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Mythanalyse de l'insularité / Sous la direction de Orazio Maria Valastro - Hervé Fischer / Vol.17 N.1 2019

Identità scientifica e mito di appartenenza all’isola disciplinare: la dialettica dell’illuminismo, il naturale e l’artificiale razionalizzato

Francesco Paolo Pinello

francescopaolopinello@gmail.com

Cultore di Sociologia Generale e della Devianza presso l'Università degli Studi di Enna "Kore". Dopo essersi occupato, in alcune sue ricerche e in alcuni suoi saggi, con tecniche comparative e interdisciplinari non integrate, della questione del continuum soprannaturale - preternaturale - supernaturale - naturale - artificiale nel contesto della segmentazione operata mediante i concetti di grazia, ragione, libero arbitrio, istituzione e struttura sociale, ordine e mutamento sociale, devianza sociale cognitiva, oggi studia la tensione naturale - artificiale e, in modo particolare, la questione mente - cervello (e Intelligenza Artificiale), con focus sulla devianza sociale e su alcuni profili giuridici della criminalità.


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Angelo Grimaldi - L'insularité par les images - Lycée Emilio Greco, Catane - Quatrième édition Thrinakìa, prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques, dédiées à la Sicile

Chiave di lettura

 

I concetti e le istituzioni sociali prendono le distanze dalla natura, per dominarla, per esorcizzare la paura e per controllare la violenza. Ma è nel loro tendere alla totale e totalitaria razionalizzazione e intellettualizzazione che riemerge e si riafferma il dominio della natura, sia come «spirito umano» sia come nuovo genere di barbarie (si pensi alla distanza dai problemi reali e quotidiani con la quale sono oggi percepiti, dai cittadini italiani, il concetto di Unione europea e le istituzioni dell’Unione, alla nuova barbarie dei lager libici in cui sono detenuti i migranti e all’emergere di nuove sensibilità «spirituali» collettive riguardo alla democrazia e ai diritti umani). Questa aporia, per Horkheimer e Adorno, è nella genealogia del potere ed è riconducibile all’impenetrabile unità di società e dominio.

 

In una contemporaneità in cui coesistono intelligenza naturale e intelligenza artificiale, con la seconda che strappa sempre più tessuto scientifico, tecnologico e socio-economico alla prima, ritornare a riflettere sui frammenti della «Dialettica dell’illuminismo» consente un vantaggio teorico, perché ci fornisce strumenti per pensare, in modo critico, la società in cui viviamo e che ci vive dentro e nella quale siamo interamente sommersi, e per pensare, in modo critico, anche le categorie sociologiche che utilizziamo per spiegarla e per comprenderla. Né il totalitarismo della «gabbia d’acciaio», ma neanche quello della natura: è questa la conclusione alla quale giunge il presente contributo, restando comunque aperta la ricerca.

 

1. L’autodistruzione dell’illuminismo e l’ingenuo compiacimento che nasce dall’ipostatizzazione isolante dell’aporia originaria e irrisolvibile della ragione umana

 

Horkheimer e Adorno nel 1947, con la «Dialettica dell’illuminismo» (l’opera fu scritta in esilio, fra il 1942 e il 1944), si sono proposti di comprendere perché «l’umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 3, cfr. Weber 2004): i totalitarismi (scrive Weber che, se volessimo, potremmo sapere tutto sul tram). Da qui la riflessione sulla genealogia del potere e sull’impenetrabile unità di società e dominio. È utile ricordare che, per Weber, l’Occidente ha avuto uno «sviluppo particolare», caratterizzato da particolari processi di razionalizzazione (Sonderentwicklung, Naturwissenschaften, Geisteswissenschaften, Weber, 2004/1919).

 

Qui per illuminismo deve intendersi non l’età dei lumi ma, alla maniera di Weber, il processo di intellettualizzazione occidentale, Intellektualisierungsprozesses, zunehmende Inttellektualisierung und Rationalisierung. Ma «L’illuminismo è più che illuminismo; natura che si fa udire nella sua estraniazione» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944,p. 47) e che si riflette e si perpetua nei meccanismi coattivi del pensiero, perché «senza il dominio della natura […] non ci sarebbe spirito» (ibidem). Resa distante dal concetto e dalle istituzioni sociali (che mediano razionalmente l’ingiustizia sociale e che si mantengono identici in situazioni diverse), per dominarla, la natura continua a invocare se stessa, proprio con il pensiero e con le istituzioni sociali, tra vincoli istituzionali e cognitivi direbbe Giovanni Leghissa (Leghissa, 2016), non in quanto mana, come nella preistoria, «ma come qualcosa di mutilo e cieco» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944,p. 47). In questo senso, l’illuminismo è, in linea di principio, opposto al suo stesso dominio regredito a mitologia, perché con la regressione alla mitologia riemerge il dominio della natura. E con la natura non riemerge soltanto lo «spirito» umano, ma anche la barbarie umana. Si tratta della dialettica artificiale/naturale.

