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Sguardo e sguardi narranti / Sous la direction d'AnnaMaria Calore / Vol.19 N.2 2021

La ricchezza del "consapevolmente sguardare"

AnnaMaria Calore

magma@analisiqualitativa.com

Socia Collaboratrice dell'Osservatorio dei Processi Comunicativi, fa parte del Comitato di Redazione della rivista elettronica M@GM@. Presidente dell'Associazione RaccontarsiRaccontando. Raccoglitrice volontaria di testimonianze e narrazioni individuali e sociali, progetta e conduce percorsi formativi sussidiari e gratuiti finalizzati alla maturità cognitiva ed affettiva dei giovani, in stretta collaborazione con i docenti, presso gli istituti scolastici di ogni ordine e grado. Supporta gli insegnanti degli I.C del Territorio Romano, nella maturazione cognitiva ed affettiva dei giovani in difesa della pace, della tolleranza e della diversità quali valori ineludibili.

 

Abstract

L’osservazione del cielo credo si stata una delle scoperte più significanti per l’uomo, unitamente alla scoperta del fuoco ed alla consapevolezza della morte. Poiché nel momento in cui i nostri preistorici progenitori hanno alzato, per la prima volta, lo sguardo dal suolo per rivolgerlo al cielo è nato il sentimento di meraviglia e stupore che ha contribuito a rendere la nostra evoluzione diversificata da quella degli altri mammiferi e,  indipendentemente dal continente nel quale le diverse culture, mitologie, scienze astronomiche e  percezioni astrologiche, si siano poi sviluppate nel tempo, a rendere la nostra specie capace di speculazioni filosofiche.

 

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«L’importanza sia nel tuo sguardo, non nella cosa guardata»

(André Gide scrittore francese premio Nobel per la letteratura anno 1947)

 

L’appello a pubblicazione di questo numero monografico della rivista on line M@GM@, inizia con lo stralcio di una delle più belle composizioni del Maestro Franco Battiato recentemente scomparso: «...ed è in certi sguardi che si intravede l’infinito…» (tratto dal brano Tutto l’universo obbedisce all’amore contenuto nell’album Fleurs 2 del 2008). La frase è stata scelta perché, nell’incrocio di sguardi orientati al vedere e non solo al guardare, è possibile esprimere sensazioni ed emozioni in modo più autentico ed intuitivo che non con l’uso delle parole dette o scritte che e comunque, se frutto di riflessione, possono solo aggiungere valore all’autenticità di quanto già percepito dagli sguardi. Ovviamente quando questo sia possibile.

 

Profonda ricchezza si può avvertire allorquando, avendone la consapevolezza, si passa dal “guardare” al “vedere” lasciando che, percezioni e significanze, possano invadere i nostri sensi e le nostre emozioni nel momento in cui decidiamo di “abbassare la guardia” (come noto, il verbo guardare  ha il significato di “stare in guardia” rispetto a ciò che stiamo osservando. Nella lingua italiana la consonante “s” inserita davanti al termine ha significato di negazione, quindi sguardo significa togliere la guardia verso quello che vogliamo vedere).

 

Del resto, le cose e gli accadimenti intorno a noi e sui quali il nostro sguardo - come pure l’incrocio di più sguardi - si può posare sono, da sempre e per quello che riguarda la cultura umana ed i comportamenti sociali, impastati di significanze e valori in modo pregnante nonché in stretto legame con la nostra capacità espressiva relativa al “linguaggio” utilizzato per esprimere, consapevolmente ed in modo più compiuto possibile, ciò che i cinque sensi nessuno escluso, sanno già percepire, spesso a nostra insaputa.

 

Questo accade perché, la gran parte delle parole che usiamo per esprimerci, possiedono un potere evocativo che ha profonde radici foniche nelle culture umane a partire dalle più antiche. Di conseguenza, ogni linguaggio che decidiamo di utilizzare più o meno consapevolmente (poetico, scientifico, musicale, amoroso, tecnico…) porta con sé questa memoria di uso e significanza che ha permesso, alla nostra cultura nei millenni, di potersi stratificare nel tempo ed all’etimologia - in quanto scienza capace di indicare l’origine di una parola come pure la derivazione di una parola a partire da un’altra  indagandone l’origine e l’evoluzione fonetica, morfologica e semantica -  di indicarci lo spessore significante di ogni termine che usiamo sia per parlare che per scrivere.

