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La scrittura autobiografica: una cerca esperienziale tranformativa. Secconda parte. / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.20 N.3 2022

Quando una comunità di persone (si) racconta: trame generative e trasformative nell’arte di (r)accogliere storie

Savino Calabrese

magma@analisiqualitativa.com

Analista filosofo, percorsi di ricerca e approfondimento esistenziale orientati mitobiograficamente.

 

Abstract

Ereditare una storia, leggerla e raccontarla attiva una sorta di dialogo a distanza, un dialogo tra storie iniziate in tempi diversi, ma ancora capaci di generare legami e segnare sentieri. Si costruisce una comunità.

 

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Sirène enchante les marins, miniature, Bestiaire médiéval (1230-1240), Harley 4751, f.47v, British Library.

1. La vita è una ‘parola’. Scriviamola

Con le nostre parole e la scrittura diventiamo con-creatori della realtà. Che siano veri o falsi, reali o immaginari, i nostri racconti hanno il potere di fare la vita, di trasfigurarla, di rinnovarla, di renderla luminosa come anche oscura e incomprensibile.

Il testo biblico annota: “In principio” (Gen 1,1). Ma in principio di cosa? Un commento chassidico fa notare che la Torah racconta cose altre dalle origini dell’Universo, che risale a 13 miliardi di anni fa. ‘In principio’ è il principio di cose nuove. Nel IV millennio prima della nostra era, in Mesopotamia, secondo il racconto di Genesi, avvenne l’invenzione della scrittura. È il passaggio dalla preistoria alla storia. Di racconti orali che narravano la creazione de mondo ve ne erano già diversi, ma fu la prima volta che gli uomini scrivendo, considerarono la scrittura come un ‘modo di creare’. L’adagio potrebbe suonare così: “Scrivo, dunque creo”. La scrittura divenne lo strumento mediante il quale il mondo veniva creato ‘in racconti’. Dunque, scrivere è creare, leggere è creare. Ciò vale anche per la creazione dell’uomo. L’argilla non fu la materia da cui fu fatto l’uomo, bensì il supporto sul quale fu scritto il racconto dell’uomo. L’uomo divenne allora un “personaggio”, un essere letterario, a cui le parole, di lì in avanti, avrebbero donato vita e storia. La nascita del primo uomo fu così la nascita del primo personaggio di una narrazione.

La vita è una parola. Scrivere è l’occasione di dare carne - per appropriarsene - a quanto di più caro e prezioso si ha: il respiro vitale.

1.1 L’ambivalenza della vita e della parola

Ma «in un certo senso il narrare non è innocente, di sicuro non innocente quanto la geometria […] infatti i racconti non sono sicuramente innocenti: hanno sempre un messaggio, il più delle volte nascosto che nemmeno il narratore sa quale interesse stia perseguendo» (J. Bruner).

Senso e significato dei fatti, senso e significato delle parole e delle narrazioni fondano l’ambivalenza del vivere e del raccontare. Che si tratti dello sguardo del narratore, o dello sguardo dell’osservatore, o di chi ha semplicemente vissuto, l’intreccio della trama e dell’ordito della struttura e dei significati, degli attori implicati e degli ascoltatori/lettori, orienta ora di qua ora di là la vita e il racconto di essa e viceversa.

Questa reciproca implicanza fa sì che si struttura tra il vissuto e il relativo racconto una complicità tale che non solo vita e racconto sono inestricabilmente uniti, ma sembrano burlarsi della pretesa oggettività, giocando quasi a nascondino: lì dove una parola vuole rivelare, di fatto disvela e ricopre, dischiude e nasconde, orienta e dis-orienta, sino a rischiare l’anarchia se non si dovessero costruire racconti comuni sulle cui note fondamentali si costruisce un accordo.

Abbiamo bisogno di raccontare e di raccontarci, da soli o in compagnia, oralmente o scrivendo, perché la vita sia fatta e sia riconosciuta come vita propria, di ciascuno e di tutti.

1.2 Lo spazio come racconto

«Nell’Atene di oggi, i trasporti pubblici si chiamano metaphorai. Per andare al lavoro o rientrare a casa, si prende una ‘metafora’. I racconti potrebbero portare anch’essi questo bel nome: ogni giorno, attraversano e organizzano dei luoghi, li selezionano e li collegano tra loro; ne fanno frasi e itinerari. Sono dunque percorsi di spazi» (M. De Certeau).