 

«L’aporia a cui ci trovammo di fronte nel nostro lavoro», scrivono i due autori, «si rivelò così come il primo oggetto che dovevamo studiare: l’autodistruzione dell’illuminismo» (ibidem, p. 5), autodistruzione che appartiene alla razionalità fin dall’inizio. L’origine di tale aporia, in termini di doppia evoluzione biologica e culturale (sulla doppia evoluzione, Tomasello, 2005/1999), risiede, per la «Dialettica dell’illuminismo», nell’inevitabile separazione che ci portiamo dietro sin dalla preistoria, di segno naturale e immagine («realtà bruta» e «immagine mitica», «chiarezza della formula scientifica», Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 35). «Il Sé, che dopo la metodica estinzione di ogni segno naturale, concepito come mitico, non doveva più essere corpo, né sangue, né anima e nemmeno io naturale, costituì – sublimato a soggetto trascendentale o logico – il punto di riferimento della ragione, dell’istanza legiferante dell’agire» (ibidem, p. 37).

 

Dietro questi concetti, come dietro il relativismo dei valori di Weber (Monceri, 1999), c’è Friedrich Nietzsche, e c’è pure Arthur Schopenhauer che, anche lui, influenzò Weber con i suoi scritti sulla religione. «L’esistenza puramente naturale, animale e vegetativa, era per la civiltà l’assoluto pericolo. Il comportamento mimetico, mitico e metafisico, apparvero uno dopo l’altro come ère superate, ricadere al livello delle quali era associato al terrore che il Sé potesse riconvertirsi in quella natura da cui si era estraniato con sforzo indicibile, e che gli ispirava, proprio per questo, un indicibile orrore. Il ricordo vivo della preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni, con le pene più tremende» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 38).

 

Ma se l’aporia dell’«illuminismo» è ipostatizzata con ingenuo compiacimento, ognuno dei due principi di essa isolati tende alla distruzione della verità, circa la razionalità. Nella separazione dei due principi si è aperto l’abisso che la filosofia ha percepito, individuato e trattato nel rapporto di intuizione e concetto (detta con Weber, che si manteneva sempre a debita distanza tanto dal mito positivista delle leggi sociali quanto dall’irrazionalismo individualistico, in una posizione storica e storicizzabile, Begriff rationale Experiment). A «più riprese, ma invano, essa ha cercato di colmarlo: essa è definita, anzi, proprio da questo tentativo» (ibidem, p. 26; cfr. Weber, 2004/1919).

 

2. La presa di coscienza di sé dell’illuminismo e l’importanza della letteratura, del mito, dell’arte e della filosofia per la ricerca sociale

 

L’«illuminismo» – il processo di intellettualizzazione sul quale ha a lungo riflettuto Weber – pertanto, «deve prendere coscienza di sé, se non si vuole che gli uomini siano completamente traditi. Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 7). Criticato e dialettizzato dai due autori, insomma, l’illuminismo che deve prendere coscienza di sé, della mitologia che ha costruito, altro non era, quando essi scrivevano, se non quell’ideale di sistema dei «Principia Mathematica» caro a Russell e Whitehead (per un riferimento a Russell, ibidem, p. 15), dal quale si può dedurre tutto e ogni cosa in modo unitario e totalitario (Whitehead - Russell, 1910-1912-1913), messo in crisi da Kurt Gödel con il suo teorema dell’incompletezza (Hofstadter, 1985/1979).

 

Anche l’illuminismo di chi fa ricerca sociale, se non vuole tradire completamente gli uomini, deve prendere coscienza di sé, deve agire per la sua autolimitazione illuminata, affinché si realizzino le sue speranze. Ma «Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina nella letteratura» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 15). L’uno è l’isola totale, che non può fare a meno di Ulisse e che ha i suoi Narcisi/narcisi e la sua Kore. Ecco il perché dell’importanza del recupero della letteratura, del mito, dell’arte e della filosofia per la ricerca sociale (Pinello, 20151-2). C’è bisogno di qualcosa in più, infatti, di astratti modelli interpretativi e di sterili dati empirici.