 

Cercare di far riemergere le significanze profonde di ciascun strato linguistico (anche di quelli ormai sovrapposti e semicancellati) può significare riuscire a far emergere, la significanza profonda radicata in tutti i linguaggi umani di tutti i tempi, quale potere evocativo che ogni parola utilizzata per definire oggetti, luoghi, sentimenti di cose e fatti porta con sé.

 

Non a caso il nostro sguardo, come pure gli sguardi degli altri, quando si posano su di un oggetto, un luogo, una persona oppure genericamente su di una “cosa” (“cosa” è  il vocabolo più indeterminato e più comprensivo della lingua italiana) sia reale che immaginaria, sia concreta che astratta e sia materiale che ideale, tende ad identificare il singolo “oggetto che sta colpendo la nostra attenzione” utilizzando la personale conoscenza di tutte le esperienze emotive e razionali fatte individualmente, oppure depositate in quell’affascinante calderone  psichico, definito da C. G. Jung “inconscio collettivo”, che si attiverebbe unitamente alla  individuale innata sensibilità percettiva ed intuitiva.

 

Quindi potremmo affermare che “una cosa”, pur nella sua indeterminatezza, indica una entità singola e concreta quale oggetto naturale o corporeo percepito attraverso le peculiarità individuali che ne permettono uno sguardo personale, ma capace di intrecciarsi ad altri sguardi in termini non solo di  “nome, parola, apparenza” ma legato alla “sostanza”. Sostanza percepita istintivamente e che ci chiama in causa (esiste un legame etimologico fra cosa e causa, corradicali, entrambe dal latino “causa”). E mi piace, a questo punto, arrivare a supporre che ogni ‘cosa’ sulla quale posiamo lo sguardo, possa e comunque chiamarci direttamente in causa direttamente e coerentemente rispetto al significato che potrebbe avere anche soltanto per noi stessi perché, come affermò Galileo Galilei nelle Lettere sulle macchie solari del 1612: «prima furon le cose e poi i nomi».

 

«Dio ha voluto che lo sguardo dell’uomo fosse la sola cosa che non potesse nascondere»

(Alexandre Dumas – Padre)

 

A questo punto non possiamo che porci una domanda: dato che ciascuno di noi, in modo più o meno consapevole possiede la capacità di volgere il proprio sguardo sulle cose ed in altri sguardi, quanto conta il desiderio di volerlo fare? Quindi non solo la capacità di volgere il proprio sguardo quanto, piuttosto, il desiderio di volerlo volgere? Lo scrittore Italo Calvino (15 ottobre 1923 – 19 settembre 1985) stimolato dalla poetica osservativa di Francis Ponge (27 marzo 1899 – 6 agosto 1988) conferisce al Signor Palomar, personaggio del suo romanzo (prima edizione nel 1983 a cura di Einaudi – Torino), la voglia insopprimibile di volgere il proprio sguardo sulle “cose” che lo circondano.

 

Il romanzo racconta le avventure del signor Palomar, persona silenziosa e solitaria che trascorre le proprie giornate osservando il mondo ed impegnando il proprio tempo nello scrutare i fenomeni della natura. Il nome del protagonista coincide con quello di Mount Palomar, dove si trova uno dei più importanti osservatori astronomici degli Stati Uniti, quasi a voler creare una continuità con gli antichi popoli che facevano, dell’osservazione dei fenomeni naturale e dell’osservazione della volta celeste, discendere miti, magie, narrazioni ma anche concreti orientamenti per i lunghi viaggi di naviganti, pastori e mercanti sia per mare che lungo le piste interminabili dei deserti. Ed è attraverso le osservazioni ossessive alla ricerca di ogni  piccolo particolare su ciò che Palomar osserva che, Calvino, conduce il lettore verso gli aspetti diversificati dell’esistenza: dal più scontato sorgere della luna sino al riflesso del sole  che tramonta sul mare.

 