È un pullulare di ‘metafore’: ogni racconto è un racconto di viaggio, ogni vita si snoda in uno spazio e costruisce ambienti, case, intimità, luoghi di incontro, un bar, un luogo di lavoro, una strada, un viottolo o un paesaggio.

Scrivere racconti è organizzare contesti e ambienti. I luoghi esistenziali e quelli urbani si fondono: le case sono le case degli uomini, sono le stanze delle lacrime e della festa, della quotidianità e del dolore, del lavoro e del divertimento, della preghiera e del peccato; le strade sono i luoghi dei pensieri e degli incontri. I racconti, orali o scritti che siano, organizzano luoghi, danno ordine alla vita, creano relazioni e scenari.

I racconti creano anche spazi, direttrici di senso, orientamenti. Il movimento della vita, le azioni e le progettualità esistenziali e sociali creano spazi in cui ogni cosa può accadere. Lo spazio è una sorta di luogo ‘praticato’, raccontando il quale in qualche modo lo si ‘addomestica’, diventa casa.

Scrivere racconti, rileggerli, è stabilire rapporti di senso con il mondo imprimendo al mondo stesso una direzione.

Scrivere così è assumersi la responsabilità di costruire ‘la città degli uomini’.

1.3 Il racconto di sé come invenzione della vita

Chi ama «scrivere è disposto ad accettare di rifiutare la propria immagine abituale per inventarne e scoprirne un’altra» (D. Demetrio). A volte persino a costo di notti insonni e di sofferenza, ma raccontarsi scrivendo è come scendere nella bottega del vasaio: si apprende l’arte del vivere e si dà una forma al vivere. Lì la parola scritta strappa alla prigionia dell’evidenza l’avvenimento e lo restituisce alla luce della verità della propria coscienza. Su quello scrittoio il foglio è il crinale su cui si temporeggia per trovare la parola giusta che ‘dica’ quel che è stato, e lo dica in modo tale da avvicinarlo il più possibile alla verità del cuore (M. Zambrano).

Il foglio bianco, segno del ‘mondo’, diventa allora, metafora di ogni sapere in quanto evento di scrittura ed elaborazione nascosta del vivere stesso (C. Sini). L’accaduto così si fa esperienza mediante la narrazione, una sorta di forgiatura del modo comune di sentire e vedere la vita.

1.4 Il racconto di sé come costruzione del ‘senso comune’

«Il senso comune è […] un insieme di significati depositati entro la tradizione linguistica di una comunità. In altre parole, i contenuti del senso comune sono visti […] non tanto e non come un insieme di ‘istruzioni per vivere’, quanto come ‘istruzioni per comprendere’: sono l’insieme dei presupposti sui quali si fonda per ciascuno la comprensione della realtà. […] ha a che fare con la memoria (o meglio con la tradizione) della comunità, ma i suoi contenuti sono forma di interpretazione del mondo» (P. Jedlowski).

Raccontarsi, scrivendo nel segreto della propria stanza, o parlandosi in un gruppo di amici, è contribuire a creare il depositum quale fondazione concreta della ‘mentalità’ di una comunità. Ci si riferisce a come in modo pre-giudiziale si comprendono le cose e a come ci si dispone a trattarle. Potersi ‘dire’, dunque, mentre esprime la mentalità di un luogo, per altro verso dà modo di poter sottoporre a giudizio critico quei criteri interpretativi, in un quadro di una pensosità responsabile, verso una libera decisione e una possibile trasformazione.

La vita è una parola, e la parola può trasformare la vita, sia quella personale che comunitaria. “Narro, ergo sum”.

«Date parole al dolore:/ il dolore che non parla / bisbiglia al cuore sovraccarico / e gli ordina di spezzarsi» (Macbeth, W. Shakespeare).

I versi di Shakespeare rimandano alla vita nascosta in ciascuno, a ciò che rischia di non avere una parola e di uccidere lentamente la vita. Trovare una parola per il non detto o il non dicibile, è chiamarlo dall’ombra e dargli legittimità. È trasformare in vita un fantasma. «Attraverso il racconto di storie possiamo comunicare verbalmente ad altri, e anche a noi stessi contenuti nascosti o temi emozionali della nostra memoria implicita che rimarrebbero altrimenti inaccessibili alla coscienza» (D.J. Siegel). Vi è una correlazione positiva tra narrazione autobiografica e processi di autoregolazione.

