Catania (Italia). Uno stralcio della seconda opera ex aequo classificata nella sezione Biografie della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.
Aisha Ghiselli, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.
Il ventisette dicembre del 1920 per Aidone fu il lunedì nero per i morti di Spagnola. Se ne contarono nove, inclusa Elisabetta Licalsi, moglie di Filippo Calcagno Giarrusso. Aveva quarantacinque anni e sette figli, tre maschi e quattro femmine. Con il piccolo, Giuseppe, di appena otto mesi. Il funerale venne celebrato senza messa, così aveva stabilito il sindaco per limitare la diffusione del morbo. Il suo corpo fu avvolto in un lenzuolo e poi disteso su una scala di legno che venne adagiata su un carro al quale si attaccò un mulo.
Finita la funzione, Filippo e i due figli più grandi tornarono a casa, un’unica stanza in affitto nel quartiere San Giacomo dove abitavano quando dalla campagna venivano al paese. Trovarono ad aspettarli i cinque bambini più piccoli - troppo piccoli per partecipare al funerale - che piangevano. All’imbrunire i vicini di casa portarono loro una gallina in brodo, una forma di pane e un fiasco di vino; una tazza di latte caldo venne preparata per il neonato. Finito di mangiare e appena i vicini se ne andarono, Filippo mise a letto i figli.
L’indomani mattino ritornarono tutti in campagna, al Fondacazzo, che distava cinque chilometri dal paese, dove Filippo aveva una proprietà di tre salme. La parte in lieve declivio, dov’erano piantati un’ottantina di ulivi centenari, era seminata a rotazione a grano e a leguminose. L’altra parte, coltivata ad agrumi e ortaggi, era abbeverata dall’acqua che usciva dal canale e si raccoglieva in una grande gebbia. Nella stessa proprietà, l’unico lembo pianeggiante troppo duro per essere dissodato era utilizzato per asciugare, prima della cottura, mattoni e coppi di argilla; prodotti di una piccola fornace data in gabella.
La casa era su due piani. Al piano terreno c’erano due grandi magazzini utilizzati per stipare le masserizie e ammassare i prodotti prima della vendita. Li accanto, la stalla era suddivisa in due ambienti: uno per il ricovero della giumenta, dell’asino e del piccolo mulo; l’altra invece accoglieva le galline, le oche, i pipì e i conigli, che, anche grazie al calore emanato dai grandi animali da soma, trovavano riparo dal freddo della notte.
Il primo piano si raggiungeva tramite una scala esterna in pietra che dal cortile portava alla terrazza. A quel punto, attraversando una porticina di legno, si accedeva alla cucina che era occupata quasi interamente dal forno a legna, con la tannùra davanti la bocca di questo. Nel forno poteva essere cotto un tùmminu di pane. Dalla terrazza si entrava anche in una grande camera, divisa in due parti: la zona letto per Filippo e la moglie, e la zona adibita a soggiorno al cui centro stagliava un enorme tavolo da pranzo in cipresso. Questa stanza comunicava direttamente con un’altra della stessa grandezza dove erano sistemati i letti dei figli. Due balconi, esposti a sud, si affacciavano sul grande cortile, il cui lato più lungo era chiuso dalle mangiatoie e da un muretto utilizzato come sedile. Un imponente gelso, in estate, ombreggiava l’aia. Dai balconi l’occhio copriva la proprietà quasi per intero.
Fin dalla nascita, Filippo aveva vissuto a casa del padre in una proprietà in contrada Casina. Insieme a lui coltivava il terreno e nei periodi di semina o di mietitura del grano andava a lavorare da altri contadini che lo chiamavano a giornata. Il lavoro non gli mancava, conosceva bene il mestiere, ma era spesso triste e pensieroso: avrebbe voluto possedere un podere tutto suo.
Un giorno, durante il periodo della raccolta delle olive, mentre era al frantoio, sentì un paio di paesani che discutevano fittamente. Si avvicinò e chiese:
«Chi succidiu?».
«‘U bancu di Sicilia sequestrau ‘u tirrenu dei fratelli Cordova».
«E quali tirrenu è?».
«Chiddu n’a contrada Funnacazzu, unni c’è u giardinu d’aranci».
«E quanti sarmi è?».
«Chiù di tre sarmi. ‘u bancu di Caltanissetta l’ha misu in vendita a un prezzu bonu».
