Monica Salvetti sta preparando una tesi in co-tutela tra l’Università Paris 8 e l’Università di Torino su Éducation et émancipation féminine dans l’Italie des guerres du Risorgimento: l’histoire de Clémentine De Como (1803-1871), écrivaine et féministe du 19e siècle. Gli obiettivi del progetto sono di scoprire, attraverso la ricostruzione della sua biografia e l’analisi delle sue opere, la figura di Clémentine De Como e di far conoscere la sua storia dimenticata. L’autrice pubblicò in lingua francese, a Torino, nel 1853, un’imponente autobiografia intitolata Émancipation de la femme, ripubblicata in stampa anastatica nel 2009-2010, in due volumi. Il secondo volume racconta in particolare la sua esperienza sentimentale con un uomo che la spingerà a compiere degli atti al di là dei limiti per un decennio della sua vita, dove l’eccesso diventerà una costante del suo vissuto quotidiano.
Abstract
L’istitutrice Clémentine De Como, nata a Bonnieux, in Provenza, nel 1803 e morta a Torino nel 1871, ci presenta, attraverso la sua autobiografia originale e pressoché sconosciuta, il suo percorso, prima come religiosa presso una Congregazione in Francia, poi come donna libera in Italia. I due volumi, intitolati Émancipation de la femme, pubblicati in lingua francese a Torino, nel 1853, e ripubblicati in stampa anastatica nel 2009-2010, raccontano con molta chiarezza gli eccessi che caratterizzeranno un periodo della sua vita che la porteranno ad avere degli strascichi per lungo tempo. Diversi sono gli elementi che ci permettono di definire quest’opera eccessiva: innanzitutto la mole dei volumi, con più di mille e duecento pagine, e uno stile di scrittura che mescola diversi registri e lingue, rendendo difficile, insieme ad altri fattori, la lettura dell’opera in Italia. Il secondo volume racconta in particolare la relazione tossica e pericolosa iniziata con il poeta casalese Pietro Corelli (1815-1867), fino al tentativo di suicidio di Clémentine De Como, che la scrittrice riesce a superare scrivendo la sua autobiografia. L’autrice manifesta l’eccesso toccando e affrontando molti temi scottanti per il periodo nel quale sono pubblicate le sue memorie, come quello dell’assenza di diritti per le donne in Italia nell’‘800 e quello molto attuale della manipolazione psicologica per mano di un uomo presuntamente affetto da patologia perverso narcisistica. Nell’opera, l’autrice manifesta il dispendio di sé descrivendo accuratamente le tappe e le tecniche di manipolazione usate dal seduttore per sfruttarla finanziariamente sotto promessa di matrimonio, e le sue proprie sofferenze. Tuttavia, la trattazione di temi troppo avanguardistici per l’epoca, portarono l’autobiografia di Clémentine De Como ad essere giudicata troppo eccessiva, e questo diventò un motivo determinante per non farla conoscere e dimenticarla.
Master Z.B.M. (artista veneziano del XIV secolo), Pandora apre il vaso, 1557, Collection Alisa Mellon Bruce Fund, National Gallery of Art.
L’autobiografia di Clémentine De Como: scrittura femminile ‘eccessiva’ o condanna all’emancipazione femminile?
La maestra provenzale Clémentine De Como (Bonnieux, 1803 – Torino, 1871), nel secondo volume della sua imponente autobiografia intitolata Émancipation de la femme (De Como C. 2010), pubblicata in lingua francese, a Torino, nel 1853, racconta la sua vita andando al di là dei limiti riconosciuti e condivisi della scrittura femminile della sua epoca: senza alcun velo, Clémentine accusa il poeta che l’ha sedotta, il casalese Pietro Corelli (1815-1867), narrando tutti i dettagli della loro relazione amorosa, e pubblicando anche le trascrizioni delle lettere ricevute da Corelli. De Como non risparmia ai lettori neppure le sue esperienze più triviali, come i tentativi di estorsione di denaro da parte di un uomo che approfitta di lei, le umiliazioni subite, l’aborto spontaneo, il tentativo di suicidio e il collasso psicologico.
