Antropologa scrittrice, d’origini ungheresi e rumene. Rifugiata politica in Francia negli anni ‘80, ha continuato gli studi di antropologia e sociologia alla Sorbona, cominciando nello stesso tempo a scrivere in francese. I suoi romanzi, novelle, raccolte di poesie rappresentano una ventina di libri pubblicati presso le edizioni Julliard, Fayard, Belfond, Transignum, Jacques Brémond, Robert Lafond. Ad essi, si aggiungono più di cento articoli editi in riviste e pubblicazioni collettive. Le sue opere sono tradotte in svedese, tedesco, catalano, spagnolo e cinese. Ha inoltre tradotto dall’ungherese in francese la poesia di Agota Kristof (Clous, Editions Zoé). Dopo aver vissuto quasi trent’anni a Parigi, benché spesso in viaggio, si è stabilita tre anni fa con la sua biblioteca in un paesino isolato, tra il Mercantour e il Mediterraneo, non lontano dalla frontiera italiana.
Italiana ma da vent’anni vive in Francia. Dopo aver studiato filosofia a Napoli, dove incontrò Jacques Derrida, si trasferì a Parigi e ne seguì i corsi, stabilendosi poi in Borgogna con un negozio di anticaglie. Il mestiere degli oggetti trovati fu l’imprevisto che ruppe con gli interessi di un tempo. Ma fu anche un modo inatteso, con gli incontri cui diede luogo, di intercettare di nuovo, e ritrovare, cose ed ambienti della vita di prima. Scrittura, traduzioni, l’esperienza del doppiaggio, l’allestimento di uno spettacolo teatrale furono alcune delle conseguenze che ne derivarono.
Abstract
In questo tempo di pandemia, l’umanità ha dovuto nascondere una metà del suo volto. La bocca che parla e gli occhi che guardano si trovano così separati. Quando incontrate qualcuno, vi rivolgete ai suoi occhi, poiché è l’unica parte che continui ad essere offerta. La percezione del volto cambia profondamente: solo gli occhi dicono ancora di un sentire, di un sorriso o di un’onda di tristezza. La voce soffocata e il respiro greve dietro la mascherina ci impediscono di « fare conoscenza » con la persona. L’incontro si concentra negli occhi. Impariamo un alfabeto più sottile, più segreto, un codice dello sguardo. Eppure ci turba, l’interruzione avvenuta tra la parola mascherata e il silenzio « parlante » degli occhi. Siamo più verticali: l’attenzione si sposta verso la parte alta del volto, mentre ciò che sta in basso sembra cancellarsi e svanire. Non resta che un frammento, in aggiunta ad altri pezzi di visioni che rifiutano di farsi raccontare da parole impregnate di « fine del mondo ». (Ri)cominciare. Ad ogni fine (in ogni vicolo cieco), lo sguardo cerca una via d’uscita.
Presentazione
Per Franco Battiato « in certi sguardi s’intravede l’infinito » (www.youtube.com). Per noi, l’infinitamente piccolo va cercato dove si eclissa: davanti ad occhi ingombri di immagini o, allora, dietro uno sguardo vuoto, perduto tra invisibile e visibile. Va cercato in una fitta corrispondenza tra italiano e francese.
Ci siamo scritte per alcune settimane e pezzi di quel dialogo hanno composto una cronaca minore del vedere. Ognuna delle due legge la lingua dell’altra. Si scrive nel rimando delle lingue, l’occhio ostaggio delle parole. Sviato da una canzone, un’immagine, un ricordo, lo sguardo si stacca, libero da ogni peso formale, per slanciarsi verso l’orizzonte del silenzio.
In luogo di una teoria generale della visione, abbiamo scelto la via degli « sguardi narranti », per tentare di catturare l’impercettibile da dentro il guardare. Le visioni frammentarie che ne risultano si riferiscono direttamente a quel che chiamiamo la vita. Lo sguardo non può testimoniarne se non laddove incontra la libertà. Per non restare prigioniero dell’epoca e di abitudini, procede di sbieco al modo di una biscia ed evita l’urto frontale.
