Medico psichiatra, Ben-Gurion University, specializzato in Ipnosi e EMDR. Ha lavorato per anni in ospedali psichiatrici. Dal 2018 è responsabile di Psichiatria presso il Centro riabilitativo di Kephar Isun e Direttore del Centro diurno di Salute Mentale.
"Diritti... e rovescio" - Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo, progetto realizzato all'interno del laboratorio "Atelier d'Arte" del Centro Diurno Day Care dell'Ospedale di Bergamo.
Mi chiamo Alon, sono un giovane psichiatra proveniente da un’altrettanta giovane nazione quale è Israele, un piccolo paese circondato da nemici. Sin dal 1997 mi sono interessato e dedicato alla psichiatria. Prima di iniziare a fare lo psichiatra ho prestato servizio come medico dell'esercito israeliano nelle zone di combattimento. È stato durante quel periodo che ho capito di voler essere uno psichiatra, dopo tutto ciò che avevo visto e vissuto. Motivato soprattutto dalla volontà di allontanarmi dai combattimenti e dalle guerre, ho intrapreso un percorso psico-spirituale su me stesso e ho avuto conferma di voler diventare psichiatra.
Ricordo che, prima di entrare nel sistema psichiatrico, nutrivo forti pregiudizi negativi a riguardo e avevo molta paura perché ero convinto che fosse un sistema disumano. Invece, ciò che ha da subito colpito la mia attenzione quando nel 1997 sono entrato a far parte del mondo della psichiatria, è stato il contesto particolarmente umano: i malati mentali erano trattati con rispetto e dignità.
Appresi in questo modo che la riforma era iniziata circa sei anni prima, nel 1991, attraverso una legge riguardante in modo specifico i diritti dei malati mentali. Questa riforma, che contiene una seconda legge che risale al 1996, protagonista assoluta di queste due giornate, è ciò di cui vorrei parlarvi nel mio intervento, facendo successivamente riferimento ad una seconda riforma, meno conosciuta, rimasta per lo più in secondo piano ma non per quello meno importante, legata alla riabilitazione e alla psichiatria di comunità.
La prima riforma
In Israele, la prima riforma è stata attuata affinché i malati mentali venissero trattati come esseri umani; in particolare questo atto include la prima legge del 1991, grazie alla quale è stata negata l’autorizzazione ad un ricovero coatto a meno che non vi sia una “giusta causa”. In merito esiste una regolamentazione molto rigorosa: il paziente deve essere riconosciuto come affetto da un disagio psichico e chiaramente pericoloso affinché lo si possa ospedalizzare; inoltre, la persona ha il diritto di appellarsi e di essere rappresentata da un avvocato.
La legge prevede inizialmente un massimo di 7 giorni di ricovero in ospedale, al termine dei quali è possibile prolungare la permanenza di altri 7 giorni se necessario. Allo scadere dei 14 giorni, una commissione affiancata dagli avvocati si riunisce e decide del destino di questi pazienti. È possibile prolungare ancora di un mese. Allo scadere del periodo dei 14 giorni, si riunisce una commissione diversa dalla precedente, per evitare il pericolo di un accanimento, che deciderà rispetto all’eventuale prolungamento del ricovero. Mi sento di affermare con sicurezza che sono ammessi solo pazienti con reale pericolosità, per lo più schizofrenici in gravi condizioni. La commissione si presenta al Tribunale dove viene tenuta in considerazione l'opinione dello psichiatra, dell'avvocato del paziente e la voce stessa del paziente.
L’inizio dei diritti
La seconda legge importante aggiunge un aspetto non indifferente alla prima e risale al 1996: in particolare essa regola i diritti dei pazienti, come il diritto alla privacy, il diritto alla segretezza e soprattutto il diritto a dire “no”. È questa una legge che dà voce ai pazienti rispetto al diritto a rifiutarsi a qualsiasi trattamento. La legge dei diritti delle persone malate non è soltanto una legge psichiatrica, ma è una legge sanitaria generale: se per esempio un malato arriva al Pronto Soccorso e i medici pensano che abbia bisogno di un trattamento e lui lo rifiuta, quest’ultimo ha il diritto a non ricevere il trattamento, a meno che 3 medici specialisti (non necessariamente psichiatri) non dicano che di fronte al rifiuto la persona rimane in pericolo di vita. Nel 1996 quello che abbiamo fatto è stato mettere al centro il malato e non i medici.
