Giarre, Catania, 1956 - Catania.
Abstract
Un estratto dalla biografia Il mondo della verità (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), seconda opera classificata nella sezione biografie del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.
Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage
Ti piacevano i fiori
Del tuo vestito a roselline, mamma, mi è rimasto solo un ricordo sbiadito, frugo nella mia memoria cercando i suoi originari colori, ma un velo nero appanna i miei occhi e la tristezza prende il sopravvento.
Cerco dentro di me quell’imbarazzo di adolescente che mi provocava la tua voce quando, mentre lavavi i piatti, cantavi storpiando i testi delle mie canzoni preferite e mi risponde l’eco di un pianto muto, il mio.
Anche le tue margherite sono diventate polvere dispersa nel vento, senza più alcun odore; le tue mani di bambina le tenevano strette mentre una macchina fotografica rubava il tuo sguardo innocente e fiducioso proteso verso un futuro di promesse disattese.
Ho recuperato in giro vecchie foto che mi raccontano di te; ho ascoltato pezzi della tua storia, ma mi mancano tante parti, perdute per sempre; provo a dare una logica e un senso a quel canovaccio misterioso che è stata per me la tua vita e mentre scrivo di te mi accorgo che stranamente riesco a dare un senso anche alla mia.
Di tutte le persone che ti hanno conosciuta e che ti sono passate accanto ho ricevuto versioni diverse e contraddittorie, come se sotto la superficie dell’amore e del rispetto, che si porta per convenienza ai morti, stia, accuratamente nascosta, una lava bollente di rabbia e di rancore a cui nessuno darà mai il permesso di uscire perché è un permesso che bisogna darsi da soli.
Percorro con le mie sorelle ricordi della nostra infanzia, taglienti come pezzi di vetro.
Ognuna di loro porta il suo bagaglio di pena e di dolore; gli stessi fatti, narrati con il filtro della loro sofferenza personale, sembrano sempre diversi e mi vergogno un po’ perché per tanto tempo ho tenuto le mie orecchie tappate per non sentirli, così da poter andare più spedita per la mia strada e mettere più distanza possibile al mio antico dolore; oggi mi ritrovo con il cuore sanguinante e impotente, ferma.
Ti parlo nel silenzio della mia stanza, ti sento vicina a me ma non sono mai venuta a trovarti nella tua definitiva dimora per portarti i fiori, i fiori che tanto amavi, come se ancora una parte di me non accettasse l’idea che adesso è quella la tua nuova casa e non ti vedrò più seduta sulla tua poltrona con la tappezzeria a fiorellini, accanto alla finestra a rammendare, mentre la televisione manda in onda la tua telenovela preferita.
Ti sei sempre appassionata delle vite degli altri; entravi nelle loro storie al punto tale da dimenticarti della tua storia che ti scorreva accanto e che guardavi come un film facendo la spettatrice e non la protagonista.
Ricordo quella volta che litigasti con mio padre e per offenderlo gli hai gridato quella che per te era la peggiore ingiuria: «Sei peggio di Luis Antonio» e sorrido.
Ho ancora dentro le mie narici il profumo del sugo che preparavi per me la domenica; lentamente sobbolliva nel pentolone e il suo odore riempiva le stanze, non sono mai riuscita a farne uno buono come il tuo perché il sapore della nostalgia non si può imitare.
Non riesco a cancellare il tuo numero di telefono dalla mia rubrica; è ancora memorizzato alla voce “Mia Mamma” e mi tornano in mente i tuoi rimproveri affettuosi perché mi sentivi lontana ma non erano soltanto i trenta chilometri che ci separavano e lo sapevamo entrambe.
A un certo punto della mia vita mi sono convinta che solo sfiorandoti avrei potuto salvarmi e ho messo tanta distanza emotiva tra di noi,
Non volevo entrare, come una mosca, in quella tela di ragno che mi avrebbe fatto ripetere con la famiglia che mi ero costruita, gli stessi errori che da generazioni si tramandavano come unici esempi di buona vita.
Scorrono davanti a me i fotogrammi del passato e si intrecciano ai miei ricordi e sgorga dentro il mio cuore un sentimento di nostalgia per qualcosa che poteva essere e non è stato; qualcosa che era davanti ai nostri occhi, quell’albero meraviglioso che è l’amore, che davamo per scontato senza vederlo veramente, quei frutti che potevamo raccogliere in qualsiasi momento e che abbiamo lasciato marcire per terra.
