Barbara Vinciguerra, laureata in Lettere presso l’Università “La Sapienza" di Roma, è attualmente dottoranda in Scienze Documentarie, Linguistiche e Letterarie, presso la stessa università. Giornalista e componente dell’ANVGD (Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia), organizza mostre ed eventi culturali ed è autrice di vari saggi critici tra cui Abitare l’immagine in «Saggi su Dino Buzzati ed Hermann Hesse» (a cura di Mariano Apa), Campisanti, Roma, 2002, pp.147-152 e 291-295; Suggestioni zaratine negli scritti e nei dipinti di Secondo Raggi Caruz, Franco Ziliotto, Adam Marusic in «Visioni d’Istria, Fiume, Dalmazia nella letteratura italiana», a cura di G. Baroni e C. Benussi ,Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2020. È coautrice con E. Giuliana Budicin, Maria G. Chiappori e Donatella Schürzel de L’arte dell’Adriatico orientale a Roma e nel Lazio dal V secolo ad oggi, Roma, 2019, vincitore del «Premio Letterario Tanzella» 2020.
Abstract
Marina Abramović ha trascorso la stagione della pratica performativa, partendo dagli studi all’Accademia di Belle Arti di Zagabria per approdare ad Amsterdam e successivamente a New York. Nata nel 1946 a Belgrado, da genitori convinti e fedeli assertori della dittatura comunista, il padre diventa eroe nazionale, si definisce oggi Grandmother of perfomance art. La serie dei Rhythm divenne di portata rivoluzionaria per la violenza che infliggeva al suo corpo, spingendosi all’estremo limite fisico. Nel 1975 con Rhythm 5, si stende al centro di una stella a cinque punte in legno che viene data alle fiamme, l’aria diventa irrespirabile, perde i sensi, rischia di morire e viene salvata dall’aiuto degli spettatori. Nel 2016 edita da Bompiani esce la sua autobiografia «Attraversare i muri», in cui ripercorre la sua vita privata e di artista, si interroga sui concetti di dolore e paura come emozioni che sopraggiungono nel momento in cui varchiamo la soglia di un limite. Eppure solo attraversando il muro abbattiamo la dicotomia tra corpo e mente. Afferma «Il dolore è un muro, straziante, insopportabile, ma chi riesce a trapassarlo accede ad un diverso stato di consapevolezza. A una nuova fonte di energia illimitata. E la Marina impaurita, diventa la Marina eroica. Una sensazione inebriante che raggiungo solo davanti al pubblico, perché è dagli spettatori che traggo forza. Senza di loro non arriverei in fondo».
Arnold Böcklin (1827 Basilea, 1901 San Domenico di Fiesole),
Medusa, 1878 circa, Germanisches Nationalmuseum.
Appunti per una modalità di lettura
«Spero che questo libro sia di ispirazione e insegni a tutti che non esistono ostacoli insuperabili se si ha forza di volontà e se si ama ciò che si fa», è così che Marina Abramović conclude la nota introduttiva della sua autobiografia «Attraversare i muri» pubblicata da Bompiani nel 2016. Artista poliedrica e trasgressiva, celebrata e criticata nella sua instancabile e febbrile attività performativa, stupisce ancora oggi con il recente progetto Traces presentato nel settembre 2021 all’Old Truman di Londra. Nonostante il nome di Marina Abramović rimbalzi da anni sulle cronache nazionali e internazionali dei maggiori social networks, unica donna ad ottenere una personale nel 2019 a Palazzo Strozzi di Firenze, indagare nelle pieghe della sua unica pubblicazione merita ancora uno sguardo critico attento. Innumerevoli le possibili linee di lettura e gli itinerari percorribili offerti dal testo: un autoritratto d’artista, la storia di una Serbia sotto la Jugoslavia di Tito, la storia di un’infanzia infelice, l’apoteosi e la fine del grande amore con Ulay, il rapporto di una donna con il proprio corpo, un viaggio nella pratica performativa. Tuttavia in questo contributo si intende declinare la trama narrativa inseguendo la via dell’eccesso e del dispendio di sé che porta l’artista a sbriciolare le barriere del reale per raggiungere un altroveche trasfigura il dato fenomenico.
