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Thrinakìa sixième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.22 N.1 2024

Rituzza che voleva volare

Cristiano Parafioriti

magma@analisiqualitativa.com

Varese (Italia). Uno stralcio della prima opera classificata nella sezione Biografie della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.

 

 

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Giulia Galli, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.

Ora posso dirlo

Il 18 novembre del 1985, insieme a mio padre sono morta anch’io. Per la prima volta. Da allora iniziò una lunga notte che sembrava non dovesse finire mai. E in quel buio, Nicola guidava a fari spenti, accecato dall’odio e dal desiderio di vendetta. Ripeteva sempre che nostro padre avrebbe riposato in pace solo se fosse stato vendicato col sangue di chi l’aveva ammazzato. Povero fratello mio, non lo sapeva che s’era imbarcato in qualcosa di più grande di lui. Fu allora che Nicola iniziò a diventare un morto che camminava.

A poco a poco, giorno dopo giorno, scendeva a patti con quelli là, passava giornate intere fuori casa, era sospettoso di tutto e girava con la pistola. Neanche quando Piera rimase incinta la sua anima trovò pace… anzi! Un giorno, potevo avere dodici anni, mentre guardavo “Non è la Rai” e sognavo di essere una di quelle ragazzine, là, in televisione, si avvicinò e mi disse: – Rituzza, ho scoperto perché hanno ammazzato a nostro padre. Mi cuntò che nella famosa riunione che ci fu a casa nostra, mio padre aveva cercato di far ragionare i capi delle famiglie affinché non si immischiassero nel traffico della droga. Disse loro che quella porcheria avrebbe rovinato molti giovani e tra quei giovani c’erano anche i loro figli.

Nostro padre insisteva che non era quello il business del futuro perché portava morte e rendeva schiavi, che non era come rubare greggi a riscatto o mantenere in ordine le cose. Ma ormai era scritto, tutto era già stato deciso. Quella sera erano venuti a casa nostra solo per avere conferma dalla sua viva voce che lui era “contro” e che quello che si vociferava in giro era vero: don Vito Atria non era d’accordo.

E quando quei “ monsignori” lasciarono la nostra casa, mio padre lo sapeva che quel “no” alla droga lo aveva fatto diventare un morto che camminava. Perché dicono che la mafia ha le sue regole. Leggi sporche, fatte con il sangue. E la prima di queste regole è che quando sei dentro al sistema e all’organizzazione, se la maggioranza decide di svoltare a destra, tu non puoi decidere di andare a sinistra, perché sennò diventi un problema e, quindi, devi essere “posato”. Sì, i mafiosi dicono così quando si tratta di eliminare qualcuno, lo sapevate? Le parole per un mafioso sono importanti e vanno misurate. Usano il Vangelo a convenienza loro! Ad esempio, a molti di quei malacarne, piace quella frase di Gesù Cristo: “Che il tuo sì sia sì e il tuo no sia no”. Michele Greco detto “il papà” prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, per giudicarlo delle sue tinturie da capomafia chiese e ottenne la parola.

E gliela diedero pure. E sapete che disse: «Io desidero fare un augurio. Vi auguro la pace signor presidente, a tutti voi auguro la pace». La pace. Questo galantuomo che aveva scannato cristiani, tradito amici e affiliati suoi e che li aveva dati in pasto a quelle belve dei Corleonesi, ora augurava “la pace”. Io la pace la persi per sempre il 18 novembre del 1985, quando morì mio padre. Avevo 9 anni, 2 mesi e 14 giorni. Vi pare giusto che una bambina debba perdere “la pace” a 9 anni, 2 mesi e 14 giorni?

Se io avevo perso la pace, mio fratello Nicola s’era messo in testa la guerra! Ma a quelli là, la guerra, non la puoi fare sei solo, senza armi e, soprattutto, senza amici. E sì, perché quando sei tra i perdenti, poi, gli amici li perdi pure. E quei quattro scassapagghiari che ancora lo assicutavano, lo facevano per soldi o per interesse.

A Nicola, ormai nessuno invece poteva proteggerlo dalla sua fame di sangue. Né Piera, né Vita Maria, né io e nemmeno i consigli di qualche amico degli amici che lo raccomandava di scordarsi delle cose del passato, che potevano guastare anche quelle del presente e togliergli il futuro. Ma era come se dalla morte di mio padre il tempo non fosse più ripreso a scorrere per lui. Era un orologio rotto ormai e l’unico modo per far tornare a girare le lancette era trovare chi aveva ammazzato nostro padre e fargliela pagare. Ma quell’orologio non ripartì più.

