È stata professoressa ordinaria di Sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche dell’università di Catania. International corresponding editor della rivista Symbolic Interaction, è autrice, tra l’altro, di Pensiero sociologico e immagini della realtà (Il Prisma,1988), di Un caso di parricidio. Processo penale e costruzioni della realtà (Franco Angeli, 1994), e di Cornici, specchi e maschere. Interazionismo simbolico e comunicazione (Clueb, 2005). È curatrice e coautrice del testo collettaneo Un cuore di farfalla. Studi su disabilità fisica e stigma (Franco Angeli, 2009). È coautrice, insieme a Giuseppe Toscano, di Osservare, immaginare e scrivere (Kurumuny, 2017). Ha scritto diversi romanzi, tra cui: All’ombra dei fiori di jacaranda (Salani, 2013) e L’uroboro di corallo (Salani, 2017).
Isaia Alessio - L'insularità attraverso le immagini - Liceo Artistico Statale Emilio Greco, Catania - Quarta edizione Thrinakìa, premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia
1. Eccessi e unicità delle isole immaginate. Un’isola molto narrata
Separata dal resto del mondo, l’isola appare speciale: è un microcosmo che incuriosisce, attrae, e talvolta spaventa. Limite ed eccesso possono coesistervi. In Sardegna ci sono gli asini nani, nell’isola di Man ai gatti manca la coda, in Sicilia, e in diverse piccole isole del Mediterraneo, durante la preistoria vivevano elefanti nani. E i miti raccontano anche di spaventosi giganti: i Ciclopi, dall’unico grande occhio, che abitavano alle falde dell’Etna e si nutrivano di carne umana, ed Encelado, che imprigionato sotto il vulcano, rotolandosi per il dolore delle ferite, provocava terremoti e faceva sgorgare fiumi di lava col suo respiro infuocato. In Sardegna le Tombe dei Giganti, sepolcri dell’età nuragica, hanno ispirato la leggenda che si aggirassero per l’isola uomini enormi... Parossismi e contrasti: l’isola può essere Itaca, rassicurante patria a cui Odisseo cerca di tornare, e isole sono pure le sedi dei Lotofagi e di Circe, che inducono all’oblio e ostacolano il ritorno.
Nelle narrazioni più recenti non mancano gli esempi di isole misteriose e affascinanti: L’isola del tesoro, l’Isola che non c’è, di Peter Pan, l’isola di Robinson Crusoe, Utopia, l’isola ideale di Tommaso Moro, l’isola idilliaca di Paul et Virginie… La nostra fantasia si nutre di mondi circondati dal mare: terre inventate e anche luoghi che nella carta geografica esistono realmente, filtrati dall’autore che ce li mostra e ce li fa immaginare. L’Inghilterra di Jane Austen, delle sorelle Brönte, di Agatha Christie: tazze di tè, brughiera, dimore di campagna, fantasmi, biblioteche in legno di quercia... L’Irlanda di Edna O’Brien, chiusa in un cattolicesimo bigotto; il Giappone di Mishima e quello, ispirato ai manga, di Banana Yoshimoto. E anche la Sardegna scabra e ancestrale della Deledda, di Gavino Ledda, di Fois, della Murgia: Canne al vento, Padre padrone, In Sardegna non c’è il mare, l’Accabadora... Tra le isole narrate, la Sicilia occupa un posto di privilegio. L’Odissea,innanzi tutto: Scilla e Cariddi, Polifemo, Eolo, il re dei venti. E anche gli idilli agresti di Teocrito.