Il nostro dialogo bilingue continua, anche attraverso la traduzione italiana del testo cui esso ha portato.
Lunedì, 3 maggio
Nel 1749, Denis Diderot scrive La lettera sui ciechi ad uso di quelli che ci vedono. Della visione, esplora l’assenza. Nel « vedere » è contenuto il « non -vedere », suo doppio oscuro ed evasione ben nota agli amanti. Poiché « l’amore è cieco », lo sguardo è innamorato. Nessun altro senso si vede attribuire un tale aggettivo. Sì, solo lo sguardo ha qualità di innamorato. Ma il non-vedere rinvia anche alla terribile colpa dell’incesto. Edipo si acceca quando non può più evitare di « vedere » (capire) l’abominio di cui è autore e vittima. Se abbiamo paura, chiudiamo gli occhi. Per non vedere, per non sapere. Eppure, il fatto di guardare, di vederci chiaro, non basta ad evitare il disastro.
Ogni scoperta invoca la forza dello sguardo per riempire gli occhi di sapere. Ma il progresso delle conoscenze non protegge dalla caduta. In Teeteto, Platone racconta di come Talete, intento ad osservare le stelle, sia precipitato in un pozzo. Il bruciante desiderio del cielo l’ha fatto cieco alle cose sparse sul suo cammino. Pure la vita di ogni giorno dipende da una certa cecità. Nonostante questo, lo sguardo dispone di una memoria speciale, è capace di registrare tracce ed impronte, come su di una « carta madre ». Così, saper riconoscere un volto che si conosce appena è parte di una tale potenza di visione. Si parla allora di « memoria visiva ». Lo sguardo, anche se dotato di un grande potere di memorizzazione, conserva sempre un angolo morto e forme diverse di impedimento. Diderot evoca i « miracoli della cecità » come rimedi all’angoscia e riparo dalla follia. « Scrivo nell’accecamento », dirà in una lettera a Sophie Volland.
« Lo sguardo è il fondo dell’uomo », scrive Walter Benjamin in Strada a senso unico. Questo fondo è costituito dalla nostra vita e dalla nostra morte ed è una visione cieca. Non è forse quel che gli occhi tentano di scacciare quando ci si sveglia senza poter ricordare il sogno che ci ha fatto gridare di terrore? Con Bataille, l’occhio diventa organo intimo esposto alle più gravi ferite. L’occhio ci fa vulnerabili e, talora, infermi. Ma questo stato avvicina l’uomo a Dio. « Dio stesso nella sua infermità è cieco quando vedere costituisce la mia propria infermità », così suona l’enigma in Bataille. Lo sguardo copre e risveglia nello stesso tempo.
Martedì, 18 maggio
La donna ha abitato per vent’anni la casa senza mai scendere in cantina. Fin dall’arrivo nel paese straniero, le frontiere di quello che lasciava si erano come spostate nei luoghi della nuova esistenza. Nella casa, avevano fissato soglie da non oltrepassare e stabilito quali stanze sarebbero restate chiuse. Fu una specie di esecuzione sommaria compiuta sul corpo stesso della casa ma nessuno protestò.
Forse perché da bambina, e prima delle separazioni, la donna viveva sotto il governo della madre fatto di antiche usanze. Le strade insonni coi cani in branchi, i libri avidi di altrove avevano provato a scagliarsi contro quell’ordine immobile. Niente però aveva potuto cancellare il senso accecante dei luoghi sottratti per sempre che le veniva dall’infanzia.
Il rifiuto di esplorare il sottosuolo della nuova casa fu definitivo fin dall’inizio, come i divieti di sua madre. La vita che si agitava dietro la feritoia contro cui premeva il marciapiede e nella cripta addossata al pozzo, che le era stata descritta, restò per sempre estranea. Nessun fatto, nessun dubbio, nessun figlio vennero mai ad alterare lo stato delle cose. La porta di legno blu, che dava sul vuoto in cui la casa si sorreggeva e affondava le sue ragioni, diventò l’abitudine di non essere aperta.
