Svizzera. Uno stralcio della seconda opera ex aequo classificata nella sezione Racconti autobiografici della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.
Andrea Marino, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.
Un giorno, dovevo avere quattro o cinque anni, frugando tra le cose che mamma e papà avevano portato dalla loro terra natale tanti anni fa, trovai quello che pensai fosse una pallina di legno. La tirai fuori dallo scatolone e mi accorsi che non era una pallina di legno o se lo era, aveva un guinzaglio lungo e colorato. Mi fu spiegato che era un vecchio giocattolo, una trottola, e che se lo desideravo, potevo giocarci. Fu così che a discapito di peluche, bambole nuove di zecca e videogame, m’innamorai di quella trottola e la portai, per tanti anni, sempre con me.
A quei tempi passavo le estati nella terra di origine di mamma e papà e il resto dell’anno nel paese in cui avevano scelto di vivere e nel quale ero nata. Ero felice. Certo, ogni volta mi ci voleva un po’ di tempo per abituarmi di nuovo all’una o all’altro ma con l’adattabilità e la spensieratezza di un bambino, fare il camaleonte tra il mare e le montagne mi veniva piuttosto facile. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, ricordo le vacanze al mare di quei tempi come i più bei momenti della mia vita. Quel posto era il mio paese dei balocchi. La casa della nonna anche se vecchia e fatiscente, mi sembrava un castello incantato dove si nascondevano mille avventure da vivere e tesori da scoprire. Sotto, sopra, in cortile, nel garage pieno di cose antiche, nello spazio maleodorante dedicato a conigli e galline… Non mi fermavo un attimo, giocavo, ridevo e cantavo insieme ai miei cuginetti che vivevano anche loro lontano durante il resto dell’anno.
Tutti i giorni, all’infinito, come i giri della trottola. Un niente mi stregava. Le lenzuola leggere e profumate che la nonna lavava ancora a mano in contrasto con i pesanti piumini di casa che mi proteggevano contro i -10 gradi esterni. L’odore della brace e della carne arrostita che mangiavamo quasi ogni sera. Il gallo che cantava ogni mattina e che sembrava dirmi: “su dai, è ora di andare a giocare”. I bambini del quartiere con cui potevo giocare senza che la mamma si preoccupasse. Il dialetto che già capivo ma che ogni anno imparavo a parlare meglio. L’acidità del limone con il sale che la nonna mi dava per merenda. Il pesce che non era surgelato, i pomodori che erano rossi anche dentro e non bianchi come a casa, quelle palline di riso impanato che avrei potuto mangiare fino a farne un’indigestione, quelle cose strane attorcigliate intorno a un cipollotto, la frutta saporita, tutti i tipi di dolci che a casa neanche potevo immaginare, la mia pelle che diventava dello stesso colore della sabbia.
La felicità e i sorrisi della mamma che non vedevo mai così numerosi di solito. E poi ovviamente c’era lui, il mare. Il suo odore, il suo colore, la sua luce. Quella sua voce dolce che mi cantava la ninna nanna quando sfinita, ubbidivo finalmente alla mamma e uscivo dall’acqua, quei tramonti stupefacenti dove il sole sembrava affogare per unirsi a lui in un matrimonio divino, quell’aria così leggera e salata che mi faceva sentire costantemente piena di energia. Le pietre colorate e le conchiglie variegate che mi regalava per non dimenticarlo da un anno all’altro...
Ma la cosa più preziosa che trovavo lì non erano il cibo o i paesaggi mozzafiato. No. Era quella sensazione di appartenenza, quella famiglia che non avevo a casa durante il resto dell’anno. Papà aveva sofferto tanto lì dov’era nato. Dove io vedevo una valle incantata lui aveva visto solo miseria, umiliazione e disperazione. Che strano il modo in cui lo stesso quadro può mostrare un aspetto diverso a seconda di chi lo guarda. A sedici anni non ne poté più e se ne andò via, con una valigia che altro non era che quattro pezzi di cartone, tenuti insieme dalla paura e della speranza. Riuscire a riscattarsi diventò un’ossessione.