Sicilia come propaggine della penisola ellenica, Sicilia come Magna Grecia (v. Moe, 2002, pp. 42-43). I viaggiatori del nord Europa, nutriti dei valori legati al Romanticismo, vi giungevano attratti dalla sua “grecità”: templi, rovine, memorie del passato, pittoreschi scenari di vita agreste, e un erotismo che, nella loro visione, lasciava ampio spazio all’omosessualità (l’“amor greco”, appunto). Rifugiatosi a Taormina per sottrarsi al freddo della Germania, il barone von Gloeden immortalò nelle sue celebri fotografie giovinetti nudi, efebi in succinte tuniche incoronati di pampini come i pastori degli idilli di Teocrito. Foto emblematiche che ebbero successo nella Mitteleuropa e fecero convergere nella Trinacria, e in particolare a Taormina, intellettuali, esteti e turisti (v. Roccuzzo, 1992, pp. 44-47, 61-63). In una delle prime guide dell’isola, si legge: «I ragazzi sono una delle caratteristiche della Sicilia. Ce ne sono sempre a dozzine attorno agli stranieri. Nella provincia di Messina in particolare, si incontrano ragazzi belli come statue greche» (Shaden, 1905, cit. in Roccuzzo, 1992, p. 97). Immagini di una grecità di maniera, sbiadite nel tempo, che hanno lasciato spazio all’omofobia e al “gallismo” dello stereotipo affermatosi in seguito.
All’idea romantica della Trinacria quale Magna Grecia si sono sostituiti nuovi cliché di sicilianità: delitti d’onore, passioni ancestrali, gelosia, gentiluomini che assistono al declino della loro classe, lupare, fichidindia, sole, mare... Immagini fondate sulle narrazioni dei grandi scrittori dell’Ottocento e del Novecento che hanno reso celebre l’isola: Verga, Pirandello, De Roberto, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia… Romanzi e novelle cui hanno fatto da cassa di risonanza i film e le fiction televisive che vi si sono ispirati. Gli esempi potrebbero essere molti. Per quanto riguarda Verga, basata sulla novella Cavalleria rusticana (1880), abbiamo un’opera lirica musicata da Mascagni; ci sono poi il film La terra trema, di Visconti, del 1948, ispirato a I Malavoglia (1881), e lo sceneggiato televisivo Mastro don Gesualdo, trasmesso a puntate dalla Rai nel 1964. Il Bell’Antonio, di Vitaliano Brancati (1949), è stato portato sullo schermo da Bolognini nel 1960. Da Paolo il caldo, sempre di Brancati (1955), è stato tratto l’omonimo film di Marco Vicario del 1973.
Tra i romanzi proposti sullo schermo, spicca per notorietà Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), che ha ispirato l’omonimo film di Luchino Visconti (1963) interpretato da Alain Delon, Burt Lancaster e Claudia Cardinale, di cui poi il regista Corbucci e i comici Franchi e Ingrassia hanno realizzato una parodia: I figli del leopardo (1965). E grandissimo rilievo nel nutrire l’immaginario mondiale ha avuto Il padrino, il best seller di Mario Puzo che ha dato spunto a tre film, diretti da Francis Ford Coppola e interpretati da Marlon Brando: Il padrino (1972), Il padrino – parte II (1974), Il padrino – parte III (1990). La figura di Brando nel ruolo del protagonista viene tuttora riprodotta nelle t-shirt souvenir, e pizzerie e ristoranti che al Padrino fanno riferimento sono diffusi nel mondo: “Padrino’s Italian Restaurant”, negli Stati Uniti (Beaver, West Virginia); in Inghilterra, nel Kent, “Il Padrino Restaurant”; a Craiova, in Romania, “Il Padrino. Grill e Pizza”; in Turchia a Istanbul, “Ristorante Il Padrino”; a Pushkar, in India: “Il Padrino, Pizza Garden Restaurant”... Il romanzo di Puzo e i film di Coppolahanno proposto e continuano a proporre l’idea di una Sicilia affascinante e misteriosa che è sinonimo di mafia, in cui tutto (sentimenti, azioni, panorami) appare esasperato e idealtipico.