2. Volto a volto. Svelamenti e nascondimenti in un incontro

Nel mondo della virtualità l’uomo è un nikname o un avatar e l’aggregazione è la ‘rete’, la connessione che argina la comunità, per quanto poi la denominino la community.

L’Homo Consumens (Z. Baumann) è il componente di uno “sciame”, cioè una persona che si aggrega a un gruppo solo momentaneamente, per la durata della seduzione dell’obiettivo mutevole: la durata di un acquisto, ed è identificato con un ‘codice a barre’.

Per le pubbliche amministrazioni l’uomo è un codice alfanumerico: il codice fiscale definisce i confini della persona con la sua data di nascita, le lettere essenziali del suo nome e cognome e un identificativo del territorio di provenienza.

In ambito commerciale e fiscale la persona è una serie di undici numeri, se ha la partita Iva, con cui si può gestire il dare/avere del suo lavoro e con cui si gestisce il controllo sociale sul suo reddito.

Per la sanità, in modo non troppo avveniristico, la persona diventerà un chip che conterrà tutte le informazioni sulla sua salute e la sua malattia, compresi gli esiti delle analisi fatte e degli interventi sanitari realizzati.

Nel mare Mediterraneo poi, nulla vi è che possa testimoniare della singolare unicità di ciascuno dei migranti, poiché egli è solo uno delle diverse migliaia di naufraghi sepolti in quella fossa comune che è diventata ‘l’acqua tra le terre’.

Frammenti di considerazione che dicono la ‘fuga dal volto’. Il volto imbarazza, inchioda nella necessità di una forma di coinvolgimento, il volto richiede una risposta, non lascia nella indifferenza. Il volto smaschera la maschera che protegge e solleva dalla responsabilità di una parola.

Il volto rivela la persona, nel suo essere carne, nel suo farsi parola; perché la parola è nella carne, la carne già parola.

«Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’ “epifania” del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto». (E. Lévinas)

Il volto è la possibilità unica, di imparare davvero qualcosa, di ricevere un’educazione, un insegnamento, di conoscere bontà, apprendere giustizia: la carità.

2.1 Raccogliere biografie, scoprire volti

Ha senso l’affermazione di un volontario biografo: «Libero, Luciana, Guerrina, Halina, Gina, Teresa: sei nomi, altrettanti volti che si sono svelati per quel poco o tanto che può aver consentito una conoscenza pregressa, o il grado di empatia creatasi durante la relazione» (G. Bevivino).

Scrivere i dialoghi, ricomporli in un testo unico, restituirlo e celebrarlo, è onorare l’unicità di ogni vita, l’assoluto che in essa si ri-vela, si mostra e si nasconde, interpella e ascolta. Il volto è senso da solo: ‘tu sei tu, insostituibilmente ‘tu’.

Scrivere un testo biografico, dunque, è farsi naviganti in una vita, all’interno di un testo, contribuire a generare ‘responsabilmente’ un profilo di un volto, aiutare a dipingere un (auto) ritratto a due mani: la mano (bocca) di chi si narra e la mano (penna) di chi scrive.

Entrare in punta di piedi nella storia dell’altro con il solo intento di favorirne il racconto, senza cedere alla tentazione voyeristica di chi ne vuol sapere di più. Essere naviganti rispettosi di un ‘mare narrativo’ che non può essere inquinato o, peggio, violentato.

Navigare nel testo con lo sguardo stupito di chi scorge ma non vede, intuisce ma non sa, ascolta ma non cattura.

Il volto ci permette di esercitare la sensorialità di un volto, la sua espressività emotiva, il movimento di una lacrima o il complesso articolarsi dei muscoli facciali per esprimere un sorriso, lo stupore nel movimento degli occhi, il dubbio in un labbro distorto. L’altro non è immaginato, è lì in tutta la sua fisicità e presenza ineludibile.