 

L’opera d’arte, al tempo in cui scrivono i due autori, facendo salva la critica ai prodotti estetici dell’«industria igienica», a partire da quelli del cinema e della radio, aveva ancora in comune con la magia il fatto di istituire un cerchio proprio e in sé concluso, che si sottraeva al contesto della realtà profana, e in cui vigevano leggi particolari. Oggi invece tutta l’arte sta diventando sempre più algoritmica («Arte algoritmica», estetica orizzontale), con il gradimento del mercato. Non si sottrae più al contesto della realtà profana, anzi diventa tutt’uno con esso. «Come il primo atto del mago nella cerimonia era quello di definire ed isolare, da tutto il mondo circostante, il luogo in cui dovevano agire le forze sacre», scrivono i due autori, «così, in ogni opera d’arte, il suo ambito si stacca nettamente dalla realtà» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 26). E ancora: «L’arte comincia, secondo Schelling, dove il sapere pianta l’uomo in asso. Essa è per lui “il modello della scienza, e dove è l’arte, la scienza deve ancora arrivare”». In realtà sta accadendo il contrario. «La separazione di immagine e segno», secondo la dottrina di Schelling, continuano, «viene “interamente abolita da ogni singola rappresentazione artistica”. A questa fiducia nell’arte [che per Weber, al contrario della scienza, non invecchia mai, è eternamente giovane, Weber 2004/1919] il mondo borghese fu disposto solo di rado. Quando pose dei limiti al sapere, ciò non avvenne, di regola, per far posto all’arte, ma alla fede» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 27).

 

3. Il mito dell’appartenenza a determinati settori di ricerca, l’identità delle discipline di appartenenza e la razionalità delle scelte politiche

 

Nella premessa all’opera, i due autori hanno scritto che è stato per loro subito chiaro che l’appartenenza a determinati settori di ricerca e l’identità delle discipline di appartenenza costituivano un ostacolo, ai fini della comprensione della questione sulla quale avevano acceso il focus. In un primo momento, in base alla loro vocazione alla scienza (scienza che, alla maniera di Weber, costituisce un frammento non isolato del processo di intellettualizzazione – dell’«illuminismo» –, il frammento più importante, Weber, 2004/1919), avevano creduto di poter seguire «la falsariga dell’organizzazione scientifica» delle isole del sapere, nel senso che il loro contributo «si sarebbe limitato essenzialmente alla critica o alla continuazione di dottrine particolari», attenendosi «alle discipline tradizionali: sociologia, psicologia e gnoseologia», così come ancora oggi accade di regola in ambito accademico (si veda il sistema dell’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento universitario). Ma nello «sfacelo della civiltà borghese» non era entrata in crisi «solo l’organizzazione, ma il senso stesso della scienza». La vita pubblica aveva raggiunto uno stadio dove il pensiero si trasformava «inevitabilmente in merce e la lingua in un imbonimento della medesima» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, pp. 3-4). «L’espulsione del pensiero dalla logica» ratificava, «nell’aula universitaria, la reificazione dell’uomo nella fabbrica e nell’ufficio» (ibidem, p. 38). Oggi ratifica la reificazione dell’uomo nella fabbrica della realtà digitale, aumentata, amplificata, bionica, robotizzata, artificiale e della memoria esterna all’uomo. Da qui la denuncia, da parte dei due autori, della dimensione mitologica della ragione che tutto razionalizza, separa, amministra, contrattualizza e commercializza; della perdita di capacità teoretica del pensiero; la proposta di una visione filosofica d’insieme frammentaria (fatta di frammenti, fra i quali la scienza), non sistematica e irrimediabilmente incompleta (coscienza e consapevolezza che può derivare dal teorema di Gödel), e la formulazione della teoria critica(che va intesa come «illuminazione sul dominio veicolato dall’illuminismo»); la decisione, maturata nel 1922-23, di uscire fuori dall’università e di fondare un istituto autonomo (Institut für Sozialforschung) per la ricerca sociale, noto come Scuola di Francoforte, che mantenesse comunque un collegamento col mondo accademico e con le sue strutture e sovrastrutture, facendosene coscienza e consapevolezza critica.

 

A proposito degli indirizzi di pensiero dominanti nella ricerca sociale dell’università e del mondo accademico, i due scrivono: «Nella convinzione che, senza limitarsi strettamente all’accertamento dei fatti e al calcolo delle probabilità, lo spirito conoscente sarebbe troppo esposto alla ciarlataneria e alla superstizione, esso prepara il terreno inaridito ad accogliere avidamente superstizione e ciarlataneria. Come la proibizione ha sempre aperto l’accesso al prodotto più nocivo, così il divieto dell’immaginazione teoretica apre la strada alla follia politica. E nella misura in cui gli uomini non sono ancora caduti in sua balia, vengono privati dai meccanismi di censura (esterni o inculcati nel loro intimo) dei mezzi necessari per resistere» (ibidem, p. 5). Certamente i modelli statistici sono importantissimi per la sociologia, ma è anche vero che, come sostengono Horkheimer e Adorno, essi rendono il terreno inaridito, aprendo la strada alla follia politica.