Il signor Palomar ha una casa ed una famiglia, ma ama girovagare senza meta. In quanto persona taciturna, non ama socializzare, è un’anima sensibile più portata alla riflessione che non al confronto con gli altri. Perennemente immerso nei suoi silenzi, Palomar è però capace di prendere per mano il lettore, intrecciandone di fatto lo sguardo con il proprio per osservare, ad esempio e sempre con rinnovata meraviglia, il sorgere della luna in un tardo pomeriggio: «La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. È un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? È così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celesteLa luna è il più mutevole dei corpi dell’universo visibile, e il più regolare nelle sue complicate abitudini: non manca mai agli appuntamenti e puoi sempre aspettarla al varco, ma se la lasci in un posto la ritrovi sempre altrove, e se ricordi la sua faccia voltata in un certo modo, ecco che ha già cambiato posa, poco o molto. Comunque, a seguirla passo, non t’accorgi che impercettibilmente ti sta sfuggendo. Solo le nuvole intervengono a creare l’illusione d’una corsa e d’una metamorfosi rapide, o meglio, a dare una vistosa evidenza a ciò che altrimenti sfuggirebbe allo sguardo. Corre la nuvola, da grigia si fa lattiginosa e lucida, il cielo dietro è diventato nero, è notte, le stelle si sono accese, la luna è un grande specchio abbagliante che vola. Chi riconoscerebbe in lei quella di qualche ora fa? Ora è un lago di lucentezza che sprizza raggi tutt’intorno e trabocca nel buio un alone di freddo argento e inonda di luce bianca le strade dei nottambuli. Non c’è dubbio che quella che ora comincia è una splendida notte di plenilunio d’inverno. A questo punto, assicuratosi che la luna non ha più bisogno di lui, il signor Palomar torna a casa...».

 

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia»

(William Shakespeare “Amleto”)

 

Tutti i popoli di tutte le culture umane di tutti i tempi, volgendo lo sguardo al cielo ed ai fenomeni astronomici, hanno cercato, come già accennato, sia significanze sovraumane (magiche religiose) come pure di organizzare e prevedere i loro tempi  di vita, di lavoro nei campi, di orientamento nei lunghi viaggi per i mari lungo nuove rotte  o nei deserti sconfinati. Lo hanno fatto con diversi approcci e con diverse metodologie, comprese quelle della ricerca di cosmogonie che spiegassero la creazione dell’Universo come pure ricercando segnali predittivi per il destino degli umani. E non poteva essere altrimenti, poiché la notte buia con un cielo terso, sereno e stellato ha, sin dai tempi più antichi, avvolto tra stupore e mistero osservatori incantati da quella volta semisferica capace di avvolgere totalmente sguardo ed emozioni, ponendo interrogativi profondi. Il movimento apparente delle stelle erranti (chiamate così prima di sapere che fossero pianeti), fu uno dei primi aspetti di primitive osservazioni che affascinarono l’uomo, ispirandone l’idea di una regolarità frutto di un ordine cosmico che non poteva che essere attribuito a qualche divinità celeste.

 

Pastori, naviganti e le carovane di mercanti in viaggio, alzando lo sguardo verso il cielo notturno notavano come, alcune stelle durante la notte, percorressero il loro semicerchio sorgendo da est e poi, nel loro cammino, raggiungessero un’altezza massima nel cielo e ancora, lentamente, degradassero per tramontare ad ovest. Anche il Sole seguiva lo stesso schema. All’alba sorgeva ad est insieme ad alcune stelle che poi scomparivano a causa della luce solare, raggiungeva un massimo di altezza e poi si dirigeva verso ovest per tramontare. Sguardi attenti potevano notare che il Sole percorreva il cielo, nei vari periodi dell’anno, ad altezze diverse e che, in base al periodo stagionale, sorgeva e tramontava con gruppi diversi di stelle più o meno luminose ma tutte collocate nell’eclittica solare rispetto allo sfondo della semisfera celeste visibile.

 

Nei millenni, il Sole fu inevitabilmente abbinato ai cicli della natura e delle stagioni. L’osservazione attenta dei fenomeni celesti evidenziò che, lungo il cammino del Sole tra i vari gruppi di stelle, si potevano notare altri corpi celesti a luce fissa che si spostavano con una certa regolarità lungo il campo stellare dello zodiaco. Il maggiore di questi corpi splendenti era la Luna, con le sue fasi ricorrenti e ripetitive. La rotazione lenta e regolare del cielo, il ciclo delle stagioni in relazione al Sole e le fasi della Luna, quindi, portarono l’uomo verso un concetto di ordine cosmico comprensibile e prevedibile organizzato in costellazioni zodiacali già  cinquemila anni a.C. tra gli abitanti di un’area geografica situata tra i fiumi Tigri ed Eufrate, luogo  che, per la prima volta nella storia umana del mondo antico allora conosciuto, si organizzò in città stabili, con regole convenute e che arrivò ad inventare la  scrittura ed a diffondere la  propria cultura confrontandosi con altre culture.