Nel primo volume, che narra i fatti fino al 1841, De Como ripercorre la sua infanzia in Provenza e la formazione presso la Congregazione delle suore di Saint-Charles, a Lione, dove imparò la professione di insegnante, in un clima segnato dal bigottismo e da continui tentativi di manipolazione psicologica, che avevano lo scopo di allontanare le novizie dagli affetti familiari per obbligarle a dedicarsi esclusivamente alla vocazione.
Il racconto continua nel secondo volume con la narrazione delle vicende di Clémentine come esule volontaria in Italia del Nord tra il 1841 e il 1853, dopo aver abbandonato il velo, vicende segnate dall’incontro con un uomo cinico, quale Pietro Corelli.
Stando allo scritto di Clémentine De Como, il poeta, oltre a sedurla per poterla sfruttare economicamente, la costringe ad affrontare quasi dieci anni di vagabondaggio per seguirlo nel nord Italia, da Casale Monferrato a Genova, poi Firenze, Bologna, Milano (al momento delle Cinque Giornate del marzo 1848), infine a Torino e Chieri. Il lettore scopre, nel corso delle pagine, i tormenti ai quali l’amante l’ha sottoposta, e i dolori patiti dalla vittima, «cet océan de souffrance dont fut inondée ma pauvre vie» (Ibid.: 656).
Lo scopo di Clémentine, attraverso una descrizione che assume toni di sincerità, è quello di aiutare le donne che potrebbero cadere sotto l’influenza di uomini cinici, e dimostrare allo stesso tempo i benefici della scrittura autobiografica per uscire dagli eccessi della dipendenza e dalla depressione. Vedremo infatti che la scrittura autobiografica di Clémentine De Como presenta diversi aspetti che permettono di qualificarla come ‘eccessiva’; tenteremo poi di far capire anche i limiti del dispendio di sé, che ha esposto l’autrice al biasimo da parte dei suoi contemporanei e a un lungo e immeritato oblio.
Una scrittura eccessiva nella forma e nei contenuti
Il testo di Clémentine De Como può essere considerato come ‘eccessivo’ a partire dalla sua forma, prima che dai suoi contenuti.
Innanzitutto si può notare la lunghezza di più di 1200 pagine, che ha costituito un freno alla lettura e alla diffusione dell’opera, tanto più che l’autobiografia venne pubblicata in Italia, ma in lingua francese. Se è noto che la lingua francese fosse molto diffusa nel Regno di Savoia, lo spoglio dei periodici femminili mostra tuttavia l’impiego esclusivo della lingua italiana, tranne per qualche raro componimento poetico; se la maestra francese sperava di toccare un pubblico allargato con la scelta della sua lingua madre, e di poter offrire contributi ai periodici italiani, non è stato possibile rintracciare alcun riferimento alla sua opera nella stampa femminile, né altri testi o racconti in lingua francese, all’eccezione di une serie di articoli di Jenny d’Héricourt, sui quali torneremo.
I modelli espressamente citati dall’autrice sono le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau (che raccontano i primi 53 anni di vita dell’autore in 12 libri), e le Memorie d’oltretomba di François-René de Chateaubriand (pubblicate anch’esse in 12 volumi tra il 1849 e il 1850). Ma prima dell’autobiografia di George Sand (pubblicata per la prima volta in appendice su La Presse nel 1854, e poi in 10 volumi nel 1855), nessuna scrittrice aveva osato dare alle stampe un racconto così lungo e dettagliato della propria vita, ancora meno un’autrice francofona poco nota e residente in Italia.