 

Joseph E. Stiglitz, nella «Prefazione» al suo «La globalizzazione e i suoi oppositori», decenni dopo la «Dialettica dell’illuminismo»(il muro di Berlino era già caduto da tredici anni), trattando di certe degenerazioni politiche della globalizzazione, e cioè di certe degenerazioni dovute alle politiche di eliminazione delle barriere al libero commercio e di maggiore integrazione tra le economie nazionali, scrive di aver preso atto, in prima persona, «degli effetti devastanti che la globalizzazione può avere sui paesi in via di sviluppo e, in particolare, sui poveri che vi abitano», molti dei quali oggi (nel 2018), sono costretti a migrare, per motivi politici, religiosi, economici e climatici. La narrazione dei sovranisti e dei populisti italiani, europei e americani della seconda decade del ventunesimo secolo, a questo proposito, è incardinata sulle parole chiave: invasione demografica, criminalità, sicurezza, islamizzazione dell’Occidente, radici cristiane, terrorismo, dazi commerciali. Il problema per l’autore, che scrive nel 2002, non è né teorico né tecnico, non ha cioè a che fare con le isole del sapere, con le discipline scientifiche e accademiche di pertinenza e di appartenenza, ma è politico, e consiste nel «modo in cui essa [e cioè la globalizzazione] è gestita», perché «sono stati stabiliti interventi sbagliati che, invece di risolvere il problema, favorivano chi aveva in mano il potere». «Anche se l’economia può sembrare un argomento arido e distante dalla realtà, buone politiche economiche avrebbero il potere di cambiare la vita di questa povera gente. […] Sapevo che le idee sono importanti, ma che conta anche la politica, e uno dei miei compiti era persuadere gli altri del fatto che ciò che auspicavo era giusto non soltanto dal punto di vista politico, ma anche da quello economico. Tuttavia, quando ho cominciato a occuparmi di questioni internazionali, ho scoperto che la buona economia e la buona politica non erano tenute in grande considerazione, soprattutto all’FMI. […] Nella vita di tutti i giorni, nessuno di noi seguirebbe ciecamente un’idea senza chiedere consiglio a qualcun’altro, ma agli stati di tutto il mondo si chiedeva di fare proprio questo» (Stiglitz, 2002, pp. IX-XIII).

 

Con ciò, prendendo a pretesto Stiglitz, non voglio sostenere che le scienze, le tecniche e le tecnologie siano neutrali e che le cause del nuovo genere di barbariedel quale trattano Horkheimer e Adorno, o dell’abuso virale, politico e religioso della questione dei migranti che sta sfociando oggi in una nuova barbarie, o delle follie politiche, siano da ricercare soltanto nelle cattive scelte razionali dei politici che hanno governato la globalizzazione, compresa quella dal basso (sulla globalizzazione dal basso, Ambrosini, 2008), commissionando e/o utilizzando ricerche e dati statistici a loro uso e consumo, in base al principio che l’unica cosa che conta è credere ciecamente in ciò che si fa. Infatti, «Per orientarci occorre innanzitutto farla finita con le false innocenze, con la favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini decidono di impiegare nel bene o nel male» (Galimberti, 2003, p. 34). Si veda a questo proposito anche il concetto di cultura proposto da Luigi Anolli (Anolli, 2004). «La condanna naturale degli uomini è oggi inseparabile dal progresso sociale [ progresso / regresso ]. L’aumento della produttività economica, che genera, da un lato, le condizioni di un mondo più giusto, procura, dall’altra parte, all’apparato tecnico e ai gruppi sociali che ne dispongono, una immensa superiorità sul resto della popolazione. Il singolo, di fronte alle potenze economiche, è ridotto a zero» (Horkheimer - Adorno, 2010, p. 6). Alle potenze economico-finanziarie vanno aggiunte quelle tecnologiche (Microsoft, Apple, Samsung, Huawey, Internet, Google, Facebook, WhatsApp, Instagram, Twitter ecc.). Tutto ciò porta «a un livello finora mai raggiunto il dominio della società sulla natura» (ibidem, p. 6) e, in modo eminente, sull’uomo. «La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce allo stesso tempo», (ibidem, p. 7). «Ma così la natura, che è la vera autoconservazione, è scatenata dal processo che si era impegnato a scacciarla, nell’individuo come nel destino collettivo di crisi e di guerra» e «Si realizza l’angoscia più antica, quella di perdere il proprio nome» (ibidem, p. 38). Da qui il successo del mantra del ritorno al cittadino, ai bisogni concreti del cittadino, e di certa politica populista e sovranista di oggi, che non vuole essere etichettata di destra o razzista o fascista o di sinistra, in base alla pretesa, propagandata, che tutto ciò appartiene esclusivamente al passato e va archiviato. La memoria è una memoria collettiva esterna digitale, alla quale ognuno può accedere e dalla quale può attingere in qualsiasi momento e che, per questo motivo, non c’è bisogno che venga immagazzinata naturalmente, nella mente naturale di ciascuno. Le narrazioni, diffuse in modo virale sui social e mediante i social (Spin doctor, esperti di marketing digitale e social media intelligence), sono invece quotidiane e possono fare a meno della memoria, perché riguardano i bisogni, personali e collettivi, e le pulsioni dell’attimo in cui si narra, rilevati e pilotati mediante sondaggi di opinione. Tali narrazioni, per essere funzionali, necessitano di una memoria esterna e digitale, sulla quale può operare il “meccanismo” del copia e incolla.

