Caltanissetta, 1992 - Piacenza.
Abstract
Un estratto dal racconto autobiografico Profumo di limone (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), seconda opera classificata nella sezione racconti autobiografici del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.
Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage
Appoggiavo la tazza sul tavolinetto in legno posto dinnanzi a me, il fumo e gli effluvi protendevano sino al soffitto e mi raggiungeva delicato il profumo di limone come se tutta la bellezza fosse racchiusa in quel frangente dei sensi. Lui mi osservava e capiva immediatamente che la mia mente era in viaggio, fra le righe e le ispide pale di fichi d’india. Sorrideva, con quel sorriso che racchiude l’affetto più vero.
Avvolgevo i lunghi capelli con un nastrino rosso e poggiavo lieve la testa indietro. Sospiravo e affermavo «Come vorrei vedere il mare». Da quando abitavamo in questo paese del Nord Italia, avevamo capito che il suono delle onde ci abita dentro e che alcuni dettagli architettonici delle dominazioni arabe e normanne sono le linee che si ripresentano nei sogni. E ci bastava guardare un fotogramma rapido in tv per scambiarci degli eloquenti sguardi complici, ci bastava per capire quanto fosse intensa la brama di una fetta di cassata o delle acque limpide e cristalline delle nostre spiagge.
Ci eravamo trasferiti in cerca di più sicuri approdi e presto capimmo che risuono avesse ancora il detto “cu nesci arrinesci”. Dopo giorni di sacrifici, di inesauribili rifiuti, innumerevoli strade percorse, velati insulti di un pregiudizio sedimentato negli anni, qualcuno apprezzò la nostra voglia di realizzare le nostre aspirazioni, di dare forma alle nostre competenze, il bisogno vitale di mettere in moto le abilità che ci rendono noi.
Avvenne e ci sentimmo fortunati, grati, immensamente felici. Ci sentiamo ancora così, ogni giorno, in ogni attimo. Avvenne e ci sentimmo sereni e affranti, un po’ arrabbiati perché non termina la frustrazione, non si edulcora il retrogusto che lascia una meravigliosa terra che come madre ti cresce con il sole riflesso negli occhi e poi ti allontana senza remore, bruscamente, selvaggiamente, con durezza come mandorle inaspettatamente e dannatamente amare.
Ci eravamo trasferiti come emigrati del 900 ma con bagagli più leggeri e confortevoli, dalle tinte accese. La nostalgia, già vivida dopo i primi chilometri, divenne voragine al petto, lentamente, nelle notti, divenne tristezza soprattutto quando ci raggiungevano le voci dei nostri cari genitori, quelle flemme dei nonni.
Lasciavano un senso di malinconica fragilità del tempo che non poteva essere disperso in abbracci. Da quando vivevamo lontani dal caldo Mediterraneo, ci sentivamo così vicini a ogni uomo, a ogni donna che si era allontanato dalla sua isola.
Mi sentii confortata dalle parole che descrivevano l’amore per quella terra di ceramiche e granite, di teste di Moro e di saline, di olivi e di rimandi mitologici eterni. Mi sentii accarezzata dalle parole di autori che conoscevano bene quel profumo di limone e mi rifugiai spesso nelle descrizioni delle vite di Verga e delle introspettive, ironiche e profonde narrazioni di Pirandello, nelle riflessioni di Sciascia, nelle note aspre di Rosa Balistreri. Mi sentii così vicina al desiderio di tramutar in parole i vissuti come la temeraria Mariannina Coffa e il nostalgico Vincenzo De Simone. Mi ritrovai a pensare a quando da bambina lentamente salii gradino per gradino nella casa di Pirandello e quando da adulta ascoltavo affascinata la voce cheta del maestro Camilleri come fosse una melodiosa ninna nanna.
Arrivò il 17 Luglio e intorno a me nessuno stava vivendo quel vuoto dentro. Quel giorno mi affrettai ad acquistare “Ora dimmi di te. Lettera a Matilda”, proprio quel giorno mi recai in libreria come se fosse un santuario, come se facessi visita alla sua dimora e portai in casa le sue parole sentendomi, con i dovuti riguardi, in minima parte, anche io una sua nipote, legata a lui dall’amore per l’isola delle tre ninfe che seminarono bellezza, legata a lui dalla curiosa voglia di trattenere fra le righe la trinacria, dall’inchiostro delle nostre penne.