L’eccesso si ritrova anche nello stile: «irrequieto, disordinato, a scatti, caratterizzato da un’effervescenza generale e continua, materializzata dall’abbondanza di punti di sospensione ed esclamativi» (Fournier-Finocchiaro L. 2021: 70). Sono presenti numerose ripetizioni ed ellissi. Non c’è sempre coerenza nei nomi citati: talvolta compaiono solo iniziali, altre volte nomi completi. La lingua infine è molto particolare perché mescola diversi registri e lingue, come il dialetto provenzale, il francese triviale e aulico; inoltre è ricca di italianismi e solecismi. Come ha anche notato l’editrice della ristampa anastatica del libro, Françoise Mingot (De Como C. 2009: XVII), Clémentine De Como forgia nuovi verbi senza l’uso del corsivo (apothéoser, investiguer, noliser, s’impatroniser), avverbi (amphithéâtralement, solite e solitement) e conia espressioni e metafore poetiche (lâcher la bride à vos jambes, mon cœur était dépoétisé).
I sostantivi non sono sempre presenti nelle similitudini: «comme les fluides des émanations oxygéniques coulent et s’insinuent parmi les éléments circulateurs de la vitalité», «la solennelle et terrible infélicité», «les pressantes circonventions», «la prépotence du riche». De Como utilizza gli italianismi «micidial», al posto di «meurtrier», «tigure», al posto di «masure». Nell’opera, inoltre, ricorrono sostantivi inusuali, come «meste, mesticité» che non vengono riportati in corsivo, per indicare la tristezza.
L’autobiografia è recensita sulla «Revue critique des livres nouveaux», dal critico ginevrino Joël Cherbuliez (Cherbuliez J. 1854: 401-402), che condanna questi eccessi stilistici: «L’auteur de ce livre est, à ce qu’il paraît, une femme émancipée, et son émancipation va jusqu’à rejeter les règles de la grammaire»; ma l’eccesso maggiore di Clémentine De Como, secondo lui, è soprattutto quello di aver voluto rigettare «bien que toutes les autres lois tyranniques de l’organisme social».
L’opera di De Como è caratterizzata da un tema inusuale per l’epoca, poiché le donne colte del Risorgimento pubblicarono saggi pedagogici e letterari, novelle o romanzi, ma soprattutto poesie e canzoni patriottiche che spesso venivano pubblicate sui giornali e che imitavano lo stile del melodramma (Mori M.T. 2011; Berti D. 1892). L’autobiografia femminile autopubblicata è una tipologia letteraria quasi inesistente nel periodo del Risorgimento italiano, quando cioè si stampano soprattutto biografie, e poche memorie (Parati G. 1996; Betri M. L. 2002).
Émancipation de la femme è un lungo e ricco testo nel quale si susseguono, senza un ordine cronologico preciso (anche qui possiamo cogliere il suo modo di presentare al di là di ogni regola), descrizioni paesaggistiche, riflessioni sulla condizione della donna dell’epoca, cronache di importantissimi avvenimenti storici, come la descrizione di ciò che Clémentine vide durante le Cinque giornate di Milano nel marzo 1848. Clémentine mette in parallelo nelle sue memorie e allo stesso livello, eventi pubblici e privati, come la sconfitta piemontese e la sua propria sofferenza per il nuovo abbandono di Corelli. L’ingresso delle truppe austriache a Milano suscita in lei slanci di amore per la patria italiana, sua patria d’adozione e non quella di origine, dimostrando un patriottismo al di là dell’interesse di ogni straniero perché è una donna, ed è sola nel trasmettere un messaggio universale di aiuto tra nazioni in favore della libertà di ogni popolo e contro ogni tirannia.
La caratteristica principale dell’opera, è comunque la scelta della pubblicazione in italiano delle lettere dell’amante, senza un vero e proprio scambio epistolare. Era una scelta praticata nei romanzi epistolari e nei carteggi storici di personaggi rivelanti nella politica italiana, ma qui Clémentine De Como trascrive la sua corrispondenza privata senza censura e senza l’accordo del mittente. Oltretutto, queste lettere dimostrano quanto quest’uomo si fosse spinto in pretese e richieste al di là di ogni limite verso una donna espatriata e sola il cui obiettivo era principalmente quello di «catéchiser les enfants du peuple» (De Como C. 2009: 58).