Non si può prescindere da un dato oggettivo: l’opera della Abramović è pura narrazione dell’io, pertanto risulta utile partire dalla ormai storica definizione di Philippe Lejeune, che ha fissato l’autobiografia come un «racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria vita mettendo l’accento sulla vita individuale e in particolare sulla storia della sua personalità» (Lejeune Ph. 1986: 12). Il vissuto di Marina Abramović è testimonianza che rispetta la congiuntura fondamentale tra autore, narratore e personaggio, se si incrociano i dati biografici con le informazioni fornite dal personaggio narrante, infatti, non risultano incongruenze. Sottoscrivendo il nostro patto autobiografico con l’autrice siamo portati a ritenere autentici gli eventi raccontati e a considerare il coautore, James Kaplan, unicamente come colui che ha saputo confezionare un prodotto accessibile al grande pubblico.
«Attraversare i muri» è un testo organizzato in tredici capitoli, ognuno dei quali è preceduto da un breve preambolo scritto in corsivo che racconta un aneddoto, un episodio cruciale, motore primario della narrazione e traccia fornita al lettore di ciò che si espliciterà nel corso del capitolo. Si tratta di un espediente narrativo che ci introduce nel flusso del tempo, nella traiettoria del suo vissuto esperienziale. Quando l’esperienza diventa memoria e la decantazione interiore incrocia la dimensione visionaria, ecco che allora l’autrice ricorre al flashback. L’analessi operata nel preambolo consente con uno scarto minimo di decifrare il passato e spiegare con chiarezza anche il presente. La prosa è piana ed accessibile, tersa e pianeggiante, non trasuda di eccentricità, di eccesso, come le storiche autocelebrazioni di Benvenuto Cellini o Salvator Dalì, semmai riscontriamo talvolta uno spiccato senso dell’ironia, attuata per ottenere un rovesciamento delle norme e delle coordinate logiche che governano il mondo reale. Dunque il testo di per sé non sembra ascrivibile all’interno della traccia fornita in questa sede, la parola scritta non risponde all’ampollosità, all’artificiosità con il conseguente intento di costruire un’immagine di sé auto-apologica ed eccedere nell’autorappresentazione. Quanti hanno seguito le performance della Abramović possono riconoscere la parola come autentica trascrizione dell’azione artistica, d’altro canto delineando il ‘personaggio’ Marina ne vengono messe a nudo anche le debolezze, le fragilità e gli insuccessi che contribuiscono a consegnarci il ritratto di una donna eccezionale ma profondamente umana. Tuttavia è l’artista stessa con la sua arte e il suo vissuto esistenziale ad aver oltrepassato il limite imposto dalle regole sociali senza per questo cadere nelle maglie dell’utilitarismo, il suo agire non prevede ricompensa alcuna, come auspica Georges Bataille in diversi scritti, ma è incessante dispendio di energie fisiche e mentali. Marina Abramović ha bisogno di mettersi continuamente alla prova, sfidare le convenzioni sociali, urtare la sensibilità, mettere a nudo gli ingranaggi introspettivi celati dal silenzio per non rimanere relegata all’interno dei confini di un mondo conosciuto, ma aprirsi un varco attraverso il muro. Il testo scritto, corredato da numerose fotografie, si configura in tal senso come ulteriore gesto di estroversione, la pagina bianca è straordinaria perfomance su cui fissare il recupero di tante stagioni trascorse e riannodare i fili del passato.
