Catania (Italia). Uno stralcio della seconda opera classificata nella sezione Autobiografie della sesta edizione del premio internazionale Thrinakìa.
Daniel D’Agostino, Istituto I.S.I.S.S. Einaudi – Molari di Rimini - Sezione speciale L’isola Thrinakìa. AMIS Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano, Le Stelle in Tasca ODV.
Emozioni travolgenti
Un coacervo di emozioni investe senza sosta l’animo degli uomini e traspare spesso dai loro volti in preda all’agitazione, quasi a tradire l’inquietudine chiusa nei loro cuori, rendendola palese senza che essi riescano sempre a nasconderle, come vorrebbero, se non altro per celare il loro plausibile imbarazzo.
Esaltazione! Paura! Sono soltanto due di queste emozioni incontrollabili che a volte, anzi spesso, affiorano, anche e soprattutto, nella mente facilmente suggestionabile dei ragazzi, oltre che in quella più razionale degli adulti.
Esse irrompono nei loro cuori, e quando fanno capolino in quei cervelli ancora non completamente forgiati e quindi irrazionali, comunque non avvezzi a governare quanto accade attorno a loro e dentro di loro, succede che la loro giovane vita viene del tutto scompaginata, prende una direzione che nessuno avrebbe mai voluto fosse così inverosimile, insomma scappa per la tangente.
L’esaltazione a volte ti prende nel constatare di essere finalmente immerso in una nuova vita che dovrebbe regalarti nuovi stimoli, nuove emozioni, e quindi la voglia di agire e la determinazione necessaria ad allontanarti da quel fastidioso percorso fatto fino ad allora, allorché intravedi, non un piccolo spiraglio, una breccia appena abbozzata, ma addirittura qualcosa di prorompente, di grandioso, che si spalanca davanti ai tuoi occhi ancora offuscati e confusi dalle esperienze negative vissute, ed ora increduli che tutto questo stia capitando proprio a te che, fino a ieri, ancora non comprendevi pienamente il vero significato di un cambiamento che si staglia deciso sul tuo orizzonte, e comunque adesso non vedi l’ora di intraprendere la tua vita e continuarla sulla traccia di questo nuovo solco che ti dovrebbe condurre verso un futuro immaginifico.
Un cambiamento che ti fa sorridere alla vita che ora sembra attenderti, impaziente, si spalanca davanti a te, pronto a tentare di modificare il corso degli eventi che ti hanno portato fin qui, dargli un’altra direzione, quella che tu hai sempre sognato e che ora ti dà una voglia matta di continuare a percorrere senza fermarti, senza fare alcuna tappa che ti faccia raggiungere la ineluttabile fine prestabilita, ed hai fretta di andare avanti, forse per la paura insorgente che qualcosa possa non andare per il verso giusto, e allora ti vedi costretto dal tuo dannato destino che quasi sembra godere sadicamente nel perseguitarti, a tornare ancora indietro e riprendere, anche se di malavoglia, la rotta sempre perseguita.
Ma quest’altra emozione, la paura, insorge prepotente ed improvvisa, come se si trovasse in agguato dietro l’angolo di una strada, per tenderti un imboscata, o addirittura si erge imponente e maestosa al sopraggiungere di un ostacolo imprevisto ed inatteso, disposto a rubarti il futuro per cui hai tanto lottato e sognato, ed è lì, pronta a strapparti il cuore ancora palpitante dall’esaltazione impaziente che forse ti aveva proiettato troppo precipitosamente fin sopra le stelle ai primi avvisagli di una possibile variazione di traiettoria che potesse trascinare la tua ancor giovane esistenza nell’Olimpo degli uomini baciati dalla fortuna, o probabilmente nati con la classica camicia.
E la speranza, altra incontrollabile emozione che, senza che tu te lo sappia spiegare affatto, suole prendere il sopravvento in un cuore invaso dal pessimismo per un lusinghiero domani, perché in passato hai sempre avuto a che fare con eventi negativi, ha la pessima abitudine di svolazzare sui tuoi desideri più vagheggiati, sui tuoi aquiloni più arditi e variopinti, per poi, il più delle volte, farteli crollare esanimi e senza alcuna possibilità di riuscita, davanti ai tuoi piedi scalpitanti perché già si apprestavano a dirigersi dove il tuo cuore desiderava che andassero.