Fu presso la grande finestra sulla piazza, dove la fame di luce induceva l’attesa, che la donna si imbatté in quel luogo precluso. Lo trovò nel racconto spaventoso della nascita del potere degli uomini nel mondo. Il mito di Medea, ricostruito da Christa Wolf, mostrava come le viscere del palazzo reale di Corinto celassero un orrendo crimine e come il regno di Creonte si fondasse su di un infanticidio di cui si era provato a cancellare le tracce. Cosicché la violenza di quel potere dichiarava legge l’orrore e degradava il mistero a segreto. Attraverso la scrittura di una donna, Medea scendeva nel sottosuolo mitico ed epico della città per risalire con sguardo carico della fatica e del dolore di vedere. Dal sottosuolo di un’intuizione che smetteva di essere attonita per rispondere di un presente aperto dall’accadere, Medea restituiva al mondo realtà ed un’ innocenza fatta di coraggio di vivere.
La donna non ignorava che l’ultimo abitante della casa prima della sua venuta aveva sovvertito l’ordine del sopra e del sotto e distorto significati ed usi stabiliti. Seppellendosi ai piani alti di una solitudine di avanzi e scarti ammassati per anni, l’uomo aveva portato la rivolta nel chiuso delle stanze. Spalancando la porta su quei tristi fasti, lei aveva tremato alla vista di un diverso sentire divenuto opera e mondo, lo scandalo di una nuova innocenza esposto così al suo sguardo. La lezione del sottosuolo era contenuta intera in quelle immagini slegate. Non restava molto altro da sapere.
L’antica scala di pietra centrale intorno alla quale i muri si avvolgevano spariva sotto i pavimenti e le faceva l’effetto di un vortice fisso, stordendola. La donna amava il buio pesante di quegli spazi di pietra e legno, anche se non vi trovava niente dell’oscurità delle altre scale « che si precipitano fuori verso l’esterno » (Napoli porosa, W. Benjamin e A. Lacis), della sua vita di un tempo, a Sud. Nel buio le accadeva talora di piangere, davanti all’evidenza del desiderio ignoto che l’aveva assalita un giorno e perduta così lontano. Per via di quella scala che emergeva dal corpo granitico della città, dava poca importanza alle notizie che dicevano incrinate le fondamenta. Rideva dello spavento di genti vissute sempre al riparo da crolli e rovine.
Ogni notte col sonno, lei si murava dentro il sapere antico che le era paese: la cognizione della terra che trema e di popoli spaccati per natura, del tufo e della pietra sconvolti, le case aperte dal boato, i corpi tra le macerie. La donna apparteneva ad una civiltà edificata sul compianto e lo splendore di un suolo che sprofonda, ma questo accadde nella casa sconosciuta sotto altre latitudini, alla finestra mantenuta viva dall’insonnia e nel buio verticale della scala. Fu da lì che cominciò a vedere.
Mercoledì, 2 giugno
« Sguardi narranti »: la narrazione da dentro lo sguardo libera dalle frontiere dell’abitudine. Cosi un ritratto o un paesaggio ci turbano, se ci fanno sentire di colpo guardati. In francese, « dévisager » significa il movimento dello sguardo che disfa il volto in mille dettagli insospettati.
E il bambino osserva un fiore o un lombrico con la stessa intensità con cui « vede » dormendo creature fantastiche e mondi nascosti. Ogni mattina, al risveglio, il bambino considera con occhi sempre nuovi: insieme e nello stesso modo, un sogno e una cosa. Franco Battiato canta che il cinghiale bianco appare nelle notti di luna piena. Lo sguardo attraversa gli oggetti esistenti, affronta i miti e ingaggia lotte con i sogni. Nessuna teoria della vita eguaglia il cammino dell’uomo smarrito nel mezzo di una montagna innevata e che cerca un sentiero « alla cieca ». Franco Battiato è passato di là. I suoi occhi si sono chiusi per sempre, il 18 maggio 2021. « Bist du bei mir »? Come se, dopo la morte, quel che resta di una vita, è paesaggio. La Sicilia, per Battiato. Dio potrebbe essere paesaggio. Lo sguardo decifra l’amore, assorto nel volto o in un territorio visto dal cielo. Un legame intimo si stabilisce tra il luogo dove qualcuno si sente « a casa » (presso di sé) e il volto dell’essere amato.