«Il mio lavoro e la mia vita sono intimamente connessi», (Abramović M. 2016: 138) dichiara la Abramović. Arte e vita, binomio indissolubile su cui a partire dall’Ottocento molti intellettuali hanno riflettuto, da Oscar Wilde a Friedrich Nietzsche fino alle roboanti interpretazioni di D’annunzio, che al di là delle apparenze riuscì con l’impresa di Fiume ad anticipare, secondo la studiosa Claudia Salaris (Salaris C. 2002), la rivoluzione del ’68, creando una piccola controsocietà disponibile alla trasgressione. Eppure in Marina Abramović, erede per certi aspetti della naturale inclinazione ad infrangere la norma e partecipe della storica rivoluzione giovanile del ’68, il principio estetico dannunziano è rovesciato, spogliato di ogni bellezza e raffinatezza, l’arte come vita autentica è calata in una brutale realtà e assume perfino contorni disturbanti. Nulla a che vedere, dunque, neanche con gli eccessi dell’opera d’arte vivente per antonomasia, la divina Marchesa Luisa Casati, protagonista ai suoi tempi di performance ante litteram, con cui Marina condivide solo l’amore per l’arte e il gusto esotico di ingombranti boa sul collo. Intrecciare alcuni dati biografici salienti con le nuove correnti artistiche che negli anni ’70 sconvolgeranno l’America e l’Europa è un primo step per entrare nell’universo dell’artista e comprendere le ragioni del suo agire nell’eccesso fine a sé stesso.
Nata nel 1946 a Belgrado da genitori fedelissimi al regime di Tito, sotto il quale vige un «estetica del brutto assoluto» (Abramović M. 2016:11), permeato da un’oppressione che genera depressione, viene educata da una madre dispotica e anaffettiva ad una rigida disciplina militare. Marina deve essere un soldato, non lamentarsi mai, la mamma ama ripeterle «I veri comunisti devono avere una determinazione capace di farli passare attraverso i muri» (ibid.: 22). Spesso brutalmente picchiata e punita anche ingiustamente, soffre di reazioni psicosomatiche ai maltrattamenti subiti, accusa spesso forti emicranie, viene ricoverata persino in ospedale per un anno intero, la sua non è certo un’infanzia felice. Pur potendola viziare i genitori, che appartengono alla agiata borghesia rossa, la privano di qualsiasi cosa: giocattoli, vestiti nuovi, tenerezze, le impongono lo studio del pianoforte, del francese e dell’inglese, ma non risparmiano un soldo sull’acquisto di libri. La lettura diventa così evasione da una realtà amara, Proust, Camus, Kafka, Rilke, Gide sono gli unici compagni ammessi ad alleviare la sua solitudine. Quando il padre asseconda le sue inclinazioni artistiche e le procura un insegnante di pittura la sua vita è a una svolta decisiva. Addestrata a vincere il dolore, la vista del sangue e la paura, Marina si dedica con slancio negli studi, si diploma all’Accademia di Belle Arti di Belgrado nel 1970 e si specializza successivamente a Zagabria, comprende che l’arte può essere più forte di ogni limite. Il vissuto esperienziale a questo punto si intreccia con le nuove tendenze degli anni ’70, anni in cui la body art e la performance assumono i caratteri di nuovo linguaggio espressivo, che tenta di abbattere i confini dell’arte e portarla a contatto con la vita quotidiana. La perfomance non produce alcun oggetto artistico, è il soggetto ad acquisire centralità e vanificare il sistema stesso dell’arte ancorato alla produzione di bene in quanto atto estetico. Gli artisti operano secondo una logica che vuole un’umanità non schiacciata dal funzionalismo della società e che sfugga al concetto di profitto. Le radici affondano, secondo Roselee Goldberg (Roselee G. 2011), nelle Avanguardie storiche che avevano introdotto la lezione della sperimentazione nelle serate futuriste e nello spettacolo dadaista del Cabaret Voltaire, scivolando nel secondo dopoguerra agli esiti rivoluzionari di Yves Klein e Piero Manzoni. Lentamente il corpo acquista centralità e coincide storicamente con la liberazione sessuale della fine degli anni ‘60 e le istanze femministe. La body art abbatte la barriera tra artista e pubblico, il corpo diventa soggetto e oggetto dell’opera, come una tela su cui si possono compiere azioni rituali che sfiorano il misticismo, ha la funzione di rappresentare pulsioni e rivendicazioni ed è strumento privilegiato dagli artisti che creano azioni con un certo margine di improvvisazione. Questo tipo di pratiche eccedono di per sé dai canoni socialmente accettati ed arrivano come vedremo ad atti estremi, in cui viene messa in pericolo l’incolumità stessa dell’artista. Le azioni sono talvolta cruente o blasfeme, è il caso di Hermann Nitsch che ha subito diversi processi e tre incarcerazioni o di Gina Pane, che infierisce con lamette o spine sul proprio corpo ma al contrario di Nitsch attinge alla dimensione del sacro per sperimentare il martirio e offrirlo agli altri.