2.2 Raccogliere biografie, incontrare volti

L’intervista è incontro di due solitudini: il narratore e l’uditore con l’intento di una relazione, una dialettica di sguardi, di voci, di immaginazione reciproca, molto carnale che presto ‘obbliga’ all’uscita da sé, in un esercizio spirituale di trascendenza da sé verso l’altro. Un ‘esodo sul posto’ che in men che non si dica diventa prossimità e poi familiarità per giungere anche a qualche forma inattesa di intimità e fiducia.

In questo incontro l’uditore è interrogato dalla narrazione, le domande che rivolge lo interpellano e gli generano rimandi. Mentre chiede perché l’altro si racconti, inevitabilmente egli stesso risponde a quella domanda sentendosi rinviato alla sua memoria e alla ricerca di fatti ed eventi che lo riguardano.

Nella intervista di solito rispondono in due, ma solo uno narra all’altro. Ma due sono le storie che si intrecciano e idealmente si fondono. Sono due profili, due volti che dialogano malgrado i ruoli impongano equidistanza e asimmetria.

Il con-loquio diventa rispecchiamento, gioco di riflessi e di rimandi in un flusso narrativo che trasforma gradualmente i due volti, così l’uno all’altro di parola in parola diventa sempre altro da quanto dapprima immaginato.

Un con-loquio che. Ad un tempo, avvicina verso una reciproca com-prensione, e distanzia quale segno di una impossibile fusione. I due resteranno sempre una coppia che dialoga, dove la rispettiva ‘alterità’, pur trasformata resterà tale fino alla fine. È la nascita del legame.

2.3 Accogliere un racconto, accogliere un volto

In quella intervista, volto a volto, si accoglie l’umanità che la narrazione crea e (s)vela. Nel racconto l’epifania dell’altro è sottoposta alla legge dell’autodifesa che via via si allenta verso la fiducia che consegna anche l’intimità.

È (s)velamento dell’uditore che è accompagnato ad un contenimento del suo ego mentre si fa grembo accogliente delle parole altrui; è (s)velamento dell’altro il cui ‘ego’ può espandersi per essere conosciuto e ri-conosciuto e così essere ‘ospitato’. Entrambi sono ospiti-ospitati, e il volto a volto diventa danza della gentilezza e della cortesia, del dono e dell’attenzione.

Le parole accompagnano questo movimento gentile mentre, discretamente, nascondono qualcosa di non dicibile, di non detto, di non ricordato, di non ricordabile. E il nascondimento è salute dell’anima perché legittima il segreto (se-cretum, messo a parte, riservato per, al limite del ‘sacrum’).

Il velo, nella parola detta, viene rimesso sulla realtà perché rimanga spazio dell’ineffabile, dell’irraggiungibile. In fondo anche il racconto non ci esaurisce, dice molto meno di quanto siamo, e la parola si fa ‘velo’ perché la vita non sia nuda.

Il racconto si fa tenda, conopeo per contenere una sacralità inviolabile e gravida del Mistero. L’ambivalenza delle parole (s)velamento, (ri)velazione ci lasciano sulla soglia, sul confine insuperabile, sul limite della corta comprensione umana.

Il pudore dello (s)velamento fa dell’incontro uno spazio di possibilità umana e di ulteriorità di vita.

Chi si racconta avrà sempre un volto, un nome, una mano tesa, sarà sempre un uomo.

In fondo sono le nostre singole storie che ci rendono umani. Altrimenti siamo solo numeri, per questo raccogliamo le storie; contro ogni indifferenza amiamo pronunciare dei nomi.

«L’incontro con Altri rappresenta immediatamente la mia responsabilità per lui[1]: la responsabilità per il prossimo, che senza dubbio è l’austero nome di ciò che si chiama l’amore del prossimo, amore senza Eros, carità, amore in cui il momento etico domina il momento passionale, amore senza concupiscenza. Non mi piace molto la parola amore, che viene usata e abusata. Parliamo piuttosto di una presa su di sé del destino altrui. […] Ma è sempre a partire dal Volto, a partire dalla responsabilità per Altri, che appare la giustizia, la quale comporta giudizio e confronto, confronto con ciò che per principio è incomparabile, poiché ogni essere è unico: ogni altro è unico» (E. Lévinas).

3. Scrivo (di) te. Il volontariato biografico tra narrazione e scrittura dell’altro

L’impegno principale richiesto a chi raccoglie una storia, oltre che sviluppare competenze di ascolto e conoscenze di alcune essenziali tecniche di scrittura (auto)biografica, risiede nella intervista, trascrizione e ricomposizione della storia di vita in una biografia.

