Opera prevalentemente in provincia di Brindisi nel settore delle migrazioni, per cui lavora con la cooperativa Solidarietà e Rinnovamento di cui è socia ed in reti nazionali e territoriali di promozione dell’inclusione sociale e della crescita ed autodeterminazione delle comunità di cittadini attivi. Laureata in Sociologia presso l’Università La Sapienza di Roma, predilige metodologie qualitative di ricerca, in grado di leggere, orientare e sostenere processi di cambiamento sociale.
Laureata in Scienze Politiche, immediatamente si occupa di sociologia. I principali interessi di ricerca riguardano le politiche sociali, il Terzo settore e lo sviluppo locale e partecipato. Parimenti sviluppa interesse e attività nei settori culturale e delle politiche giovanili, settore in cui attualmente lavora come funzionario della Regione Puglia, occupandosi in particolare di Servizio Civile Nazionale. È vice-presidente dell’APS Meters – Studi e ricerche per il sociale (www.meters.it), con la quale pratica e sperimenta metodi innovativi di ricerca, formazione e comunicazione sociale, prediligendo gli strumenti della sociologia visuale ed in particolare il video.
Si impegna nel movimento studentesco del '67/'68 a Milano, nel '74 si inscrive alla Sezione del Pci del suo quartiere, San Siro. Ne diviene prima segretario, poi responsabile delle attività di formazione politica provinciali e regionali del Partito. All'inizio degli anni '90 collabora con il Crs, il Centro per la riforma dello stato presieduto da Pietro Ingrao a Roma, studiando formazione e partecipazione sociale e politica in Europa. Cura tra 1994/2005 la istituzione dei Centri servizio al volontariato in Italia. Ora presiede LabTs.
Abstract
LabTs- Laboratorio di cultura politica del terzo settore avvia un percorso di costruzione collettiva di memorie di impegno civico e partecipazione, mediante la raccolta e ricostruzione di storie individuali di attiviste e volontari e chiede aiuto all’ODV Le Stelle in Tasca per promuovere un itinerario che faciliti il racconto e la raccolta delle storie di ognuno dei partecipanti, con il sostegno del Centro Servizi al Volontariato (CSV) di Brindisi Lecce Volontariato nel Salento. Nel suo cammino imperfetto tra ricordi individuali e collettivi, motivazioni e conseguenze, scritture frenetiche e momenti di riflessione, i primi passi per la costruzione di questo archivio sono stati messi. Nel tentativo di rappresentare un’attitudine alla partecipazione ed all’azione collettiva, sono emersi i contesti di mobilitazione e cambiamento, le compagne ed i compagni di viaggio, le origini, i fallimenti, le dimensioni perfettamente calzate e inspiegabilmente superate, le soddisfazioni e le emozioni che ancora fanno brillare gli occhi.
1.0 Premessa
Questo articolo nasce dall’esigenza di un’associazione, LabTs, di promuovere un ciclo di incontri per la costruzione di autobiografie di volontari pugliesi con il sostegno metodologico di “esperti” che da anni lavorano nel settore della narrazione biografica.
Obiettivo ultimo del ciclo per LabTs è la costituzione di un archivio di biografie di volontari, e di un nucleo di volontari che si appassioni al metodo e si dedichi alla sua costruzione.
1.1 LabTs - Laboratorio di cultura politica del TS
Costituito il 19 febbraio 2016, LabTs è un'associazione di volontariato di carattere culturale, costituita tra volontari e operatori impegnati da anni nel TS (Terzo Settore) pugliese, che ha lo scopo di realizzare, promuovere, sostenere e sviluppare la democrazia politica, sociale, la sussidiarietà e la cittadinanza attiva. Il laboratorio è uno spazio di riflessione politico culturale libero da ruoli di servizio e/o di rappresentanza.
Questo vasto mondo della cittadinanza attiva ha, anche nel nostro Paese, conquistato delle leggi, sostanzialmente dal 1991. Leggi che ne riconoscono, in parte, il ruolo “politico”: prima le leggi sul volontariato (266/91) e sulla cooperazione sociale (381/91), poi quelle sui servizi sociali (328/00) e sulla promozione sociale (383/00) basandosi su articoli presenti sin dall’origine nella Costituzione (non solo il 18 sulla libertà associativa, ma il 2 sul dovere di solidarietà e soprattutto il 3 che promuove “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). Poi un nuovo articolo della Costituzione (l’u.c. del 118 sul principio di sussidiarietà, che non dice che lo Stato non si deve occupare di quel che già fanno le organizzazioni sociali, come tesi conservatrici e interessate sostengono, ma che lo Stato deve sostenere i cittadini attivi nel tutelare gli “interessi generali”, una funzione prima riconosciuta alle sole istituzioni pubbliche).
Queste leggi hanno permesso un’organizzazione non episodica del mondo del TS (organizzazione che poi va a sostenere movimenti, azioni fattive e dimostrative, la promozione e la partecipazione al dibattito e alle decisioni pubbliche, non solo e non tanto nelle occasioni elettorali), dando un ruolo permanente a queste organizzazioni, coniugando la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, ma ciò nonostante siamo ancora lontani da una soluzione veramente soddisfacente che coniughi rappresentanza e partecipazione.
Nella stessa recente riforma del TS (d.lgs 117/2017) questo aspetto è sostanzialmente affrontato solo nell'art. 55 che prevede forme di co-programmazione e co-progettazione tra enti di TS e istituzioni locali, che sostanzialmente è però finalizzata all'erogazione di servizi, non alla partecipazione dei cittadini che si realizza anche, e forse soprattutto, quando non partecipano all'erogazione di servizi previsti dall'amministrazione pubblica, perché si mobilitano intorno a temi come il benessere della comunità, la legalità, o anche servizi che l'amministrazione non eroga, svolgendo una funzione innovativa, come è avvenuto negli anni per tante attività di frontiera.
Allo scopo di non dimenticare che alla fin fine la storia la facciamo noi stessi, di contribuire a capire il cammino svolto assieme, le innovazioni introdotte e ancora da introdurre, nel 2020 il Laboratorio ha promosso un ciclo di incontri, con alcuni volontari e operatori sociali prevalentemente pugliesi, per una sperimentazione di metodi e prassi di ricostruzione della propria biografia di volontari.
1.2 Gruppo memoria e storia del TS pugliese
Questo gruppo è dunque nato per occuparsi, nel solco di LabTs, della memoria e della storia della cittadinanza attiva e del volontariato pugliese e di alcuni dei suoi protagonisti. Con “occuparsi” si è inteso stabilire dei criteri di raccolta delle informazioni, individuare delle modalità di coinvolgimento di testimoni e attori del TS locale ed individuare dei contenitori da cui le diverse storie siano esteticamente ed efficacemente fruibili.
La proposta quindi cerca di tenere insieme le due dimensioni con lo stesso fine:
- un’indagine più distaccata e focalizzata alla ricostruzione delle caratteristiche più “oggettive” presenti e passate del TS pugliese;
- quella finalizzata alla costruzione di una narrazione a partire dai vissuti e dalla memoria dei protagonisti, archivi di sensazioni, immagini e nozioni che si accumulano, ma che in parte inevitabilmente si perdono nel corso della nostra esistenza;
due punti di vista diversi che guardano ad uno stesso obiettivo, la ricostruzione della storia collettiva del TS pugliese.
Il gruppo ha cominciato a ragionare su una proposta operativa anche cogliendo la disponibilità e l’interesse mostrati dal CSV Brindisi-Lecce Volontariato nel Salento a offrire spazi e collaborazione anche per una continuità nel lavoro di ricerca e archiviazione di conoscenze sul TS al fine di farla diventare patrimonio a disposizione di tutti e rafforzare quel processo di creazione di una identità collettiva in continuo arricchimento di cui il TS ha bisogno.
1.3 Le stelle in Tasca
Per essere introdotti alla raccolta di biografie e storie di vita si è chiesto il contributo dell’associazione “Le Stelle in Tasca” e del suo presidente, sociologo prof. Orazio Maria Valastro, che ha gentilmente risposto positivamente alle richieste di LabTs, offrendo il supporto scientifico e la formazione sul metodo biografico, stimolando, animando e conducendo incontri di gruppo e singole narrazioni, che si sono succedute dal Novembre 2020 al Maggio 2021; contagiando la passione per la narrazione autobiografica e trasmettendo elementi di orientamento fondamentali per procedere nel percorso.
1.4 Un archivio (sulla storia e l’identità) del TS pugliese e la promozione di una raccolta/collana di pubblicazioni dedicate al TS pugliese (e non solo)
Tenendo presente quanto descritto, ci si è prefissi di realizzare un luogo (uno spazio virtuale di archiviazione e dei materiali di narrazione e conoscenza di cui si è parlato, ed anche uno spazio materiale di archiviazione degli stessi) in cui possano trovare casa caratteristiche e storie della cittadinanza attiva, del volontariato e del TS.
Così un gruppo di persone, di vario genere, età differenti e diversi vissuti si è ripetutamente incontrato attorno ad un moderno focolare ed alla luce bluastra di dispositivi elettronici, sotto la guida esperta di un maestro dell’arte maieutica e della narrazione, ed ha iniziato a raccontarsi.
Sullo sfondo la Pandemia da Sars-Cov-2 e, poco prima, la morte improvvisa del presidente del CSV di Lecce Luigi Russo, volontario, sociologo e giornalista che ha fatto dell’impegno civico motivo costante di denuncia, informazione e coinvolgimento. Dallo sfondo emerge e si impone la necessità che qualcosa del suo impegno e di quello di molte altre persone, non vada perso, rivolto all’attuazione dei valori costituzionali (art. 3 – comma 2. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese), al miglioramento delle condizioni di vita e convivenza delle persone tra loro e nell’ambiente in cui vivono.