Lavorava sempre. E diventò ancora peggio quando si mise in proprio. Non uscivamo quasi mai, non ricordo che mi venne mai a prendere a scuola, non giocavamo mai. Non ricordo aver mai fatto una qualunque cosa che facevano i miei compagni di classe con i loro papà. E mi chiedevo: «ma allora gli altri papà non lavorano? Come fanno?». La mamma un po’ di gioia nella sua terra di origine l’aveva conosciuta. Ma la morte di suo padre quando aveva solo quattordici anni ebbe sulla sua famiglia l’effetto di un bicchiere di cristallo che si spezza in migliaia di pezzi minuscoli, impossibili da ritrovare e ancora peggio da rincollare. Dovette smettere di studiare e tutti i suoi sogni appassirono come fiori freschi e profumati lasciati a marcire senz’acqua né luce. Anche lei iniziò a desiderare di scappare di lì.
Conobbe mio padre durante un’estate nella quale lui si era concesso di tornare, s’innamorarono e lo raggiunse nel suo nuovo paese. Non fu mai felice. Non si adattò mai al clima invernale gelido, arido e severo. Non ritrovo mai la famiglia che si era frantumata dopo la morte di suo padre. Era sola. Sola ma con due bambine da crescere e con un marito fantasma. Il loro rapporto presto s’incrinò. Litigavano spesso, urlando e gesticolando in dialetto, in contrasto con la neve che d’inverno ricopriva e silenziava tutto e tutti.
Tutto quello squallore e quella pesantezza, quando andavamo in vacanza (papà a volte ci raggiungeva per qualche settimana, a volte no) sparivano, soffiati via, lontano, dal caldo tocco dello scirocco. Non dovevo più fare silenzio la sera quando tornava papà per fargli sentire il telegiornale, non dovevo più sentire dei «no, non ho tempo» o «no, sono stanco» quando gli chiedevo di giocare con me, non mi chiedevo più perché io non potevo avere un papà come tutti gli altri. Dalla nonna erano tutti felici e sorridenti, a tavola si parlava e si scherzava, la sera si andava alle giostre o a prendere il gelato tutti insieme. Certo c’è anche da aggiungere che, se ero così felice lì, era anche perché non c’erano compiti da fare e maestre severe a cui ubbidire, non c’era quella pressione trasmessa, forse involontariamente ma ben esistente, secondo la quale anche noi bambine dovevamo lavorare sodo perché eravamo figlie d’immigrati e dovevamo dimostrare che ci meritavamo di vivere lì.
La vita in quella parte del mondo era più leggera e senza pensieri, come la schiuma ariosa e delicata del mare. Purtroppo, però, un giorno la trottola si fermò. Smise di girare. Come se la sua anima fosse stata all’improvviso risucchiata da un demone malvagio. O ero io che non sapevo più farla girare? Riflettendoci, realizzai che da un po’ tempo la trottola non girava più come prima. Sembrava stanca e consumata, ma felice e soddisfatta, come dopo l’ascesa di una pericolosa e ripida montagna. Fu come la fine di un incantesimo. Come se si fosse spenta una musica di sottofondo rassicurante, nell’assenza della quale non potevo vivere. In quel momento, non sapevo ancora che la trottola mi aveva aiutata a scalare solo la prima delle innumerevoli montagne che mi aspettavano nel sentiero sinuoso della mia vita. Non ritrovai mai più, in tutta la mia esistenza, le sensazioni che avevo provato nei miei primi anni di vita giocando con la trottola.