Il paziente è al centro ed è l’esperto di se stesso, dunque è molto difficile ricoverarlo contro sua volontà. È molto difficile in psichiatria effettuare un TSO. La legge del 1996 ha portato maggiore sensibilità e consapevolezza.
Per quanto riguarda la contenzione meccanica, è prevista se il paziente presenta una situazione che comprende la violenza verso lo staff o verso se stesso. Lo si può legare al letto con l'obbligo, da parte dello psichiatra, di fare una valutazione di volta in volta, prima ogni ora e poi ogni tre ore. Nel lasso di tempo che trascorre tra una valutazione e l’altra, le infermiere o gli infermieri devono tenere controllate le condizioni del paziente, senza che sia una sorta di costante accompagnamento. Il parere dello psichiatra non è importante solo ai fini della contenzione, ma anche per tutta la durata della terapia.
Tuttavia, le recenti norme del Ministero della Salute hanno vietato la contenzione nei seguenti casi:
- come metodo punitivo;
- come metodo educativo;
- come metodo che vuole dettare un determinato comportamento;
- come metodo che non consenta alla persona di essere verbalmente violenta o aggressiva;
- come metodo per trattare uno stato di irrequietezza e ansietà che comunque non mette in pericolo la persona stessa o l’ambiente circostante;
- quando la persona si rifiuta di fare ciò che le viene detto di fare;
- quando la persona si rifiuta di seguire il trattamento psicofarmacologico;
- quando la persona viene ricoverata contro la propria volontà;
- in situazioni di mancanza di personale nel turno specifico;
- come metodo di utilizzo del potere per creare una certa disciplina tra i pazienti.
Secondo l’ultima legge, anche quando la persona sembra pericolosa per se stessa o per gli altri, anziché ricorrere alla contenzione meccanica, viene privilegiato l’isolamento in una stanza imbottita, senza stimoli né strumenti pericolosi. Ultimamente anche l’utilizzo di stanze di isolamento è andato sempre più diminuendo, alla luce della consapevolezza del fatto che nella società israeliana e quella occidentale questo metodo è sempre più vissuto come tabù; grazie a questa consapevolezza, negli ultimi anni sono emersi e stati denunciati alcuni, anche se eccezionali, casi di utilizzo del potere di questo metodo da parte dello psichiatra con motivazioni che alla fine risultavano ingiustificate. Oggi c’è un consenso rispetto all’inutilità della contenzione meccanica come metodo terapeutico e io mi auguro che venga vietata.
Di fatto, la contenzione meccanica è una modalità che risale al medioevo, per tranquillizzare una persona che sta soffrendo, utilizzata solo in alcuni ospedali psichiatrici.
Devo ammettere che è da molto che non vado in un ospedale psichiatrico (ci ho lavorato fino al 2000); dovrei chiedere a un mio collega per sapere come di fatto intervengano ora. Io non lavoro a contatto con gli ospedali psichiatrici; nei miei servizi non esiste la contenzione e qui vi riporto ciò che riferisce la legge.
La riabilitazione
Esiste infine una terza legge che riguarda la riabilitazione e che apre l’era della seconda riforma. Essa è stata applicata nel 2000, permettendo l’introduzione dell’approccio terapeutico e olistico nelle comunità. Dopo la fase acuta di ricovero in ospedale, i pazienti possono difatti recarsi presso una comunità e ricevere tutti quei servizi che ne favoriscano il reinserimento nella società; alcuni esempi sono l'aiuto finanziario, l'istruzione, il sostegno occupazionale, l’alloggio e le attività sociali.
Quanto detto finora ci permette di osservare l’esistenza di una trasformazione dal 2000 ad oggi, consistente nel passaggio da ospedale a comunità. Attualmente il tempo di ospedalizzazione è molto più breve e si concentra solo sulla cura della fase acuta della malattia, avvalendosi principalmente dell’uso di psicofarmaci e non della contenzione meccanica. Secondo quello che potrebbe essere definito il normale decorso delle cose, una volta che i sintomi – attraverso i quali una persona viene identificata come in stato di pericolo – scompaiono, questa viene trasferita all’interno di una clinica comunitaria dove può ricevere, senza stigma, tutti i servizi mirati alla sua reintegrazione nella società.
Il ruolo degli psichiatri, il lavoro interdisciplinare
Un altro importante cambiamento che sta avvenendo in Israele riguarda il ruolo dello psichiatra, che vede sempre più diminuire il suo campo d’azione. Il potere dei social workers (che non corrispondono alla figura dell’assistente sociale in Italia, ma sono più vicini ai counselor, i quali in Israele ricevono una formazione universitaria fino al dottorato), degli psicologi e delle pratiche olistiche risulta essere di gran lunga più influente.