Le competenze tecniche e le abilità relazionali richieste e agite sviluppano una densità di significato in gesti semplici e ‘feriali’, che danno dignità ad una azione intenzionale che sempre si qualifica come ‘servizio alla vita’.

3.1 Cosa accade nell’intervista biografica

L’autobiografia, in quanto processo di evocazione e messa in scena della vita (bíos) nel movimento della scrittura (gráphein) che prende forma a partire da noi stessi (autos), è desiderio/possibilità di creazione di sé, processo di creazione di ordine mito-biografico. Proponendo questa definizione per collegare il movimento della scrittura di sé con il processo di creazione di sé, vorrei ricordare il celebre motto inciso sul tempio dell’Oracolo di Delfi: «In te si trova occulto il tesoro degli Dei. Oh Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei». E un antico adagio di Evagrio, monaco del IV secolo, recita: «Chi conosce se stesso conosce il suo Signore».

Dunque valorizzando, mediante le interviste autobiografiche e la scrittura della biografia, il movimento vitale della storia delle persone, si agisce di fatto l’arte della maieutica che dispiega l’individuo nella coscienza del mondo, del suo auto-trascendimento e delle sue ‘divinità’, o, se si preferisce, del suo mito.

Il racconto di sé e la ‘tessitura’ della propria biografia, in quanto creazione esistenziale nell’alveo di un mito, rivela in questo senso la vita come spazio profano che diventa ‘sacro’; il soggetto diviene demiurgo di un’opera, quella (auto)biografica, che si qualifica quale viaggio di trasformazione/trasfigurazione di se stesso e dunque di auto-trascendenza nell’oltre-sé.

Le esperienze religiose e sociali della conversione, ci permettono di considerare il desiderio di autobiografia come desiderio di conversione nella scrittura di sé. Nella pratica religiosa i racconti di conversione sono concepiti come una metanoia che sostiene un processo di cambiamento, il superamento di uno stato d’animo che produce una percezione di perdita di sé, un cambiamento di pensiero e un pentimento che si traduce in una rinascita.

La trasformazione di sé (la conversione sul piano religioso) procede dalle cose visibili verso le cose invisibili, alla ricerca di connessioni nell’esistenza, un ritorno verso se stessi che procede nella perdita di sé. Si muore per rinascere a se stessi e al mondo in un nuovo ordine di senso.

3.2 Tra il narratore e l’uditore/lettore

Ma che cos’è il racconto di sé? Nel suo Il patto autobiografico Philippe Lejeune definiva l’autobiografia come un racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità. L’elemento decisivo è nascosto nelle pieghe della frase: sta nel patto che il narratore e l’uditore o lettore stipulano implicitamente, che stabilisce che la vita narrata è quella della “persona reale” che narra (la menzogna è possibile, naturalmente, ma è tale solo sulla base di un patto del genere).

Ma in una lettura trasversale della pratica autobiografica, è sicuramente interessante l’idea che la vede come parte di quelle che Foucault chiama “tecnologie del sé”, ossia quell’insieme di tecniche, norme, cognizioni, pratiche, ecc. «che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modi di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità».

Per altro verso, come ha ben messo in evidenza la pedagogia narrativa, la narrazione di sé è la garanzia che siano rispettate alcune regole e che sia mantenuta la finalità di empowerment sottesa ad ogni processo di apprendimento:

l’ascolto: il senso profondo della narrazione risiede infatti nell’essere ascoltati e nell’ascoltare. Ciò non significa solo parlare mentre gli altri sono in silenzio: l’ascolto prevede che tutti siano co-costruttori dei significati attraverso un atteggiamento partecipativo;

la contaminazione: ovvero la trasversalità narrativa. Riconosciamo una contaminazione sul versante dei materiali utilizzati per la narrazione (fotografie, oggetti, canzoni, musiche …) e una contaminazione narrativa sul piano relazionale tra uditore e narratore;

la sospensione del giudizio: in campo narrativo, nessuno possiede verità definitive. In particolare, sia il narratore che l’uditore non hanno accesso ai ‘veri’ significati; l’uditore è solo in grado di stimolare le narrazioni e il loro ascolto, il narratore è solo in grado di dialogo interiore (memoria, suggestioni, intrecci, trame…) teso a costruire un racconto plausibile, parziale, vero in quel momento.