Un racconto che rivela dettagli triviali e lettere private
De Como rivela ai suoi lettori che «c’est dans la belle Italie que s’est passée la partie drammatique, celle plus caracterisée et plus terrible de mon histoire»[1] (De Como C. 2009: 8).
Nel primo volume, Clémentine spiega le difficoltà della sua vita nelle istituzioni religiose che frequentò, ma è soprattutto nel secondo volume delle memorie che narra i dettagli della sua relazione sentimentale. La maestra francese descrive come cade nella trappola di una relazione pericolosa che la porterà lentamente all’autodistruzione, impedendole di vivere serenamente e agiatamente per quasi dieci anni.
L’autobiografia rivela tutti i dettagli di questa relazione con un poeta di umili condizioni che si avvicina a lei in modo subdolo; Pietro Corelli, infatti, pubblica una lusinghiera recensione del romanzo Yva ou la prisonnière du château di Clémentine De Como in un giornale di Casale Monferrato[2] e De Como ne viene a conoscenza.
Dopo questo primo approccio, Corelli comincia ad invadere i suoi spazi familiari con una quotidiana presenza a casa sua, chiedendole una camera per studiare in tutta tranquillità, dettando regole per i pasti, facendole fare mille commissioni e cominciando ad approfittarne con sistematiche richieste di prestiti in denaro che dureranno per tutto il periodo della loro relazione. De Como pubblica le prove delle sue promesse di restituzione delle somme ricevute, ma afferma che il denaro non è stato mai restituito, anzi, narra che il poeta vivrà alle spalle della maestra e le chiederà dei prestiti anche per aiutare le donne-madri cadute nella sua trappola.
Corelli chiede alla fidanzata di fare economia sia per i prestiti che per preparare il loro matrimonio: «il m’aurait, je crois, volontiers expédiée pour la Chine afin, disait-il, de faire des économies pour l’époque de notre union» (De Como C. 2010: 297).
Il matrimonio tuttavia non verrà mai celebrato; messo alle strette dalla fidanzata, Corelli prepara invece un finto certificato di nozze, col quale illude l’ingenua maestra che cade nella trappola, convinta che quel documento avesse valore legale.
Il continuo dispendio di energie di Clémentine De Comoè concretizzato con l’assiduo e infaticabile lavoro per aprire delle scuole e guadagnare per vivere, sollecitata dal poeta ad effettuare continui spostamenti di città in città, costretta più volte nella situazione di dover cambiare vita e ricominciare da capo con il lavoro.
De Como non risparmia ai suoi lettori nessun dettaglio delle richieste di Corelli: servendosi delle lettere private inviate dal suo amante, ci informa precisamente sulle somme di denaro che gli versa (presterà al poeta più di 500 franchi), e anche sull’uso che l’uomo ne faceva, come mantenere le sue relazioni con altre donne che vivevano in diverse città italiane. Clémentine racconta di aver scoperto che il poeta aveva sedotto pure sua sorella Angélique, che si ammala e muore a Genova nel 1845. Anche la madre del poeta pretenderà dei soldi da lei in quanto fidanzata del figlio, e in più accuserà Clémentine di essere una seduttrice (Ibid.: 599).
De Como arriva alla rovina economica, lei che aveva «plusieurs fois sacrifié une existence aisée» (Ibid.: 678). Accetta la povertà, continua con il suo lavoro di maestra presso famiglie benestanti in diverse località italiane, ma ad un certo punto sarà costretta a chiedere dei prestiti a degli amici per continuare a sopravvivere.
Le lunghe trascrizioni di lettere di Corelli, segnate dalle molte ripetizioni di richieste in denaro, sono funzionali alla costituzione di un insieme di prove a carico dell’amante per intentare un’azione giudiziaria, ma possono sembrare eccessive in un racconto autobiografico, e oggi potrebbero anche costituire una ‘violazione della vita privata’.