Ci si propone la realizzazione di un archivio della memoria di questo impegno, dove incontrare narrazioni di chi ha dato un contributo importante per la propria comunità, che solitamente non è citata nel libro di scuola, ma è la tua comunità, che positivamente o no ti ha formato; narrazione di chi ha promosso azioni collettive volte al superamento di piccole o grandi ingiustizie o disuguaglianze, per il raggiungimento di condizioni di emancipazione, inclusione e armoniosa convivenza.
Su queste basi LabTs ha avviato questo primo percorso di costruzione collettiva di memorie di impegno civico e partecipazione. Nel suo cammino imperfetto tra ricordi individuali e collettivi, motivazioni e conseguenze, scritture frenetiche e momenti di riflessione, i primi passi per la costruzione di questo archivio sono stati messi. Nel tentativo di rappresentare un’attitudine alla partecipazione ed all’azione collettiva, sono emersi i contesti di mobilitazione e cambiamento, le compagne ed i compagni di viaggio, le origini, i fallimenti, le dimensioni perfettamente calzate e inspiegabilmente superate, le soddisfazioni e le emozioni che ancora fanno brillare gli occhi.
La narrazione è a cura di Valeria Pecere, Cristina di Modugno e Guido Memo, ma raccoglie gli scritti ed i pensieri di Camillo D’Angelo, Cristina di Modugno, Alessandro Distante, Maria Rosaria Faggiano, Carmelo Formica, Myriam Giannico, Guido Memo, Valeria Pecere, Giuseppe Pulito.
2.0 E finalmente narrando...
2.1 Di origini, madri, nonché padri e maestri
Mio padre e il ladro di Talee (anni cinquanta)
Nel tardo pomeriggio di una fredda giornata invernale, sul tramonto, eravamo in cucina attorno al braciere mentre mia madre preparava la cena, quando una guardia della «Vigilanza Campestre» bussò alla porta e consegnò a mio padre un uomo che, venuto da un paese vicino, aveva sorpreso a rubare nelle piante madre delle Curti Vecchi. Aveva tagliato un migliaio di talee che, pronto per partire, aveva sistemate e legate sul portabagagli della sua bicicletta. Tremava, infreddolito dalla pungente tramontana o, forse, terrorizzato dal pericolo di essere denunciato. Allora anche il furto dei polli, che in realtà era uno dei più frequenti, veniva punito con il carcere! Mio padre lo rassicurò, lo fece sedere attorno al tavolo, lo fece cenare con noi, poi gli pagò la merce, come se fosse stata sua, e lo congedò. Io mi ritirai nella stanza da letto e piansi di contentezza e di amarezza, restando turbato per alcuni giorni. Da un lato pensavo al gesto di generosità di mio padre, cosa del resto a lui abituale, e dall’altro al senso di umiliazione che probabilmente quello sconosciuto, spinto dalla povertà e dalla necessità di procurare un boccone di pane ai suoi figli, aveva provato: non avrei mai voluto trovarmi nella sua situazione!
La generosità e la buona fede di mio padre mi erano ben note da altri episodi ricorrenti, legati all’amicizia di cui egli godeva nel paese e dalla posizione della nostra abitazione. Come già si è detto, la nostra abitazione era situata a circa 200 m dalle ultime case del paese, sulla strada che portava a San Donaci e che, con varie diramazioni, collegava il paese con un largo settore del suo territorio. Di buon mattino essa era percorsa da una lunga teoria di carri trainati da cavalli, asini e muli con cui i contadini si spargevano a lavorare nei campi. I mezzi di trasporto trainati da animali domestici anche nel passato, più che ora, erano soggetti a due rigide norme di legge: essere dotati di una targa, attaccata in una parte ben visibile del carro e contenente i dati anagrafici del proprietario, e avere sempre appesa sul davanti del carro, sotto una cassetta di legno che conteneva alcuni attrezzi di manutenzione del veicolo e costituiva il sedile del «trainiere», una lanterna a petrolio da accendere di sera in modo da segnarne a distanza la presenza. Le automobili in circolazione, allora, erano molto rare, ma i carretti erano sempre numerosi sulle strade sia di buon mattino che di sera. Le giornate di lavoro erano lunghe e, soprattutto d’inverno, il buio sopraggiungeva molto presto, mentre nel periodo estivo, quando in Puglia il sole raggiunge temperature insopportabili, i contadini preferivano recarsi in campagna nel cuore della notte (tra le tre o le quattro) e rincasare intorno alle undici, oppure nel pomeriggio (dopo le sedici-diciassette) e far ritorno in paese, soprattutto durante i periodi di luna piena, intorno a mezzanotte. Allora, in assenza di inquinamento atmosferico, il chiarore lunare era in grado di dissipare l'oscurità della notte e consentiva di svolgere alcuni lavori, come arare e zappare, in condizioni di frescura.
Spesso agenti della finanza si posizionavano di fronte alla nostra casa e, quando constatavano infrazioni alle suddette norme, comminavano una multa che bisognava pagare sul momento. Non ricordo a quanto ammontasse, ma doveva essere di un certo rilievo per quei tempi, sentendo il brontolio e le imprecazioni dei malcapitati. Molti contadini, però, si recavano in campagna senza portare denaro e, allora, parecchi venivano a bussare alla nostra porta per farsi prestare i soldi da mio padre, dato che in paese ci si conosceva un po’ tutti. Era un atto di fiducia che egli accordava a tutti. Non so quanti, poi, glieli abbiano restituiti. Io non li ho mai visti ribussare alla porta per estinguere il debito. Forse glieli rendevano quando, la sera, si incontravano in paese; ma son sicuro che, sebbene mio padre non abbia mai mostrato lamentele, non tutti se ne siano ricordati. Tuttavia, più di questi episodi ricorrenti, nella mia mente restava impresso l’atto di generosità mostrato nei riguardi del ladro di barbatelle. Non avevo mai sentito, infatti, che il derubato, oltre ad avere rinunciato a denunciare il ladro, lo avesse invitato a cena e gli avesse pagato l’importo del furto!
Mio nonno gondoliere e l’infanzia a Milano (anni sessanta)
A tutto ciò si aggiunsero altri problemi, diciamo così sociali, che mi fecero riflettere. Io sono nato in vecchio quartiere di case popolari a Milano, costruito durante il Fascismo, in parte secondo le concezioni degli architetti razionalisti, che inizialmente aderirono al Fascismo, per poi distaccarsene, come Giuseppe Pagano, che progettò durante il ventennio l'Università Bocconi, per poi morire antifascista nel lager di Gusen, un sotto campo di Matausen in Austria. Il quartiere si chiama non a caso “Quartiere Milite ignoto”, una città nella città, oltre 6.000 appartamentini (massimo 3 locali, 60 mq, dentro in tanti, come la mia famiglia di 5 membri, che non era certo la più numerosa), mediamente penso almeno 30.000 anime.
Si può dire che sono nato in un quartiere operaio di Milano a San Siro, la mia famiglia così era, un quartiere quindi con le sue condizioni sociali, le sue tradizioni culturali e politiche (se apro la finestra della mia casa di Milano, abito ancora lì quando sono a Milano, vedo il monumento dedicato ai partigiani del quartiere che persero la vita nella Resistenza e per la nostra democrazia, tra questi un giovane partigiano di 16 anni, che abitava vicino a casa, Amleto Livi). Un quartiere operaio allora dagli anni trenta agli anni sessanta e oggi non a caso un quartiere di emigrati nordafricani, africani, latinoamericani, filippini, la mia vecchia scuola elementare vede oggi una prevalenza di bimbi extracomunitari, oltre ad ospitare la scuola bilingue arabo/italiana Nagib Mahfuz. Immigrati provenienti dalle regioni italiane più povere allora, dai Paesi più poveri del mondo oggi. La mia casa è in una piazza ai confini del quartiere con una Milano più ricca: di qui un cippo che ricorda la morte violenta e innocente di Pino Pinelli, esattamente di fronte alla bella scuola Stendhal dello Stato francese per cittadini d’oltralpe che vivono in città e dintorni.
Insomma, mia mamma aveva fatto la quinta elementare ed era nata a Serra San Bruno e si chiamava non a caso Bruna. Serra è un paese delle Serre Calabre, dove a 800 m di altezza, ma a pochi km dai mari Jonio e Tirreno, era andato a morire il fondatore dell'Ordine dei Certosini (l'ordine monastico più importante a un certo punto della storia europea), San Bruno. Mia mamma faceva fatica a scrivere. Mio papà era nato a Venezia, mio nonno fu gondoliere fino alla fine dei suoi giorni nel 1926 a cinquant’anni, emigrati a Milano nel 1917/18 dopo la rotta di Caporetto, per sfuggire a una eventuale invasione austriaca e per cercare condizioni di vita migliori. Con otto figli al seguito, mentre il nonno continuò stagionalmente a tornare a Venezia come gondoliere.