A Filippo brillarono gli occhi. Era la terra che attraversava quando andava al paese e dove si riforniva di acqua potabile che sgorgava in abbondanza dalla sorgente; non disdegnava anche di raccogliere qualche arancia di rinforzo alla colazione. Era il suo sogno.
Tornato a casa disse al padre che l’indomani sarebbe andato a lavorare a Piazza Armerina, un suo conoscente gli aveva chiesto di aiutarlo per due giorni nella raccolta delle olive. Il giorno successivo sellò la giumenta, mise il vestito della domenica nella sacchina, prese i suoi pochi risparmi e mentre era ancora buio partì per Caltanissetta, dove giunse nel primo pomeriggio. Lasciò la giumenta in un fondaco, si cambiò il vestito e, domandando indicazioni ai passanti, giunse davanti la banca. Entrò.
«Che volete?» Lo fermò un commesso guardandolo.
«Vuliva informazioni ppi sapiri d’u terrenu di contrada Funnacazzu di Daduni che mi dissinu cchi u bancu l’ava vinniri».
«Allora dovete parlare col direttore. Aspettate lì» gli rispose il commesso indicandogli la sala d’attesa.
Dopo venti minuti, che gli sembrarono un’eternità, Filippo venne accompagnato nella stanza del direttore. Era un tipo bassino, completamente calvo, indossava una giacca marrone con le soprammaniche nere, avvolto nella nube di fumo che usciva dalla sua pipa. Guardò Filippo con aria sospettosa, gli si rivolse con una voce appena sussurrata.
«Chi siete, che volete, perché siete entrato qui?».
«Sugnu Fulippu Giarrussu di Daduni e vuliva informazioni ppi cumprari ‘u tirrenu d’a cuntrada Funnacazzu, chiddu dei fratelli Cordova».
«Ma come parlate? Ho capito che volete comperare il terreno della contrada Fondacazzo? Questo avete detto?».
«Sì. Sì. Voscienza sì, ‘u tirrenu vogghiu cumprari».
«Ho capito, va bene. E ditemi… Come vi chiamate?» Prese un quaderno nero, la penna e avvicinò il calamaio.
«Calcagno Giarrusso Filippo di Filippo».
«Calcagno Giarrusso, perché due cognomi? Qual è quello giusto?».
«Calcagno è ‘u cugnomi, Giarrusso è a ‘ngiuria, ‘u suprannomi, comu nni sannu a sèntiri».
«Dove siete nato e quando?».
«Nascii a Daduni ‘u nove di aprile 1871».
«Avete quarant’anni. Siete sposato? Avete figli? E che lavoro fate?».
«Sugnu maritatu ccu Licalsi Elisabetta, haiu cincu figghi e fazzu ‘u viddanu».
«Allora ditemi… La terra la volete comprare in contanti?».
«Contanti, sarebbe a diri ccu tutti i sordi? Iu non l’haiu i sordi. Quanti sordi ci volunu?».
«Il terreno è stato pignorato e valutato diciottomila lire. La banca vi può fare un mutuo ipotecario ventennale di ventiquattromila lire che comprende gli interessi e le spese. E voi dovete pagare cinquecento lire ogni sei mesi».
«Accusì va bene. Sì. Cincucentu liri ogni sei misi i pozzu paiari».
«Va bene. Allora noi prepariamo la pratica per il mutuo e… Ma ditemi… Voi avete altre proprietà? Una casa?».
«Nonsi».
«Qualche vostro parente… Vostro padre?».
«Me patri ha un tirrenu ‘a Casina».
«Allora la banca prende l’ipoteca anche sul terreno di suo padre. Fra un mese dovete venire qui assieme a vostro padre per firmare le carte».
«Ma veramenti iu non sacciu si me patri voli mettere ‘a so firma».
«Senza la firma di vostro padre, la banca non può farvi il mutuo. Ci vediamo tra un mese signor Calcagno» il direttore si alzò dalla sedia e andò perentorio verso la porta.
Filippo uscì dalla banca che era già buio, ritornò al fondaco dove chiese un letto per passare la notte. All’alba, appena sveglio, saltò in sella alla giumenta e si diresse verso il paese. Era contento della possibilità di realizzare il suo sogno… Ma come convincere il padre a mettere la firma di garanzia per ottenere il mutuo dalla banca? La notte non riusciva a prendere sonno, pensava solo come risolvere il problema. Qualche giorno dopo, mentre col padre rimondava gli alberi di ulivo, trovò il coraggio.