3.3 L’intreccio dei volti

La narrazione di fatto è un evento relazionale. La vocazione della scrittura (auto)biografica è la relazione, afferma D. Demetrio, perché, per definizione, non può che postulare un destinatario, un uditore/lettore. Ciò vale per anche le autobiografie e persino per le attività solitarie come la scrittura di un diario. Come scriveva Benveniste, anche il monologo deve essere considerato, malgrado l’apparenza, come una varietà del dialogo (…): è un dialogo interiorizzato.

Ma quando si tratta di un racconto svolto in concreto di fronte a un altro, all’interno di una cornice conversazionale, questa natura relazionale è in piena luce. Quando raccontiamo a viva voce, raccontiamo a qualcuno. E ciò è tutt’altro che irrilevante.

Se poi il racconto orale è registrato, trascritto e ricomposto in un testo dotato di senso, di una trama, di un intreccio, allora si comprende come il contributo dell’uditore travalichi i confini dell’opera dell’amanuense per alludere invisibilmente ad un altro racconto: il racconto di sé del biografo. La ricomposizione della storia del narratore non è indifferente alla storia dell’uditore biografo che ha raccolto e scritto.

A narrare si è in due. Se l’uno può esporre il proprio racconto, è perché l’altro è disposto ad ascoltarlo. Il primo appare il protagonista dell’azione comunicativa, ma il secondo è tutt’altro che passivo. Contribuisce alla definizione della situazione. Con le sue aspettative determina ciò che viene detto. Di rado è completamente muto: espressioni del viso, posture, interiezioni, domande: si tratta di vere e proprie collaborazioni al racconto. La sua attenzione o la sua disattenzione, la sua partecipazione emotiva o il suo disinteresse agiscono sul narratore e sul contenuto della narrazione.

Ogni storia ascoltata/trascritta e ricomposta dunque sono un dipinto in cui la ‘figura’ è la storia dell’anziano e lo ‘sfondo’ e il profilo biograficamente segnato del volontario.

È un intreccio di volti che si incontrano nella loro precarietà nell’intima reciproca convinzione che le reciproche storie ‘è affar mio’, ‘mi concerne’. In questo richiamo alla responsabilità dell’io, ad opera del volto che narrandosi reclama responsabilità e l’altro è, e diventa, il ‘prossimo’.

La prossimità del prossimo – la pace della prossimità – è la responsabilità dell’io per un altro, l’impossibilità di lasciarlo solo di fronte alla morte (E. Levinàs).

Scrivo (di) te, dunque, perché tu viva; perché tu non sia solo.

4. L’ eredità di un racconto: Dal soggetto alla comunità

4.1 Al confine tra narrazione e relazione

In una cultura fortemente segnata dalla complessità e dalla contingenza, ampi sono gli spazi del disagio e della vulnerabilità che accentuano il senso della precarizzazione della vita e delle relazioni sociali. Nelle scienze sociali e psicologiche è considerata ormai un’evidenza la correlazione tra la sofferenza psichica individuale e le trasformazioni del legame sociale, in via di dissoluzione – quest’ultimo - a causa della mutazione del capitalismo globalizzato, della fine dello stato sociale, del declino della coesione che questo assicurava.

«A fronte di questa realtà, senza correre il rischio onnipotente di indicare soluzioni, è possibile cogliere interstizi nella vita quotidiana che consentano l’incontro, il dialogo, il racconto, lo scambio, in ultima analisi il dono reciproco di una storia quasi fosse un filo che ricompone e ricuce, tesse e disegna nuovi spazi relazionali e produce inediti e significativi legami tra le persone» (G. Gasparrini). Ci si ritrova collocati al cuore di un processo virtuoso di socio-genesi.

L’esperienza insegna che tutti i narratori all’inizio sono colti di sorpresa di fronte all’interesse gratuito per la loro vita. Persino recalcitranti. Ma poi il gusto e il piacere di raccontarsi prevale. Ma l’energia che si sprigiona nella relazione narrativa ha ancora forza di espandersi e amplificarsi sino a proporsi come ‘eredità’ per la famiglia, per la comunità.