Mio papà mi diceva che aveva fatto “le sesta elementare serale” a Milano. Milano aveva una grande tradizione di scuole serali comunali per i lavoratori, che nasceva dalle prime giunte socialiste di Milano di prima del Fascismo e dall'esperienza della Società Umanitaria, guidata da un socialista di allora Osvaldo Gnocchi Viani, promotore anche della prima Camera del lavoro di Milano. L'Umanitaria era nata da un lascito di un ricco imprenditore edile ebreo, Moise Loria, nel 1892 affinché “i lavoratori avessero ad emanciparsi da sé medesimi”. Dall'esperienza dell'Umanitaria nacquero a inizio ‘900 a Milano due quartieri modello (ispirati alle teorie e esperienze del “Socialismo utopistico”), a cui si ispirarono comunque un po' gli architetti del mio quartiere. I quartieri dell'Umanitaria, guardando alle idee di Charles Fourier e Robert Owen erano centrati intorno all'idea di ricostruire una comunità a quei lavoratori che con la rivoluzione industriale (e lo sfruttamento e la miseria che accompagnò la loro venuta in città) avevano abbandonato le loro antiche comunità rurali, povere, ma pur sempre comunità.
Questi quartieri della Società Umanitaria avevano spazi e luoghi interni dove ritrovarsi, strutture ricreative, teatro, servizi essenziali, commerciali, ma anche educativi. Una tradizione che è proseguita con l'esperienza nei decenni successivi con le Cooperative abitative a proprietà indivisa, che mi risulta esistano in Italia solo nell’area di Milano e in parte della Lombardia: tutti insieme siamo cioè proprietari di un piccolo quartiere, che ha al suo interno i servizi essenziali, commerciali e culturali, nel corso della vita poi, a secondo delle mutate esigenze della famiglia, ci si può anche spostare di appartamento. Il mio quartiere, anche se progettato da architetti razionalisti, naturalmente non era così avanzato essendo stato costruito negli anni '30 sotto il Fascismo dallo Iacp (l’Istituto autonomo case popolari), ma aveva comunque larghi spazi interni dove i bambini potevano giocare liberamente protetti, quindi con una socialità maggiore di quella che prevarrà nel modello urbanistico e sociale successivo.
Conclusione, tra l'impreparazione dei miei genitori nel seguirmi nella scuola dell'obbligo, la possibilità di starmene permanentemente non per strada ma quasi, da piccolo ho appreso certamente la socialità e la solidarietà, ma non studiavo mai e così ripetei la quinta elementare e la seconda media, insomma penso che per questo mi piacque l'esperienza della scuola di Barbiana, potevo essere uno di loro, marginalizzato per la mia origine sociale dai metodi scolastici.
Mio padre aclista e democristiano “sinistro” (anni novanta)
Ero al quarto anno di Liceo Scientifico, in piena attività di movimento studentesco, la scuola era occupata parzialmente, nel senso che si realizzavano assemblee a tema per due giorni a settimana che andavano via via preparate su argomenti di attualità e interesse generale. Avevamo ricevuto una pagina fissa su un mensile del paese, “La Piazza”, in cui scrivevamo a turno noi del movimento e pubblicavamo vignette e strisce su fatti ritenuti rilevanti o di satira sulle nostre attività. Bisognava sempre capire, scegliere le questioni, studiare e condividere, per poi avere la sensazione di illogiche barriere e incomprensioni, da parte degli adulti, quando i bisogni e gli argomenti risultavano finalmente chiari e incontrovertibili. Per fortuna mio padre lo aveva sempre detto: “se pensi di aver ragione vai fino in fondo, non è detto che questo sia vero, ma di certo alla fine qualcosa avrai imparato”.
Mio padre era stato un aclista e consigliere comunale, democristiano, di sinistra e appassionato, si era ritirato proprio in quegli anni dalla vita pubblica ed associativa un poco disgustato, per ricominciare, qualche anno più tardi, in altre associazioni e con rinnovato slancio. Lui, che aveva toccato i calli sulle mani dei braccianti per testimoniarne il lavoro agricolo e garantirne l’ingaggio, insegnato nelle contrade rurali lasciando all’associazione lo stipendio, manifestato con le tabacchine per sostenerne le lotte, non si raccapezzava tra i giochi di arrivismo e soldi che caratterizzarono gli anni ’80 della politica italiana.
Era il periodo in cui con alcune amiche ed amici iniziavamo a spostarci fuori dal paese, a frequentare il Centro sociale contro l’emarginazione giovanile di Brindisi per riunioni, concerti, film e varie attività. “Tutti drogati” avevano detto a mio padre alcuni suoi amici che mi avevano visto a Brindisi, “stai attento a tua figlia, controlla chi frequenta!” e lui, che con me parlava solo a parabole e per via indiretta, lo aveva confidato a mia sorella, che lo aveva tranquillizzato. Mia sorella non era preoccupata, mi vedeva frequentemente portare a casa cime di rape e cicorie coltivate dagli ospiti della comunità di Restinco gestita dai ragazzi e dalle ragazze del Centro Sociale che anche lei conosceva, che ospitava persone dipendenti dall’eroina per aiutarle nel percorso di disintossicazione e riabilitazione, affiliata alla rete nazionale del Cnca, ed anzi mio padre approvava che uscissi di casa, che non frequentassi solo gli scout, che dal suo punto di vista rischiavano di monopolizzare la mia formazione.
Il Cnca è una rete nazionale di Comunità di accoglienza, nate con Luigi Ciotti a Torino, Andrea Gallo a Genova, Vinicio Albanesi a Capodarco di Fermo, Giacomo Panizza a Lamezia Terme e tante altre realtà nazionali, per proporre un modello di disintossicazione dalle dipendenze in grado di salvaguardare l’identità e la personalità del ragazzo o della ragazza, recuperando i fili spezzati nelle realtà di appartenenza. Io lo avrei scoperto a poco a poco, tra le righe dell’impegno e, a volte, della delusione dei miei compagni. Alle escursioni a Brindisi si accompagnava la scoperta della nostra città. Il Centro storico di Ostuni si chiama “La terra” ed era considerato un posto malfamato. Stradine piccole e poco illuminate, teatro di racconti, di terribili furti e pericolose aggressioni. Un posto assolutamente da evitare. A circa metà della salita che dal centro storico porta alla Cattedrale romanico gotica che troneggia sulla città, c’era la porticina di una “bottega”, dove un uomo che era vissuto tanti anni lontano da Ostuni aveva deciso di installare un laboratorio dove costruiva tammorre (strumento musicale a percussione tradizionale) e burattini in legno.
Lui conosceva bene i miei amici di Brindisi, capitò così di passare dalla bottega un pomeriggio con la mia amica punk del movimento studentesco, la cui amicizia mi avrebbe poi accompagnato per lunghi anni in seguito. Quel posto era stranamente frequentato da molti bambini del quartiere, che passavano da lui parti importanti del pomeriggio, alcuni per fare i compiti, tutti affascinati dalla sua capacità di trasformare in racconto e colori ogni esperienza, lettura o notizia della radio su cui rapiti avanzavano commenti e domande. Così questo amico ci presentò ai bambini e ben presto ci trovammo nel bel mezzo di un confronto con una bambina dolcissima, che leggeva il suo tema sulle vacanze appena trascorse. La bimba descriveva bene l’atmosfera della sua casa, con qualche errore di ortografia ma con molti dettagli originali, ma l’amico della bottega cercava di convincerla che “doveva perfezionare il dialetto che si parlava nelle loro case piuttosto che l’italiano. Che avrebbero dovuto spiegarlo anche alle maestre perché era la nostra lingua, c’era la nostra storia, aveva un termine per ognuno dei nostri momenti perché si era formato con noi. Che lingua era invece l’italiano” chiedeva ”da dove veniva, chi l’aveva scelta, come si legava alle nostre radici…”. Ed a noi, con l’inconfondibile cantilena fiabesca: “La lingua italiana discrimina, i ragazzi devono esprimersi con quella che conoscono meglio”.
Mia madre insegnava lettere in una scuola media del paese e quasi tutti i suoi alunni “più discoli” finivano per diventare i miei migliori amici; pensavo effettivamente che il dialetto era una lingua e chiedevo sempre agli anziani il significato dei termini che non conoscevo, ma questa mi sembrava proprio la scuola all’incontrario, temevo che i bambini sarebbero stati messi in imbarazzo… così discutemmo a lungo e trovammo un compromesso nell’utilizzo massivo del vocabolario per cercare le matrici e i significati più consoni alle esperienze.
I miei maestri
La città stessa insegna anche la stratificazione, non solo storica ma anche sociale, e la complessità della vita: spesso basta attraversare una strada per passare da sontuosi palazzi, residenza di facoltose famiglie (a Napoli non è così difficile conoscere discendenti di famiglie nobiliari), a vicoli caratterizzati da bassi e povertà. La mia maestra di scuola elementare periodicamente ci parlava di un personaggio di particolare valore: Don Lorenzo Milani, Raul Follerau, Madre Teresa di Calcutta..., vedo ancora la collana di libretti monografici nella scaffalatura in classe. Ho conosciuto all’epoca alcuni nomi che sono ritornati più volte nella mia formazione e nella mia azione. Ho capito anche che alcuni dei miei valori hanno radici antiche.
Altri maestri hanno segnato la mia strada ai tempi della scuola superiore e dell’Università, in primis Simone De Beauvoir e Jean Paul Sartre. L’esistenzialismo ha toccato sicuramente le mie corde, per la sua riflessione sull’uomo e la vita: scarnificare l’esistente - alla ricerca di un senso - per arrivare solo all’uomo, “condannato ad esistere”, cosciente della propria finitezza. Questa consapevolezza, però, non porta all’annientamento e alla rinuncia ma piuttosto alla responsabilità e all’impegno – come mi affascinava l’ideale dell’intellettuale engagé!! Libertà, impegno, progetto, condivisione, sono valori che mi porto dentro, ai quali tutt’ora mi ispiro e a cui aspiro.