Il 24 giugno del 1991, mentre lavorava nella pizzeria che avevano rilevato con Piera nella speranza di cambiare vita, lo riempirono di piombo davanti a mia cognata che raccolse gli ultimi respiri di mio fratello che pareva la pietà di Michelangelo. Come mio padre, anche a mio fratello lo ammazzarono di lunedì. Come se quei mafiosi avessero fretta di cominciare bene la settimana, risolvendo le questioni in sospeso.

Don Saro, ma quann’è che l’acqua torna pulita? / Quannu? / Si ‘cca continuanu a ghittari petri ‘nto me cori. / E s’arrisettunu allu funnu / E mi lassunu pena e duluri. / Don Saro, ma quann’è che l’acqua torna pulita? / Quannu? / Sta vita mi pari sempri amaramente / figghia di malasorta, / cundanna di suffriri.

Manco il tempo del funerale che Piera era sparita. Venivano da noi a chiedere di lei: amici, vicini curiosi e tanti altri avvoltoi. Nessuno sapeva dove fosse. Io sì. Andai a casa dei suoi genitori, loro capirono subito e senza dire una parola mi abbracciarono. Piera mi aveva telefonato, aveva deciso di collaborare con la Giustizia per far condannare i mandanti e gli assassini di Nicola.

Quel giorno che Piera lasciò la Sicilia per sempre, compresi che oltre ai morti che camminavano, esistevano anche i fantasmi che camminavano. Piera e Vita Maria adesso erano fantasmi. E come i fantasmi nessuno le poteva più vedere, nemmeno io.

Ora.. ora che sono morta so che quello fu il momento in cui si salvarono, in cui afferrarono la loro vita a costo, però della loro libertà e del loro stesso nome. E a loro, questo dono immenso, lo fecero alcune donne coraggiose, magistrati della Repubblica e il loro capo, uno che i mafiosi li guardava dritto negli occhi e che la paura non sapeva nemmeno cosa fosse.

Si chiamava Paolo Borsellino

Un giorno guardò Piera e le disse: «Io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità».

Paolo Borsellino era un uomo che la morte stessa la guardava dritto negli occhi e che la paura non sapeva nemmeno cosa fosse. Mia madre lo venne a sapere. Già alla sera del funerale di Nicola si erano scornate. Piera era sicura di aver riconosciuto gli assassini e voleva raccontarlo ai carabinieri ma mia madre le sparò in faccia queste parole: Statti muta! Tu non sai niente!

Una notte qualcuno bussò alla porta. Era Andrea D’Anna, un picciotto che aveva lavorato con mio padre. Disse che era venuto a scusarsi per non averci fatto le condoglianze, parlava calmo, pacato. Pensate fin dove arriva la vigliaccheria di certi uomini! Bussare a casa di due donne indifese nel cuore della notte! Vattini! Gli gridò mia madre.

Andrea D’Anna se ne andò via non prima di avermi minacciato: Nella vita bisogna parlare poco! Ero atterrita. All’indomani, prima di andare a scuola, bussai alla porta di don Saro, era l’alba.

Appena comprese ch’ero io, mi aprì. Lo abbracciai come s’abbraccia un padre e gli misi Penelope tra le braccia. – Don Saro, se vossia mi vuole bene, si scordi il nome di Rita Atria, lo dico per il suo di bene. Non mi faccia domande! Le chiedo un’ultima cosa. Non la posso portare cu mia la me jattuzza. Vossia sono sicuro le darà l’affetto che merita.– E lui, tenero come sempre: Nun ti scantari Rituzza, va! Fa chiuddu ca fari!

Fu l’ultima volta che lo vidi. Era il 21 novembre del 1991, il giorno in cui decisi di diventare un fantasma, di lasciare il mio nome, la mia casa, Penelope e mia madre. Ma tanto lei manco mi voleva, fin dalla nascita. Sono viva solo perché mio padre convinse il dottore a dire una santa bugia. Così quel medico pietoso avvisò mia madre che se avesse abortito, avrebbe rischiato la morte lei stessa e quindi fu costretta a tenermi. Era già iniziata bene la mia vita, no?

Essere un fantasma agli occhi di quella donna, dunque, non mi pesava affatto. Forse, in realtà, lo avevo sognato molte volte. Adesso ero fatta della stessa materia di Piera e potevo riabbracciare lei e Vita Maria.

