tutte le sere si usciva per partecipare ad uno dei tanti eventi che la città offriva: concerti, teatro ed inviti a cena in casa di persone amiche. Ricordo che in quelle uscite durante il periodo invernale, avevo sempre tanto freddo perché, pur di poter andare a teatro od ai concerti, risparmiavamo molto sulle altre spese (riscaldamento e cibo) ed anche perché io, pur di sentirmi carina ed affascinante, uscivo sempre e comunque con vestiti molto femminili, scollati e guarniti di trine e merletti che lasciavano le mie giovani spalle scoperte: ma pe potermi recare a concerti o a teatro, ero disposta a sentire freddo e fame perché ne valeva la pena ed anche perché, dopo tutti quegli anni chiusa in collegio, ero assetata della bellezza del vivere.

Tornai in Sicilia solo molti anni dopo, a Piazza Armerina, viaggiando in auto ed ospite di lontani parenti, insieme a mio marito, mio figlio e mia nuora. Ma fu come se non fossi mai partita dall’isola. La bellezza dei luoghi, il modo di parlare, la generosità e l’accoglienza, mi fecero percepire immediatamente che la cultura, le usanze e la meraviglia di quelle terre, erano stati sempre con me: un legame profondo mai messo in discussione. Eppure il lavoro di mio marito mi aveva portato in tanti luoghi diversi della Penisola! Tutti bellissimi come Paola in Calabria, la penisola Sorrentina, alcune località del Lazio, ma nessuno in grado di penetrarmi l’anima come il luogo natìo.

Ma è della Terra di Sicilia che ti voglio raccontare e per narrartela senza annoiarti, voglio immaginare di prenderti per mano e recarci, insieme, lungo un percorso capace di spaziare attraversando la Storia, luoghi reali e racconti della sua parte più interna e segreta, tra le alture dei Monti Erei non molto distanti da Piazza Armerina dove sono nata. Luoghi di storie senza tempo nei quali realtà, magie, mito e racconti condivisi si intrecciano per formare un puzzle di tasselli narrativi capaci di catturare la nostra curiosità, la nostra voglia di sapere ed il sentimento di meraviglia verso quell’isola chiamata anticamente Thrinakìa della quale tu, piccola Luna, porti in te le antiche radici delle quali anch’io faccio parte.

Iniziamo il nostro viaggio raggiungendo gli altipiani dei Monti Erei, dove si trova anche Piazza Armerina, la città dove sono nata. Salendo sui Monti Erei, nelle giornate limpide, è possibile abbracciare con lo sguardo sia l’antico mare che bagna la costa orientale della Sicilia oltre la Piana di Catania, che le ultime propaggini dell’altipiano montuoso dei Monti Iblei.

Terra ricca di storia e leggende mitologiche, quella degli altipiani dei Monti Erei, nei quali le antichissime civiltà sicane e sicule, ma anche le innumerevoli altre genti che nella Sicilia sono giunte, lasciando le loro profonde tracce. Tracce che ancora oggi tramandano avvenimenti, battaglie di conquista e difesa, leggende, racconti affascinanti ed usanze misteriose. Vicende incredibili nelle quali la presenza di antichi Dei e Semidei si mescolano alle vicissitudini umane. E poi, ancora, su uno degli altipiani del monti Erei, si trova un lago misterioso ed inquietante le cui acque periodicamente divengono rosse quasi a voler ricordare il rapimento della fanciulla Kore trascinata nelle viscere della Terra e che diede origine ad un nuovo dono degli dei agli uomini: l’alternarsi delle quattro stagioni.

Proseguendo nel nostro cammino, vedremo anche figure umane trasformate in pietra quale punizione per una diabolica danza sabbatica non gradita agli Dei, una narrazione che mi impressionò molto da bambina, motivo per il quale, anche se la zona delle pietre incantate non era molto distante dalla vecchia Stazione di Piazza Armerina, non volli mai andare a vederle, anche se, per le famiglie di Piazza Armerina, quel luogo era meta di pranzi sui prati nei giorni di festa, tra i giochi dei bambini, il buon cibo portato da casa da condividere in compagnia, canti corali e balli al suono della fisarmonica.

In questo nostro comune andare, ascolteremo antiche leggende ed usanze popolari tra il sacro ed il profano che si perdono nella notte dei tempi come la leggenda del gorgo nero, una storia mitologica legata ad un antichissimo semidio e poeta nato proprio sui Monti Erei e ancora i resti di una antica villa romana con le sue seducenti fanciulle in succinti “bikini”, ferme nei secoli con le movenze di gioco tra giovani compagne.