La “Sicilia”, quindi, come mondo a sé: unica, diversa. Questi alcuni suoi tratti. Per quanto riguarda l’indole degli abitanti: gattopardesca passività, e passioni che possono sfociare nel delitto. Per icostumi: arretratezza, importanza dell’“onore”, gallismo e celebrazione della virilità maschile, disprezzo per gli omosessuali, canoni antichi di pudore e di sottomissione per le donne “oneste” e condanna implacabile nei confronti delle “svergognate”. Per quanto riguarda l’ambiente fisico: sole, mare, aranci, limoni e fichidindia, palazzi barocchi... Raffigurazioni agevoli da trasmettere e facili da recepire.
L’isola ha visto negli ultimi decenni un fiorire di nuovi autori. Originario di Porto Empedocle, Camilleri nonostante i brani in dialetto (o forse grazie a essi), affascina lettori di tutta Italia con le imprese del commissario Montalbano in lotta contro il crimine: paesi affacciati sul mare, scenari “siciliani”, vicende di avidità e di passioni... le storie, attraverso la fiction televisiva, arrivano a spettatori di tutto il mondo e li attirano nei cosiddetti “luoghi di Montalbano”, divenuti ormai un’ambita meta turistica. Simonetta Agnello Hornby, cresciuta tra Agrigento e Palermo, e poi trapiantata a Londra, ambienta in una Sicilia paesana e rurale diversi dei suoi romanzi di successo, tradotti in diverse lingue.
Vi è però anche chi preferisce non parlare di Sicilia, o si tiene comunque lontano dai cliché (v. Traina, 2014, pp. 13-23). Viola Di Grado, una giovane scrittrice catanese, ad esempio, ambienta Settanta acrilico trenta lana (E/O, 2011) in Inghilterra, il suo Cuore cavo (E/O, 2013) si svolge in una Catania lontana dagli stereotipi, mentre Bambini di ferro (La nave di Teseo, 2016) introduce il lettore in un Giappone distopico, e Fuoco al cielo (La nave di Teseo, 2019) è ambientato in un villaggio al confine con la Siberia. Molta è però ancora la letteratura e molte sono le fiction che tendono a riproporre immagini di una Sicilia di maniera: storie di Cumpari Turiddu e Donna Lola, di mafia e di aristocrazia decadente, di gallismo provinciale, di passioni irrefrenabili e di morti ammazzati.
2. Stereotipi e realtà data per scontata
Ma “La Sicilia” esiste? O, meglio: perché si crede che “La Sicilia” esista? Secondo l’approccio sociologico del Costruzionismo, lo si crede perché si vuole crederci: perché è rassicurante continuare a vedere la realtà nel modo in cui si è appreso a vederla. Berger e Luckmann ([1966] 1969) mettono in luce come la realtà che a noi appare oggettiva, granitica, sia costituita da immagini che sono frutto di elaborazione umana: 1) gli individui attribuiscono significati agli oggetti (esteriorizzazione), 2) considerano poi tali significati non come frutto di costruzione umana ma come realtà oggettiva (oggettivazione), e 3) attraverso i processi di socializzazione, fanno propri tali significati, considerandoli indiscutibili e ovvi (interiorizzazione).
La “Sicilia” che noi conosciamo quindi, come tutti gli altri oggetti di cui abbiamo esperienza, è frutto di costruzione sociale. Non possiede una propria realtà ontologica, non esiste in natura, ma la sua immagine è opera di coloro che hanno contribuito a crearla. Ed è tanto più irrealistica quanto più gli elementi che la compongono, ingigantiti e cristallizzati, impediscono di mettere a fuoco le altre molteplici componenti dell’isola.