Qualche tempo dopo, la mamma tornò da un viaggio nella sua regione natale con un piccolo ospite al quanto insolito. Una pianta. O forse era più giusto dire un cactus. Voleva provare a farlo crescere lì in montagna, così da poterne mangiare i frutti che tanto le piacevano e anche perché, anche se non lo diceva, gli ricordava le lunghe passeggiate per andarli a raccogliere insieme a suoi fratelli e sorelle e i pomeriggi domenicali ad assaporarli con i nonni.
Fin dall’inizio provai diffidenza verso quel nuovo coinquilino. Certe volte mi chiedevo perché mi desse così fastidio. Non c’era un vero motivo. Anzi, l’avevo sempre trovata maestosa e imponente nel suo habitat naturale. Ma qui, pensavo, non c’entrava niente. Sembrava un eschimese nel deserto, in contrasto totale con i pini e tutte le altre piante e fiori di montagna circonstanti. Quando venivano degli amici a fare merenda a casa, mi chiedevano sempre cosa fosse quella strana pianta buffa. Avrei voluto nasconderla in cantina e non dover mai più rispondere a quella domanda. Mi sentivo prigioniera del nulla, tirata da un lato e dall’altro ma senza sceglierne uno. A quale dei due paesi appartenevo? «A nessuno dei due» diceva a volte una vocina sgradevole nella mia mente. «Non sei né carne né pesce». Ed era vero. Non ero nessuno dei due. Apolide malgrado i miei due passaporti.
I miei genitori non parlavano bene la lingua del loro paese di adozione e quando per esempio al supermercato iniziavano a parlare in dialetto ad alta voce facendosi notare da tutti quanti, frutta a verdura compresi, avrei voluto svanire nel nulla al meno un centinaio di volte. Senza parlare del nostro carrello che sembrava sempre ed immancabilmente pronto a scoppiare se solo lo si guardava con troppa insistenza. Perché non potevamo comprare quantità di cibo normali come le altre persone? Perché noi non seguivamo in televisione la Coppa del mondo di sci o gli altri programmi nazionali così che anch’io potessi partecipare alle discussioni con i miei coetanei a scuola? Il peggio era quando, con l’avvicinarsi delle vacanze estive i miei compagni mi chiedevano sa sarei andata "da me" durante l’estate. Perché, il mio “da me” era forse diverso dal loro? Non stavo anch’io nello stesso loro paese tutto l’anno?
In ogni caso, non avevo più voglia di andare “da me”. Volevo vedere altri posti, passare le vacanze con i miei amici, dare i miei primi baci, sentirmi libera. Quello che era stato il mio paese dei balocchi sembrava essersi trasformato in una landa grigia e deserta, indegna del mio interesse con persone a cui non mi identificavo più, tra zie invadenti e cugini che si sentivano in obbligo di passare del tempo con me quando in realtà anche loro, tutto ciò che volevano, era vivere la loro estate in pace.
Però, da un altro lato, mi piaceva essere diversa dagli altri. Ero felice quando i miei amici apprezzavano gli ottimi pasti (antipasto, primo, secondo e dolce ovviamente) preparati dalla mamma quando venivano a cena e che si sognavano di mangiare a casa loro, quando percepivo un po’ di invidia perché io potevo andare al mare per due mesi interi senza dovermi preoccupare di vitto e alloggio perché stavo dalla nonna, quando a scuola iniziammo a imparare l’italiano perché era una della quattro lingue nazionali e che io già lo sapevo o ancora quando il mio "da me" vinse il mondiale di calcio.
Ma non potevo scegliere, ero sempre in bilico, destinata a stare nel mezzo per sempre. E già allora mi era ben noto che nel mezzo, spesso, ci si perde. Molte volte, durante queste riflessioni esistenziali, il mio sguardo andava a cadere sulla pianta strana. A volte sembrava che mi volesse abbracciare o accarezzare, con quei suoi “rami” a forma di palmo della mano. Altre invece sembrava aspettare che mi avvicinassi per infilzarmi con le sue spine a tradimento. Non ci capivo più niente. E allora mi mettevo a pensare alla trottola con una nostalgia che sembrava crescermi dentro come un’erba cattiva, dura, e decisa a mettermi le radici dentro, con violenza. Perché non riuscivo più a provare quella gioia e quella spensieratezza? Era come se fossero state date tante pennellate nere a un quadro magnifico e luminoso, simile a pugnalate mortali, lasciandolo a brandelli.