Il mio relatore di laurea, il prof. Franco Cassano, è stato uno dei miei maestri, così come di almeno una generazione di pugliesi che hanno seguito i suoi corsi e/o l’hanno conosciuto. Il pensiero meridiano è il suo identificativo, e nel protagonismo delle periferie, del pensiero e dell’andare lento, nell’attenzione al paggio piuttosto che al cavaliere (perché senza questi non c’è l’altro), negli esercizi di approssimazione all’altro, nel dono... c’è quel fondamento di una nuova visione del mondo che forse cercavo e che sicuramente mi ha appassionato. Una visione del mondo che ho ritrovato, almeno nel suo fondamento teorico, nel terzo settore: un mondo fatto di attenzione all’altro, di ricostruzione dei legami sociali e delle relazioni nella libertà individuale senza, pertanto, tornare o rievocare il mondo pre-moderno.
Ciò che però mi spinse a tornare al Sud fu soprattutto la scelta di lavorare nel mio territorio, perché credevo nella possibilità che uno sviluppo nuovo fosse possibile al Sud, ricominciando dal Sud e sentivo che era responsabilità della mia generazione, del cosiddetto capitale umano che incarnavamo, non andare via. Erano gli anni della teoria dello sviluppo locale, teorizzato, tra gli altri, da Carlo Trigilia e attuato dal Formez PA - Centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle P.A. che originariamente esercitava le proprie funzioni nell’ambito del sistema degli interventi straordinari per il Mezzogiorno.
Perché medici (due testimonianze)
a. Ho pensato di poter in qualche modo essere utile per gli altri. Ciò è avvenuto in vari momenti della mia vita, sebbene spesso in modo incostante, ma sempre nella certezza di voler essere in rete con le persone. Certo la mia attività professionale, quella di medico, con la specializzazione in area pediatrica ed adolescenziale ha fatto sì che questo diventasse realtà e fosse palpabile, nella realtà di tutti i giorni. Ho sempre pensato però di non appiattirmi nella routine quotidiana e di avere sempre a disposizione nel mio cuore tempo per elaborare e progettare per una crescita personale insieme con gli altri, i giovani in particolare. Devo ringraziare le persone che mi hanno permesso di entrare in realtà associative che hanno dato ancora di più slancio alla mia motivazione. In particolare vorrei citare l’Associazione ”Antigone Puglia” e “L’Associazione Il Grillo Parlante”.
b. La condivisione della sofferenza, esercizio umano e antico che si impara da piccoli, è stata la base motivazionale che mi ha spinto a voler essere medico e praticare questa professione fino in fondo. Proprio da piccolo ho visto tanti contadini del mio paese soffrire nei modi più diversi che spesso esitavano nella morte e nella povertà ancora più profonda per la famiglia. La sorte mi ha portato a provare a fare del bene sempre dove ho visto ed incontrato i bisogni. E nel girovagare per apprendere cose nuove, ho scoperto il mondo della ricerca e il mondo del cosiddetto terzo settore, cioè due aspetti che non avevo messo in conto, cioè l’essere cittadino attivo per capire i bisogni e l’essere attrezzato per fare ricerca e quindi formarsi continuamente per essere innovatore, e quindi rispondere ai bisogni. Ed ho provato ad evitare i due estremi di queste belle scoperte, il modello del dottor Terzilli per fare il medico ed il modello della “piazza” che molti miei coetanei praticavano. Essi predicavano, spesso urlando, giustizia e diritti per tutti, mentre nella vita quotidiana consideravano gli innovatori ed i ricercatori come “operai a comando”, privi di qualunque significato politico e sociale, considerando la ricerca una cosa del tutto accessoria, quasi un gioco di baroni, giovani e vecchi, e comunque annoiati.
2.2 Cammin facendo
Mia moglie tra gli alunni del carcere minorile di Acireale (anni: a cavallo 1960-1970)
In Sicilia, tuttavia, tornai qualche anno dopo e ci restai per nove anni. Nel 1966, infatti, mi fu attribuito un incarico di insegnamento presso l’Università di Catania sia nella Facoltà di Lettere che in quella di Economia e Commercio. Nel primo anno di docenza nella nuova sede mia moglie con Francesca, figlia primogenita che aveva poco più di un anno, restò ad Ischia, dove peraltro insegnava nella scuola media, mentre io facevo il pendolare tornando a casa ogni 15-20 giorni. Intanto a Catania, accompagnato da un collega che ben conosceva la città, nei momenti liberi cercavo una casa in affitto dove trasferire, l’anno successivo, la famiglia. Ne trovai una sita in Via Cervignano presso Piazza Galatea, che mi piacque e versai un anticipo senza avvertire mia moglie, pensando di farle una sorpresa. Tornato ad Ischia, le comunicai la notizia e, anziché renderla contenta, le provocai una reazione piuttosto dura. Avrebbe voluto sceglierla lei perché, come ben si sa, la donna è la regina della casa e in questioni del genere, a ben ragione, ha un senso pratico e uno schema logico molto più lucido nell’organizzazione degli spazi domestici.
Quando ci trasferimmo, io ero in forte angoscia. Cosa sarebbe successo, se non l’avesse trovata rispondente al suo disegno mentale? Aprii la porta titubante, aspettandomi qualche scenata. Invece ella non proferì parola, osservò in silenzio gli ambienti destinati alle varie funzioni, cominciando da quelli che affacciavano su un ampio e bel cortile (camera da letto, sala da pranzo, cameretta per Francesca) e, soffermandosi alcuni minuti in ognuno di essi, girava lo sguardo attorno alle pareti per immaginare, forse, come avrebbe potuto sistemare i mobili. Il suo silenzio mi teneva sulle spine. Poi, passata in cucina e sollevata la serranda, esplose in un grido di gioia: dal balcone si vedeva uno scorcio di mare. Era ischitana e, quindi, dal mare non riusciva a stare lontana. Qui sono nate le altre due mie figlie, Raffaella e Maria Rosaria.
A Catania mia moglie per tre anni ebbe incarichi di insegnamento in scuole di recupero: due anni in istituti di rieducazione e un anno nel carcere minorile di Acireale. Furono anni assai impegnativi non solo sotto l’aspetto della tecnica didattica, da inventare e personalizzare quasi ogni giorno, ma anche sotto l’aspetto della educazione morale dei ragazzi. Ella, però, riusciva a stabilire un buon rapporto con tutti e a scavare nel loro animo, riscuotendo fiducia da ragazzi certamente discoli, ma bisognosi di affetto familiare. Nel carcere minorile di Acireale c’era un ragazzo di appena tredici-quattordici anni, proveniente dalla affollata periferia partenopea, il quale scontava una lunga pena per omicidio: aveva ucciso un altro ragazzo per difendere dalle sue molestie, almeno così egli riferiva, una sorellina, della quale provava struggente nostalgia. Le scriveva malinconiche poesie in cui rivelava, insieme a un grande amore, anche un profondo dolore per aver rovinato la propria vita e quella della incolpevole sorellina. Suscitava molta tenerezza e in carcere aveva un comportamento corretto.
Mia moglie chiese al direttore del reclusorio se avesse potuto concedergli un giorno di permesso, una domenica, per portarlo a casa nostra e tenerlo a pranzo, in modo da fargli sentire il calore di una casa e di una nidia di bambine, come quella delle mie tre figlie, la cui età variava dai sei ai due anni. Era un grosso rischio che assumevano tanto mia moglie quanto il direttore. Il permesso, comunque, fu concesso e noi -io, mia moglie e le bambine- andammo a prelevarlo e a riportarlo in sede, dopo il pranzo, entro il termine del tempo consentito. Il ragazzo, ovviamente, fu molto contento e l’episodio contribuì a far riflettere anche gli altri piccoli detenuti sul valore della libertà e della famiglia. Il loro comportamento in carcere migliorò e la loro applicazione allo studio fu più attenta. Dati i buoni risultati, a mia moglie fu anche concesso di portare con sé in classe, in un paio di occasioni, la nostra figlia più grande, Francesca, facendola intrattenere durante un’ora di lezione, mentre io aspettavo fuori dal carcere. I ragazzi, così, non si sentirono discriminati, ma trattati come figli maggiori e, forse avvertendo in maniera concreta un senso di fiducia e di solidarietà, mostrarono un ulteriore miglioramento sotto il profilo sia della disciplina che dello studio: almeno nei riguardi di mia moglie.
Il tasbih di Peppino
Ricordo quando Ramazan ci ha presentato Peppino. Una mattina Marco e io eravamo nell’ufficio del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati) e lui arrivava con un uomo piccolo e magro, carnagione olivastra, occhi scuri e capelli brizzolati. Sul viso ovale spiccavano i baffi neri. “Lui mio amico” diceva Ramazan nel suo italiano essenziale.
Peppino, molto più loquace, dopo essersi presentato ci raccontava la sua storia di emigrante salentino in Turchia dove aveva conosciuto una donna turca, si era sposato e avevano avuto dei figli e soprattutto, stringendo tra le dita il suo tasbih, ci diceva di essersi convertito all’Islam. Si proponeva come interprete di lingua turca.
È stato così, che Marco e io lo abbiamo subito soprannominato “Peppino o’ turco”. In effetti i due erano diventati inseparabili anche perché finalmente grazie a Peppino, Ramazan riusciva a comunicare meglio con tutti noi. Ramazan era un rifugiato curdo turco. La Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato aveva rigettato la sua domanda e io, che ero il suo avvocato, sulla scia del processo che aveva visto riconoscere il diritto di asilo ai sensi dell’art.10 Costituzione ad Abdullah Ocalan, avevo iniziato un giudizio in Tribunale a Lecce per far riconoscere anche a Ramazan il diritto di asilo.