Lo sguardo fatale fu inventato dai romantici. Non si dice « udito fatale » né « odorato fatale ». La fatalità tocca allo sguardo che chiama la tempesta, il colpo di fulmine, lo scatenamento della natura. Esso può essere folgorante come un cielo carico di temporale. Lo sguardo è pericoloso. In molte culture succede che la gente tema « il malocchio ».
L’uomo sa immergersi in apnea, cessando di respirare, può tapparsi le orecchie, smettendo di udire, ma anche se chiude gli occhi, anche nel buio, continua a vedere. Niente di quanto ci circonda appare allo sguardo come una « nuda realtà »: ogni cosa è reale perché aumentata di esperienze vissute, di immagini, di parole. Brigante e straccivendolo, lo sguardo spia, rovista, spoglia, ruba, occulta dettagli e resti. Che siano tesori oppure immondizie, con le cose ammassate nel tempo, lo sguardo evade in sogni luminosi di felicità e di bellezza. O, allora, nell’incubo. Lo sguardo è, ancora, speranza che ci viene data per quanti ne sono privi: « Nur um der Hoffnungslosen willen 1st uns die Hoffnung gegeben ».
Giovedì, 24 giugno
In Strada a senso unico, Benjamin evoca la teoria secondo cui l’albero o la finestra siano risentiti e presenti dove li vediamo. Se tale teoria è vera, leggiamo, « allora siamo letteralmente fuori di noi alla vista dell’essere amato ». Non accade nel chiuso del cervello o dentro l’occhio che vede, ma in un raccordo. Il fulgore di uno sguardo d’amore è percezione che squarta. Squartato è il vedente perché teso dall’esterno e portato al limite della cecità, occhio strappato a sé stesso. Squartato è il corpo amato senza più unità alcuna e trafugato in elenco : le rughe del volto, i segni sulla pelle, il modo d’incedere inelegante della donna, i vecchi abiti consunti. Le lacune ed i tratti discontinui destituiscono la figura amata di ogni supremazia e avvincono. La bellezza smette di essere totale e, impoverendosi nel concreto di un frammento, si libera dal peso dell’intero. Più durevoli e inflessibili di quanto la perfezione chiusa su sé stessa possa mai fare, gli elementi e i materiali letteralmente astratti dello sguardo e della realtà di un amore sono paesaggio pietrificato di rovine estatiche e crudeli.
Venerdì, 9 luglio
Un bambino soffriva di una malattia agli occhi che, dicevano i medici, rischiava di renderlo « mal-vedente ». Allora, la madre ungherese ha inventato un gioco che ha chiamato « szemtelenség ». La parola è dotata di un doppio senso: « essere privo di occhi » ma anche « essere insolente ». Un’espressione francese definisce lo stato d’insolenza come un « non aver freddo agli occhi » (« ne pas avoir froid aux yeux »). La donna bendava gli occhi del figlio e gl’insegnava ad orientarsi nell’appartamento, nel cortile e nel giardino, come fanno i ciechi. Più tardi, il bambino ha letto le novelle di Jorge Luis Borges e appreso la storia della sua cecità. Borges descrive splendidamente il giallo del giaguaro e l’oro delle tigri. Se i colori si cancellano nei suoi occhi malati, il giallo persiste anche quando sprofondano nelle tenebre. Sulla linea di frontiera che separa la vista dalla cecità, Borges scrive: « Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono fiume. È una tigre che mi dilania, ma io sono tigre, è un fuoco che mi consuma, ma io sono fuoco. Per nostra sventura il mondo è reale, ed io, per mia sventura sono Borges. »
Gli occhi di un bambino non sono ingombri d’umano, ma di cose e di sogni, fatti dello stesso materiale delle cose. Toccato dalla vita, la conosce in quanto gli viene incontro e lo colpisce. Ed i colpi diventano mondo suo, che gli appartiene e domina, solo se trascinati nella foresta del sogno, dove la preda viene ripulita, fissata, spogliata di ogni magia e sistemata in cassetti. Così il bambino è catturato e cattura la vita (Strada a senso unico, W. Benjamin). Per questo la città fu gelosa della strada dove aveva abitato e la stagione si trascinò nella notte insieme ai cani randagi.