È opportuno sottolineare a questo proposito come la seconda riforma riguardi non tanto la figura dello psichiatra, ma quella del social worker, coordinatore della cura nella fase acuta degli stati psicotici. La seconda riforma non parla tanto di ciò che gli psichiatri devono fare, ma piuttosto del ruolo dei social workers. Questo perché essi sono coloro che coordinano la presa in carico, costruiscono il progetto di vita e decidono come effettuare il reinserimento nella società. Nella comunità ci sono degli hostel, (appartamenti gestiti da social workers e da educatori per persone non in stato acuto). Se necessario, lo psichiatra viene chiamato e fa visita una volta ogni tanto, ma è il social worker che ha la responsabilità di tutto l’andamento, del rapporto con la famiglia e con la comunità.
Le Balance Homes
Attualmente esistono in Israele luoghi chiamati “Balance homes” (Letteralmente “Case di equilibrio”): sono piccole unità abitative aperte e situate in territori rurali popolati, che ospitano fino a 15 persone con disagio psichico (con una media di 10 ospiti per casa). Le Balance homes accolgono persone in situazioni psicotiche gravi, che non hanno bisogno di un posto chiuso. Le persone devono esplicitare il desiderio di essere accolte in queste case. L’ingresso e la permanenza nelle case sono solo volontari. In alcune Balance homes ci sono professionisti olistici, anche se non in tutte; questo riguarda la metodologia e l’approccio scelto dalla singola struttura. Lo psichiatra, che fa parte dello staff, partecipa circa una volta alla settimana e l’idea è di togliere gli psicofarmaci il più velocemente possibile.
All’interno di queste case, l’ambiente viene particolarmente curato da parte degli ospiti stessi in modo da diventare piacevole e casalingo, grazie anche alla possibilità di tenere con sé il loro animale domestico.
Ogni casa ha un coordinatore, solitamente counselor o psicologo (non psicoterapeuta poiché si tratta di un professionista che deve coordinare e non fare percorsi terapeutici specifici), che si occupa del buon funzionamento e dell’andamento generale. Il coordinatore viene affiancato da un team multidisciplinare composto da social workers, terapeuti di vario tipo (occupazionali, arte-terapeuti, danza o teatro terapeuti, pet therapists), e spesso da insegnanti di yoga, shiatsu e altre discipline olistiche.
In queste case sono presenti anche i “pari”, che svolgono il ruolo di accompagnatori dopo una breve formazione; per lo più essi sono persone uscite da una medesima situazione di disagio psichico.
Nelle Balance homes, inoltre, una delle principali attività è lo sport. Le attività proposte, a scelta, non sono obbligatorie e gli ospiti decidono autonomamente se parteciparvi, così come possono uscire e fare passeggiate con i loro cani in totale libertà. L’uscita libera e da soli non è prevista per i pazienti in grave stato psicotico, che escono accompagnati. Attualmente sono impegnato ad offrire le mie prestazioni all’interno di questo tipo di Balance homes, normali case aperte a tutti, situate in un quartiere di un insediamento rurale. I pazienti psicotici possono venire in questa casa, dove vengono accolti da un “peer” e iniziano la loro permanenza.
Nello specifico, la mia presenza in questa casa prevede che mi occupi del controllo della somministrazione dei farmaci ai pazienti. Mi reco alla casa una volta alla settimana, durante la quale svolgo colloqui individuali e di gruppo, rimanendo sempre in contatto con il coordinatore.
Un altro aspetto molto importante e significativo riguarda gli approcci seguiti, ovvero quello umanistico, quello sistemico e quello olistico. La psicoanalisi non ha spazio nelle situazioni psicotiche acute e questi altri approcci sono quelli vincenti. Per cui hanno tutti in comune l’essere in una dimensione di counseling per quanto riguarda l’accoglienza, l’ascolto attivo, il legame quanto più paritario possibile fra pazienti e professionisti e un lavoro più nel qui ed ora e relazionale.
Di solito, trascorsi circa tre mesi dall’arrivo nella casa, queste persone tornano a vivere nella società e nel loro ambiente senza alcuno stigma. Al giorno d'oggi, in Israele, molti pazienti preferiscono venire nelle Balance homes anziché recarsi negli ospedali che, per questo motivo, stanno diminuendo progressivamente. La situazione è oggi estremamente cambiata e la visione di chi è affetto da malattia mentale non è più accompagnata da stigma.