In quegli anni continuai malgrado tutto e controvoglia ad andare al mare li dov’ero sempre andata. Per i miei genitori, molto più protettivi degli altri genitori, il che era un’altra fonte di dispute e frustrazioni in quel periodo, era fuori discussione lascarmi andare in vacanza in altri posti con degli amici. Li seguivo quindi a malincuore sperando che una volta arrivata lì, la magia della trottola si mettesse ad operare di nuovo. Ma non successe. I colori del mare, della terra dorata, gli odori del cibo, il suo sapore, le risa… Tutto sembrava essersi sbiadito come se il famoso quadro, oltre che ridotto a brandelli, era stato abbandonato al sole troppo a lungo.
Ero apatica, così come i miei adorati cugini anche loro costretti alle vacanze tradizionali. Non sopportavo più quel caldo afoso come una volta cosicché me ne stavo per lo più nel fresco della casa, sdraiata sul divano, ad ascoltare musica o mandare messaggi ai miei amici che vivevano avventure indimenticabili senza di me. Il tempo sembrava scorrere a rilento. A volte uscivamo per fare contenti i nostri genitori. Ma non mi sentivo a mio agio. I ragazzi di lì erano molto più sfacciati e intraprendenti di quelli con cui ero cresciuta. Mi davano fastidio. Tutto mi dava fastidio.
A poco a poco la pianta clandestina iniziò a crescere e io con lei. Un giorno una spina, l’atro un bocciolo. Finché, con il passare del tempo non mi sembrò più così buffa e in disaccordo totale con il resto dell’ambiente. L’avevo accettata. Come, anche se non sapevo bene ancora chi fossi, avevo finito per l’accettare questa dualità con cui ero nata, capendo che tanto non ci potevo fare nulla se non coltivare e fare crescere queste due culture, con le loro spine e i loro boccioli, come la pianta strana. Così, alla ricerca delle mie origini iniziai a leggere la storia della regione da cui venivano i miei genitori e quindi i miei antenati. Lessi tanto. Forse troppo, perché quello che scopri mi diede il voltastomaco.
La loro terra di origine e quindi anche la mia era malata. Di una malattia spaventosa e incurabile. Cercai di trovare una spiegazione per calmarmi. Mi dissi allora che era ovvio e che una terra così bella, così generosa non poteva esistere. Doveva per forza nascondere qualcosa, un lato oscuro, così nero che accecava la vista e faceva sparire tutto il resto, il mare e il luccichio del sole su di esso, il profumo della zagara, il canto del gallo, tutto era inghiottito da quel buco nero, da quel veleno viscoso, da quel demonio che si poteva nascondere a ogni angolo, pronto ad attaccare, a spargere sangue e sofferenza, a uccidere. E non potevo farci nulla tranne che assistere a quello spettacolo macabro, ora che sapevo.
Un giorno dovetti partire d’urgenza in aereo per andare a un funerale. Era morta la nonna e con essa l’ultimo frammento del mio adorato paese dei balocchi. Era d’inverno e per la prima volta vidi quel paesaggio così calmo, rigoglioso e rilassante tramutarsi in una bestia selvatica all’agonia. Il vento urlava di dolore parole che non capivo, il mare, con onde alte più di tre metri, sembrava autoflagellarsi ogni volta che veniva a schiantarsi contro i muri di scogli. Perché, perché, perché, sembrava gridare. E io con lui. Perché… la salsedine che amavo sentire sulla mia pelle d’estate mi faceva colare delle lacrime brucenti che si aggiungevano a quelle che già versavo.