I limiti della morale e della religione
De Como, travolta dalla passione, va involontariamente al di là dei limiti riconosciuti e condivisi dalla morale e dalla religione.La maestra supera i confini etici della sua cultura e della formazione religiosa che l’hanno protetta durante il periodo trascorso in convento, e comincia a convivere con il fidanzato senza essere sposata, autocondannandosi all’immoralità e al peccato, e perdendo inoltre la sua libertà: «Je renonçais à tous mes penchans d’indépendance et de franche liberté, je renonçais à ce besoin d’estime publique qui m’avait toujours animée [...]» (Ibid.: 382).
L’amore che prova per Corelli la porta a donare tutta sé stessa, ma tutto questo non viene ripagato se non con continue umiliazioni, tradimenti e menzogne.
Mortificata e sempre più allibita a fronte di gravi azioni commesse dal fidanzato, Clémentine De Como si ammalerà seriamente e per lunghi periodi, tanto da essere obbligata a rimanere a letto e a non lavorare: «Je me privais de faire école, moi, qui avais toujours tant aimé à me voir entourée de ces fraiches et rieuses têtes d’enfans!» (Ibidem).
La situazione psicologica molto precaria, e i dispiaceri, le provocheranno un aborto spontaneo, aggravando ancora di più il suo stato di salute che la porterà a perdere la lucidità e il senso morale: «Aussi long-tems [ndr: così nel testo in luogo del termine corretto longtemps] j’ai vécu dans ce désordre forcé, un fantôme mystérieux, tourmentateur implacable, a cheminé accolé à mon âme, ne me laissant pas un moment de sécurité; le sentiment de ma dignité outragée faisait de moi un être avili et désorganisé» (Ibid.:372).
Andando oltre ogni convenzione morale e religiosa, De Como confessa persino che avrebbe preferito la morte all’essere spogliata e ridotta alla miseria con sua sorella «pour un homme qui ne devrait point être son mari» (Ibid.: 136).
In un momento di grande disperazione, la scrittrice tenta il suicidio che, fortunatamente, non va a buon fine. Poi, risollevandosi lentamente e gradatamente dal baratro della depressione, Clémentine De Como riacquista la lucidità e arriva ad odiare il suo amante, al punto che si porterà appresso un pugnale con l’obiettivo di seguirlo ovunque per ucciderlo: «Mais mon couteau poignard ne me quittait pas pour cela; que dis-je? Quelquefois il me semblait qu’en présence d’un second je n’en aurais que plus d’ardeur à trancher les jours de celui qui avait tué tous mes jours. Aussi dans les cafés, à la promenade, partout, mes yeux cherchaient-ils celui que ma pensée démente avait fiancé à ma mort» (Ibid.: 604).
De Como va al di là di ogni convenzione morale e sociale, rendendo partecipe il lettore dei suoi impulsi omicidi e dei suoi desideri di vendetta; questo suo stato le impedisce di comprendere che questa eccessiva confessione pubblica, poteva rivelarsi per lei un’arma a doppio taglio, molto pericolosa per la sua reputazione in un contesto decisamente maschilista.
Alla fine, comunque, la scrittrice annuncia di aver rinunciato sia a intentare un processo contro il suo seduttore, sia a vendicarsi e sceglie di rifugiarsi nella scrittura. Prende però finalmente la decisione di dare le sue memorie alle stampe per tutte le altre donne, vittime di violenze, sperando così di mostrare alla società, tramite il suo esempio, un modello di «emancipazione della donna», come annuncia il titolo della sua autobiografia.