L’acquisto della terra in contrada Fondacazzo da parte di Filippo suscitò meraviglia e stupore nei paesani. Tutti conoscevano la famiglia Giarrusso per essere persone non certo benestanti che vivevano coltivando il loro piccolo podere e che si aiutavano a sbarcare il lunario andando a giornata da altri contadini. Alla notizia dell’acquisto del terreno, cominciarono a diffondersi delle dicerie.
Arrivato il fatidico giorno, Filippo e il padre andarono a Caltanissetta. Il direttore della Banca fece firmare i documenti per la concessione del mutuo e disse a Filippo di prendere accordi con il notaio Capra di Aidone. Dopo una settimana, il notaio, in presenza del direttore della banca, formalizzò l’atto di vendita tra i germani Cordova Filippo, Vincenzo, Rosalia e Matteo fu Giuseppe a favore di Calcagno Giarrusso Filippo di Filippo. Era il trentuno gennaio del 1912.
Un giorno, Giovanni, il fratello di Filippo, andò a giornata nel feudo Belmontino. Era basso di statura, con una gobba pronunciata dovuta al tempo di una vita passato a zappare, la carnagione scura e la pelle rugosa, screpolata dal sole estivo e dal rigido freddo invernale. Scontroso e solitario, non era avvezzo a coltivare amicizie; in pochi lo conoscevano in paese. Quel giorno, poco prima di mezzogiorno, un improvviso temporale costrinse gli operai a ripararsi nella stalla. Fu allora, consumando il pasto che il solitario Giovanni sentì due contadini che parlavano del fratello. Si avvicinò ai due per origliare, girando loro le spalle per cautela, qualora lo riconoscessero.
«‘U sapisti ca Fulippu Giarrussu si cumprau ‘a terra dei fratelli Cordova?».
«Sì. Mi dissiru ca è ‘u tirrenu d’u Funnacazzu. Tuttu s’u cumprau? Ma iddu tutti ‘sti sordi unni ‘i pigghiau?».
«I pigghiau… I pigghiau… ‘U sacciu iù unni i pigghiau…».
«E comu ‘u sai? Cu t’u dissi?».
«‘N amicu m’u dissi… Però ci giurai ca no diciva a nuddu».
«Sì vabbè, a mmia ‘u poi diri. ‘A cosa resta cca».
«Veramenti no tu putissi diri. Ma se mi prometti ca no dici a nuddu…».
«Certu, certu! Parra… Acqua ‘mbucca!».
«Un iornu, ‘stu me amicu ìu ‘nto càrciri di Castrogiuvanni ppi ir’a truvari ‘n parenti so, ch’era statu cundannatu a l’ergastulu picchì aviva fattu ‘na rapina intra ‘na casa di un nobili. Rubau tuttu l’oru e i sordi cchi truvau, e mentri ca scappava ‘ncuntrau ‘u patruni d’a casa e ‘u mazzau ccu ‘na cuttidata. Poi ìu a sittirrari i sordi e tutti l’ori sutta un noce vicinu ‘a gebbia d’o Funnaccazzu. Un iornu, dopu tantu tempu, Fulippu Giarrussu, mentri inchiva i quartari o’ canali, si sittau a l’umbra du nuci ppi ripusarisi e mentri iera sittatu si misi a scavari c’u ‘n cutteddu e truvau l’oru e i sordi ca erunu suttirrati».
«Miii… Accussì fu? Cosa di non cridiri. Cchi bedda fortuna ca ebbi».
«Sì! Chista è ‘a verità. E accussì si potti cumprari tutta ‘a terra!».
Quella stessa sera, Giovanni, appena ritornato a casa, raccontò quello che aveva sentito a Filippo, il quale si fece una bella risata: «Giuvà, iè l’invidia dei nostri paesani». E già pensava al lavoro che avrebbe dovuto fare l’indomani.
Subito dopo avere preso possesso del terreno, infatti, Filippo iniziò a lavorare di lena. Pulì la gebbia e il cattuso che portava l’acqua dalla sorgente al canale, sistemò i due ballatoi che servivano per lavare la biancheria, rifece le cunette che portavano l’acqua alle conche. Lavorò per tre mesi senza sosta per far rivivere il giardino che era stato trascurato per anni dai vecchi proprietari.