In Israele esiste un'altra struttura unica chiamata “Kfar Izun” (Villaggio dell’equilibrio): questo villaggio si trova vicino al mare, in una zona tranquilla che ricorda molto una spiaggia thailandese. Di solito in questo luogo si riuniscono i backpackers, ovvero giovani israeliani che hanno intrapreso viaggi nell’Oriente e tornando hanno portato con sé problemi di tipo psichico o di dipendenza da sostanze (o entrambi). Questi giovani si uniscono al Villaggio, dove prendono parte a gruppi di terapia che aderiscono a un approccio terapeutico olistico; sono accompagnati dalle figure professionali elencate in precedenza e per un breve periodo di tempo ricevono anche un sostegno psicofarmacologico. Dopo circa quattro mesi tornano in società, senza stigma e senza essere mai stati ricoverati in ospedale.
Quando il nemico è fuori
Secondo il mio parere personale, Israele si trova in una fase di forte crescita nei confronti di coloro che soffrono di disturbi mentali. Essendo un Paese che si trova tra l’Africa e l’Europa, deve progredire, svilupparsi e crescere ancora e ritengo che gli approcci umani e pratici che stiamo adottando siano validi e ne stiamo riscontrando successo. Ho detto “progredire” e “svilupparsi” perché siamo in una fase ancora di sviluppo: rispetto ad alcuni Paesi europei abbiamo sicuramente ancora molto da fare. Ho l'impressione che, in Europa, più si va verso il nord più aumentino i servizi, come accade, per esempio, con il Voice Dialogue in Finlandia. In generale, in Scandinavia c'è un welfare che noi studiamo come esempio. È come se andando verso il Polo Nord i servizi diventino più ordinati.
Israele è un Paese piccolo ed è sempre in stato di emergenza, ci sono problemi che hanno più urgenza di essere trattati. È un Paese circondato da nemici e il problema delle malattie mentali in particolare non ha tutto questo impatto, non rappresenta un’emergenza. Il nemico sta attorno, è fuori, non è dentro. Questo significa che ci sono altre urgenze e le persone che soffrono di malattia mentale sono all'ultimo posto. Essendo la situazione di sicurezza un problema, il budget è destinato maggiormente a quest’ultima.
Se da una parte le risorse sono ridotte, dall’altra ci si improvvisa, dando meno importanza al tema della malattia mentale, che risulta meno stigmatizzato, pur non sottovalutando la salute mentale in generale.
Quando il nemico è fuori, la follia è considerata fuori. In continuo stato di guerra, si sviluppa all’interno del Paese un senso di unitarietà e di solidarietà che diminuisce la distanza fra i professionisti e chi usufruisce dei servizi. A questo proposito, abbiamo notato che nelle situazioni di allerta e di attacco, quando suonano le sirene e bisogna andare in rifugio, i pazienti psichiatrici migliorano e addirittura si prendono cura degli operatori, spesso più vulnerabili. Star seduti tutti insieme, in pericolo, dentro un rifugio toglie le distinzioni. Non c'è un “noi” e un “loro” all’interno dei rifugi.
Tornando agli ospedali psichiatrici, non c'è tanto una distinzione tra personale e malati: per esempio, la mensa è condivisa e non si mangia separatamente. Non solo quindi la malattia mentale è il minore dei mali in Israele, ma la si affronta in maniera paritaria; è questa continua situazione esterna di lotta e pericolo che crea un forte “noi” interno, paradossalmente terapeutico.
In Israele c'è sempre stato questo “noi”: ci si dà del tu, c'è un livello di vicinanza e un modo di relazionarsi che non è dettato dal ruolo o dal titolo. Israele è un Paese non solo piccolo e circondato da nemici che deve creare e mantenere un “noi”, ma anche uno Stato dove in alcuni ambiti è rimasta segnata l’impronta dell'ideologia progressista dei pionieri socialisti che, sia nelle relazioni fra adulti sia nella relazione educativa, è molto contraria a qualsiasi forma di utilizzo del potere, ancor più se dettato dal ruolo, e contraria alla forma e alle apparenze.
Ringrazio Cecilia e tutti per questo invito.
Da sinistra a destra: Alon Ashman, il coordinatore di una Balance Home e un “peer”.
La casa vista da fuori.
Il terrazzo in una giornata di pioggia.
L’entrata al laboratorio artistico.
Un particolare dell'esterno.
Un particolare dell'esterno.
Un operatore olistico (shiatzu) ha appena finito un gruppo.