Caltagirone, 1956 - Tirano, Sondrio.
Abstract
Un estratto dal diario di viaggio L’'investitura (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), prima opera classificata nella sezione diari di viaggio del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.
Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage
L’approdo
A passo d’uomo sotto un cielo nubilo, la lunga filza di carrozze e carri merci fece il suo ingresso nella stazioncina per andare a fermarsi borbogliando, con uno stridore lamentoso dei rodiggi, ben oltre l’imponente pensilina metallica trapunta di vasi fioriti, emettendo un rauco bramito prima dell’ultimo sussulto e dando infine uno strattone violento, epilogo temporaneo di un viaggio durato l’intera notte.
Il viaggio, in quella lunga notte senza luna, gli era apparso interminabile e ineguale, fatto di corse precipiti, a scapicollo, intramezzate da soste inaspettate nel buio silenzio irreale, lasciando i viaggiatori immersi nel nero nulla, dopo arresti subitanei, cesure improvvise e improvvide, ciascuno seguito da una ripartenza affannosa… impacciata… da uno stentato aìre, con echi di gemiti sinistri e cupi sommovimenti, provenienti come dagl’inferi della terra…
Fino a raggiungere i lidi dei quali fu scritto: «lì c’è la chiave di tutto».
La veglia d’armi
Lauro non aveva chiuso occhio quella notte, avendo divisato di vegliare alla maniera d’un aspirante Cavaliere feudale. Se ne stava un po’ qua un po’ là nel corridoio, ora aggrappato a un finestrino, a scrutare le balugini lontane e le sfuggenti luminescenze delle stazioni di transito, ora a rileggere gli appunti d’un taccuino che s’era portato in un compartimento di quella che, all’epoca delle grandi migrazioni interne e transalpine, fu chiamata, con un appellativo invero pittoresco, la Freccia del Sud.
Si chiedeva, intanto che riannodava i fili del suo vissuto, il perché d’una tale denominazione. Forse ché i passeggeri di quel treno venivano scagliati da un allegorico balestriere per centrare il bersaglio di un’esistenza migliore, da vivere altrove, alla ricerca di un decoro non sempre facile da conseguire. Massicce operazioni di rigetto facevano seguito a sciagurate carestie, a crisi economiche o a incrementi demografici. Risultato ne erano la reiezione, l’arrancare sull’erta della vita, il ludibrio sociale. Infine, la coraggiosa risoluzione d’intraprendere un viaggio che, per quanti dànno agli affetti un valore compensativo di stenti subiti, rappresentava un salto nel buio, un doloroso ripiego, lo stravolgimento d’una vagheggiata linearità dell’esistenza, una ferita morale inferta nei precordi.
Quel mondo di partenti, da sempre esposto a ogni rovescio di fortuna, era scosso come da un turbine che tutto travolge, una continua girandola mossa qua e là, non si sa se da venti capricciosi o piuttosto da mantici, azionati dai riposizionatori degli assetti geopolitici. Al pari di pedoni mossi da giocatori privi di tanti scrupoli, venivano scambiati con altri a cuor leggero, senza rimpianti, presi en passant e costretti a far fagotto e levare le tende.
Il dilemma è: non trovando più posto nel luogo ove si è nati, i partenti sono comunque da considerarsi figli, per quanto spurî, della loro terra? Di fronte alla proscrizione, restano animati da amor patrio… o non piuttosto patrigno?
Scoccando quel dardo, il nostro balestriere si mostrava privo d’ogni pietas, pronto a sparigliare cinicamente le carte di gente impegnata nel quotidiano esercizio di amarsi odiarsi ignorarsi e, al mezzodì, metter qualcosa nella pentola. Ma anche, una volta partiti, di desiderare di far ritorno ai luoghi cari dell’infanzia e dei primi tumulti dell’animo. Molti d’altra parte provavano a sfidare la sorte pur non vivendo in condizioni di stretto bisogno, come ulissidi presi dal dannunziano desìo d’errare e incapaci idealmente di metter radici ovunque sia. In ognuno di loro, ciò nonostante, albergava uno spazio vitale, la propria Itaca interiore, che permaneva immacolato se si decideva di lasciarlo inalterato nel Ricordo. Ciascuno scolpiva la propria nicchia nell’intimo, tenendola al riparo dall’enorme frantoio ove assisteva alla molitura quotidiana delle più fragili aspirazioni umane. Perfino le più disperate.