Negli stessi anni anche gli studi critici sulla letteratura di genere si confrontano sul rapporto corpo-scrittura, con contributi di Ellen Moers (Moers E. 1979), Patrizia Magli (Magli P. 1980), Patrizia Violi (Violi P. 1986). Questi saggi hanno individuato un legame sostanziale tra la scrittura delle donne e la sofferenza espressa attraverso il corpo, a cominciare dai testi delle mistiche (Alber J. P. 1999), ma applicabile ad altre narrazioni (Storini M. C. 2020). L’esperienza dei segni e la body art prodotti da un soggetto donna hanno dunque una modalità di enunciazione comune, esprimere attraverso il corpo, come voce narrante o personaggio, le proprie emozioni, e l’attività di Marina Abramović va letta e interpretata anche alla luce di queste considerazioni.
Corpo e linguaggio: la via dell’eccesso
L’artista, con alle spalle un solido bagaglio di resistenza al dolore, inizia a sondare il proprio corpo per sperimentare i limiti fisici e superare la paura, un’emozione che descrive così: «È incredibile come la paura viene costruita dentro di te dai tuoi genitori, dagli altri che ti circondano. All’inizio sei innocenza pura; non sai nulla» (Abramović M. 2016: 11). Nel 1973 mette a punto la sua prima ormai celebre performance Rhytm 10: allarga la mano, la poggia sul tavolo e colpisce velocemente con un coltello gli spazi tra le dita, provocandosi ferite da cui copioso sgorga sangue, verso il quale ha sempre nutrito repulsione e terrore. Ripeterà la sua performance nel 1973 a Roma, invitata da Achille Bonito Oliva, con venti coltelli, ancora più dolore e ancora più sangue. «Avevo fatto esperienza di una libertà assoluta; avevo sentito che il mio corpo era senza limiti e confini; che il dolore non aveva importanza, nulla ne aveva. Era inebriante» (ibid.: 76).
Se per Gina Pane la ferita assume il significato di memoria del corpo inteso nella sua fragilità e le Azioni di Hermann Nitsch hanno lo scopo di liberare l’umanità dai suoi istinti bestiali, è invece il desiderio di libertà a guidare Marina Abramović. Gli eccessi compiuti mettendo costantemente alla prova i limiti della fisicità corporea, retaggio della cultura del sacrificio e dell’eroismo in cui era cresciuta, agiscono sia come strategia di regolazione emotiva, sia come formula comunicativa, consentendole di aprirsi oltre l’angusto orizzonte della propria egoità.