La condanna dell’eccesso
La scelta di Clémentine De Como di rivelare pubblicamente di essere stata vittima di un manipolatore e, più in generale, di raccontare il dramma femminile delle donne sedotte, non venne accettata dalla critica prevalentemente maschilista. L’autobiografia venne invece interpretata come un racconto di vendetta, e non come un racconto di redenzione e di salvezza attraverso la scrittura. La stampa generalista del periodo non favorì né la conoscenza né la diffusione dell’opera. A parte la recensione del ginevrino Cherbuliez che ridicolizza l’emancipazione dell’autrice, le poche recensioni sono alquanto riduttive. Ad esempio, «l’Atlante delle scrittrici piemontesi dell’Ottocento e del Novecento», curato da Cannì Giovanna e Merlo Elisa (2007: 89-90) riconosce che l’autrice ha trattato nell'autobiografia dei temi scottanti, quali il divieto d'accesso delle donne alle biblioteche pubbliche e dove caldeggia la possibilità di ammettere le donne alla legislatura per ottenere leggi sociali «più eque e meno discriminanti», ma la recensione si limita soltanto ad informare il lettore frenando delle argomentazioni che potevano troppo azzardate ed eccessive per il contesto piemontese.
Il periodico mazziniano genovese «Italia e Popolo», del 13 dicembre 1853, pubblica una recensione non del tutto negativa, ma molto sommaria: il giornalista Francesco Rovelli leggeva Émancipation de la femme come un lamento di una donna, vittima di un «reo destino», qualificandolo addirittura di «tremendo delirio»: «Nissuno è incolpabile nelle proprie disavventure, e per questa ragione non tutti perdoneranno alla De Como l’implacabile scritto in cui cerca ristoro a un danno che non ha rimedio, non perdoneranno perché non tutti riflettono che il trionfo di uno spergiuro che si amava, e le ferite tuttavia stridenti toccano l’anima come un ferro rovente, la quale tutta bolle nel tremendo delirio della vendetta» (Rovelli F. 1853: 1)[3].
Non viene colto il messaggio educativo e universale dell’autrice rivolto alle donne, ma viene riconfermato il punto di vista maschile che vede in quest’opera uno scritto «dettato da un pensiero di vendetta», come riporta anche la «Rivista contemporanea di Scienze, Lettere, Arti e Teatri», di Luigi Chiala e Giuseppe Saredo (Anonimo 1854: 350-351). In questa recensione anonima è riportato, inoltre, un commento che giudica l’opera eccessiva a partire dal titolo, «Emancipazione della donna», che «dà troppo nell’occhio»: «Noi non avremmo sollevato il velo che avesse coperto pietosamente questo dramma di un’anima straziata, e quest’episodio doloroso, di cui imprendiamo far cenno, fosse rimasto nel mistero della vita intima e sotto al giudizio immediato di Dio. Ma così non doveva essere; ed un’opera che porta in fronte il titolo ‘Emancipazione della Donna’, dà troppo nell’occhio, e la questione a cui accenna è di troppo alta portata perché esso debba diffondersi inosservato, e nel silenzio di tutti» (Ibid.: 351).
La denuncia di De Como era percepita come eccessiva perché dissonante con il clima politico e culturale piemontese nel quale era stata pubblicata. Nel Piemonte post-quarantottesco, i moralisti e gli educatori promuovevano per le donne soltanto modelli di remissività (De Donato G. 1983; Buttafuoco A. 1991). Dopo il 1849 e come riporta Simonetta Soldani nel saggio «Il Risorgimento delle donne», cominciò il periodo del riflusso post-rivoluzionario, segnato da una «fase del silenzio e spesso del distacco» (Soldani S. 2007: 223). La maggior parte delle donne che si erano impegnate nell’azione durante la ‘Primavera dei popoli’, tornarono alle loro abitudini, seguendo una «parabola dal patriottismo alla domesticità» (Banti A. M. 2012).
Secondo la morale condivisa dalle sue coetanee subalpine, Clémentine De Como era marchiata dal segno del disonore, perché nell’opinione pubblica, se la donna veniva sedotta, era pur sempre per causa sua. L’autrice ne era cosciente, come scrive nelle sue memorie: «Ce que je trouve affreux, c’est que des femmes, d’autres femmes, les semblables, les amies, les sœurs de la femme outragée, d’autres femmes marquées aussi, elles, au doigt du préjugé, soient les premières à jeter la pierre à l’infortunée, les premières à s’acharner sur ses chairs en lambeaux [...]» (De Como C. 2010: 377-378).