Sabato, 17 luglio
Chi fissò l’ora e il giorno? Quando l’estate venne a cercarlo, era stanco di altezze. I cieli possono soffocare. Lui precipitò da quello che sovrasta lo slargo di aria e cemento che ci aveva visto bambini: furono i piedi a tradirlo. Restò con me nella sera che non finiva, riverso nello sguardo. Accade quando gli occhi diventano uguali a quello che vedono: allora le cose non smettono di stare. È apparizione, è spavento, è pietà.
La crepa rossa delle caviglie rotte fu quel che vidi e il tempo ritrovato delle corse folli e della pelle mischiata all’asfalto e al papavero. Il bianco dell’occhio caduto al suolo fu il distacco che seguì la fine dell’età dei giochi. Lo sguardo uguale, che quella vista impartiva, conteneva l’ansia di vivere che lo aveva spinto a cercare il vento e ad approfondire la terra. Conteneva il movente degli anni passati sotto la montagna, nella solitudine di chi non è partito. L’aveva fissata fino a dimenticarla, lungamente, fino a non sapere più niente di cosa fosse. Si era impadronito della sua forma chiara e chiedeva ora di essere guardato allo stesso modo, senza più domande.
Era rimasto nella casa di famiglia dove non c’era stanza che non fosse troppo vissuta. Cosa fare di quelle cose che non sapevano che stare al loro posto? Come nelle orbite vuote e nella bocca rappresa del racconto, solo affondare in esse e perdercisi dentro fu via di fuga. Precipitato dai cieli in cui era sepolto, senza ironia negli occhi né sulla bocca, senza una parola, chiamò con voce che sapemmo nostra ancor prima di darle un volto ed un nome. Un uomo a terra è inerme, incomparabile lo scandalo di chi « non si difende più » (Padre nostro, Pier Paolo Pasolini). Preda degli sguardi, il suo occhio bianco di pietra fu argine alla vista in piena che andava fino a lui. Pietra, ricordammo, era anche la bestemmia scagliata nel vuoto delle nostre rivolte infantili. Spalancò la porta della sua stanza di bambino e l’allegria esplose come allora.
Domenica, 25 luglio
In questo tempo di pandemia, l’umanità ha dovuto nascondere una metà del suo volto. La bocca che parla e gli occhi che guardano si trovano così separati. Quando incontrate qualcuno, vi rivolgete ai suoi occhi, poiché è l’unica parte che continui ad essere offerta. La percezione del volto cambia profondamente: solo gli occhi dicono ancora di un sentire, di un sorriso o di un’onda di tristezza. La voce soffocata e il respiro greve dietro la mascherina ci impediscono di « fare conoscenza » con la persona.
L’incontro si concentra negli occhi. Impariamo un alfabeto più sottile, più segreto, un codice dello sguardo. Eppure ci turba, l’interruzione avvenuta tra la parola mascherata e il silenzio « parlante » degli occhi. Siamo più verticali: l’attenzione si sposta verso la parte alta del volto, mentre ciò che sta in basso sembra cancellarsi e svanire. Non resta che un frammento, in aggiunta ad altri pezzi di visioni che rifiutano di farsi raccontare da parole impregnate di « fine del mondo ». (Ri)cominciare. Ad ogni fine (in ogni vicolo cieco), lo sguardo cerca una via d’uscita.