Povera nipote mia, innocente. Un giorno qualcuno dovrà pur dirle che le è stato cambiato nome, che è nata in Sicilia, che suo nonno e suo padre sono stati uccisi dalla mafia e che erano mafiosi anche loro, che ha “festeggiato” i tre anni il giorno del funerale di suo padre, che sua madre si chiama Piera Aiello e non con il nome di copertura che le ha dato lo Stato, che sua zia era Rita Atria.

Forse in quest’angolo di Sicilia scordato da Dio ci sarà qualcuno che anche a lei, creatura innocente, chiamerà «pentita, lingua longa e amica degli sbirri». Ahi quale malasorte tiranna ha condannato a te più di tutti, picciridda mia! A girare l’Italia come una zingara, a cangiare casa ogni due per tre, a scordarti gli amici, a nasconderti sempre! Ahi che vita infame per chi decide di combattere e ribellarsi a ‘sta camurria! Una sera che non finisce mai e, sopra di te: un cielo senza stelle e un mondo che, improvvisamente, perde i colori.

Perché se non è morte è paura, se non è paura è rabbia, se non è rabbia è umiliazione, se non è umiliazione è schiavitù. Si diventa prigionieri della verità e della giustizia, costrette a rinnegare il nostro passato e il nostro stesso nome.

L’ultima volta che pronunciai il mio fu quando mi presentai davanti al giudice Borsellino: «Sono Rita Atria, sorella di Atria Nicola. Mi presento davanti alla S.V. intendendo fornire alcune notizie di cui ho conoscenza, relative a episodi e circostanze collegate all’uccisione di mio fratello, come pure alla precedente uccisione di mio padre, Vito Atria, avvenuta in Partanna nel 1985 e più in generale notizie relative all’ambiente in cui tali episodi vennero a maturare».

Il signor Giudice mi disse che da quel momento la porta dietro di me s’era chiusa per sempre e io potevo solo guardare avanti. Mi disse, il signor Giudice, che la mia vita sarebbe stata un grande controsenso dunque: occhi in avanti e mente a quello che mi ero lasciata dietro. Dovevo farlo per aiutare la Giustizia a capire come funzionavano le cose a Partanna, chi comanda, chi decideva, chi erano i pupi e chi erano i pupari. Io e Piera scoperchiammo un bel teatrino. La maggior parte delle volte parlavamo a magistrati donne.

La dottoressa Camassa aveva 30 anni, la dottoressa Plazzi 28. Erano giovani donne che ci ascoltavano come sorelle, prima ancora che come giudici. Molte volte ho pianto, nascosta da loro. Erano lacrime nuove per me, era pura e semplice commozione. Mi volevano bene le mie dottoresse, mi voleva bene zio Paolo e non mi sono mai sentita un “oggetto” che loro usavano per arrivare ai mafiosi del Belice. Ero “Rituzza, ‘a picciridda”. Quando ci incontravamo, la dottoressa Camassa, prima ancora di iniziare, mi faceva il caffè con la caffettiera e s’incazzava se, distrattamente, lo lasciava troppo sul fornello e sporcava la cucina, era uno spasso vederla arrabbiata, lei che di solito era tanto tenera. La dottoressa Plazzi si chiamava Morena, un nome che sapeva di femmina vera. Lei mi portava i “turtell” con il ripieno alle castagne quando tornava dalla sua città del Nord. E quando parlavamo delle famiglie mafiose di Partanna e vedeva che i miei occhi andavano su quella guantiera mi diceva sottovoce: Mangiali, Rita! Sono per te!

Ma zio Paolo, lui… lui era straordinario. Dietro quei baffi teneri, si nascondeva un uomo dall’animo grande, talmente grande ch’era capace di contenere tutte le nostre incertezze, i nostri dolori, i nostri momenti di debolezza. Un giorno gli chiesi: – Dottore, mi dica… è questo il modo migliore di vendicarmi? Facendoli arrestare a quei mafiosi maledetti? – Lui non si scompose, fece un tiro di sigaretta, disegnò nell’aria una nuvola di fumo e mi rispose: Rituzza la Giustizia non si vendica, ma cerca solo la via migliore per manifestarsi. Ti dirò una cosa che ti darà dispiacere, ma zio Paolo è sempre sincero con te e questa cosa tu la devi sapere. Non devi vedere le cose come se gli Atria fossero i buoni e gli altri i cattivi. “Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva”. Questa è una frase de “L’attimo fuggente” quel film di cui parli sempre con le mie ragazze giudici. L’ho cercata apposta per te! Tuo padre resterà sempre tuo padre e tuo fratello sarà sempre tuo fratello ma erano mafiosi, Rita. Erano malacarne come gli altri, solo che si sono trovati dalla parte sbagliata. Era una guerra di mafia e loro hanno perso.