Queste ed altre analoghe emozioni si erano impossessate del mio animo allorché incominciavo a muovere i miei primi incerti passi nella città che ci aveva accolti con un ancora tiepido sole autunnale, quasi a voler rafforzare in noi la speranza per un futuro più armonioso e meno incerto, ma un sole parzialmente velato da leggere nuvole di un colore grigio chiaro, nuvole che sembravano voler mitigare quelle vagheggiate speranze, e forse erano presagi inequivocabili di una qualche turbolenza climatica di fine stagione, di un qualche acquazzone poco auspicabile, quando i miei genitori avevano deciso che ci trasferissimo qua, in questa città nella quale l’auspicio era di trovare una positiva soluzione alle nostre legittime aspettative.
Verso la vita
Queste emozioni hanno preso stabilmente posto dentro il mio cuore di giovane ragazzo sbarazzino, ricco solo di speranze e di aspettative, ed hanno accompagnato fedelmente i miei anni giovanili nell’attesa che il fato si decidesse, una buona volta, ad andare d’accordo con quello che io avrei voluto dalla vita.
Credo che potrei tranquillamente tracciare, sotto l’influsso della mia fervida fantasia, quattro segmenti ortogonali fra loro che tendono a congiungersi, quasi a formare un quadrilatero, in verità poco equilibrato, anzi secondo me un po’ sbilenco, all’interno del quale poter rappresentare quindici anni fondamentali della mia vita, quelli che mi portarono dai tredici ai ventotto anni, e sui quali ho dovuto edificare, con tanta pazienza e una buona dose di umiltà, ma con ostentato orgoglio e dignità, la successiva fase della mia vita, quella che, coerentemente con le mie aspettative e le mie utopie, mi avrebbe dovuto proiettare nel mondo di una realtà auspicata migliore, ma purtroppo sempre in balìa di venti contrari e poco propensi a favorire un regolare e felice decollo verso il futuro.
Uno spazio delimitato ed un lasso di tempo confinato, che tendono a confondersi fra di loro, ad intrecciarsi seguendo le misteriose vie del fato, per dare vita ad una singola entità quasi irreale, anche se si tratta di due grandezze incommensurabili e quindi inconciliabili per poter coesistere; ma la fantasia degli uomini, e specialmente quella più sciolta ed ingegnosa dei ragazzi, non teme limiti di tempo né confini invalicabili, e vaga impercettibilmente leggera nello spazio e nel tempo, ugualmente senza limiti, proprio non ne vuole sapere di recinti, e non si sazia mai di esplorare sempre nuovi spazi ed altri infiniti dove perdersi e ritrovarsi, in una giostra vorticosa, ed un continuo rincorrersi di sensazioni ed emozioni che ti investono senza mai darti tregua, e che da soli basterebbero a soddisfare ogni tua più astrusa quanto stravagante esigenza.
Quel quadrato appena abbozzato e riposto quasi religiosamente in un remoto e polveroso angolino della mia mente, dove è rimasto sempre custodito gelosamente da quando l’ho così focalizzato, potrebbe corrispondere ad un campicello nel quale avevo messo a dimora alcune piantine che, sempre nel mio immaginario utopistico, mi auguravo di veder crescere rapidamente e diventare addirittura delle gigantesche e sempreverdi sequoie sulle quali arrampicarmi baldanzosamente come uno scoiattolo, e dalle cui cime ondeggianti per il vento che le sferza senza sosta, avrei potuto contemplare, distesi ai miei piedi, i panorami più suggestivi del mondo, e godere di questi inestimabili paesaggi.