Nei primi quattro anni di lavoro, oltre che pagare puntualmente le rate semestrali del mutuo, mise da parte un bel gruzzolo, e vedendo che la famiglia cresceva – nel 1913 era nata la sesta figlia Caterina – decise di far costruire la casa. Chiamò mastru Angelo Sammartino, il migliore muratore della zona, che ascoltò le esigenze di Filippo e, una settimana dopo, gli presentò il disegno. Filippo apportò solo alcune modifiche, ne era contento. Iniziarono i lavori con sei operai e, dopo due anni di lavoro ininterrotto, la costruzione fu completata. Filippo vi trasferì la famiglia e gli animali. Era il 1918, l’anno in cui si diffuse la Spagnola.
Papà...anni
Il primo nato dall’unione di Maria e Vincenzo fu Ciccino. Per don Filippo era il primo nipote del suo secondo matrimonio. Grandi pranzi domenicali si consumano in campagna quasi ogni settima. Fu durante uno di questi che Ciccino, già abbastanza grande per cominciare a camminare e a parlare, fu innalzato al cospetto di don Filippo dalla zia Carmelina.
«Ciccì, questo è il nonno, chiamalo… nonno, nonno…».
Il bambino si sforzò e alla fine riuscì a proferire.
«No…no, nonno.»
«Nuovo Re, nuova liggi» disse a bassa voce e tanticchia contrariato don Filippo.
«Papà che vuole dire?» contrappuntò la zia Elisabetta.
«Che quannu veni un nuovo Re si cangiunu ‘i liggi. Cca nova mugghiera mi cangiastivu ‘u nomi».
Le tre sorelle si guardarono negli occhi, Maria quindi prese in braccio il figlio, lo guardò negli occhi e gli disse che il nonno lo doveva chiamare “paparanni", grande papà. Così, infatti, lo chiamavano i nipoti nati dai figli della prima moglie.
«Papa... anni» pronunciò il piccolo.
«Bravo. Paparanni come lo chiama to cugino Giovanni».
E così per tutti i futuri nipoti fu ‘u paparanni, senza distinzione fra prima e seconda generazione.
Dopo il matrimonio di Maria, fu la volta di Gaetano, con Lina e di Carmelina con Francesco, un ragazzo ragusano che fece la felicità di don Filippo perché era un contadino. Elisabetta invece sposò Vincenzo, barbiere, con la solita fuitina.
Nel frattempo, Filippo raggiunse l’età di ottant’anni e, quindi, pensò di ritirarsi dal lavoro. Prima però volle dividere i suoi terreni ai figli. Donò tre delle quattro salme del terreno seminativo che possedeva alla Ginistrella, meno florido del Fondacazzo, a Gaetano, a Carmelina e a Elisabetta. La parte restante venne divise tra Sebastiano e Concetta, figli di Caterina, una delle figlie della prima moglie, che era morta prematuramente. Il terreno del Fondacazzo fu diviso tra Maria e i cinque figli viventi della prima moglie. Escluse Giuseppe, perché era stato mantenuto durante gli studi a Catania, per il liceo e per l’università.
Cedute le proprietà ai figli, si trasferì con Peppina in via Terranova, ad Aidone. La mattina faceva colazione con una capiente tazza di latte versato dal capraio che faceva il giro del paese mungendo sulle tazze lasciate davanti alle porte dai clienti. Poi usciva, e a giorni alterni passava dal barbiere per la pulizia del volto; quindi, andava in piazza Cordova dove incontrava gli amici alla Società dei Contadini. Prima di mezzogiorno tornava a casa per un pranzo frugale e poi si sedeva sulla sua poltrona in attesa che qualcuno dei figli lo andasse a trovare. Teneva molto alla compagnia dei figli e dei nipoti, e se qualcuno per qualche giorno avesse ritardato nell’andarlo a trovare, lo avrebbe mandato a chiamare con parole del genere - «Pippina, vai da Carmilina ppi vidiri come sta. Avi tri iorni che non vena, dicci ca ci vogghiu parrari» - che generavano situazioni di questo tipo: «Papà cosa mi doveva dire?». «No nenti, ti vuliva vidiri. Ora ‘u tempu mi sta scurzannu e non vogghiu farlo passare senza stare in compagnia dei me figghi».
Nei suoi pensieri c’era sempre la terra e quando i figli lo andavano a trovare domandava sempre della campagna: come era andato il raccolto, se avevano piantato altri alberi, quanti quintali di olive avevano raccolto, quanto olio avevano prodotto. Ogni tanto chiedeva alla figlia Maria di accompagnarlo in campagna con l’autobus; non se la sentiva di andarci da solo. Voleva parlare a suoi alberi, come ad altri figli che non potevano muoversi per andarlo a trovare.