 

Si aggiunga a quanto sin qui detto, la crescente disillusione, testimoniata da Jon Elster, circa le «capacità della ragione, tanto degli attori sociali quanto dei ricercatori che osservano quegli attori». In «Salomonic Judgments», l’autore ha sostenuto, «che la teoria della scelta razionale porta in molti casi a prescrizioni e previsioni indeterminate, e ciò avviene molto più frequentemente di quanto la maggioranza dei sociologi e dei decisori amerebbe credere» (Ester, 1995/1989,p. 8). Quanto più si capisce della realtà, tanto più si devono ridimensionare le ambizioni circa le simulazioni con modelli attendibili. Tutto è sfuggente: l’identità degli attori, le regole del gioco, la serie delle ricompense e l’insieme delle ragioni accettabili. «La razionalità in ambito ristretto può divergere dalla razionalità in ambito più ampio» (Elster2, 1993, p. 21).

 

Tanto le scienze, le tecniche, le tecnologie, quanto le loro strumentalizzazioni politiche razionali e le tendenze che sono in opposizione a tali scienze, a tali tecniche, a tali tecnologie, a tali strumentalizzazioni; tanto gli «sviluppi verso la società totalmente amministrata» quanto il «disgregarsi delle forme politiche, sociali e intellettuali riconducibili alla mediazione razionale e al suo potere» (Galli, «Introduzione», in Horkheimer - Adorno, 2010/1944); tanto le scelte politiche sbagliate che sono state fatte quanto le opposte scelte politiche giuste che chi di dovere avrebbe potuto fare; tanto il paradigma sociologico dell’ordine quanto quello del conflitto; pur non essendo per niente le medesime cose e pur avendo certamente ciascuno una propria autonoma identità, e una propria specifica rilevanza e appartenenza, e una propria indiscutibile importanza; sono investite dal processo globale della tecnologia, della produzione e della finanza. «Se gli ostacoli fossero solo quelli derivanti dalla strumentalizzazione inconsapevole della scienza, l’analisi dei problemi sociali potrebbe almeno ricollegarsi alle tendenze che sono in opposizione alla scienza ufficiale. Ma anch’esse sono investite dal processo globale della produzione, e non sono meno cambiate dell’ideologia contro cui erano dirette» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 4).

 