La partenza del Cavaliere Itinerante
La mattina del giorno dopo, alle prime luci, Lauro si alzò dal suo novello giaciglio e, dopo una veloce colazione sull’erba di un prato, si mise alla guida della sua Appia. Gli piaceva ritenerla un Carro di Tespi della conoscenza, messo a disposizione di chiunque volesse rimuovere ciò che imbriglia la comprensione del reale, che ha l’obiettivo d’ infeudare la gente.
Lauro si preparava enfatizzando accuratamente ogni gesto per sottolineare che tutto fosse sotto controllo. Ciò gli dava un senso di euforia per quanto vigile e sobria. Si sentiva protagonista del suo destino e si mise alla guida della sua Studiomobile facendo rotta verso le sue nuove mete. Non aveva alcun tipo di ambascia o qualcosa che lo urgesse. Non doveva rispondere a superiori né compiacere postulanti aspiranti carrieristi arrivisti arrampicatori sociali, operanti nell’esercizio di una gretta autorità.
Lasciò Mattorino che il sole era appena sorto sopra l’orizzonte. Direzione, l’ellenistica città di Kamarina. Appresso, avrebbe raggiunto il mare, come un antico soldato di Senofonte, sedotto dai flutti salsi che accarezzano incessantemente (e talora sferzano) un lido assolato. Agognava quell’abbraccio incomparabile!
Raggiunse nel pomeriggio il sito dell’antica Kamarina, la polis che fiorì tra i fiumi Ippari e Oanis. Diede una scorsa agli appunti: Spina nel fianco di Siracusa, la grande polis siceliota dell’antichità, il suo nome significava “Abitata dopo molta fatica”. Il che vuol dire che non dovette esser facile addomesticare quei luoghi e che, dopo, non dovette essere altrettanto facile per i suoi nemici liberarsene, poiché la città contese a lungo contro Siracusa e Gela. Fu ripopolata più volte.
Lauro ricordava la singolarità del luogo, che aveva visitato col padre quando aveva quindici anni: l’altura che dovette essere l’acropoli della città siceliota. Lasciò l’auto col suo pregevole rimorchio ai margini della strada statale e volle risalire la collina a piedi per raggiungere il sito che ospitava l’antico témenos.
Apprese che le pietre dell’antico luogo sacro erano state asportate per edificare altri e diversi “luoghi di culto” e si convinse allora che Kamarina dovesse assurgere a simbolo di un mondo perennemente esposto alle spoliazioni, condannato per nove decimi all’ostilità tra le generazioni, e solo per un decimo alla comprensione tra sodali.
La solidarietà si manifesta quando sofferenze guerre o ingiustizie funestano egualmente un vasto numero di persone: allora ci sentiamo tutti (o quasi) samaritani buoni, desiderosi di soccorrere il prossimo, di esprimergli un affetto sincero, condividerne le difficoltà. Salvo poi tornare a coltivare la reciproca diffidenza, quando si profili la possibilità di vivere nell’opulenza, di scadere nel materialismo che corrode la convivenza, dietro alla parvenza di un formale rispetto. Allora si passa a respirare un clima sotterraneo di mutua ostilità, di sorda acrimonia. Una tensione latente corrode l’umano consorzio. Ecco che, in quel frangente, una scala gerarchica non codificata invade la nostra mente.
Il tempio classico di Kamarina s’intravedeva dalla Palepoli, semisepolto da una masseria, una tenuta costruita ai primi del Novecento. Si scorgeva dall’interno del museo, attraverso uno squarcio del terreno. Tuttavia quella strana sovrapposizione d’un antico sacro recinto, sormontato da un più recente edificio profano, che lo soffocava, era segno del dispregio che si coltiva verso tutto ciò che non ci somiglia o che non abbiamo vissuto. Viene imputata alla generazione precedente la responsabilità per il mancato superamento delle afflizioni presenti, si condannano i padri, sottraendo loro credibilità. Si aspira al parricidio simbolico fino a che non ci si accorge che tocca a noi di entrare nel mirino dei nostri giudici. Si cercano sommariamente i responsabili degli errori del passato, quando è evidente che “l’uomo terreno non è padrone nemmeno di dirigere il suo proprio passo”.