Si tratta, comunque, di una base di lancio verso il futuro, come se si trattasse di una normale piattaforma per il decollo di navicelle spaziali, o di una fantastica astronave che dir si voglia, che avrebbe dovuto essere lanciata verso il lontano e immenso cielo col suo colore di un azzurro intenso, per me auspicio di cose promettenti, addentrarsi con impeto incontenibile nello sconfinato spazio siderale, e continuare all’infinito la sua veloce corsa in quel firmamento così zeppo di stelle che, se non stai molto attento, e non controlli bene il sistema di pilotaggio, finisci per sbatterci contro, prima o poi; e nell’urto ti farai male, molto male, come accade sempre, nella vita reale, se vai a sbattere contro un ostacolo più o meno imprevisto, specialmente se persisterai a farti stravolgere e condizionare la vita dai fantasiosi sogni che continui a coltivare come se fosse la cosa più naturale del mondo, un mondo in cui, purtroppo, è preferibile stare il più possibile con i piedi su questa dura e scomoda terra dalla quale la tua mente sognatrice ti vorrebbe tenere lontano.
Io paragono, forse audacemente, quell'astronave in corsa, all'evoluzione della nostra vita che si svilupperà verso una direzione a noi ignota e continuerà, certo non all’infinito, ma almeno fino a che in essa ci sarà combustibile sufficiente, o fino a quando le sue batterie solari potranno essere ricaricate di energia dai caldi raggi del sole che, ad un certo momento della traiettoria seguita, sarà tanto lontana da essere incapace di relazionarsi con esse, ormai allontanatesi troppo dalla sua orbita, e si esauriranno lentamente fino a lasciarla in balia di eventuali attrazioni di qualche orbita stellare incrociata casualmente, ed a spegnersi del tutto se cadrà dentro un fatale buco nero, privo di qualsiasi energia, come accadrà alla nostra vita quando essa arriverà inspiegabilmente alla fine della sua più o meno entusiasmante corsa, allorché incontrerà ineluttabilmente il suo occaso.
Una rampa di lancio, comunque, come tutti l’abbiamo avuta e forse l’avremo anche in futuro, e quella rampa di lancio vuole essere un morbido spartiacque fra l’età dei sogni puerili e della fanciullezza sconsiderata e quella delle responsabilità che, prima o poi, la vita finisce con l’assegnarci, ineluttabilmente.
Purtroppo ho spesso trascurato di irrigare i teneri virgulti di quel campo dove ho sognato di vivere i primi anni della mia spensierata giovinezza, anche se spesso non molto felice; li ho lasciati abbandonati in balia del caso, dell'inevitabile siccità che un impegno più opportuno avrebbe evitato, senza farli fatalmente inaridire, nell'illusoria sicurezza e insensato convincimento che tutto sarebbe stato facile, nella vita, e così ho perduto la possibilità di vederli attecchire e svilupparsi come io avrei desiderato ardentemente e voluto con tutta la forza della mia presunzione giovanile e della mia vuota disperazione, per poter raggiungere finalmente quello stato di euforica esaltazione cui anelavo nei miei reconditi pensieri, con tutto me stesso, forse senza eccessiva convinzione, ma comunque sempre sorretto dalla giovanile energia che si sprigionava in me allorché avevo iniziato a cavalcarla come un abile cavaliere in groppa ad un focoso destriero, e che mi spingeva a volgere lontano lo sguardo, senza peraltro perdere di vista il precario presente in cui mi dibattevo e che non mi faceva intravedere spiraglio alcuno se osavo appena chinare gli occhi verso il nulla in cui adesso mi trovavo a navigare.
E forse questa mia persistente noncuranza ha contribuito al fatale crepuscolo dei miei tanti sogni giovanili, fino a che questi non sono infine precipitati rovinosamente ai miei piedi, dopo un iniziale volo falsamente lusinghiero, lasciandomi amareggiato come non mai per tale débâcle che ha finito per condizionare tutta la mia vita futura.
Oppure avrebbe potuto corrispondere ad una disadorna ma solida piattaforma realizzata in ruvido calcestruzzo, sulla quale avrei potuto erigere un elegante e signorile edificio alto decine di piani, torreggiante come un moderno grattacielo dell’ultima generazione, che volesse gareggiare in altezza con la mia fertile immaginazione giovanile di ragazzino che, almeno fino ad allora, non aveva mai avuto niente dalla vita, se non delusioni a profusione, una dietro l’altra, e senza mai lamentarsene apertamente, come sarebbe stato peraltro giustificabile, anche se verificatosi solo sporadicamente.