Nel 1974 si spinge ancora oltre, in Rhytm 5 organizza una enorme stella a cinque punte ed una interna di minori dimensioni. Marina sceglie la stella perché «Era il simbolo del comunismo, la forza repressiva sotto cui ero cresciuta e da cui cercavo di fuggire. Ma era anche molte altre cose: il pentacolo, un simbolo sacro e misterioso di antichi culti e religioni; una forma, insomma, dell’enorme potere simbolico» (ibid.:81). La polisemia del pentacolo affonda le radici nella notte dei tempi ma gli artisti delle avanguardie ne avevano già sperimentato il potere emblematico, come nella stravagante interpretazione di Marcel Duchamp con la sua Tonsure fotografata da Man Ray, omaggio alla stella di sangue dell’amico Apollinaire, riportata per una ferita di guerra.
Marina Abramović, dopo aver tagliato le unghie e alcuni ciuffi di capelli, si sdraia all’interno della stella a cui viene dato fuoco, rimando immobile al suo interno fino a perdere conoscenza e rischiando di morire soffocata se qualcuno non fosse intervenuto a salvarla. La stella, come simbolo di un’ideologia ottusa in via di derealizzazione, è ancora protagonista di un’altra performance del 1975, presentata a Innsbruk, Lips of Thomas. L’allestimento prevede precise istruzioni riportate nell’autobiografia «Mangio lentamente un chilogrammo di miele con un cucchiaino d’argento. Bevo lentamente un bicchiere di vino rosso in un bicchiere di cristalli. Rompo il bicchiere con la mano destra. Con la lametta di un rasoio incido una stella a cinque punte sulla mia pancia. Mi frusto con violenza fino a non sentire più dolore. Mi sdraio su una croce di blocchi di ghiaccio. Il calore emanato da un radiatore sospeso sopra la mia pancia fa sanguinare la stella. Il resto del mio corpo comincia a gelare. Rimango sulla croce di ghiaccio per trenta minuti finchè il pubblico interrompe la perfomance rimuovendo i blocchi di ghiaccio sotto il mio corpo» (ibid.:91).
Questo ricorso alla scrittura assolve l’esigenza di enunciare e spiegare al pubblico come la performance verrà condotta, metodo che seguirà con successo negli anni seguenti esplicitando il suo rapporto con l’arte e la vita, sia con Art Vital, una sorta di programma elaborato da Ulay negli anni in cui i due compagni vagabondavano senza una fissa dimora, che con il Manifesto d’artista presentato successivamente da Marina. Il metodo è desunto dalle Avanguardie Storiche, che avevano con successo associato la parola scritta alla pratica artistica. Il Manifesto della Abramović, pubblicato all’inizio del capitolo dodici non assume però i toni declamatori, imperativi e provocatoriamente rivoluzionari dei suoi illustri precedenti, poiché lo scritto presenta in larga parte l’uso del condizionale, ipotizzando come un artista dovrebbe o non dovrebbe condurre la sua esistenza, in rapporto agli altri, al silenzio, alla solitudine e al lavoro, lasciando piena libertà di scelta.
Nel 1975 allo studio Morra di Napoli si presenta immobile in pantaloni e tshirt nera, davanti a lei sono poggiati vari oggetti, un martello, delle forbici, aghi, spilli, una macchina fotografica e perfino una rivoltella, settantadue in tutto. Si tratta di Rhytm 0, gli spettatori possono disporre degli oggetti e usarli su di lei a piacimento. All’inizio non accade nulla poi qualcuno le fa un taglio sul collo e le succhia il sangue, le fanno assumere svariate posizioni, qualcuno inserisce la pallottola nel caricatore ma per fortuna viene allontanato. Un corpo-oggetto in balia di un pubblico posto in una condizione di potere rispetto all’immobilità di Marina, una situazione che scatena un imprevedibile eccesso di violenza. In questo caso sono persone comuni a trasgredire il limite, ad oltrepassare la misura, dimostrando quanto labile sia la linea di confine tra vite/morte, lecito/illecito, ecc. Con questo esperimento inoltre Marina Abramović porta alle estreme conseguenze ciò che già Marcel Duchamp aveva teorizzato nel suo scritto sul processo creativo, cioè che «l’artista non è il solo a compiere l’atto della creazione, perché lo spettatore stabilisce il contatto dell'opera con il mondo esterno decifrando e interpretando le sue profonde qualificazioni e così aggiunge il proprio contributo al processo creativo». Affermazione di Duchamp durante la conferenza ad Houston del 1957 (Duchamp M. 1975: 140).