Era il primo processo su questa materia che veniva presentato a Lecce e il Giudice non sembrava voler decidere e rinviava di continuo le udienze, provocando il malcontento di Ramazan che aveva un permesso provvisorio senza possibilità di lavorare, non poteva prendere in affitto una casa e viveva spesso solo grazie alla carità di varie associazioni. Cercavo di convincere il giudice ad ammettere le prove testimoniali che avevo richiesto e facevo lunghe anticamere fuori dalla sua stanza. Una volta mi è capitato persino di ascoltare una sua telefonata a un sottosegretario all’interno leccese al quale chiedeva consiglio sul processo di Ramazan… Alla fine il Giudice ammetteva le prove testimoniali e ascoltavamo Sipan, una ragazza curda che ci parlava dei diritti negati ai curdi in Turchia e della condizione delle donne curde.
Anche Roberto Aprile è stato ascoltato come testimone. Lui era stato in Turchia, insieme a Dino Frisullo, per celebrare il Newroz la festa del capodanno curdo che coincide con il primo giorno di primavera. Ogni anno in occasione della festa i curdi manifestavano per la libertà perché la Turchia vieta i festeggiamenti e la polizia arresta i manifestanti. Anche Bobo e Dino avevano rischiato di essere arrestati. Dino, da indomito pacifista, era tornato in Turchia anche l’anno successivo, il 1998, ed era andato a Diyarbakir per celebrare il capodanno curdo. Nella città curda a sud est della Turchia era stato arrestato e detenuto per trentanove giorni, perché sospettato di essere in possesso di materiale del PKK, l'organizzazione curda che dal 1984 si batteva per l'indipendenza da Ankara. Anche Dino Frisullo è venuto a Lecce a testimoniare in Tribunale la condizione dei curdi in Turchia e quel giorno resterà per sempre fissato nella mia memoria. Solitamente i processi civili in Tribunale vengono celebrati tra avvocati e parti vocianti e seguire quello che il giudice e gli avvocati si dicono è veramente difficile.
La mattina in cui Dino è venuto a testimoniare, nell’aula delle udienze collegiali eravamo solo noi, interessati al processo. Il giudice e la cancelliera che scriveva il verbale erano seduti di fronte a noi che eravamo tutti seduti e così disposti: al mio lato sinistro, Marco, alla destra Dino, in posizione centrale, poi Ramazan e all’estrema destra Peppino o’ turco, con il suo immancabile tasbih tra le dita.
Il Giudice ha chiesto a Dino se conosceva la condizione dei diritti umani in Turchia e in special modo quella dei curdi. Dino ha aperto la sua cartella e ne ha estratto il libro “Se questa è Europa – Viaggio nell’inferno carcerario turco”, il diario della sua detenzione in carcere e ha iniziato a parlare con la sua voce calma e determinata.
La cancelliera ha posato la penna e ha iniziato ad ascoltarlo incantata, il giudice teneva lo sguardo fisso in quello di Dino e ascoltava in silenzio. Marco e io, ascoltavamo le sue parole e ci guardavamo sbigottiti, Ramazan non capiva bene, ma era elettrizzato dalla presenza di Dino Frisullo lì per il suo processo. Peppino pregava. Il tempo sembrava sospeso, l’aria immobile, non si sentivano neanche i nostri respiri, solo le parole di Dino… Mentre parlava si sentiva un lieve sottofondo musicale, alla sua destra. Era Peppino o’ turco che sgranava il suo tasbih, pregando. Il giudice alla fine del processo ha riconosciuto a Ramazan il diritto di asilo. A pensarci ora, quella mattina, per la prima volta nella mia vita, ho capito l’importanza della preghiera.
Dal '68 all'affermarsi delle nuove forme di cittadinanza attiva
Ho vissuto le lotte e i movimenti studenteschi del '67/68, le lotte operaie del '69, nel mio quartiere c'erano due fabbriche importanti: la sede storica dell'Alfa Romeo e la Sit Siemens poi Italtel, che allora costruiva la gran parte dei telefoni venduti in Italia. Sempre nel mio quartiere era anche “Villa triste”, cioè i resti di un bel convento costruito intorno a una bella chiesetta intitolata a San Siro che era lì dalla fine dell'800 dopo Cristo e che durante la Repubblica di Salò divenne luogo di tortura di antifascisti e partigiani da parte della Banda Carità.
A quante manifestazioni studentesche e democratiche ho partecipato non saprei dire, a quante manifestazioni di lavoratori, operai e impiegati, anche ho assistito, non saprei, era uno spettacolo vedere queste manifestazioni che si formavano a volte anche improvvisamente a seconda degli accadimenti e che scendevano verso piazza Duomo dalla zona a Nord di Milano, che era quella più industrialmente sviluppata. Così fu per i funerali delle vittime di Piazza Fontana, in una piazza silenziosa, stracolma, grigia, impaurita per l'efferatezza di quell'attentato di cui la polizia volle accusare pacifici anarchici, Pinelli (l'ho già ricordato) abitava vicino a casa mia, al suo funerale partecipai con le mie due sorelle, si aveva la netta sensazione di essere i reprobi filmati e schedati dalla polizia che faceva cordone attorno a noi.
Prima c'erano state, in particolare nel '68 ma anche nel '67, numerose manifestazioni di studenti, intellettuali e democratici, poi nel '69 manifestazioni di lavoratori, le une e le altre duramente represse dalla polizia, che una volta ci assediò fin nell'Università statale, in via Festa del Perdono. “La Statale”, come la chiamavamo, non è l’università storica di Milano, la storica università della Lombardia è a Pavia, la cui fondazione risale all'825 come scuola già di rilievo regionale e al 1.361 come Università vera e propria. Ma se “La Statale” non ha una lunga storia, è stata fondata nel 1923/24, è però collocata in un magnifico, grande, storico edificio iniziato nel 1456 e terminato nel 1805 a due passi dal Duomo, dall'Arcivescovado e da Piazza Fontana, in parte un gioiello dell'architettura rinascimentale lombarda, progettato inizialmente dal Filarete, un architetto fiorentino che Cosimo De Medici consigliò a Francesco Sforza, e fatto di magnifici chiostri di mattoni rossi e bassorilievi in cotto. Si tratta della Cà Granda, uno dei primi ospedali laici, costruito dalle Istituzioni pubbliche di allora, della storia d'Europa.
A un pacifico movimento giovanile e studentesco, italiano e internazionale (pacifico nelle modalità con cui si esprimeva e nelle posizioni che sosteneva, vista la contrarietà alla guerra in Vietnam), che chiedeva giustizia sociale e praticava una partecipazione diffusa, a partire da vivaci e partecipate assemblee che non c'erano mai state prima. In Italia più che altrove si rispose con le cariche della polizia prima e le bombe poi, in un’alleanza tra servizi segreti internazionali, apparati deviati dello Stato, destra eversiva. È in quel clima che degenerò anche una parte di quel movimento studentesco, attraverso le Brigate Rosse ed altre formazioni eversive, eventi che transitarono per Milano, ma che videro protagoniste più realtà periferiche, come l'Università di Trento di sociologia che frequentai alla fine del 1969.
Il movimento studentesco di Milano, cresciuto in una realtà segnata da un forte movimento democratico di lavoratori, operai ma anche tanti impiegati e quadri, sostanzialmente non aderì mai a quella storia, che però cominciò a segnare una frattura tra giovani generazioni e i partiti politici tradizionali, questione che si ripresenterà negli anni seguenti in maniera sempre più accentuata. Alla mobilitazione studentesca e dei lavoratori si rispose con le denunce (ricordo 14.000 nel corso dell’Autunno caldo del '69), la repressione poliziesca, le bombe di gruppi nostalgici del fascismo e prezzolati dalla loggia massonica P2 di Licio Gelli, secondo quella logica che così bene descrisse Franco De Felice (bravo storico dell'Università di Bari), di doppia legalità e doppio stato: lo Stato non è una realtà unitaria, una parte risponde alle nostre leggi e alla nostra Costituzione, un'altra, nei servizi segreti in particolare ma non solo, ai sistemi di alleanza internazionali tra Stati che a loro volta rispondono a spietate logiche di potenza, in questo caso dominate dagli Usa.
Così gli anni '70 furono “gli anni di piombo” o della “strategia della tensione”, ma furono anche quelli che inaugurarono un nuovo diritto di famiglia, un ruolo diverso della donna, il sistema sanitario universale che nonostante tutto ancora abbiamo. Anni che segnarono nell'impegno sociale e politico il rifiuto della delega e l'impegno in prima persona che segnerà i decenni a seguire, il Terzo Settore è in fondo figlio di quel movimento e dei mutamenti sociali che per la prima volta si manifestarono allora.
Gran parte di quel movimento diede sì luogo a vari partitini che durarono poco, poi si orientò all'impegno verso i partiti della sinistra, il Partito socialista, ma soprattutto il Pci. Io facevo parte di quei giovani e a casa mia io e le mie due sorelle facemmo quella scelta, io divenni presto segretario della Sezione del Pci che era proprio accanto a casa mia, credo fosse il '74. Un paio di anni dopo andai a fare il responsabile delle attività di formazione politica in federazione. La Federazione del Pci di Milano era una grande organizzazione, con quasi 90.000 iscritti nel 1976 e 417 sezioni o circoli di base, 300 circa di quartiere e le altre nei luoghi di lavoro, fabbriche, uffici, banche. Era la più grande Federazione d'Italia, ma del resto anche la Provincia di Milano allora (non si erano ancora separate le Provincia di Monza/Brianza e di Lodi) era la più popolosa d'Italia con oltre 4 milioni di abitanti, più di tutti i residenti in Puglia, e poi era ed è la capitale economica del Paese, dove lo scontro sociale era più aspro e diffuso, anche rispetto a Torino, una città che ruotava intorno a una sola azienda.