Comunque venga metaforicamente rappresentato, io intendo semplicemente indirizzare una sorta di lente di ingrandimento su un periodo particolare della mia esistenza, per cercare di esaminare meglio le cause che mi hanno portato poi ad intraprendere un percorso di vita piuttosto che un altro.
Da quell’arido campo trascurato, forse per l’incuria dovuta alla noia, o da quella squallida ma robusta piattaforma, ho potuto semplicemente assistere, non al verificarsi di opere straordinarie, come mi sarebbe piaciuto, bensì al librarsi in volo dei miei colorati ma futili aquiloni che hanno avuto il solo effetto di accompagnare con scadente sagacia il mio naturale sviluppo verso gli anni successivi, quando una probabile e pretesa raggiunta maturità avrebbe potuto e dovuto dare il “là” ad una vita più serena e forse anche più degna di essere vissuta.
In cammino
A dodici anni e mezzo, quando ormai mi ero iscritto alla terza media, e già la frequentavo da circa due mesi, con risultati soddisfacenti, mi trovai catapultato, quasi inconsapevolmente e senza rendermene conto, dal mio paesello in cui trascinavo la mia ancor giovane esistenza senza infamia e senza lode, ma dove mi ero fatto, anche se faticosamente, tanti compagni di gioco, ad una grande città nella quale non conoscevo nessuno e dove, all’inizio della mia nuova travagliata esperienza mi sentivo completamente smarrito, al di fuori dal mondo reale, nel luogo in cui ritenevo che avrei dovuto sudare le proverbiali sette camicie per cercare di uscire da uno squallido anonimato che, in verità, mi pesava non poco, ma del resto non sapevo come provvedere.
Quella città era Catania, dove per circa vent’anni, allorché sono convolato a quelle nozze così a lungo sospirate e purtroppo contrastate, avrei condotto la mia poco entusiasmante esistenza, e dove avrei visto fiorire le mie fantasie e le mie speranze, per non dire illusioni, che volevo coltivare per addivenire ad una vita che fosse del tutto diversa da quella che avevo condotto fino ad allora, almeno questo era il mio desiderio ed il mio giustificabile auspicio.
All’improvviso mi ero ritrovato completamente solo; infatti, fatta eccezione per la mia famiglia e per i miei nuovi compagni di scuola che, fra l’altro, non vedevo mai perché abitavano ai quattro angoli della città, l’unica persona con la quale potevo comunicare e che aveva la mia stessa età, era una sorella di mia madre, trasferitasi colà un anno prima di me, con la quale avevo condiviso i giochi della mia prima fanciullezza, giù in paese, la sola che ora mi ritrovavo come amica.
Quando partimmo per la nuova destinazione, io non volli voltarmi indietro, non volli girare la testa per non guardare quello che, mio malgrado, mi stavo lasciando per sempre alle spalle; avevo un gran terrore che le mie vecchie paure mi potessero riconoscere, rincorrermi ed acchiapparmi per non lasciarmi andare via, lontano dalla mia sorte ria, e proseguii il mio cammino appena iniziato, accanto a mia madre, guardando sempre fisso davanti a me, ingoiando incresciose lacrime amare che mi impedivano anche di respirare, oltre che di stare attento a dove stessi mettendo i piedi, passo dopo passo, senza correre il rischio di inciampare in qualche ostacolo imprevisto.
Ma quando eravamo ormai distanti, su quel treno che ci trascinava via ansimando e sbuffando, speravo verso un futuro migliore, allora volli volgere indietro lo sguardo ed osservare per l’ultima volta i miei monti, ma non li vidi, il paesaggio era totalmente cambiato e pertanto considerai che ora stavo rivolgendo la mia attenzione verso orizzonti sconosciuti e mai notati prima, un mondo nuovo, e speravo fosse il presagio per qualcosa di meglio; allora chiusi gli occhi e finalmente vidi un fiore disteso malinconicamente là, come un gioiello solitario, in quella conca situata in mezzo ai colli Erei, la visione di un fiore gentile che sfumava gradualmente verso l’immagine di un ombelico nudo, osceno e sensuale, l’ombelico di una volgare meretrice raffigurata in un grande quadro dai colori caldi ed accesi; quell’ombelico che nel mio immaginario io avevo visto sempre posizionato al centro della Sicilia, anzi al centro del mondo, perché non era altro che il mio caro paese natio che aveva cullato i sogni della mia infanzia.