Madre e figlia, sangue dello stesso sangue, in tante cose simili ma sempre così distanti, non abbiamo mai avuto una vera intimità, uno strano velo di pudore si è sempre interposto tra di noi, non siamo mai state né complici e né nemiche.
Per te ero la figlia saggia che doveva capire tutto e perdonare, «cu avi chiù sali conza la minestra» mi dicevi; ero la figlia più grande, la figlia buona che doveva mettere solo pace, sapessi che ruolo pesante che mi hai dato!
Ho cercato da sempre la pace dentro di me, senza mai trovarla, ho compreso troppo tardi quanto fosse vana la mia ricerca; non può esistere pace senza giustizia.
Nella mia mente riecheggiano i tuoi modi di dire, le favole terribili che mi raccontavi da bambina e che non mi facevano dormire la notte, tormentandomi con i sensi di colpa.
L’antica saggezza dei proverbi, che non hai mai messo in discussione; la tua fede incrollabile, i nostri litigi, la mia logica che si scontrava contro il muro di gomma della tua ostinazione, la tua frase preferita: «Stritta mi sta larga e larga mi sta stritta».
Il mondo cambiava sotto i nostri occhi, mamma, girava vorticosamente, io cercavo di stargli dietro anche se catene invisibili mi facevano procedere trattenuta, ma tu restavi ferma, fedele a te stessa.
La nostalgia e il rimpianto mi accompagnano in questo viaggio a ritroso nel tempo e tu parli al mio cuore, come non hai fatto mai…
Nel mondo della verità
Sono da più di quattro anni qui, in quello che chiamavo "U munnu da verità”.
Non sento più il freddo, il caldo, non percepisco il vuoto, nessuna gioia, nessun dolore... il Nulla.
Forse è questa la vera Pace e forse si trova in questo posto, sotto l’ombra dei cipressi che si protendono verso il cielo, maestosi, incuranti dello scorrere delle stagioni.
Per tutta la vita inseguiamo l’amore delle persone e ci danniamo, ci attacchiamo alle cose, crediamo di afferrarle e ci illudiamo di trattenerle, ma le cose si beffano di noi sopravvivendoci, alla fine quello che resta è solo l’Amore che abbiamo saputo donare.
Figlia mia, oggi tu ti chiedi come è stata la mia vita e che ne ho fatto di essa, ma solo tu sei in grado di dare le risposte alle domande che forse io non mi sono posta mai.
Non ho mai avuto il tempo per farmi troppe domande o forse, mettere in discussione quello che, da sempre, ha funzionato in un certo modo “Da che munnu è munnu” è un privilegio, che non mi è stato concesso.
Oppure farsi le domande è un lusso, che non mi sono mai permessa, perché non sono sicura se mi sarebbero piaciute le risposte e sono rimasta intrappolata per sempre nella storia che mi sono raccontata da sola.
Tu sei più coraggiosa di me, non hai paura della verità e il tuo coraggio ti renderà libera, perché solo chi ha il coraggio di non mentire a se stesso è una persona libera.
Te la racconto a modo mio la mia vita, ti chiedo solo di ascoltarmi con amore e indulgenza, ti chiedo di perdonare le mie debolezze, non mi giudicare, abbi pietà di me.
La Casa
Anche se tuo padre non perdeva occasione per lamentarsi di me, io sono sempre stata una risparmiatrice, ogni soldo l’ho fatto diventare due, e dopo tanti sacrifici di entrambi, eravamo riusciti a mettere alla posta un poco di denaro.
Nel 1962 si presentò l’occasione di comprare finalmente una casa, costava 60 mila lire, era un buon prezzo per una casa come quella, ma era una cifra altissima per le nostre possibilità.
Ce ne innamorammo e dopo tante riflessioni e notti insonni decidemmo che sarebbe stata nostra, volevamo avere un tetto tutto per noi ed era un sacrilegio continuare a pagare l’affitto a vuoto.
Fu uno dei momenti più importanti della nostra vita, la casa rappresentava il coronamento di un sogno, in quel momento sentivo mio marito vicino e solidale.
Era a pianterreno in una traversa del Corso Italia, situata di fronte al Mulino Strano. Era in una bella zona, piena di comodità, vicino c’erano le scuole, il panificio, la bottega di generi alimentari, la Cassa Mutua, la Posta.