Gli anni '70 e le prospettive di cambiamento politico finirono ben presto con l'assassinio di Aldo Moro (un altro pugliese) da parte delle Brigate autoproclamatesi “rosse”, guarda caso colpendo non l'esponete più conservatore della DC, ma quello più aperto, autorevole e progressista, che stava cercando di avviare una nuova stagione per il Paese inserendo il Pci di Berlinguer nelle forze di governo.
Seguono quegli anni '80 che furono di completa restaurazione, con Margaret Thatcher, quella per la quale la società non esiste, e Ronald Reagan, che tagliò subito le tasse ai ricchi. In Italia fu una fase di restaurazione purtroppo interpretata da Psi di Craxi (non a caso un milanese), cosa che determinò la degenerazione e la fine ingloriosa del Partito socialista, che pure aveva fatto la storia d'Italia. Se quindi il '900, sia pure tra fortissimi contrasti che avevano portato alla disastrosa esperienza nazi/fascista, aveva conosciuto praticamente in tutto il mondo una riduzione della forbice tra ricchi e poveri, tra popoli colonizzati e colonizzatori, con gli anni '80 è iniziata una fase storica e economica per più versi opposta e diversa: la forbice tra ricchi e poveri è tornata a crescere molto dovunque nel mondo, ma contemporaneamente c'è stato uno sviluppo (poco sostenibile) delle aree più povere del mondo, ma con grandi divari di ricchezza anche lì, esemplare il caso Cinese.
Nell'83 lasciai volontariamente il mio impegno a tempo pieno presso il Pci lombardo, per mia scelta, proseguii a metà tempo fin circa il 1987. Sono stato tra '76 e '87 responsabile delle attività di formazione politica prima della Federazione provinciale di Milano, poi della regione Lombardia, dieci anni intensi e anche drammatici, tutte le notti a turno vigilavamo la Federazione, gli attentati erano all'ordine del giorno. Ma drammatici anche perché se la sinistra, e in particolare il Pci, raggiunse il massimo dei voti nelle elezioni amministrative del '75 e in quelle politiche del '76, dopo seguì una perdita continua di iscritti e voti, una emorragia inarrestabile che ebbe uno stop momentaneo solo nelle elezioni europee del 1984, anche per l'eco della morte di Berlinguer nel corso di quella campagna elettorale.
Avevo già deciso di lasciare l'impegno a tempo pieno nel partito, perché a fronte della continua perdita di iscritti e voti a mio avviso non si svolgeva un adeguato lavoro di ricerca e analisi sul perché ciò avveniva, poi si aggiunsero problemi familiari Mi ero sposato giovane nel '74, avevamo avuto anni di impegno molto intenso, io ero al partito e mia moglie Anna al sindacato, significava essere sempre in giro: al sindacato si era sempre impegnati di giorno, per il partito dalla mattina tardi alla sera sino a una parte della notte, perché si partecipava alle riunioni delle sezioni di base, nelle quali si discutevano i problemi politici locali, nazionali e internazionali, si iniziava alle 21, 21,30 e si discuteva spesso sino all'una di notte e poi bisognava tornare a casa, percorrendo in genere un po' di chilometri. Dopo 10 anni di matrimonio nell'84 ci separammo, i nostri due figli, Antonio e Francesco, furono affidati a me, era comunque impossibile continuare nell'impegno a pieno tempo nel Partito, la sera dovevo essere a casa a far da mangiare e leggere le favole nel metterli a letto, per il resto della giornata per fortuna a Milano c'era il tempo pieno a scuola, Antonio aveva 11 anni e Francesco 9. A metà tempo continuai a essere responsabile delle attività di formazione politica del Comitato Regionale del Pci, ma nel resto del tempo con una cooperativa di progettazione architettonica e di analisi sociale che aveva costituito un caro amico condussi analisi sulla realtà del partito e della partecipazione politica a Milano e provincia.
La cooperativa (Ceres, Centro ricerche economiche e sociali, che faceva ricerche sociali per l'intervento programmatorio dei comuni) aveva sede in un quartiere ottocentesco di Milano, fuori le mura spagnole, vicino avevano abitato Ambrosoli, l’«Eroe Borghese» che fece assassinare Sindona, e il Commissario Calabresi, anche lui vittima di una tragica vicenda dell'Italia di quegli anni. La Ceres era in un bellissimo, luminoso e intelligente seminterrato, però nel quartiere che era stato sede del cimitero della peste del 1630 di manzoniana memoria e, girato l'isolato, rimane un tabernacolo con teschi e altre ossa e la scritta “Ciò che sarete voi noi siamo adesso, chi si scorda di noi scorda sé stesso”, una scritta che da ragazzo mi aveva impressionato e quando ero in cooperativa pensavo ogni tanto alla peste e alle ossa di tante vite che certamente erano ancora sotto terra intorno a me.
Pensai di svolgere un'attività di ricerca sulla formazione e la partecipazione politica, prima guardando allo scenario milanese, ma poi a quello italiano e europeo, prima attraverso la Ceres, nell'ambito della quale io svolsi ricerche sulla partecipazione, poi cominciai a collaborare con il Crs (il Centro per la riforma dello stato), il centro studi del Pci che si occupava di questi problemi, che era stato fondato da Umberto Terracini, uno dei padri della Costituzione, ed era allora diretto da Peppino Cotturri (un altro pugliese) e presieduto da Pietro Ingrao, forse il dirigente del Pci politicamente e culturalmente più innovativo.
Lì riuscii a proporre e a farmi finanziare, dal Partito e dalla Commissione europea, due ricerche, una sulla formazione politica nei partiti della sinistra europea[1] e l'altra sulla formazione sindacale in Europa. Entrambe furono molto interessanti, in entrambi i casi la ricerca riguardò sei Paesi: Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Svezia, Italia. Interessanti sia perché si evidenziava come nei Paesi in cui le istituzioni politiche funzionavano meglio che da noi si svolgeva, sia pure in maniera diversa da Paese a Paese a seconda di storia e tradizioni, un’attività di formazione politica e sindacale.
Ma furono altre ricerche svolte al Crs che mi convinsero che una nuova maniera di vivere l’impegno sociale e politico si stava facendo strada. Stava declinando la militanza nei partiti e nei sindacati, mentre andava sempre più crescendo un volontariato impegnato in maniera innovativa su diverse tematiche, ambiente, sanità, attività sociali, protezione civile (che praticamente era nata con Gli “angeli del fango” dell'alluvione di Firenze). Per la prima volta storicamente i cittadini si associavano non per tutelare e promuovere interessi particolari, come avveniva dall'antichità, ma per tutelare e promuovere direttamente “gli interessi generali”, il bene comune, un compito prima riservato alle sole istituzioni.
Fu un quaderno del 1986 di Democrazia e Diritto, la rivista del Crs, a evidenziare il fenomeno, un’indagine nel mondo dell’associazionismo italiano che faceva emergere come questo era andato assumendo un ruolo politico rilevante, almeno nella proposta politica se non nella rappresentanza che era riservata ai partiti. Capii da quelle ricerche che facemmo al Crs non solo le ragioni della crisi di partiti e sindacati, ma anche perché in altri Paesi europei tutto sommato andava meglio che in Italia e soprattutto capimmo che il futuro non era solo di partiti e sindacati, ma anche, se non soprattutto, di quei nuovi movimenti che erano sorti e che popolavano il panorama italiano e europeo.
Nel frattempo era stata approvata nell'agosto del 1991 la legge quadro del volontariato a iniziativa di sinistra Dc e sinistra Pci, questa legge prevedeva all'art. 15 che le future Fondazioni di origine bancaria dedicassero un quindicesimo dei propri proventi alla costituzione dei Centri di servizio al volontariato, cosa che non era nel frattempo avvenuta, sia perché le banche pubbliche interessate avevano fatto ricorso alla Corte Costituzionale e non volevano dare quell'un quindicesimo, sia perché anche le Regioni volevano amministrare quei fondi, che invece la legge aveva dato in gestione allo stesso volontariato.
All'inizio del 1993 avevo promosso e svolto una ricerca per il Crs e per il Centro sociale ambrosiano della Diocesi di Milano, guidata dal Cardinal Martini, sulla formazione alla cittadinanza in Italia. A partire da quel lavoro, nel quale intervistammo responsabili di partiti, sindacati e associazioni, promuovemmo la stesura di un documento comune da parte delle organizzazioni di TS italiane, che chiamammo “Imparare la democrazia”. Da lì partì un lavoro che coordinai prima a livello nazionale e poi in tutte le regioni italiane e che portò dovunque alla costituzione dei Centri di servizio del volontariato, gestiti dalle stesse organizzazioni di volontariato.
Sliding doors
Gli scout avevano la sede al Portello, un quartiere di Padova, in via Gianbattista Belzoni e io abitavo da quelle parti. La loro sede, ampie stanze a piano terra due volte a settimana, diventava una bottega, un negozio di verdura e frutta. Un mercatino “rosso”. No, lo chiamavamo mercatino volante o mercatino rosso volante? Non so più, è successo un secolo fa. Si vendeva a prezzi popolari, per gli abitanti di un quartiere popolare.