Gli stereotipi tendono a semplificare cogliendo, degli oggetti, soltanto alcuni elementi. Amplificano la portata di questi elementi (dilatazione orizzontale), ne aumentano il rilievo (verticalizzazione) e vi conferiscono caratteristiche di fissità (Perrotta, 1994, pp. 154-157). Abbiamo così l’immagine dello scozzese avaro: avaro al massimo, in ogni occasione, e che non può cambiare, del meridionale pigro, dell’italiano “spaghetti e mandolino”, della Francia raffinata, della Germania tecnologica, efficiente e crudele, della zitella acida. E per quanto riguarda la Sicilia, ad esempio, gli stereotipi del siciliano geloso e del siciliano mafioso: tutti i siciliani (dilatazione orizzontale), in misura massima (verticalizzazione), e sempre. Si tratta di immagini che attraggono perché essendo elementari non presuppongono sforzi di comprensione o senso critico. Cliché privi di complessità, scevri di sfumature. Narcotico per la mente.
Rassicurante narcotico: la postmodernità tipica dei nostri giorni provoca ansia. Cadute le metanarrazioni, tramontate le ideologie che davano senso alla vita, in una società globalizzata in cui si vede vacillare la propria identità, per trovare punti fermi si tenta il recupero delle radici, si celebrano le tradizioni (dialetto, piatti tipici, feste patronali), ci si appiglia a un passato che è spesso frutto di immaginazione, cedendo al fascino del primordialismo inventato (v. Perrotta, 2005, pp. 75-76).
Studiosi di letteratura e storici hanno denunciato e denunciano i luoghi comuni e le stereotipie presenti nei connotati tradizionalmente attribuiti all’isola (v. Di Gesù, 2015). Si tratta di un atteggiamento critico che negli ultimi anni raggiunge anche il grande pubblico. Con Non c’è più la Sicilia di una volta, pubblicato da Laterza nel 2016, ad esempio, lo scrittore e giornalista Gaetano Savatteri ottiene un buon successo affermando provocatoriamente di essere stanco di Gattopardi e di Padrini. E Giuseppe Rizzo, un giovane autore che vuole opporsi alla retorica della sicilianità, nel romanzo Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, pubblicato da Feltrinelli nel 2017, afferma: «La Sicilia non esiste, io lo so perché ci sono nato». Troviamo un intento simile anche in La Sicilia è un’isola per modo di dire (Minimum Fax, 2018), dove un altro giovane, Mario Fillioley, narra con piglio umoristico le proprie esperienze di “siciliano”. «Non c’è più la Sicilia di una volta, guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, un’isola per modo di dire...». Il fatto che messaggi di questo tipo coinvolgano un pubblico ampio potrebbe far supporre un fastidio per le immagini abusate, noia per la riproposizione di luoghi comuni triti e ritriti. La diffusione di testi del genere, però, potrebbe pure essere legata all’atteggiamento onnivoro del lettore che, attratto dai cliché, li ricerca e li apprezza comunque se ne parli. Persino una presa di distanze dalla “Sicilia” può attrarre quanti sono affascinati dalle immagini tradizionali: c’è il rischio che chi legge non si soffermi sulle critiche e apprezzi il testo solo perché fa riferimento agli stereotipi a cui è affezionato.
Berger e Luckmann, abbiamo visto, mettono in luce l’importanza della realtà data per scontata, i messaggi che attaccano tale realtà, mostrano gli etnometodologi, vengono fronteggiati facendo ricorso a metodi che ne neutralizzino la portata eversiva. Quando vi sia una dissonanza cognitiva (Festinger [1957] 1973) tra ciò che l’individuo crede e una nuova conoscenza che mette in crisi la sua realtà data per scontata, egli tende a reinterpretare la nuova conoscenza in modo da renderla coerente con le proprie credenze. È quindi possibile che le critiche restino sullo sfondo, appaiano come non rilevanti, e che il lettore le legga distrattamente, concentrandosi sulla narrazione di ciò che già conosce e trascurando il filo del ragionamento.