Ma dovremo fare i conti, anche e purtroppo, con la sofferenza disumana dei “zolfatari” e del loro lavoro sempre a contatto con la morte. Sarà l’odore pungente dello zolfo che ci sembrerà ancora di sentir uscire dalla gola di antiche miniere scavate nel ventre delle montagne, anche se ormai abbandonate da decenni, a ricordarcela (nota: Per tutto l’ ottocento sino alla fine degli anni ‘sessanta del secolo scorso, la Sicilia fu il maggior produttore e fornitore mondiale di zolfo).

Perché, in quelle miniere, hanno lavorato scavatori (gli uomini adulti) e trasportatori ( i carusi ovvero ragazzini) che hanno pagato con la vita l’estrazione della cosiddetta “gialla superiore” ovvero lo zolfo estratto nelle viscere della terra.

Ogni giorno “dal levare al cadere del sole” lo zolfo veniva estratto da frammenti di roccia. Poi, dai vari livelli della miniera fino ai forni di fusione collocati all’esterno. Attraverso cunicoli e gallerie angusti e pericolosi, il trasporto delle pietre gravava unicamente sulle deboli spalle di ragazzini di otto, dieci anni e stipato in grandi ceste chearrivavano a pesare dai trenta agli ottanta chili ovvero circail doppio del peso medio di un ragazzino di quell’età. I carusi erano costretti dalla miseria a lavorare, e spesso erano vittime di infezioni causate da un pericoloso parassita a forma di uncino che penetrava nell’organismo e si insediava nell’intestino. Ma ancor più temute, dagli zolfatari adulti e carusi erano le improvvise esplosioni di un gas chiamato antimonio (… «Lo zolfo fa pensare agli inferi, prima ancora di porre mente agli svariatissimi utilizzi che di esso possa farsi da secoli. È l’elemento caratteristico di terreni “vivi” e dell’energia del pianeta Terra.» (Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli, “Le miniere in Sicilia hanno il colore del sole e della luna”)

Continuiamo il nostro viaggio virtuale nello spazio e nel tempo piccola Luna. Dammi la mano e rechiamoci insieme sulle sponde del lago Pergusa, a novecento metri di altezza sul livello del mare. Quello specchio d’acqua inquietante, dalle acque stranamente salmastre come il mare ma nelle quali non hanno mai nuotato pesci. Un lago che in alcuni periodi, si tinge di rosso, quasi volesse ricordarci “il terreno vivo dell’energia del pianeta Terra” che arde sotto la Sicilia. Un lago presso il quale, anche le antiche popolazioni dell’Isola, intimorite dai fenomeni naturali dell’antica Thrinakìa, offrivano annualmente sacrifici agli dei, nel tentativo di placarne le ire e rivolgere il loro sguardo benevolo verso gli uomini.

E sarà proprio il lago Pergusa a raccontarci la storia resa celebre da Claudiano Strabone, ovvero il rapimento della fanciulla Kore trascinata nel regno buio, sotterraneo e nascosto del ventre della Terra, dal dio Saturno che volle farla sua sposa e regina dell’Averno. Perché il rapimento di Kore avvenne nei prati fioriti lungo le sue sponde. Sponde di un antichissimo lago che ancora stupisce ed inquieta e che incontreremo lungo il percorso che, da Piazza Armerina, conduce verso Enna.

Il lago di Pergusa ed il rapimento di Kore

«I miti debbono essere considerati con molta attenzione, perché non sono racconti, favole, pure invenzioni di fantasia. Nei miti c’è la scienza, c’è il sapere.» (Umberto Galimberti, i miti del nostro tempo, 2009)

Racconta il poeta Claudiano Strabone (storico e geografo greco giunto a Roma intorno al 45 a.C.) come Plutone, re degli inferi stanco delle tenebre su cui regnava, emerse dalla profondità delle viscere Terra per curiosare sulla superfice della Terra e vide Kore, figlia della dea Cerere e di Zeus che, insieme ad altre fanciulle era intenta a raccogliere fiori sui prati che circondano il lago Pergusa.

Kore era la vergine fanciulla che simboleggiava la pianta del grano quando ancora è verde. Poi, quando il grano diventava maturo, Kore cambiava identità perché il grano ormai poteva essere raccolto ed il suo nome cambiava in Persefone (padrona e signora). Una volta che il grano era stato già tutto raccolto Kore/Persefone cambiava di nuovo nome e diventava Ecate (dea della magia e degli incantesimi). Racconta sempre Claudiano Strabone come Plutone «… si precipitò verso di lei che, scortolo, così nero e gigantesco, con quegli occhi di fuoco e le mani protese ad artigliarla, fu colta dal terrore e fuggì leggera assieme alle compagne.. ma il dio dell'Ade, in due falcate le fu addosso e l'abbracciò voracemente e via col dolce peso; la pose sul proprio cocchio, invano ostacolato da una giovinetta di nome Ciane che tentò di fermare i cavalli, e che il dio infuriato trasformò in fonte…»

Questo episodio narrato da Claudiano, oltre a descrivere il rapimento, contiene tutta la forza disperata di una forte amicizia tra due fanciulle dell’antichità talmente forte da pagare un prezzo altissimo per essersi contrapposte al volere degli dei.