Allora la GDO, la grande distribuzione organizzata non esisteva ancora, c’era qualche grande magazzino o delle catene, tipo Upim o Standa. Diciamolo, dilettanti nei confronti della GDO attuale. Eppure, si era già capita l’importanza della distribuzione e quei mercatini erano un tentativo di accorciarla, quella catena. Si eliminavano i passaggi dal produttore al consumatore per contenere i costi e mangiare sano. Cominciava il biologico e potrei dire, che eravamo già al chilometro zero, con trenta anni di anticipo. I costi, in realtà, si tagliavano anche con il nostro volontariato, che io, non scout, chiamavo lavoro politico. Mancati costi che contribuivano a vendere verdura e frutta, è il caso di dire, a prezzi popolari.
Ecco, ricordo quando, entrando nella sede scout di Padova, ho capito l’importanza e la ricchezza della diversità. Ricchezza della diversità di “fede” allora, ricchezza della diversità culturale ora che tento di insegnare italiano ai migranti. Con l’entusiasmo iniziale cominciammo a preparare barattoli di carciofini e pomodori secchi sott’olio e a prendere contatti e accordi con realtà locali per acquisti a km zero, possibilmente senza chimica o con impatto sociale, come la comunità Emmaus che stava dalle parti di Borgo Mezzanone. Insomma, il tentativo era di fare un prodotto locale sano per l’ambiente e per il sociale e che ci desse reddito.
Nessuno di noi era cuoco, ma sapevamo mettere mano ai fornelli, qualcuno un po’ meglio, ma ci si aiutava. La divisione dei compiti, semplicissima. Rotazione settimanale. Eravamo in tre, per cui una settimana cucina, una settimana sala, una settimana cassa. Chi era in cucina decideva il menu settimanale con prodotti stagionali e faceva anche la spesa. Se i cambiamenti fossero porte scorrevoli, girevoli, come Charlot, ne sarei intrappolato. Ogni momento, ogni occasione è buona per cambiare la vita.
Era il primo giugno del 2017, ero a Pane E Pomodoro, spiaggia libera di Bari, in un bel pomeriggio già estivo. Ero con la mia fotocamera. Godevo il sole e intanto osservavo le persone, chi seduto sulla panchina, chi camminava, chi prendeva il sole. Da soli, in coppia, in gruppo, erano lì a godere l’anticipo dell’estate. Io li osservavo, sperando di poter fissare nella fotocamera qualche situazione particolare. Poi la mia attenzione fu attirata verso l’ingresso della spiaggia, dove si assembrava tanta gente. Si, allora ci si poteva assembrare. Nell’assembramento, tra i bianchi, c’erano anche africani e asiatici. Tanti avevano cartelli, piccole percussioni. Davanti a tutti uno striscione. Sullo striscione c’era disegnata una casa e, con tanti colori, c’era la scritta “Squola Penny Wirton”. Si, squola, con la q, non è un refuso. C’era proprio scritto squola di italiano per stranieri.
Quell’anno la Festa dei popoli si apriva con un corteo festoso che andava da Panepomodoro, una spiaggia di Bari, al parco di Punta Perotti, poche centinaia di metri più in là. Il corteo era aperto dalla Squola, tra i cartelli colorati, i colori di chi arriva dai quattro angoli del mondo. Nel corteo in formazione, tra chi portava lo striscione, vidi una mia amica, Alma. Smisi di scattare fotografie e mi fermai a parlare con lei. Mi disse che la Penny Wirton era un’associazione nata solo da un anno, che loro insegnano gratuitamente italiano ai migranti e che è una esperienza molto arricchente. Ogni tanto con lo sguardo andavo verso Padre Ottavio, un comboniano, che sembrava voler dirigere un’orchestra. Fu per merito del direttore d’orchestra o perché la cosa fosse matura, il corteo si mosse. Io e Alma ci salutammo e ripresi a fotografare. Giunti a parco Punta Perotti, mi persi tra gli stand, le pietanze etniche provenienti da India, Pakistan, Afganistan, Brasile, Etiopia, Eritrea, Senegal, Perù, Messico, Marocco e altri ancora, infine i concerti. La squola non era più nei miei pensieri.
Come dicevo le porte continuano a girare, sempre. Così, qualche mese dopo, in un negozio di Bari centro, incontrai un’altra amica che mi riparlò della squola e mi disse, Perché non vieni? Non è necessario essere insegnanti. I primi di ottobre andai a fare la prima “lezione”. Ora eccomi qua. Nel frattempo, la Squola, che all’epoca era un’associazione informale, nata dalla collaborazione di due associazioni, Convochiamoci per Bari e Gruppo Educhiamoci alla Pace - ODV (il GEP). Dicevo, un paio di mesi fa la squola ha ringraziato i genitori ed è divenuta autonoma, ora è una ODV, sono tra i suoi soci fondatori, oltre che essere dal 2018 socio attivo del GEP. Non ho la vocazione del volontario. Volevo solo fare una passeggiata e scattare qualche fotografia, possibilmente buona.
Scuole
E quindi, ero lì, seduta a quel tavolo. Vedo ancora il foglio bianco su cui F. cominciò a disegnare i cerchi della mia rete: io al centro e nel primo cerchio la mia famiglia, nel secondo cerchio gli amici, nel terzo i colleghi e poi i conoscenti e poi... Questo a livello di persone, ma la stessa analisi si ripete con i gruppi e le organizzazioni.
In quel momento percepivo di non capire fino in fondo cosa F. mi stesse dicendo, per questo forse il ricordo mi è rimasto così impresso; o forse per la rilettura che ho potuto fare dopo: in quel foglio c’era tutto il mondo e tutti i valori della nostra azione come organizzazione di Terzo Settore e operatori sociali. E, andando più a fondo, molta della mia motivazione ad impegnarmi in un’organizzazione di terzo settore: dare valore e forza ai legami tra le persone, dare a tutti l’opportunità di potersi ri-trovare in una comunità di appartenenza che non fosse strettamente
quella di nascita e, in maniera ancora più ristretta, familiare anche allargata.
Il lavoro svolto col Centro Studi Erasmo, legato alla partecipazione – ad esempio per la progettazione partecipata dei servizi sociali o per la scelta della ricerca partecipata – alla centralità della persona e della relazione (qualità propria del lavoro sociale) dava concretezza agli studi che avevo fatto all’Università: la ricerca di riscatto dal familismo amorale di Banfield che sottende il pensiero meridiano di Franco Cassano, l’approfondimento della teoria del dono di Marcel Mauss e del pensiero di Andrè Gorz dell’utopia della fine del lavoro, e finalmente capire, come in un’illuminazione, la differenza delle relazioni nella società moderna rispetto a quelle della società premoderna: la libertà e la scelta. Nella mia dedizione, anche lavorativa pagandone conseguentemente tutti i costi, c’era e c’è tutto questo. C’è il sogno, l’utopia e la voglia di impegnarmi, affinché si possa affermare una società diversa, dove la persona abbia la possibilità di esprimersi e realizzarsi in un contesto di relazioni sociali.
Pensare alle nuove generazioni
Nel caso delle nuove generazioni c’è un disorientamento che fatica a rallentare. II ragazzi escono dalla scuola con sentimenti contrastanti: da un lato il sogno di realizzarsi e di essere felici, dall’altro la difficoltà a trovare un interlocutore che ascolti questa voce, questo anelito, questa visione che desidera trasformarsi in progetto. Molti scelgono di continuare a studiare per rinviare l’incontro con questo ascolto intermittente e distratto del “sistema”, e anche, nel frattempo, per diventare più forti e poter negoziare meglio la propria posizione col mondo; ma non tutti hanno questa possibilità, o voglia, e così inizia il calvario. Imparare un mestiere? Cercare qualcosa di poco complesso per poter subito guadagnare qualcosa? Partire?
Come essere allora utile per migliorare la condizione esistenziale , che è messa a dura prova – soprattutto in determinati contesti- dall’impossibilità di progettare un futuro a propria immagine e somiglianza e così ci si consegna al mercato cercando di vendere il proprio tempo, la propria disponibilità a imparare, la propria forza: anche a costo purtroppo, di lavorare in condizioni precarie e ai margini dello sfruttamento, per quanto consentito dalla legge.
La buona notizia è che comunque anche in quest’epoca di mancanza di autorevolezza non si spegne la sete dei giovani di conoscere sé stessi e di imparare. L’essere umano ha una tensione intrinseca all’esplorare sé stesso e il mondo in cui vive, ma se il contesto non sostiene questa tensione evolutiva intrinseca è bene che si faccia delle domande e che noi gli chiediamo di rispondere di sé. Cosa fare?
Per fortuna ci sono tantissimi giovani che emergono dalla mediocrità in cui il mercato vorrebbe tenerli, quella mediocrità in cui l’illusione dell’acquisto dell’ultimo gadget possa, per pochi secondi, farli sentire apparentemente bene. Sarebbe buona cosa che questi giovani divengano sempre più visibili, e magari entrino in relazione tra loro, affinché i loro coetanei possano sentirsi riconosciuti nel proprio potenziale e abbiano degli esempi di persone della loro generazione che sono riusciti a raggiungere un obiettivo, o quantomeno a mettersi in cammino per raggiungerlo. Ci sono centinaia di migliaia di ragazzi nel mondo dello sport, delle scienze, della poesia, della musica – ad esempio – che trovano la propria identità o quantomeno l’energia vitale che permette loro di iniziare a scoprirla.