Il tradizionale perbenismo femminile, ad esempio, potrebbe essere confermato anche attraverso la sua negazione. Volevo i pantaloni, di Lara Cardella (Mondadori, 1989), racconta la storia di una ragazza che contestava il principio per cui i pantaloni le donne non potevano portarli. Un bestseller scritto da una giovane siciliana che narra di una ragazza siciliana: autrice e protagonista, quindi, che secondo il cliché dovrebbero essere sottomesse e timorate. Il romanzo non suscitò però scandalo, ebbe anzi un grande successo anche perché, muovendo un attacco al costume tradizionale, in effetti lo metteva a fuoco e lo sottolineava. Nel mostrare l’eccezione, ribadiva i connotati e la forza della regola. Un meccanismo analogo si può notare nel depliant Eventi della Feltrinelli di Catania (ottobre 2018) dove La domenica vestivi di rosso, il nuovo libro di Silvana Grasso (Marsilio, 2018), ambientato nel ’68, viene annunciato con una definizione che colpisce perché sembra un ossimoro: «Romanzo catanese in minigonna». Catanese e minigonna: tuffo nella tradizione e brivido della devianza.
3. Marchio “Sicilia”: i quattro vertici del diamante culturale
Si crede, in genere, che l’opera d’arte sia frutto del suo autore soltanto, che scaturisca solamente dalla sua fantasia, dalla sua sensibilità e dalla maniera in cui lui interpreta il mondo. Considerando il fenomeno con un’ottica sociologica, ci rendiamo conto però che non è così. In I mondi dell’arte Howard Becker ([1982] 2012) mette in luce come, oltre che dell’autore, l’opera d’arte sia frutto della rete di soggetti che, interagendo con lui, rendono possibile la sua produzione e la orientano. Il concetto di diamante culturale introdotto da Wendy Griswold ([1994] 2005) mostra come un oggetto culturale, oltre che al suo autore, sia collegato anche al mondo sociale in cui nasce e viene proposto, e alle esigenze di colui che ne fruisce. La Griswold propone l’immagine di un rombo (diamond, in inglese) di cui Creatore, Ricevitore, Mondo sociale, Oggetto culturale sono i quattro vertici, legati tra loro per il fatto che si influenzano reciprocamente.
L’autore di un romanzo è connesso, oltre che alla sua opera, al lettore e alle sue richieste, e al mondo sociale che rende possibile l’esistenza del libro. Mondo di cui fanno parte: stereotipi, mode, agenti letterari, editori, esigenze del mercato etc. Perché sia vendibile il libro deve attrarre, e deve avere un’identità che consenta di inquadrarlo in una categoria: il ricevitore vuole sapere cosa compra. Giuseppe Toscano (2017, pp. 100-101) mette in luce come gli scrittori migranti lamentino di poter scrivere soltanto romanzi intorno alle loro esperienze in quanto migranti. Vi è l’esigenza di muoversi in un mondo in cui tutto è catalogato e prevedibile, questo spiega il successo dei romanzi di genere: chi acquista un “giallo”, un “noir” o un “rosa”, sa già che troverà nel libro quel che desidera.
La Griswold ([1994] 2005, pp. 108-114) illustra il cammino percorso dall’oggetto culturale per giungereal ricevitore utilizzando uno schema proposto da Hirsch (1972). Vi è grande sovrabbondanza di offerta: nel sottosistema tecnico, gli aspiranti scrittori sono più di quanti il mercato possa assorbirne, per oltrepassare la barriera che porta al sottosistema manageriale, cioè alle case editrici, l’autore deve ottenere quindi che chi fa da filtro (agente letterario, talent scout) gli consenta di entrare: deve convincerlo che pubblicare la sua opera sarà vantaggioso. Chi fa da filtro potrebbe sottolineare l’importanza dell’originalità delle opere. Ad esempio, nel sito dell’agenzia letteraria Meucci (Meucciagency.com) si legge: «Il nostro obiettivo è provare a scoprire nuove voci (...) dotate di una forte originalità, per stile e contenuto...». Si tratta però di valori che è difficile realizzare. In un periodo in cui l’editoria è in crisi, gli editori (e quindi anche gli agenti che propongono gli autori alle case editrici) sono particolarmente vincolati nelle loro scelte: il romanzo deve potersi affermare nel mercato, e la gran parte dei lettori, impreparata ad apprezzare l’originalità, vuole stereotipi, desidera muoversi nella rassicurante realtà data per ovvia.