Quell’ombelico voleva anche rappresentare, sempre nel mio fantasioso ed infantile immaginario, il terminale simbolico di quel cordone ombelicale che ancora mi teneva strettamente legato al luogo che mi aveva dato i natali e che era rimasto, e lo è tuttora, il regno incontrastato dei miei più ancestrali ricordi.
Quel luogo era situato là, dove il sole era solito concentrare i suoi i raggi soffocanti di calura, e le nuvole nere potevano indirizzare il loro carico di acqua, forse per spegnere l’aridità e fare diminuire la fastidiosa afa provocata da quel sole torrido, specialmente nell’ora della canicola; quello era il mio vecchio paesello che mi aveva visto nascere e dove stavo lasciando orfane le mie speranze, lanciate in alto verso il cielo azzurro, e poi tradite dalla vita, quel luogo impietoso che aveva svuotato la mia anima fanciullesca di tutti i suoi colorati aquiloni che ora erano caduti a terra, e lasciavano anche le mie mani prive di quel filo di speranza che sorreggeva i miei aquiloni, crollatimi addosso perché non più sostenuti da un vento favorevole a farli volare ancora, ma che invece aveva saputo farli precipitare definitivamente col muso in giù.
I miei sentimenti verso questo luogo, seppur caro, erano molto contrastanti, nel mio cuore, ma erano il frutto delle traversie incontratevi fin da bambino, ed ancora presenti nella mia mente, che adesso li vede distanti nello spazio e nel tempo, con un raziocinio scevro degli impulsi infantili, ma ancora nitidi e vivi.
L’avevo amato molto, il mio paese, di un amore intenso e quasi viscerale, malgrado le tante sofferenze che in esso avevamo vissuto e patito, ed ora lo stavamo lasciando per recarci in un altro luogo che fosse un tantino più ospitale, e dove speravamo di poter trovare un destino più favorevole.
Allora, sotto l’influsso di queste riflessioni, che fra l’altro mi turbavano maggiormente, mi lasciai andare ad un sommesso pianto liberatore, silenzioso, con le lacrime che scorrevano via velocemente, quasi un singhiozzo lieve, un pianto che comunque stava sciogliendo tutte le mie angosce di adolescente, facendole dissolvere nel nulla, e che pian piano iniziava a schiudere il mio giovane animo a nuove speranze, dapprima pallide e poi sempre più rosee.
Intanto mi ero lasciato alle spalle tanti anni di privazioni che, dopo il nuovo corso degli eventi, speravo ormai dimenticate, in quanto facenti parte di un passato già vissuto e ormai superato.
Infatti eravamo finalmente andati via dal mio paese natio, quell’infausta e solitaria località che ci aveva elargito a piene mani soltanto delusioni e amarezze, oltre ad assicurarci una endemica crisi economica forse causata dai postumi della guerra che aveva lasciato gran parte dei residenti a dovere fare i conti con la mancanza di lavoro, in una precarietà di vita che costringeva ad arrovellarsi il cervello qualora si fosse dovuto optare ogni giorno fra la scelta di un piatto pieno soltanto di insipida minestra scaldata, a pranzo, od una ancor più frugale cena, la sera; quando addirittura non si finiva per stringere ancor di più la cinghia e saltare qualche pasto, e magari più di uno, e senza dover nulla pagare allorché si fosse dovuto invece ricorrere ad una più dispendiosa dieta dimagrante, per lasciarsi alle spalle qualche chilo superfluo.
Anche se allora l’emigrazione era un fenomeno abbastanza comune e che interessava tutta l’Italia, con notevoli disagi soprattutto dei diretti interessati, noi ci sentivamo quasi come gli attuali immigrati di colore che, a prezzo di incredibili traversie e sacrifici inimmaginabili, irrompono sulle nostre coste e sui nostri miseri territori, attraversano deserti, mari e monti, in mezzo a pericoli che spesso li portano anche alla morte, alla febbrile ricerca di un benessere che neanche noi residenti abbiamo mai realmente conosciuto nella sua interezza, figurarsi se lo avrebbero raggiunto loro, con la cultura di cui, purtroppo, sono imbastiti.