 

«Le stelle sono buchi nel cielo dal quale filtra la luce dell’infinito»

(Confucio)

 

Anche al nostro sguardo moderno non risulta difficile, nonostante l’invadenza luminosa delle nostre città, individuare in una notte stellata una serie più o meno numerosa di stelle di brillantezza diversa. Alcune di esse poi sembrano raggrupparsi a formare una sorta di figure geometriche che lo sguardo umano, sin dai tempi più antichi, ha individuato ed idealizzato e che, nel progredire delle sue attività speculative, ha ravvisato quale dimora eterna di figure mitologiche e divinità. Le scienze astronomiche, a partire dallo sguardo scientifico di Galileo Galilei e del primo cannocchiale, hanno svelato e continuano a svelarci i segreti della volta celeste rimettendo in discussione credenze e certezze dogmatiche aprendosi a nuove scoperte e supposizioni sulla nostra collocazione nell’Universo.

 

Solo nel 1930, però, si  arrivati e per la prima volta - grazie all’astronomo belga  Eugène Joseph Delporte -  ad una lavoro di  organizzazione  scientifica delle costellazioni nel quale si delimitavano le attuali 88 costellazioni canoniche ed i loro confini in coordinate partendo,  come base, dalla descrizione del cielo  risalente addirittura  ai trattati di  Tolomeo (astronomo, astrologo e geografo greco antico autore di importanti testi di osservazioni della volta celeste, la principale delle quali è il trattato astronomico noto come “Almagesto”). Bisogna però ricordare che  lo stesso E. J. Delporte, astronomo presso l’Osservatorio Reale del Belgio, riconosce, nel suo trattato Demarcazione Scientifica delle Costellazioni come e grazie all’astrologia Caldea (i Caldei fu un popolo semita abitante la parte meridionale della Mesopotamia la cui esistenza è attestata fin dai testi assiri del IX secolo a.C.) «…ci fu un primo tentativo di suddividere in modo scientifico lo Zodiaco. Furono poi i greci che, mutuando dagli astrologi babilonesi l’astronomia matematica, canonizzarono nel tempo osservazioni e scoperte fino ad arrivare alla “Syntaxis” di Tolomeo. In conclusione, le costellazioni nascono quando nasce la scrittura, quando nasce la città, si sviluppano le prime forme d’arte geometriche, quando l’uomo inizia ad essere stabile in una terra per coltivarla, e si ferma ad osservare il cielo cercando segni divini per consolare, acquietare, la sua ossessione verso il futuro, nascono anche quando i mari iniziano ad essere solcati dalle navi e il commercio mette in comunicazione più genti. L’astronomia che oggi conosciamo come una scienza esatta si è indubbiamente originata anche assieme alla creazione delle costellazioni, una sorta di tentativo dell’uomo verso una “scrittura celeste” di riferimento. Nell’organizzare la nostra trattazione partiremo dalla cultura sumero-accadica per poi giungere alla cultura greco-latina, vedremo poi in breve come nei secoli successivi si siano tramandate le varie tradizioni sulle costellazioni. È acclarato che, ad esempio, l’origine dello Zodiaco sia da ascriversi ai sumeri-accadi, mentre, le altre rimanenti costellazioni sono una probabile creazione greca o comunque di qualche popolo di antichi navigatori che solcarono il Mediterraneo nell’età del Bronzo.» (Introduzione alla Demarcazione scientifica delle costellazioni)

 

Vorrei chiudere con una riflessione: l’osservazione del cielo credo si stata una delle scoperte più significanti per l’uomo, unitamente alla scoperta del fuoco ed alla consapevolezza della morte. Poiché nel momento in cui i nostri preistorici progenitori hanno alzato, per la prima volta, lo sguardo dal suolo per rivolgerlo al cielo è nato il sentimento di meraviglia e stupore che ha contribuito a rendere la nostra evoluzione diversificata da quella degli altri mammiferi e,  indipendentemente dal continente nel quale le diverse culture, mitologie, scienze astronomiche e  percezioni astrologiche, si siano poi sviluppate nel tempo, a rendere la nostra specie capace di speculazioni filosofiche.

 

«…chiedi all’orizzonte, adorno del fiorire delle stelle. In lui confido perché tu sappia chi sono…»

(Ibn Zamrak, - Granada 1333/1393)

 

L’ultimo omaggio in questo articolo, non può che andare ad Ibn Zamrak il quale, pur se di umili origini, divenne poeta alla corte dei Nasridi, dinastia regnante nel Sultanato di Granada. Alcuni versi delle sue più belle poesie decorano le pareti dei palazzi e le fontane dell’Alhambra. Ibn Zamrak sapeva trarre versi poetici dal suo sguardo amorevolmente attratto, dalla bellezza che riusciva a percepire intorno a sé; dall’orizzonte stellato alla falce dorata della luna  splendente nel cielo notturno, senza disdegnare di posare il proprio sguardo ed il proprio desiderio sulle labbra della persona amata.

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