Sarebbe bello che attraverso i coetanei e i loro mentori inizi un percorso di ricerca della propria strada e una riconciliazione generazionale che può fungere da collante sociale e ispirazione nella ricerca di sé, nella presa di coscienza del proprio valore, nel sentirsi parte di una comunità e non singoli individui in competizione tra loro. È arrivato il momento di cogliere questo bisogno che spesso i giovani non sanno neanche di avere. Quando tutto sembra finire non rimane che ricominciare.
Volontariato come casa propria
In un certo tempo della mia vita ho incontrato il mondo sociale, ne sono stata attratta e ho deciso un impegno più costante e coinvolgente in questa direzione, per scoprire, tuttavia, poco più tardi, che quella era proprio la vocazione mia propria, una vocazione scoperta, coltivata, e inevitabilmente coniugata con la vocazione più propria dell’Organizzazione – la Comunità Emmanuel – nella quale ho deciso di svolgere e portare avanti il mio servizio.
1. «È il futuro che chiama il presente e che desta energie latenti; le raccoglie e le protende in avanti. È la meta che determina la direzione e la via». Lo si può scorgere facilmente – e lo si vive concretamente – nella condivisione della vocazione e nella motivazioneper la scelta che, sempre rigenerata, è capace di tenere e far camminare insieme persone molto diverse tra loro per provenienza, età, sesso, temperamento e cultura.
2. Non assistenza, ma condivisione, quella che lega la propria vita a quella dell’altro, soprattutto a quel “altro” che non ce la fa a vivere da sé.
3. Socializzare il territorio – famiglia, quartiere, parrocchia, scuola, associazioni, istituzioni – proponendo un cammino che porta la persona ad aprirsi alla socialità; che stimola la legalità; che testimonia che il bene individuale si può coniugare con il bene comune e che prova a correggere l’“avere/potere/apparire” con la “sobrietà e la solidarietà”.
4. Sciogliere dalla prigionia dell’egocentrismo e riorientare verso la maturazione e verso una “cultura alternativa” che vinca sugli egoismi; tenda a una “diversa qualità della vita” e “favorisca relazioni” che aiutino a coltivare sapienza e conoscenza.
4. Educare al dono e alla gratuità – c’è più gioia nel dare che nel ricevere – scoprendone la bellezza; gustandone la semplicità e la forza; “sognando” grandi cose e realizzandole nel piccolo; vivendo la propria vita da protagonisti del proprio e altrui destino.
5. Educarci ed educare al senso delle cose che passano e al senso dell’Infinito e dell’Eterno.
6. «Il Sud non è profondo solo di povertà e di dolore, ma anche di vita, di umanità, di potenzialità, di apertura al futuro. È proprio per questa ricchezza di vita, di energia affettiva, di calore umano e familiare, di fantasia, di sogno, di speranza, di progettualità, che il Sud ha qualcosa, anzi molto da dire e da dare anche al Nord, in un dialogo e scambio benefico per tutti».
In tutto questo, una delle scoperte è stato apprendere – e sperimentare – che per vivere grandi ideali non è necessario essere supereroi, basta essere quello che si è! Con doni e difetti; capacità e limiti; esperienze e sogni; desideri e speranze… sapendo, tuttavia, che nelle azioni quotidiane può esserci “di più” di quello che si vede: è quel “di più” che possiamo metterci (o non metterci) noi e, quel “di più”, è donazione, presenza, solidarietà, lotta, sorriso, benevolenza, generosità.
Una persona può immaginare, creare e costruire tante cose belle, ma perché i sogni diventino realtà ci vorranno sempre altre persone… il Terzo Settore lo sa, lo fa, e il sogno di uno può diventare realtà per molti… dall’“io” al “noi!
2.3 E precisamente dall’io al noi
E mi metto allora a disposizione, per immaginare e cercare di rendere concreti progetti di aiuto e condivisione di progettualità presenti e future.
Perché per me la priorità è quella di intraprendere un viaggio che dall’io conduca al noi come gruppo, attraverso un ascolto attivo, un atteggiamento empatico, con la consapevolezza delle cornici con le quali leggiamo la realtà, per non essere preda di pregiudizi o stereotipi. Nel gruppo mi sforzo di costruire le sicurezze emotive necessarie per alimentare la capacità di padroneggiare il contesto in cui si opera, facendo proprie nuove o rinnovate modalità del fare educazione. Ritrovare il benessere come gruppo di adulti, aiuta a trasmettere benessere e sicurezza ai bambini e alle famiglie.
La mia esperienza nel Terzo Settore è stata segnata anche da molteplici delusioni che qualche volta ho vissuto anche come tradimenti: il mancato supporto per far diventare il Centro Studi Erasmo un luogo di lavoro, l’abbandono di G. nel momento di avvio di un nuovo progetto lavorativo sempre radicato nel Terzo Settore, il mancato sostegno dei colleghi che hanno proclamato la stima e il riconoscimento della qualità dell’impegno e del lavoro mio personale e dell’associazione ma che nella pratica hanno preferito altri professionisti o non investire nel nostro progetto...
Perché allora dopo tanta disillusione ho continuato a credere e ad impegnarmi nel Terzo Settore? Oggi vedo il filo rosso di tutto il percorso nel terzo settore: agire per cercare di costruire, un piccolo passo dopo l’altro, una vita e una società diversa, non soggiogate al lavoro e al guadagno, ma rivolte alla realizzazione dell’umano. Mi spingo oltre: per il senso profondo, rivoluzionario che il terzo settore porta con sé nel momento in cui rimane aderente a sé stesso.
E finché potrò vedere almeno un’esperienza, un’organizzazione, una persona che aderisce a questo ideale per me ha senso impegnarmi. C’è ancora un altro filo che mi spinge a continuare ad impegnarmi nella/nelle associazioni: avere un progetto comune, avere l’opportunità di non muoversi come individuo ma come un “noi”.
Considerazione finale: c’è forse una sovrapposizione o una stretta continuità tra la molla all’impegno e le prospettive future: i valori che spingono all’azione sono pressoché gli stessi che vorrei vedere incarnati nel futuro forse utopico. In mezzo c’è la realtà, l’esperienza, coi suoi risvolti positivi ma anche negativi, con quelle esperienze che negano quei valori che il mondo anche del TS affermano. L’unica prospettiva è la tensione verso quei valori, quegli ideali. Forse bisognerebbe ridare dignità e importanza agli aspetti etici e valoriali della nostro agire e della nostra società.
3. Conclusioni
Dalle narrazioni condivise e dai commenti fatti insieme, nel gruppo di scrittura, sono emerse parole e circostanze ricorrenti, motivazioni e prassi che si richiamavano l’un l’altra, suggerendo una mappatura delle Memorie Volontarie che tiene insieme il senso dello spazio condiviso:
I racconti personali, nel loro dipanarsi collettivo, si presentano come una spirale che richiama l’infinito: il presente, fatto di attivazione, partecipazione ed impegno, è intriso del passato, dei volti in cui ci si è riconosciuti, delle visioni che ci animano nel presente e ci spingono verso il futuro in cui proiettare il sogno che non finisce. E così l’utopia possibile è definita da quell’insieme di valori nel pensiero e nella pratica di uomini e donne incontrati nella nostra azione quotidiana. La raccolta di storie individuali diventa dunque il modo scelto dal gruppo non solo per narrare sé stessi in relazione con la comunità in cui si vive e con l’impegno civico, con compagni di viaggio con cui condivide valori di riferimento e/o obbiettivi[2], ma anche il luogo dove sottolineare la propria visione del mondo e le priorità comuni.
Si sceglie dunque di dare vita a un luogo immateriale e a un conseguente gruppo di lavoro, che si dedichi allo studio ed alla raccolta di biografie di volontari e cittadini attivi, confrontandosi con i gruppi organizzati del terzo settore e il mondo del volontariato organizzato, per la formazione di testimoni privilegiati in grado di raccontare momenti e biografie rilevanti per la crescita civica del territorio in cui vivono.
Oltre al luogo virtuale e reale in cui raccogliere le piccole storie[3] che hanno contribuito alla grande storia della partecipazione attiva nel nostro paese, a conclusione di questo primo ciclo abbiamo dunque anche un nucleo operativo, orientato a formarsi e formare per una narrazione della propria storia dal basso, a partire dai vissuti, dagli sforzi e dalle vittorie, dalle sconfitte e dalle svolte quotidiane.
Note
*La narrazione è tratta dai seguenti scritti di prossima pubblicazione sul sito di LabTs (sezione Chronos, Memorie e storie solidali, www.laboratorioterzosettore.it): Nacqui, vivo, morirò di Camillo D’Angelo, Connessioni di Cristina di Modugno, In cammino di Maria Rosaria Faggiano, Dietro la vetta qualcuno ci aspetta di Carmelo Formica, Quando un "io" diventa "noi" di Myriam Giannico, Luci a San Siro di Guido Memo, Dalla terra si parte di Valeria Pecere, Scritti colorati di Giuseppe Pulito e da pensieri di Alessandro Distante.
[1] Cultura politica e democrazia. La formazione politica in Italia e nei partiti della sinistra europea, n. 17 di Materiali e atti del Crs, supplemento al n. 2 marzo-aprile 1990 di Democrazia e diritto.
[2] I riferimenti emersi dalla discussione negli incontri laboratoriali richiamano l’attenzione sulle motivazioni della scelta alla base dell’azione umana e richiamano alla mente quelle proposte da Max Weber con “l’Agire razionale rispetto allo scopo, agire razionale rispetto al valore e agire affettivo”, in Lo spirito protestante ed Etica del capitalismo.
[3] Per approfondimenti sulla relazione tra grande e piccola storia, vedi Storia e Storie di Vita, F. Ferrarotti, Laterza BA, 1997.