L’isola affascina. Gli autori siciliani e gli scrittori che parlano di Sicilia avvertono quindi una spinta, talvolta esplicitata chiaramente dagli editori, a fornire un prodotto tipico, facilmente inquadrabile come “siciliano”: dialetto, piatti tradizionali, panorami da cartolina. E personaggi dalla fisionomia antica, con la fissità di maschere: come se l’insularità fosse una malattia endemica, o un indelebile marchio di fabbrica. Per sottolineare la “sicilianità” del prodotto le case editrici agiscono sulla parte esterna dell’oggetto culturale romanzo, potremmo dire sul packaging, attraverso copertine, titoli, fascette e scritte. Sono le copertine, prima ancora del titolo, ad attirare l’attenzione e a rendere il libro visibile e accattivante. Possiamo quindi trovarvi panorami smaglianti, raffigurazioni di cibi e di altri elementi che richiamano l’immagine tradizionale della Sicilia.
Ecco alcuni esempi recenti. Cieli azzurri e mare blu in Il terzo relitto, di Barbara Bellomo (Salani, 2017) e nel mio L’uroboro di corallo, (Salani, 2017).Agrumi: un’arancia con infilzato un coltello da cucina e una goccia rossa (di succo o di sangue?) in Panza e prisenza, di Giuseppina Torregrossa (Mondadori, 2013), e, analogamente, un limone con un coltellaccio che stilla sangue in Mistero siciliano. Le indagini della zia Poldi, di Mario Giordano (Sperling e Kupfer, 2017; pubblicato nel 2015 in Germania col titolo Tante Poldi und die sizilianischen Löwen); un corpo femminile nudo ricoperto di fettine di arance e di limoni in L’assaggiatrice, della Torregrossa (Rubbettino, 2014), eun piatto con arance e altre arance accanto in La miscela segreta di casa Olivares, sempre della Torregrossa (Mondadori, 2015); un’arancia che ha una miccia accesa, ed è quindi una bomba, in Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, di Giuseppe Rizzo (Feltrinelli, 2013); un ramoscello carico di limoni nella quarta di copertina di Il terzo relitto di Barbara Bellomo (Salani, 2017). I tipici dolci a cupoletta bianca con sopra la ciliegia candita detti “minne di sant’Agata”, in Il conto delle minne, della Torregrossa (Mondadori, 2015). Le tradizionali “teste di moro” in ceramica di Caltagirone in Il basilico di palazzo Galletti, della Torregrossa (Mondadori, 2018), e nel mio L’uroboro di corallo (Salani, 2017).
Il brand “Sicilia” può anche essere annunciato nel titolo, facendo riferimento a elementi che richiamano l’isola.
Territorio:
Nato in Sicilia, di Enzo Russo (Mondadori, 1992; Cavallotto, 2013);
Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, di Giuseppe Rizzo (Feltrinelli, 2013);
Mistero siciliano. Le indagini della zia Poldi, di Mario Giordano, (Sperling e Kupfer, 2017; pubblicato nel 2015 in Germania col titolo Tante Poldi und die sizilianischen Löwen);
Sicilian tragedi, di Ottavio Cappellani (Mondadori, 2008);
Sicilian comedi, di Ottavio Cappellani (SEM, 2017);
Trinacria Park, di Massimo Maugeri (E/O, 2013)
Morte a Palermo, di Silvana La Spina (La Tartaruga, 1987);
L’ultimo treno per Catania, di Silvana La Spina (Bompiani, 1992);
Bagheria, di Dacia Maraini, (Rizzoli, 1993);
La gita a Tindari, di Andrea Camilleri (Sellerio, 2000);
Il re di Girgenti, di Andrea Camilleri, (Sellerio, 2001);
L’uomo che veniva da Messina, di Silvana La Spina (Giunti, 2015).