L’autrice continua a vivisezionare il suo vissuto biografico con puntuali ed esatti eccessi disturbanti, provenienti da un narratore autorevole che li esibisce come manifesto programmatico della sua stessa arte. Un’autobiografia scritta come una partitura teatrale: la Abramović è attore principale, in scena dall’inizio alla fine, in cui di frequente inserisce una tranche memoriale esplicativa: «Avevo imparato che il dolore è come una porta sacra da cui si accede a un altro stato di consapevolezza. Quando varcavi quella soglia, si apriva un’altra dimensione» (Abramović M. 2016: 107). Nel momento in cui vengono comunicate al lettore le sensazioni provate, l’autrice utilizza di norma l’imperfetto, la scelta di questo tempo verbale, tempo dell’attesa per eccellenza, intensifica la continuità della percezione, che perdura al di fuori dell’intervallo di tempo squisitamente cronologico ed ha ancora un’eco nel presente emotivo. Appena l’autrice ha necessità di narrare un evento, riportare una vicenda, il passo diegetico viene espresso invece al passato remoto, con il conseguente innesco di anacronie che generano una continua alternanza tra mondo esteriore e interiore.
Oltre il corpo: le potenzialità della mente
Nel 1976 conosce Ulay ed inizia un sodalizio artistico e sentimentale che durerà per circa dodici anni. Il loro manifesto Art Vital annovera tra i vari ideali programmatici «superare i limiti. Correre rischi». Imponderabilia, del 1977, Expansion in Space del 1977, Rest Energy del 1980 sono alcune delle azioni sceniche più riuscite. Esaurita la fase di sperimentazione legata al corpo, la Abramović decide di sondare le potenzialità della mente, in perfetta sintonia con la tendenza globale dell’esaurirsi della carica rivoluzionaria del movimento post ’68. La volontà di mantenere viva la speranza utopica di un cambiamento, inteso non più come collettivo ma interiore e individuale, assume implicazioni religiose e spirituali. Viene in tal modo a generarsi quella «nebulosa mistica-esoterica» (Champion F. 1999) comprendente gruppi e reti che si ricollegano a tradizioni esotiche o religiose (buddismo, induismo, sciamanesimo). Nel 1979 Marina compie insieme al suo compagno un viaggio in Australia, sperimentando tra gli aborigeni con esercizio costante le innumerevoli facoltà della mente esercitate attraverso il silenzio, l’immobilità e la comunicazione telepatica, «Fu allora che la mia mente cominciò davvero ad aprirsi» (AbramovićM.:153). Da questa esperienza nasce una nuova performance nel 1981, Gold found by the artist, Marina e Ulay stanno per otto ore seduti di fronte ad un tavolo mentre si guardano negli occhi senza fare un solo movimento, per sedici giorni di fila. L’immobilità provoca dolori fisici tanto lancinanti e intensi da compromettere l’esito della performance, ma è in quel momento che la mente interviene sul fisico e abbatte la barriera del contingente. Mentre Ulay abbandona a più riprese la performance e raggiunge il suo limite, Marina, nonostante i crampi continua il lavoro inteso come dura disciplina e riesce ad arrivare alla fine del sedicesimo giorno, per raggiungere quella che definisce ‘coscienza liquida’, uno stato di armonia con il mondo circostante. L’elaborazione di questa performance, gli ostacoli incontrati per arrivare al termine del lavoro sono narrati con una particolare strategia. L’intercalarsi del tempo narrato con il tempo della memoria è costruito attraverso l’intromissione di alcuni stralci tratti da un diario che Marina scrive ogni sera durante i sedici giorni dell’attività performativa. La matrice autobiografica è resa con maggiore intensità e autorevolezza attraverso questa scrittura seconda e proietta il lettore ancora più intensamente nella sfera intima e privata dell’autrice.