Infatti, la generosa Ciane, fu l’unica ancella della dea Kore che si oppose al sopruso di Plutone ritrovandosi - per punizione - non più fanciulla umana, ma fonte scaraventata lontano nella pianura di Siracusa. Tuttavia la leggenda è ancora più complessa perché il corso d’acqua dal nome Ciane, non è l’unico a bagnare la pianura dirigendosi verso Siracusa. Un altro corso d’acqua, l’Anapo, attraversa la pianura ragusana per poi ricongiungersi al Ciane e sfociare insieme nel Porto Grande della Città di Siracusa. Il suo nome “Anapo” significherebbe letteralmente “invisibile”, a causa della sua tendenza a nascondersi nel sottosuolo in alcuni tratti del suo percorso per poi riemergere.

Anche Anapo possiede una sua genesi nella mitologia classica. Secondo la leggenda, infatti, quando Ciane fu tramutata in fiume come punizione per il suo atto di generoso coraggio, il suo promesso sposo, il giovinetto Anapo perdutamente innamorato dell’ancella Ciane, fu colto da incontrollabile disperazione. Chiese allora agli dei di essere anche lui trasformato in acqua per unirsi a Ciane e per sempre. Gli dei mossi a pietà trasformarono anche Anapo in un corso d’acqua e così, anche se i corpi umani di Ciane ed Anapo non poterono più incontrarsi, il loro amore conquistò, comunque, l’eternità della fusione amorosa.

Ma ora, Luna, credo che tu voglia anche sapere cosa accadde a Kore una volta trascinata nel Regno di Plutone. Cerere, madre di Kore, per nove giorni e nove notti, senza mangiare né bere ed invocando disperatamente il nome di sua figlia attraversò la Sicilia il lungo ed in largo. Avuta finalmente notizia dell'ignobile rapimento da parte di Saturno e sospettando la complicità di Giove, Cerere sentì salire alle sue tempie una rabbia incontenibile e, per vendicarsi del rapimento, cominciò ad impedire alle piante di fiorire, agli alberi di produrre frutti, incurante che, gli esseri umani, potessero morire a causa di carestia.

Giove, allora, fu costretto ad intervenire, anche perché Kore, dal giorno del suo rapimento, non mangiava più nulla, deperiva a vista d’occhio e stava rischiando di morire d’inedia. Lo stesso Plutone non voleva perdere la sua sposa giovane e bella quindi, fu costretto a cedere ad un compromesso: Kore avrebbe trascorso ogni anno tre mesi in compagnia di Plutone, come regina del Tartaro nelle viscere della Terra, e gli altri nove mesi con sua madre in superfice.

Questa leggenda mitologica vuole dare un spiegazione agli uomini di come, in inverno, la natura cada in letargo perché “se il grano non muore non cresceranno le messi”, un detto che ha cercato di dare senso compiuto a contadini e pastori, antichi abitanti della Sicilia, per comprendere i periodici cicli delle stagioni.

Ancora oggi, sul sito archeologico di Cozzo Matrice, una collina a nord del lago di Pergusa, è visibile e visitabile la caverna collegata al ratto di Kore. Per arrivarci, bisogna percorrere la regia trazzera (originariamente erano strade a fondo naturale utilizzate per il trasferimento degli armenti dai pascoli invernali delle pianure ai pascoli estivi delle montagne, per tale motivo il demanio trazzerale è anche conosciuto come demanio “armentizio”). Ci si arriva percorrendo, per otto chilometri la strada che da Piazza Armerina porta a Enna. Bisogna poi inerpicarsi, per i ripidi sentieri che portano verso la cima del sovrastante colle. Lungo i pendii si incontrano insediamenti preistorici con numerosi ambienti scavati nella roccia calcarea. Ma vale la pena fare questa salita poiché una volta giunti sul pianoro, che in primavera fiorisce e diventa verdissimo, guardando verso il basso in direzione sud, si può vedere il lago Pergusa, come una pietra preziosa incastonata nel verde, verso est le valli del Dittaino e la Piana di Catania che si confondono con l’azzurro orizzonte sullo sfondo del quale si può vedere chiaramente il possente profilo dell’Etna, fucina del Dio Vulcano e, di fronte a noi aperta verso nord, ecco apparire la grande caverna quale bocca aperta verso il centro della Terra attraverso la quale il cocchio di Plutone, rapitore della bella Kore, uscì dal Tartaro e vi fece ritorno con la sua dolce preda.

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