La natura che avevo sempre visto colorata, lussureggiante e rassicurante era grigia, infuriata e inquietante. E allora capì che anche lei, quella terra, soffriva e che anche lei non sopportava le ingiustizie della vita, quelle che le faceva subire quel cancro che la consumava senza sosta. Si sfogava, mostrando la sua forza davanti alla quale l’essere umano dovrebbe solo inchinarsi ma senza riuscire per tanto a liberarsi da quelle catene maledette. Ci provava con l’ira del mare, l’incandescenza del suo vulcano, la distruzione del terremoto. Non funzionava niente. E allora dopo un po’, si calmava, sembrando accettare il suo destino.
E come se non bastasse continuava a dare, produrre e nutrire, come se fosse più forte di lei, come una madre ignorando le violenze fattele subire dal figlio e continuando malgrado tutto ad amarlo. E allora mi dissi che anch’io dovevo vivere come lei. Lottare sempre, senza stancarmi mai, ma senza dimenticare chi fossi e che, malgrado la bruttezza di tanti esseri umani e tutte le ingiustizie del mondo, c’era del buono in esso e anche del bello. E che era per questo che la vita valeva la pena di essere vissuta. Da quel giorno, iniziai a pensare a quel pezzo di mondo con rispetto e umiltà. Divento il mio rifugio nei periodi bui della mia vita, un nuovo grembo materno dove potevo essere me stessa, piangere, soffrire e tornare a casa solo quando ero pronta.
Dopo aver raggiunto una certa altezza, la pianta curiosa non crebbe più. Ogni anno fioriva e certe volte dava anche dei frutti, per la più grande gioia di madre. Aveva trovato un equilibrio tra spine e fiori e si lasciava andare, rispettando i cicli della natura, accettando i momenti felici e quelli oscuri, gli anni prosperi e quelli meno. E così feci anch’io.
Come dono per la mia laurea, mi fu regalato un braccialetto di corallo. Era un corallo speciale, mi fu detto, unico al mondo. Unico perché si distingueva dal corallo rosso comune per il suo colore arancio-rosa, colore dovuto a una modificazione genetica dello stesso corallo, creata dai gas vulcanici rilasciati nel mare. Ed è proprio perché trovava la sua origine nella roccia vulcanica che questo tipo di corallo poteva anche presentare delle macchie nere, in forte contrasto con l’arancio o il rosa. Mi piacque sin da subito. Non c’era gioiello sulla faccia della terra che mi poteva corrispondere meglio. Macchiata, marchiata o meglio decorata da due culture distinte, figlia di due alberi diversi, in contrasto l’uno con l’altro ma che insieme creavano un frutto finale dal sapore inestimabile.
Lo indosso sempre. Anche quando stona con il mio abbigliamento. Perché mi ricorda che io sono il risultato di due cose bellissime, del mare e della montagna, del calore e del gelo, del paese delle mie radici e di quello in cui sono nata.
Adesso, dopo tanti anni, finalmente ho capito. Lei mi accompagnerà per sempre. Sotto varie forme, certo, da una trottola a un amuleto di corallo, passando per una pianta curiosa, ma ci sarà sempre. È stata la bambina vivace, solare e spensierata che mi ha fatto vivere i momenti più belli della mia infanzia. È stata la ragazza insicura, spaventata e a volte anche un po’ scontrosa che mi ha aiutata a crescere e a capire chi fossi. E adesso me l’immagino come una bella donna, dai lunghi capelli neri e dalle forme generose, sicura di sé stessa, consapevole della sua forza e del suo valore, che si rialza sempre malgrado tutte le difficoltà che si presentano a lei e che ama la vita più di ogni cosa.
Un giorno, sono sicura che la vedrò con le sembianze di un’anziana signora, dal viso bruciato dal sole ma nel quale si può ancora intravedere la sua straordinaria bellezza passata, come una nonna dalla compagnia confortante e rassicurante, che c’è sempre quando si ha bisogno di lei, di idda.