Entra qui in gioco la «falsa chiarezza» (falsa perché mitica) del «reformer più onesto» che, per il fatto di trovarsi in una «situazione senza via d’uscita», raccomandando «il rinnovamento in una lingua consunta dall’uso», ovvero, oggi, mediante la ricerca spasmodica di parole dette in modo nuovo, finisce per rafforzare, «facendo proprio un apparato categoriale prefabbricato e la cattiva filosofia che gli sta dietro, la potenza di ciò che esiste, quella stessa che vorrebbe spezzare. La falsa chiarezza è solo un altro modo di indicare il mito. Che è sempre stato oscuro ed evidente a un tempo, e si è sempre distinto per la sua familiarità, che lo esime dal lavoro del concetto» (ibidem, p. 6). «[…] il mito è già illuminismo, e l’illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia» (ibidem, p. 8, 19), regredendo non più nell’ideologia, come ai tempi di Horkheimer e di Adorno, ma nella non-ideologiae cioè nella narrazione delle ideologie non più necessarie, dell’impossibilità del ritorno alle ideologie, e in altre molteplici narrazioni (che hanno preso il posto delle precedenti ideologie).Non-ideologia e narrazione che oggi ha la sua massima espressione nei social network, la nuova industria culturale di massa, dove il pensiero elaborato e complesso giunge a essere rinnegato come mera ideologia sovrastrutturata, a tutto vantaggio degli slogan, della propaganda, delle fake news e della fidelizzazione settaria («Se vedo un problema», ha dichiarato recentemente un politico italiano, «non è nelle risorse o nelle norme, ma quando qualcuno non crede in quello che stiamo facendo. Se qualche membro del governo non crede in quello che stiamo facendo, allora è un rischio per i cittadini prima di tutto»). Laddove invece, per i due autori, quando scrivevano la «Dialettica», l’espressione canonica dell’industria culturale di massa (trasformazione del mondo in industria) era costituita dal cinema e dalla radio.

 

È utile precisare che il mito è già illuminismo perché è l’illuminismo, hegelianamente, a riconoscere se stesso anche nei miti; perché «alla base del mito esso ha sempre visto l’antropomorfismo, la proiezione del soggettivo nella natura»; perché «Le varie figure mitiche sono tutte riducibili, secondo l’illuminismo, allo stesso denominatore, e cioè al soggetto» (ibidem, p. 14). E l’illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia perché «Le spiegazioni del mondo come nulla o come tutto sono mitologie» (ibidem, p. 31), anche se «Identificando in anticipo il mondo matematizzato [oggi digitale, virtuale, aumentato, social], fino in fondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito» (ibidem, p. 32), e cioè della sua stessa autodistruzione.

 

E tutto ciò oggi accade, tra illuminismo e mitologia, nell’opacità di chi controlla chi e che cosa: è il potere politico che controlla la tecnica orientata scientificamente, la tecnologia? Accade il contrario? Si controllano a vicenda? Esiste ancora una separazione tra politica, economia/finanza, tecnica orientata dalla scienza e tecnologia? Qual è la prossemica? «[…] che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?» (Lev Tolstoj in Weber, 2004/1919). Il problema del calcolo dell’effetto è rimasto, ma le tecniche e le tecnologie di produzione e diffusione sono oggi profondamente diverse, rispetto alla prima metà del Novecento. E ciò rende diversa anche la questione della feticizzazione dell’esistente (che è reificazione dello spirito e del processo tecnico), perché abbiamo a che fare non più con la professione di una verità ridotta (quella del cinema e della radio, media con i quali al tempo della «Dialettica»si faceva propaganda), ma con la professione della verità di una realtà digitale, artificiale, virtuale, amplificata, bionica, robotizzata, aumentata.

 

Il problema, nella prospettiva di Horkheimer e Adorno, cioè, tirando le fila del discorso, non è soltanto una questione di scelte politiche razionali giuste o sbagliate, di modelli sociologici tra di loro contrapposti (come i modelli dell’ordine e quelli del conflitto), ma è quello della crisi più radicale della ragione umana utilizzata per effettuare tali scelte e per costruire e utilizzare tali modelli. Altra cosa è l’intelligenza artificiale. «[…] e infine anche il soggetto trascendentale della conoscenza viene – apparentemente – liquidato, come ultimo ricordo della soggettività, e sostituito dal lavoro tanto più liscio dei meccanismi regolatori automatici […]. Il positivismo […] non si è fermato neppure davanti alla cosa più cervellotica che si possa immaginare – il pensiero» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944,p. 37) che, resosi oggi artificiale, ha realizzato quella che i due autori ritengono la sua vecchia ambizione: «essere il puro organo degli scopi», (ibidem, p. 38), aumentando il carattere coattivo della sua autoconservazione, resa automatizzata, algoritmica e artificiale, «in una società dove la conservazione delle forme e quella dei singoli coincidono solo casualmente» (ibidem). «Nella riflessione critica sulla propria colpa il pensiero si vede privato, non solo dell’uso affermativo della terminologia scientifica e quotidiana, ma anche di quella dell’opposizione. Non si presenta più una sola espressione che non tenda a cospirare con indirizzi di pensiero dominanti, e ciò che una lingua consunta non fa già per conto proprio, è surrogato senza fallo dai meccanismi sociali» (ibidem, p. 4). «E quando l’illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più freno. Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali» (ibidem, p. 14).