4.2 Non si ricorda da soli

L’esperienza dell’uditore/biografo (si qualifica come vero e proprio volontariato biografico) richiama l’attenzione su una forma semplice ed efficace di costruzione di relazioni significative e di ‘trasmissione’ del patrimonio culturale, civile, sociale, spirituale: raccontare e raccontarsi.

Il valore di tale scambio aumenta se si considera quanto evidenziano le analisi sociali sui temi della vulnerabilità. Si segnala infatti una caratteristica di coloro che si trovano al limite del disagio: la paura di dirsi, la vergogna di mettere a nudo la propria condizione di fragilità.

Ricostruire spazi del raccontarsi restituisce dignità all’interesse della persona non più ridotta al suo bisogno o alla sua fragilità, ritesse le maglie della fiducia nella comunità locale, rende visibile e prendibile ciò che accomuna e fa di un insieme di persone una comunità.

In questa prospettiva riattivare i ricordi e raccontarli significa concorrere alla costruzione di una narrazione collettiva della vita, poiché chi si racconta tende a creare una coerenza tra la propria storia e la storia della comunità, con le sue tradizioni, usi, costumi, valori.

La memoria individuale, infatti, non è alimentata soltanto dai ricordi personali, ma da ‘cornici sociali’ (linguaggio, eventi apicali, segnali, scrittura, monumenti, riti…) che la sorreggono rendendo così comunicabili le esperienze condivise (M. Halbwachs).

È un legame inscindibile quello esistente tra la memoria individuale e la memoria collettiva, e dunque tra il racconto personale e il racconto collettivo, d’altra parte ogni autobiografia è preceduta e si inserisce in una biografia collettiva che la precede e la fa (R. Madera).

Ma, ricorda P. Ricœur, all’interno della relazione memoria personale / memoria collettiva vi è una terza dimensione, quella definita dai legami affettivi significativi (genitori/figli, coniugalità, amicizia…): «Fra i due poli della memoria individuale e della memoria collettiva, non esiste forse un piano intermedio di riferimento, in cui concretamente si operano gli scambi fra la memoria viva delle persone individuali e la memoria pubblica delle comunità alle quali apparteniamo?» (P. Ricœur).

È questo scambio intersoggettivo che rende possibile il dono, la consegna, l’eredità appunto. Una trasmissione non più unilaterale o discendente dal più grande al più piccolo, ma uno scambio, un intreccio di memorie personali e individuali che costituiscono il patrimonio esistenziale, morale, civile, spirituale delle persone, delle famiglie, delle comunità.

4.3 Scrivere una biografia è darsi ospitalità reciproca

La conversazione biografica se non è corale è un dialogare in un alternarsi di ricordi e di associazioni, di assonanze e di richiami. È uno spazio transizionale (D.W. Winnicott) in cui le persone possono esprimere sentimenti e trasformarli, creare nuove consapevolezze, soprattutto quando le condizioni esistenziali sono fortemente connotate dalla perdita e dalla solitudine.

Lo spazio transizionale del racconto/dono di una storia spinge tutti gli attori lasciarsi toccare dall’altro in un ‘gioco’ di reciprocità narrativa e di scambio riconoscente.

Ancora di più, il raccontarsi è darsi reciproca ospitalità: è abitare la lingua, il vocabolario, le immagini, le emozioni e i sentimenti dell’altro e, ad un tempo, ospitare l’altro nella propria lingua, nel proprio vocabolario, nelle proprie immagini…

La disponibilità all’ascolto genera apertura, dissolve l’isolamento, rende possibile l’ospitalità. La vulnerabilità sociale è spesso nutrita dalla logica del sospetto, della paura, della diffidenza. In ultima analisi la vulnerabilità ha il volto della solitudine, dell’isolamento e a tratti anche della ostilità.

Ma appena il racconto comincia a fluire, e gli uditori/biografi ne hanno fatto esperienza, la simpatia, l’attesa, la vicinanza cominciano a tessere la relazione e lo scambio, nella stessa forma raccontata nel dialogo tra il piccolo principe e la volpe.

4.4 Il vino della memoria

«Il passato che non è più reclama il dire del racconto dal fondo stesso della propria assenza» (P. Ricœur). Gli uomini nel loro vivere hanno coltivato speranze, fatto progetti, realizzato imprese, sognato e desiderato. Qualcosa hanno realizzato, in qualcosa hanno fallito, altro hanno avviato, altro ancora è rimasto incompiuto.