Dialetto:
La creata Antonia, di Silvana La Spina (Mondadori, 2001);
La mennulara, di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli, 2002);
Il conto delle minne, di Giuseppina Torregrossa (Mondadori, 2010);
Panza e prisenza, di Giuseppina Torregrossa (Mondadori, 2013);
Minchia di mare, di Arturo Belluardo (Elliot, 2017);
Picciridda di Catena Fiorello (Giunti, 2017);
Fimminedda, di Michele Guardì (Sperling & Kupfer, 2017).
Cibo:
Gli arancini di Montalbano, di Andrea Camilleri (Mondadori, 1999);
La pupa di zucchero, di Silvana Grasso (Rizzoli, 2001);
Il conto delle minne, di Giuseppina Torregrossa (Mondadori, 2010).
Architettura:
La stanza dello scirocco, di Domenico Campana (Sellerio, 1986);
Il Dammuso del Nibbio, di Stefano Ruggeri (Schena, 2015);
Le stanze dello scirocco di Cristina Cassar Scalia (Sperling e Kupfer, 2016);
Morte nel dammuso, di Andrea Ripamonti (Go Ware, 2018).
Anche le fascette apposte sul romanzo e le scritte che appaiono in copertina vengono talvolta utilizzate per annunciare e ribadire il brand “Sicilia”. Per esempio: «Nel mare delle Eolie un mistero di 2000 anni fa. Il caso perfetto per Isabella De Clio: professione archeologa», in Il terzo relitto. E, nell’Uroboro di corallo: «Una storia di cambiamento avvolta dai profumi della Sicilia». Nella fascetta c’è poi una frase tratta da una recensione apparsa su La Repubblica: «Rosalba Perrotta traccia con sottile ironia un inedito affresco della Sicilia...». Nella copertina di Il conto delle minne, si legge: «Un romanzo divertente pieno di quella intelligenza della vita che è la “sicilianità” al femminile...», tratto sempre da una recensione di La Repubblica. E nella quarta di copertina di Fimminedda: «Un’irresistibile commedia umana che fa rivivere il carattere, la voce e i colori di una Sicilia che resta nell’anima».
Si tratta di affermazioni basate sulle aspettative e sui gusti dei ricevitori dell’oggetto culturale romanzo (dei lettori, cioè), di cui si può trovare traccia nei giudizi espressi in alcuni blog letterari. In “Leggere a colori”, a proposito di Le stanze dello scirocco di Cristina Cassar Scalia, si dice «Quando si apre la prima pagina de Le stanze dello scirocco si sente subito un profumo di Sicilia che pervade la stanza in cui ci si trova»[1]. Nel commento a L’uroboro di corallo del blog “Voglio essere sommersa dai libri”, si legge: «I colori della Sicilia mi hanno completamente conquistata e trasportata in una terra che, purtroppo, non ho mai avuto modo di conoscere, ma che è piena di vita!»[2]; e, riguardo allo stesso libro, la blogger Libridinosa commenta: «avrebbe potuto avere il profumo dei limoni di Sicilia (…) si riduce ad una cassata con poco zucchero e della ricotta acidula»[3]. Profumo di Sicilia, colori della Sicilia, limoni, cassata… Aspettative e parametri dei ricevitori dell’oggetto culturale, valori presenti nel mondo sociale, elementidi cui i creatori devono tenere conto, sia che si sentano profondamente siciliani sia che, invece, considerino la loro identità come fluida, internazionale e complessa. Nella prima categoria possiamo inserire Giuseppina Torregrossa quando afferma: «la Sicilia per me è stato un amore totale… lo scirocco è quello che più di tutti fa leva su questo nucleo profondo che io sento proprio in fondo all’anima. È difficile da definire attraverso le parole però è come una radice che io ho e che… è come se si fosse staccato un pezzo di questa Terra e fosse dentro la mia anima»[4], mentre della seconda può essere rappresentativo Giuseppe Rizzo quando, in Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia (Feltrinelli, 2013), comunica: «La Sicilia non esiste, io lo so perché ci sono nato».