La sua casa era frequentata da amici che lo andavo a trovare per ricordargli dei tempi andati e da paesani in cerca di denaro a credito; che lui concedeva dopo aver consultato la figlia Maria e solo a gente di cui si fidava. I giorni delle feste religiose, era un via vai di nipoti ai quali lui donava volentieri dei soldi, ci faciva ‘a fera’: una piccola somma che variava a seconda dell’età, cento lire ai più grandi, cinquanta ai piccoli.
Frequentava assiduamente la Chiesa di Santa Maria la Cava, dove è venerato San Filippo Apostolo, il suo santo protettore. Seguiva le funzioni religiose e pregava per tutti i suoi morti.
Morì il dieci luglio del 1963, dopo una brevissima malattia. Gli ultimi giorni non si alzava più dal letto e quando i figli gli chiedevano perché non voleva alzarsi rispondeva che si stava preparando a incontrare sua moglie Elisabetta.
***
E in una tomba di marmo scuro accanto a Elisabetta Li Calsi, u paparanni, mio nonno, fece sistemare le sue spoglie. All’ombra di un busto di marmo bianco che ne rievoca lo sguardo severo e greco. Nonna Peppina invece è nella cappella della confraternita di Santa Maria la Cava, inumata lì mentre c’era chi aveva scommesso su una tomba a tre piazze.
Proprio per una parentela reale o acquisita con buona parte della popolazione aidonese, la sua leggenda riecheggia ancora qua e là tra i monti Erei. O meglio riecheggiano le leggende ricamate sul modo con cui lui “trovò” i soldi per svoltare e acquistare il Fondacazzo. Su come cioè un bracciante potesse aver acquisito un terreno confiscato ai Cordova, famiglia di cappelli e signori del Risorgimento. Sì la diceria che per primo suo fratello Giovanni aveva udito raccontata da un altro bracciante, nel frattempo si è proprio fatta leggenda. Anzi due. Nella prima assecondando il racconto originario a Giovanni, Filippo avrebbe udito di nascosto le confidenze del carcerato all’amico venuto al carcere in sua compagnia. E poi muovendosi in anticipo individuò il punto esatto in cui si trovava la refurtiva e grazie a quei soldi pagò – anno dopo anno per non farsi scoprire – le rate del mutuo.
Nella seconda Filippo si fa Indiana Jones, e anticipa l’archeologo Malcolm Bell, autore dei primi scavi a Morgantina, di oltre una quarantina d’anni. A suffragare questo racconto l’esistenza di un pesante monolite nell’aia sotto il gelso, che pare un grande sarcofago di pietra rovesciato con il coperchio poggiato sopra che d’estate serviva da tavolo di lavoro al fresco. Anche i ballatoi al canale, dove venivano lavati i panni, sembrano pietre lavorate da mani antiche. Mentre u’ Funnacazzu è proprio sotto quell’area di Morgantina chiamata Serra Orlando.
‘U paparanni, quindi, nell’intenzione di rendere produttivo ogni angolo della sua terra, avrebbe tirato fuori quel gran masso che si sarebbe rivelato uno scrigno di metalli pregiati. In paese, per quei pochi che ancora lo ricordano, è un fatto assodato che – in un modo o nell’altro – Fulippo Giarrusso avrebbe ottenuto quei soldi con destrezza diciamo poco onesta. Noi, nipoti e pronipoti, in quelle ormai rare occasioni che ci incontriamo ci divertiamo a aggiungere particolari a quelle leggende e smentirci “no, non fu così… A mia mi cuntànu ca ‘u paparanni…”.
Poi al di là dell’affettuoso divertimento che ci danno ancora queste storie, avendo conosciuto lui come i suoi figli – e in qualche misura, conoscendoci anche noi stessi – pensiamo che l’approdo al benessere di nostro nonno sia frutto di abilità pratiche e di una straordinaria dedizione al lavoro. E ci piace pensare che – questo sì che avrebbe del leggendario – almeno nella vicenda umana di Filippo Calcagno Giarrusso, quell’ascensore sociale che i siciliani hanno potuto sperimentare solo fuori da questa terra, quella legge che fa poveri i ricchi viziati e ricchi i poveri che sanno mangiare pane duro (o frutti già a terra), per una rara volta – in Sicilia, non c’è trucco e non c’è inganno – sia stata attuata.