Le donne della buona società piemontese promuovevano il ruolo tradizionale della donna nella casa e nella famiglia, come ad esempio fece l’educatrice torinese Giulia Molino Colombini, autrice di saggi e manuali di pedagogia per fanciulle, e molto attiva sulle riviste di istruzione e sui giornali femminili (Grosso E. R. 1993). Molino Colombini affermava in un articolo pubblicato sulla rivista «L’Istitutore», nel 1856 e in risposta all’articolo di Jenny d’Héricourt di Parigi: «rimanersi paghe alla parte loro assegnata entro le pareti domestiche, accanto allo sposo e circondate dall’amabile corona de’ figli» (Molino Colombini G. 1856: 89).
Ciò potrebbe spiegare perché non si trova nessuna recensione dell’autobiografia sulla rivista ‘generalista’ «La Donna» (Balestreri L. 1952), così come sulle riviste di educazione, come «L’Istitutore»[4].
La stampa femminile italiana, che era ancora agli albori, poco diffusa, condannata dal clero, accoglieva composizioni o articoli redatti da donne di orientamento tendenzialmente moderato (Bertoni Jovine D. 1965) dove il significato di ‘emancipazione della donna’ è riassunto «nell’adempimento degli obblighi familiari, primo fra tutti la maternità» (Buttafuoco A. 1991). Quando la filosofa francese Jenny d’Héricourt pubblicò una serie di articoli, in francese, sul giornale «La Ragione» di Torino, tra il 1855 e il 1857, in cui difendeva «l’emancipazione civile» delle donne, fu violentemente criticata dalle giornaliste, scrittrici ed educatrici piemontesi (Pisano L. - Vauvy Ch. 1997).
Nella società femminile piemontese, l’autobiografia di De Como sembra essere passata quindi totalmente inosservata, oppure fu intenzionalmente censurata. La maestra non è menzionata tra le frequentatrici dei circoli culturali femminili torinesi, come il salotto della baronessa Olimpia Savio, che non la cita neppure una volta nelle sue memorie (Ricci R. 1911). Le proposte emancipazioniste di De Como risultavano eccessive per il contesto storico e culturale italiano degli anni Cinquanta dell’Ottocento. La sua volontà di incitare le donne a liberarsi dalla dipendenza maschile lottando contro i tiranni domestici, di denunciare la doppia morale in vigore e di partecipare alla definizione di una società più egualitaria, era troppo precoce e avanguardistica.
L’analisi e le ricerche di recensioni di questa autobiografia nei paesi francofoni non hanno prodotto i risultati sperati, anche se il suo discorso in favore dell’emancipazione poteva riscontrare un certo interesse. Diversi sono i volumi ritrovati presso alcune importanti biblioteche parigine, che riportano titoli simili a quest’opera, come il saggio di Flora Tristan, L’émancipation de la femme ou le testament de la Paria (1846) o ancor prima il romanzo, La femme du progrès ou l’émancipation, pubblicato nel 1838 da Mme la baronne de Carlowitz. Nonostante tutte le ricerche fatte, non siamo riusciti a trovare una recensione delle memorie di De Como sui giornali parigini; possiamo infatti ipotizzare che la scrittrice non fosse in contatto con la società parigina, mentre aveva perso anche quelli con la Provenza che aveva lasciato nel 1839. Nei paesi francofoni, non è forse il carattere eccessivo del racconto autobiografico che ha costituito una barriera alla diffusione, quanto la difficile distribuzione di libri stampati nel regno di Sardegna. Comunque, quando il tema fu ripreso nel 1855 da Jenny D’Hericourt a Torino, il nome o l’opera di Clémentine De Como non vengono mai ricordati.