 

Già nel 1935 Edmund Husserl, nelle conferenze di Vienna e di Praga, formulando il nucleo primo della «Krisis»e rispondendo criticamente, tra le righe, a Heidegger e a Scheler a proposito della fenomenologia, apparentemente, secondo la querelle che era montata in Italia dopo la traduzione dell’opera, aveva messo sotto accusa le scienze, ma in realtà aveva sviluppato una riflessione sulla ragione, rivalutandola (Sini, 2007, pp. 15-16). Con Horkheimer e Adorno, il procedere della riflessione, che non è neanche qui espressione dell’irrazionalismo e dell’antiscienza, diventa dialettico e la ragione diventa l’«illuminismo».

 

Bisogna mettere sotto stretta osservazione l’aporia della ragione, senza ipostatizzarla; aporia che per Horkheimer e Adorno va sempre tenuta presente alla coscienza e alla consapevolezza, in modo dialettico, perché va ricercata, senza sosta; e dalla quale non si può uscire fuori, se non mediante un salto e mediante «l’evidenza della non necessità della necessità del dominio» (Galli, «Introduzione», in Horkheimer - Adorno, 2010/1944), che però implica una ritrovata capacità teoretica della ricerca, idonea a dare nuova linfa vitale alla pianta della democrazia (che ha radici antiche; sulla metafora delle radici, in senso critico, Bettini, 2012) e a quella dei diritti umani universali e delle libertà fondamentali. È l’occultamento di tale aporia, oggi attivato soprattutto (ma non soltanto) mediante l’intelligenza artificiale e la realtà digitale, virtuale, amplificata, bionica, robotizzata, aumentata, artificiale, la causa primaria dell’emergere di nuove barbarie, di nuovi totalitarismi, tanto sul versante affermativo delle tendenze dominanti quanto su quello delle tendenze oppositive.

 

4. Il salto fuori dall’isola incantata, la migrazione e il saltare saltando. La paura, la chiarezza e l’oscurità

 

Continuando le argomentazioni del paragrafo precedente, aggiungo adesso che ciò di cui ho scritto ha a che fare con l’ambivalenza originaria della ragione naturale, dell’intelligenza naturale, che si vuole totale e totalizzante, oggi per mezzo dell’uso dell’intelligenza artificiale e degli automatismi deterministici che essa consente (buona parte del mercato finanziario, per esempio, attualmente è gestito e amministrato dall’intelligenza artificiale). Rispetto ai tempi di Horkheimer e di Adorno, l’atteggiamento totalizzante della ragione è ancora più evidente, proprio perché oggi la ragione naturale si avvale anche dell’intelligenza artificiale per costruire realtà virtuali e aumentate, per governare e dominare tali realtà, per mediare razionalmente la violenza in esse coinvolta (si pensi, di nuovo, al mondo della finanza, agli smartphone, ai social network), per governare i flussi, compresi quelli umani.

 

La ragione naturale, però, nonostante l’uso e l’asservimento a se stessa dell’intelligenza artificiale, rimane pur sempre strutturalmente incompleta, sospesa tra mediazione razionale ed emancipazione, tra dominio sempre più esteso, globale (una globalità, dalle molteplici virtù e dalle incalcolabili potenzialità, che ha anche il sapore della totalità, stringente, penetrante), e libertà. Una ragione naturale che, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, razionalizza tanto la mediazione quanto l’emancipazione, tanto il dominio quanto la libertà, ma che, nel farlo, continua ad azzerare ciò che della vita dell’uomo, che è dentro il soggetto, sommerso nel soggetto, non può essere razionalizzato, burocratizzato, amministrato, controllato, digitalizzato, reso astratto e artificiale. Ma l’uno è l’isola totale che non può fare a meno di Ulisse e che ha i suoi Narcisi/narcisi e la sua Kore.

 