I successivi viaggi in India nei monasteri tibetani, l’apprendimento delle tecniche meditative, diventeranno i fondamenti del metodo Abramović, il cui scopo è raggiungere la consapevolezza nei pensieri, nel respiro, nelle sensazioni, nelle azioni. Gli stati mentali raggiunti nel monastero Tushita, la meditazione tummo, le consentono di attingere quella che definisce energia illimitata, uno stato di libertà con cui riesce ad entrare in connessione con una coscienza cosmica dove non esistono più limiti. La conquista della libertà ha coinciso anche con l’abbandono della stanzialità, la predisposizione naturale al nomadismo appartiene tradizionalmente agli eroi, rigorosamente maschi nella tradizione letteraria, l’esistenza di Marina si radica nell’erranza e contribuisce a renderla un personaggio che scardina e capovolge i ruoli tradizionali.
Se il percorso dei tre lunghi mesi sulla grande Muraglia segna la fine della relazione con Ulay, Balkan Baroque la consacra migliore artista alla biennale di Venezia del 1997, anno in cui viene premiata con il Leone d’oro. Sul pavimento del seminterrato del padiglione Italia è seduta su una catasta di ossa di vacca, in basso cinquecento sono già pulite, sopra duemila attendono di essere liberate da carne e cartilagini. Per quattro giorni, per sette ore al giorno, sfrega le ossa fino a renderle lucide mentre su due schermi vengono proiettate le immagini delle interviste del padre e della madre e su un terzo schermo appare lei in un video, ricomponendo una famiglia segnata dal comunismo e da un passato infelice. Ricorda nel testo «In quel locale senza aria condizionata, nell’umida estate veneziana le ossa sanguinolente marcirono e si riempirono di vermi, ma io continuavo a strofinarle; il lezzo era tremendo, come quello dei cadaveri sul campo di battaglia. Io pulivo e piangevo e cantavo canti popolari jugoslavi della mia infanzia, poi ballavo freneticamente una canzone serba» (ibid.: 266). Il barocchismo e la follia della mentalità balcanica vengono condannati, viene condannata la guerra che ha attraversato i Balcani negli anni ’90 con i suoi eccessi distruttivi. La pulizia delle ossa diventa il tentativo simbolico di scontare i peccati commessi dal suo popolo in quell’ultima guerra e rendere tutta l’umanità partecipe del dolore per il conflitto. Nel discorso pronunciato durante il conferimento del premio dichiara «L’unica arte che mi interessa è quella in grado di cambiare l’ideologia della società. L’arte che insegue valori esclusivamente estetici è incompleta» (ibid.:269). L’eccesso artistico ha dunque una finalità etica e sociale, è denuncia dal forte impatto emotivo che dialoga i cinque sensi del fruitore: la vista di azioni raccapriccianti, gli odori sgradevoli della putrescenza e della morte, il contatto con la carne dilaniata ed infine il racconto della storia e delle tradizioni di un popolo.