4. Per concludere: una testimonianza personale, e la lezione di Pirandello
Lacerare il velo che offusca e deforma la realtà è compito sia della buona letteratura che della sociologia (Perrotta, 2017). In Sicilia non è sempre estate, non imperversano passioni estreme, e non tutte le donne sono brune e con gli occhi ardenti. Mafia e lupare riguardano contesti ben precisi, e sceccarelli (cioè asinelli) e fichidindia non sono diffusi come si crede. Nell’isola di cui ho esperienza non dominano retaggi ancestrali: tradizione e novità coesistono, entrano in conflitto, e spesso si fondono tra loro. E allora? Allora, come mi pongo in quanto autrice di romanzi nei confronti dei miei lettori? Per soddisfare le aspettative di chi vuole “Sicilia” osservo e rifletto su cosa ci sia effettivamente di siciliano in me e intorno a me, in modo da proporlo in maniera non stereotipata. Metto così nelle mie narrazioni l’estate e il sole, ma anche l’inverno e i temporali: L’uroboro di corallo (Salani, 2017) inizia, l’antivigilia di Natale, proprio in un pomeriggio di pioggia e raffiche di vento. Tra i cibi, oltre alla pasta alla Norma, alla cassata e ai cannoli, introduco i cappelletti in brodo, la bavarese, il radicchio trevigiano; e presento pure piatti nuovi, frutto di creatività e sperimentazione. Il dialetto compare solo di tanto in tanto, e perlopiù in forme italianizzate, come accade adesso.
Cerco di proporre personaggi variegati, complessi, in cui elementi vecchi e nuovi si scontrano, si incontrano e si miscelano. In All’ombra dei fiori di jacaranda (Salani, 2013), zoppa e orfana, la siciliana Arabella (non Agatina, e neanche Santuzza) si costruisce una vita a sua misura: coltiva la propria mente, studia, viaggia, mette al mondo un figlio senza essere sposata… Nell’Uroboro di corallo, l’ultrasettantenne Anastasia, nata e cresciuta nell’isola, depressa per l’abbandono del marito, impara finalmente l’arte della disobbedienza (non è mai troppo tardi!) e pian piano si inventa una vita nuova. Nel raccontare storie che si svolgono in Sicilia, vorrei indurre il lettore a riflettere, a diffidare degli stereotipi, ad allargare la sua visuale. Accolgo in questo la lezione di Pirandello che mostra, in tutta la sua opera, la complessità variegata del reale e denuncia con vigore dissacratorio l’oppressione esercitata dai luoghi comuni e dai pregiudizi.
L’autore agrigentino scandalizza il suo pubblico, ne fa vacillare le certezze, capovolgendo i cliché, proponendo una Sicilia che non è “Sicilia”, creando personaggi che sono “uno, nessuno e centomila”: la vita, afferma, è fluida, non deve sclerotizzarsi in una forma. Il protagonista di Quando si è qualcuno (Pirandello, 1933), il celebre poeta prigioniero dell’immagine creata dai suoi estimatori, finisce col trasformarsi in monumento. «Bisognerebbe che la vita fosse invece come una piuma. Ma sì! Mantenere, continuamente, l’anima come in uno stato di fusione: per non farla rapprendere, irrigidire», auspica un personaggio di Diana e la Tuda ([1926] 1971, p. 76) e, nella stessa commedia, lo scultore Giuncano, ossessionato dalla loro fissità, finisce per distruggere le statue che lui stesso ha scolpito.
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Note