Lessi quel libro, lo lesse Stefano e ci sentimmo così profondamente legati al lutto che ci apparteneva. Era morto il caro Camilleri e il dolore fu doppio fra le foglie di limone. Iniziammo a vedere le puntate dell’amato e mille volte tradotto “Commissario Montalbano” e qualcosa ci lasciò increduli. Compariva l’immagine della distesa azzurra di onde cristalline e con fervore un “mamma mia” ci invadeva il petto e ci faceva dire all’unisono “oh mamma”, ancora una volta.
La lontananza avvicina il sentimento vivo, autentico, sottile. E mai avevamo pensato di sentire il mare così dentro, di sentirci, come Bufalino ci definì, isolitudini in un nuovo mondo. Il “maestro”, come custode della Sicilia, ci insegnò che il profumo dei limoni si annida dentro e ovunque ci raggiungano alcune onde, si infrangono lasciando quell’odore di salsedine e di brezza dirompente.
E amavo sentire la sua voce tremula, meravigliarmi per la scelta di alcune parole, il modo in cui le accostava. Sentirmi vicina a lui, nel momento in cui narrava di essersi trovato in quel paese dell’entroterra e di aver scoperto, casualmente, magicamente, quella biblioteca comunale che lo accolse fra le pagine e il tepore. Anch’io amavo rifugiarmi tra gli scaffali e gli occhi impegnati, persi fra le parole e le storie, tra gli scaffali di questa nuova terra, lì dove tutti siamo isole fra barche di carta.
Tornammo dopo mesi una sera di Settembre e fu come vedere l’isola natia per la prima volta, questa volta come se fosse meta scelta. L’aeroporto ci accolse con le fragranze di arancine e fritture di pesce e il giallo, il rosso e il blu dei carretti siciliani ci colpì intensamente, attraversandoci con vigoroso impeto. Oltrepassammo le vetrate, con in mano un cannolo giunto già nella parte di scorcia più spessa, e ci fermammo un secondo a osservare il cielo. Anche quello ci apparve diverso, di un azzurro quasi artificioso ed era così radioso quel sole da rievocare subito un desiderio di sabbia sotto i piedi.
Il percorso in auto ci sembrò un arazzo. Quelle distese di agrumeti sembravano dipinti. Ci aspettavano in casa tutti, come se fosse un giorno di festa, e il clamore di voci pareva una cantilena di fiera. Gli abbracci intrecciati a sorrisi e a pacche possenti ci strattonarono in un pugno di terra, così singolare, così ancora vibrato come un friscaletto fra le viti.
Ci bastò incontrare qualche conoscente e riassaporammo lo straordinario uso del passato remoto che rende i siciliani strambi menestrelli mentre raccontano qualcosa avvenuto semplicemente poco prima. Apprezzammo in modo insolito, irruento i lineamenti della cattedrale di Palermo, gli scorci di Cefalù, le antiche colonne di argilla e pietra calcarea dei templi ancora intatti, ancora sublimi sulla distesa valle. Quella capacità di sedurre e distendere le membra, di lasciare inebriati dal maestoso incanto dentro ogni viuzza, ogni angolo, ogni banale incrocio fra il basolato e le edicole votive.
Ripercorremmo luoghi dell’anima e fui certa a quel punto che l’isola ci abita dentro, il mare ci dimora nel cuore, risiede in ogni tassello della nostra essenza. Ritornammo dopo pochi giorni, innaffiai l’albero di limone sul terrazzo. Lo innaffio ancora questa sera mentre guardo la luna e penso a quanti, come noi oggi, sentono la dolce sensazione di poter vivere con soddisfazione e pacata certezza ma continuano a sentire il profumo del mare, dei limoni, nei sogni, sui cuscini umidi, fra i baci di un amore che sa di casa in ogni parte del mondo.