«Non è compito dello storico di professione, ma lo è di coloro che possiamo chiamare educatori pubblici – di cui dovrebbero far parte anche i politici – quello di risvegliare e rianimare queste promesse non mantenute» (P. Ricœur).

Nel passaggio di testimone non si tratta di fare le cose che altri hanno fatto. L’eredità, che si assume nella fedeltà all’umano e al proprio tempo, richiede di essere reinterpretata e fatta crescere.

Questa consegna di storia e di storie alimenta la consapevolezza del tempo presente e fonda la possibilità del futuro; crea identità e appartenenza ad una comunità e alla sua storia; apre interrogativi e sollecita responsabilità rispetto al futuro desiderato.

Vincendo l’inibizione di chiedere in prestito ai credenti narrazioni che appartengono loro, non possiamo non registrare come la nostra cultura sia fortemente radicata in gesti di trasmissione della memoria di fatti ed eventi.

Nella tradizione ebraica non può celebrarsi la Pasqua se non dopo aver raccontato. Il testo dell’Haggadah pasquale così riporta il cardine dell’identità del popolo ebraico nella semplice e pur forte domanda del più piccolo della famiglia che scatena il racconto di un ‘noi’ che dal passato si estende al presente e al futuro.

Ugualmente nella celebrazione eucaristica cristiana risuona di continuo il ‘fate questo in memoria di me’, dove la narrazione non è più soltanto un racconto dell’accaduto, ma è un ‘fare’.

«Bisogna pensare alla memoria come a una forza attiva, o anche - se è lecito un paragone colloquiale - a qualcosa più simile al vino, cui gli enzimi conferiscono la proprietà di un organismo vivente, che non all’acqua, sostanza minerale inerte» (R. Bodei).

Se raccontare è testimoniare, ascoltare racconti è, in ultima analisi, rendersi ‘testimoni’: «Tramite il racconto l’uditore, divenuto testimone al secondo grado, si trova a propria volta posto sotto l’effetto del fatto di cui la testimonianza trasmette l’energia oppure la violenza, a volte perfino l’esultanza» (P. Ricœur).

4.5 Trascrivere un racconto, trasmettere storie

L’uditore/biografo impegnato nella trascrizione di un racconto biografico si trasforma in traduttore, impegnato in un labirinto di vicende, emozioni, sentimenti che infine portano verso un approdo non previsto e non prevedibile.

Egli si rapporta a storie, non a concetti. Racconti che rinviano all’enigma del vivere, che lasciano trasparire in lontananza un appello radicale all’amore per la vita.

In quei racconti si avverte una presenza che si fa co-autore della scrittura. La biografia scritta, infatti, è l’esito dell’incontro. Non è, e non sarà mai, ‘la’ verità, ma è ‘la sua’ verità (del narratore), ‘la loro’ verità (dell’uditore/biografo e del narratore insieme).

Quando l’uditore/biografo (tra)scrive si fa lettore scrivente, uno che condivide l’esperienza che ha ascoltato e che ora narra scrivendo, creando sulla carta (metafora di spazi più interiori) un luogo di convivenza. Una convivenza più che reale, giacché le parole scritte sono la carne dello spirito.

Chi scrive una biografia di un altro diventa perciò un traduttore, uno cui è richiesto di articolare il racconto orale in una scrittura che lasci emergere un senso, talvolta in modo esplicito, altre volte in modo allusivo.

Chi scrive una biografia di un altro, genera una sorta di seconda profondità, poiché la scrittura ha aiutato l’uditore/biografo a ricavare in sé uno spazio di risonanza per trovare parole. Si scrive di un altro, ma tale scrittura è anche ricerca di sé attraverso un ascolto attento della parola di un altro.

Ereditare una storia, leggerla e raccontarla attiva, perciò, una sorta di dialogo a distanza, un dialogo tra storie iniziate in tempi diversi, ma ancora capaci di generare legami e segnare sentieri. Si costruisce una comunità. Una comunità di traduttori.

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Notes

[1] Il rapporto con l’Altro è segnato dalla responsabilità morale nei suoi confronti, a sua volta ancorata al principio dell’amore per il prossimo.

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