Purtroppo i tempi erano quelli, tempi davvero magri, e non abbondavano affatto le famiglie che si potevano permettere il lusso di scialacquare allegramente; e piuttosto erano tempi in cui ci si arrabattava a vivere come le parsimoniose formiche, che si avviano in una ininterrotta fila indiana verso il loro rifugio sotto terra, dove cercano di mettere da parte e conservare per l’inverno tutto quello che possono. Noi facevamo qualcosa di simile nella pessimistica previsione di un domani ancora peggiore dell’oggi, visto che aleggiava una scarsa fiducia per un futuro più promettente, ed ancora non c’era neppure l’ombra del successivo mitico boom economico, che invece avrebbe avuto inizio poco dopo, ad alleviare la fatica di sopportare così tanti pesanti disagi quotidiani.
Qualche mese dopo il nostro arrivo in questa città, si verificò un evento straordinario: l’avvento improvviso della televisione, dopo tanti secoli di immobilismo tecnologico venne a rivoluzionare tutta la nostra esistenza, perché era una cosa veramente strabiliante, anche se ancora priva di colori, per cui potevamo ammirarla solo in bianco e nero, ma eravamo tutti euforici per quel fantastico prodigio che ci permetteva di vedere cose e persone che stavano a migliaia di chilometri di distanza, facendoci rimanere con gli occhi spalancati dalla meraviglia, e non ci rendevamo conto di come questo potesse verificarsi.
Era certamente una magia!
Quella televisione entrò con irruenza nelle nostre case, subito divenne parte di noi e segnò tutta la nostra vita che con essa divenne un’altra cosa, e da allora non sappiamo più fare a meno della sua compagnia, anche se a volte ci snerviamo a starle sempre davanti.
Essa ci insegnò a pensare ed a parlare nella lingua comune a tutti, l’italiano di Dante, laddove prima esisteva soltanto un’accozzaglia di dialetti incomprensibili e che influivano a non farci sentire parte della stessa nazione.
Nei primi tempi essa campeggiava sopra un mobile posto a ridosso di una parete del soggiorno o del salotto di casa, e non sapevamo fare a meno di assistere a qualsiasi programmazione, anche scialba, assieme ai tanti vicini, amici e parenti che erano soliti recarsi presso chi ne era già in possesso, perché tutti eravamo ormai diventati schiavi di quest'aggeggio diabolico.
Ma poco dopo tutte le case, dapprima gradualmente, poi sempre più assiduamente, sono state arredate con questo elettrodomestico, e adesso non esiste più una casa che non ne possiede almeno uno, che in svariati appartamenti diventano addirittura tre o quattro.
Addirittura molte persone si radunavano, la sera, davanti alle vetrine dei negozi che li esponevano, per assistere ai vari programmi.
Era il periodo dei grandi progressi tecnologici che, dopo migliaia di anni di immobilismo, venivano a scombussolare la nostra vita, in un susseguirsi impressionante: la rapida diffusione dell’auto, dello scooter, dei vari elettrodomestici.
Sembrava quasi che la guerra appena finita ci avesse portato quei regali, come se fosse stata una prodiga befana venuta a ripagarci di tutte le sofferenze sopportate in tanti secoli di privazioni.
Io, come tutti quelli della mia generazione, sono venuto sù in un ambiente pieno di queste novità, ed anche se non ho potuto possederle, pure le ho sempre desiderate e le ho ritenute importanti per accompagnarci più agevolmente nel cammino della vita che ci attendeva e che sarebbe stato senz’altro più difficoltoso se non avessimo avuto questi nuovi amici a farci buona compagnia, a rendere meno tristi e noiose le nostre faticose giornate, specialmente come si presentavano allora, in quei mitici tempi duri successivi alla guerra, che ci aveva ridotti tutti quanti in condizioni peggiori di come eravamo prima.
Ebbene io, come tanti altri, sono cresciuto all’ombra di questi modelli di vita, di questi ambienti caserecci che formavano o accrescevano in noi il senso della famiglia e l’attaccamento ad essa, creando valori forti e reali, quei valori che adesso si sono parecchio affievoliti, se non addirittura perduti nel vuoto che li ha sostituiti.