Era vicino la mia amata Chiesa del Carmine, ma la cosa più importante per me era che si trovava a pochi metri dalla casa di mia mamma. Aveva tre stanze e un ammezzato dove sistemammo te e tua sorella Marcella.
Le stanze erano una appresso all’altra e l’ultima non aveva nemmeno una finestra, la chiamavamo “a cammira oscuru”. All’interno della casa c’era un giardino pieno di alberi da frutto e di fiori, in un angolo cresceva una pianta di “cucuzze spinose”. In una gabbia allevavamo i conigli e avevamo anche un paio di galline che scorrazzavano liberamente nel terreno e che ci davano le uova.
La domenica tuo padre ammazzava un coniglio, lo cucinavo con il sugo, facevo a mano i maccheroni con l’acqua e la farina e si faceva festa. Per dire la verità, non era una casa comoda, era stata chiusa per tanto tempo, la carta da parati strappata in più punti, i muri erano scrostati e la cucina era annerita dal nero fumo di una stufa a legna che i vecchi proprietari avevano lasciato perché era ormai inutilizzabile.
Era vecchia e decadente, ma non ci scoraggiammo, demmo una sistemata superficiale e ci trasferimmo subito. Nelle intenzioni di tuo padre c’era l’idea di costruire un giorno degli appartamenti al posto della casa, la consideravamo una sistemazione provvisoria. Pensava in grande e il suo entusiasmo mi rendeva fiduciosa per il nostro futuro e tutti i nostri sacrifici avevano un senso.
Erano gli anni del boom delle costruzioni, tutti si vendevano le case a pianterreno per andare a comprare un appartamento di nuova costruzione con i pavimenti di marmo, la cucina di maiolica e il bagno in casa con l’acqua calda.
Tutto il paese era diventato un cantiere e nel giro di pochi anni anche le campagne vicino casa nostra sparirono, per fare posto a palazzoni moderni e funzionali.
Il mio sogno era quello di poter vivere un giorno in un appartamento come quelli, con una cucina colorata e le piastrelle con i fiorellini.
Ma i soldi finirono tutti per l’acquisto dell’abitazione e bisognava continuare a risparmiare e accontentarci di vivere in quella casa che diventava ogni giorno più fatiscente e più affollata.
So che mi porterai un mazzo di margherite
Quando rimasi vedova avevo sessantasei anni e sentivo che la mia vita era finita, miseramente finita, tutto quello che facevo non aveva più senso, avevo paura della solitudine e del silenzio della casa, non riuscivo più a dormire nella mia camera da letto e mi accomodavo in un lettino in un’altra stanza.
Le mie giornate erano sempre più vuote e iniziai ad andare nel negozio di mio figlio per non farmi sopraffare dai miei pensieri cupi, entravano delle persone in negozio, scambiavo qualche chiacchera con i clienti e mi sentivo meno sola.
Certo che il destino è capriccioso, dopo due anni della morte di mio marito, accadde un episodio che segnò una svolta epocale nella mia vita.
Ero sola nel negozio ed entrò un signore per fare un duplicato delle chiavi, io dissi di ritornare dopo, al rientro di mio figlio, e lui mi confessò che le chiavi erano solo un pretesto per parlare da solo con me.
Mi disse che era solo e vedovo, mi disse che ero una bella donna, che si era informato e sapeva che ero una donna perbene, in buona sostanza mi proponeva di condividere la sua solitudine con la mia.
Mi sembrava una proposta assurda, una cosa impossibile, scardinava completamente quella che era stata, fino a quel momento, la mia visione del mondo.
Ero ormai rassegnata nel mio ruolo di vedova inconsolabile, andavo ogni giorno al cimitero e facevo dire ogni mese una messa in onore di mio marito.
Tuttavia le sue parole mi tenevano sveglia tutta la notte, ci pensavo, ci ripensavo e mi dicevo «perché no»?
Sembravo una adolescente, mi batteva il cuore, come quando devi fare un salto nell’ignoto e non capisci se è più grande la paura o l’eccitazione.
Francesco era esattamente l’opposto del mio defunto marito, anche fisicamente, era chiaro di carnagione e con gli occhi celesti, lo stesso colore di quelli di Luigino, era sempre sorridente, accomodante, gentile, parlava… parlava sempre.
Non riusciva a reggere neanche un minuto di silenzio e pur di parlare mi intratteneva con migliaia di argomenti diversi che mi facevano sorridere e distrarre.