Viaggi, lavoro, vita privata, amori e amicizie, il racconto si snoda geograficamente da un polo all’altro dell’emisfero, ma è al grande evento del 2010 al Moma di New York, The artist is present che la Abramović dedica l’intero dodicesimo capitolo. La sua presenza e la sua dedizione agli altri è stata totale e assoluta dall’apertura alla chiusura del museo, per tre mesi, sei giorni alla settimana, ogni giorno per sette ore consecutive, seduta immobile su una sedia ad attendere i visitatori, uno alla volta di fronte a lei. Sceglie di vestirsi, di mese in mese con colori diversi, di blu, simbolo di pace interiore, di rosso, simbolo di dolore e forza, e di bianco, simbolo di purificazione. La sedia non è rimasta mai vuota e in totale si sono avvicendate quasi ottocentocinquantamila persone. Con questa performance l’artista ha affrontato il tema dell’incontro. Ad ogni uomo, donna o ragazzo che si trova davanti a lei, Marina assicura tutta la sua attenzione, in un muto e intenso dialogo fatto di sguardi, alla ricerca dell’essenzialità assoluta del rapporto. In un mondo che corre vertiginosamente, rimanere immobili e concedersi attenzioni è un modo coraggioso di mettersi in gioco, risvegliare la consapevolezza della propria unicità e della inevitabile solitudine che ci accompagna, una lezione su una nuova modalità di vivere il presente. Messi da parte gli eccessi l’artista si scopre sciamana, ha raggiunto un tale grado di consapevolezza che è in grado interagire con gli altri nel silenzio e nell’immobilità. Marina non ha più bisogno causare imbarazzo e disagio al pubblico, come in Imponderabilia del 1977, interrotta perché ritenuta oscena, ma solo attraverso l’estrema semplificazione della performance assorbe il dolore e le emozioni dell’altro, donando tutta la sua comprensione.
Conclusioni
La lista dei progetti, degli incontri, installazioni, retrospettive, video, allestimenti cinematografici e perfino la direzione artistica della sfilata di Givenchy a New York è difficilmente riassumibile e nel racconto si dipana nelle maglie della vita privata di un’artista alla perenne ricerca di sé stessa. Siamo ormai lontani dagli dagli anni ‘70 in cui l’artista era portavoce del disagio, dell’alienazione, della crisi dell’individuo, dei turbamenti interiori, dell’emarginazione, delle discriminazioni di genere, Marina Abramović ha fatto i conti con la storia e con il capitalismo tanto contestato, sfruttando con abilità il potenziale mediatico dei social network. Si rimane attoniti al racconto di una festa per i suoi sessanta anni con trecentocinquanta invitati a cui viene regalata una tazza con l’immagine della versione pin-up di Marina, le cui lacrime divengono gli ingredienti del cocktail servito, ancora di più quando si apprendono le disposizioni impartite per il suo funerale, progettato già nel 2004. Le esequie prevedono tre tombe nelle città simbolo della sua esistenza, Belgrado, Amsterdam, New York, anche se rimarrà ignoto il vero luogo di sepoltura saranno una sorta di autocelebrazione perché «dopo tutto si sarebbe trattato della mia ultima opera» (ibid.: 306). In questi eccessi portati all’estremo si riscontrano le contraddizioni di un’artista che perde di autenticità e scivola in un’apologetica opportunistica, fondata sulla meraviglia, sullo stupore finalizzato al clamore mediatico.
L’autobiografia, dopo circa quattrocento avvincenti pagine dense di ricordi e vita, si chiude con la Abramović che entra nelle acque dell’Oceano Indiano, e riacquista energia. Il liquido-acqua, elemento primordiale e archetipo per eccellenza, potrebbe significare un inconscio desiderio di Marina di regredire nel grembo materno, sentito come luogo di protezione, ma in questo caso assume la valenza simbolica di principio vitale come mezzo di rigenerazione. «Le onde erano enormi […]. Uscendo dall’acqua mi sentii piena di energie» (ibid.: 407), nella loro fluidità, nel loro dinamismo preludono al cambiamento, allo scorrere del tempo e al contatto con il loro flusso eterno l’artista recupera forza, un vigore che ancora oggi le consente di operare nel mondo dell’arte. Finalmente libera da un ingombrante passato all’età di settantacinque anni è in grado attraverso la pratica scrittoria di innescare un potere reattivo verso il suo pubblico, che inevitabilmente si interroga sulla funzione dell’arte, ma anche sull’autenticità delle sue ultime prove.
Bibliografia
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