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Thrinakìa sixième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.22 N.1 2024

Terre mediterranee

Maria Annarita Tallo

magma@analisiqualitativa.com

Agrigento (Italia). Uno stralcio della seconda opera classificata nella sezione Diari di viaggio della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.

 

 

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Ilaria Semprini, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.

Destinazione Pantelleria centro

Dopo qualche minuto, percorrendo strade che portano sempre più in alto fino ad arrampicarsi sulla montagna grande, realizziamo che ci siamo perse. Abbiamo inserito come destinazione Pantelleria centro, ma il navigatore ci ha portato al centro esatto dell’isola, in cima alla montagna centrale.

Ci guardiamo ridendo, quello doveva essere il segnale di tutto. Quello doveva farci capire che qui tutto funziona diversamente, il navigatore non capisce dove vuoi andare, i telefoni non prendono, l’acqua non arriva.

L’isola ti accoglie ma non cambia nulla di sé; se la vuoi scoprire, vivere, devi entrare nei suoi ritmi, nelle pieghe delle sue onde, nei turbamenti dei suoi venti. Quindi basta telefoni, seguiamo le indicazioni, cerchiamo le vie, leggiamo i cartelli. Interpretiamo il linguaggio degli abitanti del posto per cui le strade sono semplici e chiare, mentre noi ad ogni curva ci chiediamo come facciano ad orientarsi.

Insomma, ci perdiamo infinite volte, ridendo, sbuffando per il caldo, per la stanchezza. Ridiamo degli specchi appannati agli angoli delle vie, delle manovre improvvise in curve dove non vedi nulla, né di giorno né di notte. Poi ci abituiamo.

La prima sera al dammuso sopra “Cala Levante” un’inquietudine leggera tagliava il silenzio che avvolgeva la campagna circostante. Dal tetto bianco il rumore del mare mescolava riflessioni e mischiava un po’ tutto. Quanto tempo è passato dall’ultima volta? Quanto lunga può essere l’attesa della felicità?

Una musica ci desta all’improvviso, sta iniziando una festa. Ascoltiamo le canzoni di questa strana estate arrivare una dopo l’altra, in successione, come un copione che esalta gli ascoltatori ad ogni atto, ad ogni pezzo. Cantiamo pure noi, il vento leggero soffia sui tetti e allevia il caldo dell’intera giornata.

Su di noi, distese sul tetto bianco di un dammuso, note di canzoni conosciute e un cielo terso di stelle tra Sicilia e Africa. Forse c’è ancora qualcosa per cui sognare proprio qui, al centro di queste terre mediterranee, cullate da un’amaca e da uno zibibbo dal nome tunisino.

Si vedono palme e tetti bianchi, cartelli dai suoni tipicamente arabi e la luna a due passi da noi. Quest’isola scura bruciata dal sole ci piace, anche se caldo divora ogni cosa, si prende ogni angolo di roccia, si impone violento e ci lascia senza fiato, senza forze. Ogni giorno sudiamo come non mai, solo il mare ci ridona i respiri lenti, un po’ di sollievo e lo sguardo di un bambino che si meraviglia ancora.

A tratti sembriamo nel deserto, ci sono strade piene di sabbia altre dense di sentieri piccolissimi, alcune così a ridosso sul mare che sembra quasi di caderci dentro. Spesso dove siamo andate a finire non lo sappiamo neanche noi, perdersi è diventato normale.

Ci siamo persi il primo giorno cercando il centro di Pantelleria, sconoscendo totalmente l’esistenza di piccoli quartieri come Scauri o Tracino, pensando che l’isola fosse un tutt’uno messo insieme.

Invece ogni angolo di questa terra bruciata si distingue e si esalta singolarmente, tutto possiede una propria autonomia, una propria anima.

E se dovessi dare un colore a quest’anima sarebbe nera e rossa, nera come le pietre e rossa come il sole che cade sulle coste africane davanti ai nostri occhi meravigliati. Di tramonti così non pensavamo mai di vederne e forse neanche di meritarne.

In quei giorni arrivò il maestrale, impetuoso e violento, pregno di rabbia e di mille altre cose, forse cose non dette, scelte non fatte. Forse mille rimorsi tenuti dentro per troppo tempo che aspettavano solo l’occasione per venire fuori. Insomma, con chi ce l’aveva lo sapeva solo lui.

Ma che gli avevamo fatto noi? Dicevano venisse da su, dicevano venisse dal nord. Io, nonostante la mia origine isolana, di venti non sono mai stata un’esperta ma a capirlo a lui, ci misi poco.

Era un vento tagliente e fresco, come se volesse ripulire qualcosa. Forse il troppo caldo che da giorni soffocava l’isola, forse voleva essere una solo una liberazione.

Ma si mostrò arrogante e prepotente, se ne infischiò dei turisti ed impose subito il suo andamento, il suo rumore. Soffiava forte, anche di notte, e tutta l’isola cadde in una confusione lunare, un mal di testa leggero ma perenne.

“Sarà il maestrale” era la frase più ripetuta in quei giorni. Poi se ne andò, come se si fosse stancato, come se non si sentisse capito. Forse cerca altre vie, altre terre su cui soffiare, oppure qualcuno che lo ascolti davvero.

Quando dobbiamo partire ci siamo abituate a scalare le rocce, ad esplorare i sentieri, a buttarci a mare  di sera con i nuvoloni all’orizzonte, gustando il mare, sentendolo sulla pelle, fregandocene di tutto il resto.

L’ultimo sguardo su “Cala Levante” si vuole prendere tutto ma non ce la fa. Ci portiamo dentro questo vento di Africa, le giornate al mare senza un buco di ombra e i ricci al sapore di mare che sa di mare.

Ci portiamo dentro le danze improvvisate sui tetti dei dammusi, la luna piena ad un dito da noi e il sole violento di quest’isola che ci brucia la pelle e si tiene per sempre una parte di noi.