Non mi sembrò neanche di sostituire mio marito con lui, era proprio un’altra cosa, per la prima volta ridevo, scherzavo, mi prendevo cura dei miei capelli e delle mie mani come mai avevo fatto nella mia vita.
Feci un sogno. Mio marito veniva a trovarmi a casa e mi sorrideva, gli chiedevo di restare e lui mi diceva che doveva andare via e di lasciarlo andare, di pensare a me, mi sembrò che mi autorizzasse e mi desse il permesso per intraprendere questa relazione, ma non potevo fare la fidanzata e farmi ridere dietro dalle persone, si doveva ufficializzare la cosa.
Presi la decisione di sposare Francesco, solo in chiesa però, non volevo rinunciare alla pensione di mio marito e alla mia indipendenza.
I primi tempi furono bellissimi, facevamo delle gite con il gruppo dell’oratorio, siamo andati a Lourdes, dalla Madonna di Medjugorje, mi portava a mangiare la pizza o il gelato, andavamo in macchina al cimitero a portare i fiori ai nostri morti.
Ci eravamo fatti una cerchia d’amici con cui giocavamo a carte, mi regalò un anello con l’acquamarina, lo tenevo nello stesso dito insieme alla fede che mi ero scambiata col mio defunto marito.
Sorridevo delle mie contraddizioni e mi assolvevo, avevo scoperto la leggerezza, non è mai troppo tardi.
Avevo stravolto l’idea che avevo di me stessa e avevo sfidato ancora una volta tutto il mondo ma soprattutto i miei pregiudizi.
Ma c’è sempre un prezzo da pagare e mi ritrovai tutti contro, dalla famiglia di mio marito che era a dir poco scandalizzata, ai miei stessi figli, nessuno riusciva a mettersi nei miei panni ed essere felice per me.
Con la solita ostinazione che mi ha sempre contraddistinta andavo avanti per la mia strada e ci andavo a testa alta, in fondo ero vedova e non stavo togliendo niente a nessuno. Era tutta invidia, lo sapevo, ma ricordati che nella vita “meglio invidia che pietà”.
Avevo mantenuto la mia casa, facevo la spola tra la mia e la sua, mai e poi mai avrei rinunciato alla mia ritrovata libertà.
Poi, “a squagghiata da nivi si vidunu i purtusa”, Francesco col tempo si dimostrò attaccato al denaro e poco generoso e piano piano allentai i rapporti, dopo una vita di privazioni questo aspetto del suo carattere era per me intollerabile.
Uscivamo, andavamo insieme al cimitero, continuavo a fare dire le messe per la buonanima di mio marito, ma ero sempre la signora Puglisi, anche se mi ero risposata e ognuno per la sua casa.
Lo trovi contraddittorio? E che logica ci vorresti trovare… io ero fatta così: «Stritta mi sta larga e larga mi sta stritta» dovresti saperlo.
Quella sera di dicembre quando il mio cuore stanco si è arreso, ho lasciato questo mondo e un disastro dietro di me.
Le case sono rimaste chiuse, si stanno rovinando, le cose si consumano anche se non li usi, nessuno annaffia più i miei fiori e li hanno fatti morire. Nessuno fa aerare le mie stanze, da quando sono uscita io nessuno ha più varcato la porta della mia casa, e tutto muore.
I maschi si sentono padroni di tutto, come gli abbiamo insegnato, non riuscite a trovare un accordo per dividere le cose e voi figlie vi sentite derubate per l’ennesima volta. Tu hai sempre cercato la pace e solo adesso ti rendi conto che prima della pace bisogna percorrere la strada della giustizia. Ma quale giudice può restituirvi quello che non abbiamo saputo darvi?
È diventata una guerra senza vincitori e senza vinti ma il conflitto vi tiene ancora uniti e in cuor vostro temete il momento in cui tutto sarà finito e ognuno andrà per la sua strada, orfani e figli unici per sempre.
Quelle case, che nei nostri iniziali desideri dovevano tenervi tutti vicini, vi hanno allontanati per sempre. E solo quando tutti vi renderete conto che state portando avanti una battaglia che non è vostra e vi metterete fine, potrò riposare finalmente in pace nel fondo del vostro cuore.
E forse solo allora, figlia mia, accetterai che non ci sono più, verrai a trovarmi nella mia definitiva dimora e so che mi porterai un mazzo di margherite.