La sua autobiografia non sembra aver avuto nessuna eco neppure tra le femministe svizzere, poiché, quando la ginevrina Maria Goegg, fondatrice dell’Associazione internazionale delle donne nel 1868, riporta dei nomi di emancipazioniste italiane nei resoconti delle sue assemblee, non si trova traccia di Clémentine De Como[5]. La scrittrice era quindi caduta nell’oblio, nonostante fino al 1871 abitò con il marito a Torino, dove, nel 1866, aveva pubblicato un romanzo sociale, Pauvres enfans!, recensito anch’esso da Joël Cherbuliez sulla «Revue critique des livres nouveaux» di Ginevra.
In Italia, soltanto dopo l’unificazione la questione dei diritti delle donne cominciò ad essere discussa; ad esempio, nel saggio La donna e la scienza (Morelli S. 1861), e poi negli scritti di Anna Maria Mozzoni (ora raccolti in Mozzoni A. M. 1975). Gli emancipazionisti si trovano in disaccordo con le leggi che regolano la società, sempre in favore degli uomini, ma le dichiarazioni di Clémentine De Como sono premature, soprattutto quando definisce l’emancipazione come la rivendicazione dei diritti violati da un uomo: «s’émanciper, c’est-à-dire revendiquer ses droits violés par un homme» (De Como C. 2009: 532).
L’esperienza di una donna sedotta che poi si era ricostruita da sé, uno scritto di denuncia verso gli uomini, risultava inammissibile al punto che nessun padre, fidanzato o marito avrebbe incoraggiato le figlie o le mogli alla lettura delle vicende di De Como. Il contesto era impreparato a sostenere queste idee eccessivamente pericolose per l’ordine sociale, nel quale la donna era ‘naturalmente’ inferiore all’uomo in tutti gli aspetti, come sosteneva ad esempio Niccolò Tommaseo (Tommaseo N.1868).
Nonostante Clémentine De Como abbia preparato il terreno alle future emancipazioniste italiane, e abbia offerto anche un contributo decisivo alla fondazione e alla gestione di scuole e istituti d’educazione per le fanciulle, il suo nome e la sua opera sono rimasti invisibili per un secolo e mezzo.
Conclusione
L’autobiografia di Clémentine De Como ricalca un vissuto al di là dei limiti morali riconosciuti dalla società italiana dell’Ottocento, estraneo alle ‘generazioni’ di patriote risorgimentali. Le memorie di Clémentine non illustrano un modello di comportamento ricorrente e mancano, ad oggi, tracce di contatti con le sue coetanee.
L’eccessiva lunghezza dell’opera e la pubblicazione in lingua francese hanno fatto sì che il pubblico, in particolare femminile, non fosse invogliato a leggerla, a farla conoscere e diffonderla in Italia; eppure i fatti raccontati e vissuti da questa autrice illuminano il lettore sulla storia italiana e sulla condizione della donna durante il Risorgimento e, vista la scarsità di informazioni, tutto quanto è riportato nel libro costituisce un documento storico e sociale molto prezioso. Sicuramente una traduzione del libro dal francese all’italiano ne avrebbe favorito la curiosità e la lettura che forse, oggi, potrebbe interessare ed essere ristampato da qualche editore.
Bibliografia
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Note
[1] Abbiamo sottolineato gli errori e gli usi impropri presenti nel testo.
[2] Nelle sue memorie, De Como indica la fonte : «Gazzetta di Casale», 4 novembre 1841. Non è stato possibile controllare poiché il periodico non è più consultabile.
[3] Lo stesso testo è ripreso senza firma e con qualche leggera variante nel supplemento della «Gazzetta del Piemonte», 23 dicembre1853, p. 4.
[4] Giornale piemontese nato nel 1848, curato dal Ministro dell’istruzione Domenico Berti dal 1864. Il giornale continuerà le pubblicazioni per oltre quarant’anni «dedicandosi» ai maestri, alle maestre, ai padri di famiglia ed ai Comuni. La torinese Giulia Molino-Colombini (1812-1879) fu una presenza assidua per almeno un ventennio nella rivista.
[5] Compte rendu de l’Assemblée nationale de femmes, index, Genève 1870. Per Torino è menzionata Mme Greca De Benedetti, rue de la Rocca, n° 16.