Il territorio scelto da Lauro come cominciamento del suo (si spera lungo) viaggio a bordo della Studiomobile, era la parte dell’isola che fu oggetto degli studi di Paolo Orsi nell’Ottocento e di Bernabò Brea nel Novecento.
La valorizzazione di quel territorio non può non tener conto dell’eredità di un’antica cultura comune, che qui è detta “del Castelluccio”. Le opere che Lauro amava far assurgere a vette della letteratura ‘storica’ isolana, dalle quali partire per rileggere le vicende dei luoghi di cui ci occupiamo, sono le novelle verghiane Libertà e Cos’è il re? il romanzo pirandelliano I vecchi e i giovani e quello consoliano de Le pietre di Pantalica, nella sezione Ratumemi, Considerava quello, a torto o a ragione, il suo patrimonio immateriale.
Nel tornare al suo mezzo, Lauro percorse i viottoli bordati da muretti a secco, visibili anche dalla strada statale, e le zammarre, che crescono spontanee ovunque, sulle rocce, ai ciglioni delle strade, ai lati dei sentieri e delle trazzere. Le più importanti fra queste ultime erano definite règie.
Passava di là un’antichissima via di comunicazione, divenuta una via romana, il ‘Cursus publicus’, che da Lilibeo conduceva a Syracusæ, le sedi dei due quæstores romani.
La via è descritta nel registro delle stazioni di posta e delle vie stratae (per lo più lunghe e diritte, percorse delle legioni ma anche da commercianti, amministratori ecc.), insieme con gli itinera da percorrere da un insediamento all'altro. Ogni stazione aveva un servizio di assistenza ai viaggiatori, che necessitavano di servizi e di beni indispensabili per il funzionamento del sistema economico, oltre che di sicurezza durante gli spostamenti da un insediamento all’altro, da una località all’altra.
Quel documento dal nome suggestivo, l’Itinerario delle province di Antonino Pio Augusto, risalirebbe agl’inizi del terzo secolo ed è custodito a Roma presso la Biblioteca di Palazzo Venezia. Quando si potrà dire con certezza: ecco, qui correva un tempo la strada romana, descritta e citata da illustri studiosi del passato, ebbene, allora da più parti correranno a ricoprirla perché se ne perdano le tracce, impegnati, come sono, a rimuovere ogni ostacolo che si opponga alla soddisfazione di interessi immediati, un fastidio piuttosto che un fastigio. Meglio ridurla a un’allumacatura.
Uscito dalla Masseria che affossa l’antico tempio, Lauro annotò alcune considerazioni dedicate a due uomini che lui stimava… due rarae aves: Paolo Orsi e Zanotti Bianco. Rimando alla lettura delle loro emblematiche biografie.
L’acropoli che prospetta sul mare più antico o, se si preferisce, sul lago più grande e solcato del nostro unico (checché se ne pensi) piccolo pianeta, è il culmine dal quale Lauro ha posto un suggello al suo viaggio, ne è il suo presupposto culturale, coi suoi rimandi a un passato dalle premesse tali da far sperare all’irradiazione di una grande civiltà di pace e di concordia tra gli uomini. Premesse che però si sono rivelate remote e vane per il prevalere, sull’intera Terra, delle figure di Ares e di Eris, gli dei che l’eredità della mitologia greca ha esportato nel resto dell’orbe terracqueo, portati in trionfo tra le nazioni: quei due simulacri parlano per bocca di un regista ventrìloquo il quale li fa parlare, suggerisce loro gli scenari mondiali, induce alla inimicizia all’avversione all’ostilità, alla superbia oltracotante. E questa lunghissima azione scenica, cupa e densa di drammi d’ogni sorta, blandi o truculenti, durerà sinché a quel regista resterà la possibilità di agire al timone.
Il natante sul quale tutti siamo saliti, ognuno al momento di nascere, avendo ciascuno di noi ricevuto gratuitamente il nostro biglietto di sola andata, va a cozzare contro gl’insidiosi scogli della Discordia, sui quali giacciono insepolti ossa e teschi biancheggianti al sole. Il suo borioso timoniere, comandante della crociera, sa di dover raggiungere un porto definitivo.