Le parole di zio Paolo, al momento, mi ferirono perché erano tristemente vere. La mafia era sempre stata dentro di noi, dentro la nostra famiglia. Gli Atria non erano i buoni, erano mafiosi. Mafiosi perdenti. Un giorno gli scrissi una lettera.

«Caro signor giudice, le scrivo perché mi hanno ferita le parole che qualcuno ha voluto dire sul mio conto: sono stata definita una "pentita" della mafia. Dicono che sono la più giovane "pentita" d'Italia perché ho soltanto 17 anni e mezzo. Ma io non mi sento affatto una "pentita" perché non sono mai stata una mafiosa. Sto semplicemente cercando di trovare il coraggio per aiutare la "nostra" Sicilia a uscire dalla morsa della mafia. L'ho capito da Lei cosa vuol dire coraggio. Perché Lei è un uomo coraggioso dal quale ho imparato tante cose: la prima che nella vita non ci si deve inchinare alla prepotenza. Ma soprattutto Lei mi ha insegnato che raccontare la verità aiuta a rimanere sereni e a posto con la propria coscienza».

Quando scrissi questa lettera ci avevano trasferito a Roma con Piera e Vita Maria da cinque mesi. Era “il protocollo di sicurezza”. Una città grande dove potevano nasconderci meglio. Quant’è bella Roma al mattino. Prendevo l’85 alla fermata di via Tuscolana e scendevo al Colosseo e iniziavo a girare per la città, libera! Nessuno mi conosceva ma nemmeno io potevo conoscere nessuno, era il protocollo di sicurezza. Eppure mi bastava respirare quell’aria e mi sentivo veramente libera.

Di nuovo. M’innamorai di Roma e anche di un ragazzo. Sì di un ragazzo, in carne ed ossa. Ora passeggiavo con lui, mangiavamo il gelato, parlavamo di futuro, di qualcosa che fino a qualche mese prima, per me, era fantasia. Era dolce il mio Gabriele negli occhi e nel cuore e aveva accettato la mia storia. Piera mi stava accanto, era mia sorella e Vita Maria cresceva lontano da quel mondo marcio che l’aveva vista nascere.

Ma la mia vita era congegnata così spietatamente che appena un raggio di felicità appariva all’orizzonte, subito la sorte matrigna lo cangiava in dolore. E così, un bel sabato di maggio, mentre ero a passeggio per la città, il giudice Giovanni Falcone, sua moglie la dottoressa Morvillo e gli agenti della loro scorta saltano per aria, a Capaci, 500 chili di tritolo.

È bastato un istante, un pulsante

E tutto cambia, e il mondo torna senza colori, e la vita si ferma, e il sogno di un futuro migliore svanisce. Ma la mafia no! La mafia non cambia. La mafia va al mare, va in vacanza, si cura nelle cliniche migliori e siede nei ristoranti di lusso. Loro non cambiano. Lo zio Paolo iniziò a morire quel giorno. Era il 23 maggio del 1992.

Una data che segnò la vita di tutti. Lui lo sapeva che, dopo Falcone, era in cima alla lista. Un nome da cancellare con il lapis rosso, quello del sangue. E pensò a noi, alle sue picciridde fino alla fine. Mi chiamò e mi disse: – Rituzza, stai tranquilla, voi siete al sicuro! E tu, zio Paolo? Io? Io è da quando faccio questo lavoro che sono un morto che cammina. Ho un appuntamento. È solo questione di tempo.

Quel tempo era 57 giorni. Quelli che passarono tra Capaci e Via D’Amelio. Tra Falcone e Borsellino. Già, era il 19 luglio e a Roma pioveva ma a Palermo pioveva sangue. Ancora tritolo. È bastato un istante, un pulsante. Hanno strappato la stella polare dal mio firmamento. Io, Rita, che volevo volare come un aquilone e chiudere gli occhi e sognare il mare, nell'ultimo minuto di vita del mio Giudice ho visto il sangue dei miei morti passarmi avanti, ho visto la speranza morire. E perdere il mio “domani”, per sempre. Perché “domani” è divenuto troppo tardi. “Adesso” c'è un inferno di corpi dilaniati e di macchine in fiamme e donne che piangono e urla che si levano. “Adesso” la mafia tiranna ti mostra l'abisso di orrore che ha dentro di sé. “Adesso” se n’è andato anche il mio giudice. Quella sera mi guardai allo specchio è dissi: “Adesso” non è più niente.

Non ci sono colori, né musica, né rivoli d’acqua pura. Non c’è più cielo e nemmeno terra, né Dio, né demoni. Non piange più la notte di stelle, né sale la brezza dal mare, non ulula il vento maestoso e non mi bagna più la pioggia. Non giocano gli scoiattoli su per i pioppi di questa città, né ballano le rondini tra i pali della luce. “Adesso” non sento fame, né dolore, e nemmeno la morte m’è più spavento. Non odo più le campane di San Giovanni che mi allietavano il giorno e le ore; come un corpo morto vago ancora senza più anima. Svuotata d’ogni senso e di me stessa, mi trascino come materia cieca, senza luce né speranza.

“Adesso” che Paolo Borsellino è morto. La vita mia giace con lui e non vuole lasciarlo andare perché la sua anima è ancora qui, incastonata nel mio cuore e mi fa inciampare a ogni passo, a ogni ora. E quindi oggi, che è il 26 luglio del 1992, io, Rita, a modo mio ho deciso di venirti a cercare signor Giudice, e ti ritroverò, di nuovo, perché senza di te, anche questa mia vita non ha senso.

Che sia nel vento, che sia nel silenzio, che sia nel buio o solo nella pioggia io ti verrò a cercare per farmi tenere per mano ancora una ultima volta, per dirti ancora che se rinascessi serpe, o foglia, o farfalla, o ragno, o libellula, o rosa, o spina, o roccia, o lupo… mille volte farei quello che ho fatto, quello che tu m’hai insegnato a chiamare “giusto”.

E se nascessi goccia saresti tu il mio mare e se fossi raggio tu il mio sole, se fossi io stesso una malattia tu saresti speranza, se fossi solo un corpo informe e senza nome tu plasmeresti di certo la mia anima immortale.

Perché quando la mia anima vagava ingannata tra le tenebre tu mi hai accolto e m’hai trasformata in una paladina della Giustizia.

“Adesso”, qui, davanti a voi, io, Rita accuso la MAFIA di avermi ucciso oggi, di aver sparso i miei capelli nel sangue, e martoriato il mio corpo esanime con il volto brutalmente schiacciato contro la strada. E vedo che lì, su quel marciapiede di via Amelia, accorrono due persone pallide che non sono ancora riuscite a bere il loro caffè della sera e si precipitano a comprendere quello che non potrebbero mai comprendere.

Una ragazza si è lanciata dal settimo piano... dicono. Suicida! Dicono! Ma che ne possono sapere loro che Rituzza voleva solo volare via da suo padre, da suo fratello, dal suo Giudice. Perché non è vero che il tempo guarisce tutte le ferite. Il tempo non guarisce le ferite di una bambina che la madre non voleva e né può lavare dal cuore il sangue di tutti gli uomini che ha amato e che le hanno ammazzato.

Il tempo, certi dolori non li capisce. Per chi ha l’anima morta, tutte le ombre, ormai, sono cupe. E rimane solo il ricordo e il silenzio. E capisce che quel silenzio è il suo nemico e che ci vorranno anni della sua vita per sconfiggerlo o che forse non lo sconfiggerà mai.

Io, Rita ho gridato che non è stata colpa mia… se sono morta. E chi dice che mi sono ammazzata sa che anche questa è una menzogna. “Adesso” qui è luce. È pace. Ogni tanto però mi struggo di poter avere indietro un unico minuto della mia vecchia vita per far sì che almeno per qualche istante possa tornare laggiù… E dire a papà di essere veramente un paciere, a Nicola di amare Piera e Vita Maria con tutta l’anima sua perché io lo so quanto lui sappia amare e ai mafiosi della mia Partanna di pentirsi perché, sapete, io ho visto quelli che stanno nelle tenebre.

E poi saluterei per l’ultima volta mia madre e la bacerei, dicendole che la perdono, perché è colpa della vita dura che ha avuto in pegno, se non m’è stata mai “mamma”. Direi a Piera d’essere sempre Piera, a Vita Maria di crescere coraggiosa. E a Gabriele chiederei mille volte “scusa” per non averlo amato per come meritava. Amore mio! E a lei, si, proprio a lei signor giudice Borsellino... direi che ora Rituzza, la tua picciridda, ha imparato a volare.

Da sola, proprio come volevi tu. Ora che ho di nuovo i miei capelli e il mio sorriso. Ora che ho di nuovo il mio nome. Ora che sono Rita. Ora che sono vita.

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