E ciò accade anche nella costruzione sociologica delle identità sociali astratte e razionalizzate, amministrabili, e dei modelli di appartenenza sociale; nella costruzione economica delle identità economiche astratte e razionalizzate, amministrabili, e dei modelli di appartenenza economica; nella costruzione tecnologica dei profili virtuali e delle conseguenti profilazioni a uso commerciale e politico; nella costruzione di social network utilizzati anche come echo chambers, non soltanto a fini commerciali ma pure per scopi politici elettorali; nella costruzione di appartenenze tribali, fidelizzate, settarie ecc. Da questa «gabbia d’acciaio» (Eiserner Käfig) (Weber, 2004/1919, Ghia 2010), da questa macchina del dominio(nella quale il dominio è l’orizzonte insuperabile, il trascendentale dell’esistenza associata), non si esce né con comportamenti innovativi, ritualizzati, ribelli, rinunciatari, devianti, né, a maggior ragione, con comportamenti conformi; né con modelli sociologici dell’ordine, né con modelli sociologici del conflitto; né con scelte politiche razionali buone (buonismo), né con scelte politiche razionali cattive (cattivismo). Sono pensabili soltanto dei “salti vitali verso il senso (Sinn) pieno” che, in quanto tali, consentano piacevoli fughe, controllate e ordinate, magari ripetibili nel corso del tempo, dalla «gabbia d’acciaio», ma che, fuori dalla «gabbia d’acciaio», sono sterili, votati alla morte, perché fuori dalla «gabbia d’acciaio» non c’è società, non c’è economia, non c’è politica, non c’è concetto, non c’è teoria, non c’è razionalizzazione, non c’è burocratizzazione. Tutto quello che viene conquistato nel salto e mediante il salto, quando lo concettualizziamo, quando lo razionalizziamo, quando lo teorizziamo, quando lo amministriamo, ce lo portiamo dentro la «gabbia d’acciaio» e, nelle sue razionalizzazioni estreme e totalizzanti, cessa totalmente di essere un salto.

 

Il salto ha a che fare, per esempio, con quel “senso pieno della vita”(implicato nel «cerchio fatato della realtà», Horkheimer - Adorno, 2010/1944, pp. 33-6; nello «Strano Anello», nell’«Eterna Ghirlanda Brillante», Hofstadter, 1985) che, al tempo delle leggi razziali e della shoa, ha portato al Processo di Norimberga, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e a tutte le teorizzazioni, istituzioni e pratiche successive e conseguenti; ha a che fare con quel “senso pieno della vita” che, dopo Hiroshima e Nagasaki, ha spinto a riflettere sul nichilismo e sul potere di distruzione totale del dominio; che, a causa della riduzione dell’ozonosfera, dell’effetto serra, dei mutamenti climatici e del dissesto idrogeologico fa riflettere oggi sull’importanza della salvaguardia della natura e dell’ambiente; che, a causa delle migrazioni, fa discutere sui diritti umani universali e sulla democrazia. Ma il salto, quando cessa totalmente di essere salto, ha anche a che fare con le idee sui diritti degli uomini a cui finisce per toccare la sorte dei vecchi universali.

 

La verità di questa realtà non può essere disincantata (Entzauberung der Welt) (Weber, 2004/1919), secolarizzata (sulla secolarizzazione: Berzano, 20181-2, Pinello, 2017), perché è la verità della realtà della ragione e dell’intelligenza naturale, che è per sua stessa natura incompleta (Kline, 1985/1980, Hofstadter 1985/1979). E lo è sempre stata, durante tutta la sua doppia evoluzione, biologica e insieme culturale (Anolli, 2004, Tomasello, 2005/1999). Altra cosa sono l’intelligenza artificiale (Tabossi, 1998) e la realtà digitale e aumentata. Se la ragione e l’intelligenza naturale sono “salto verso il senso pieno della vita” e «gabbia d’acciaio», l’intelligenza artificiale e la realtà digitale, virtuale e aumentata sono algoritmo, calcolo. Ecco perché la teoria critica è altra cosa e non può essere circoscritta, ridotta, nei limiti della teoria della complessità, della comprensione che «la realtà è complessa, plurale e non totale» (Galli, «Introduzione», in Horkheimer - Adorno 2010/1944) e nei limiti della convinzione dell’aggredibilità del problema in modo multidisciplinare e interdisciplinare, mediante le scienze sociali, umane, storiche e politiche.

 

Non costituisce una risoluzione del problema di fondo, un buon motivo per accantonarlo perché razionalmente irrisolvibile, «cercare vie d’uscita laterali, non varchi frontali», o «disincantare la teoria critica, liberarci dalla sua enfasi, storicizzare le angosce, sciogliere col pensiero analitico le sue totalizzazioni, desistere dalle sue ansie di giustizia e di verità, rettificare, rendendole ragionevoli e dunque praticabili, le pretese di questa filosofia estrema» (ibidem). Anzi, proporre tali vie e tali soluzioni a problemi parziali, certamente utili (questo non lo si può e non lo si deve negare), significa tradire la «Dialettica dell’illuminismo»e la teoria critica, azzerare la sua forza teoretica, predisporsi razionalmente alla barbarie di un nuovo totalitarismo. La pretesa della conoscenza, infatti, non consiste «solo nella percezione, nella classificazione e nel calcolo, ma proprio nella negazione determinante di ciò che è via via immediato» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 34). In questo senso si può parlare di dialettica negativa. Neanche il discorso, il dialogo, l’agire comunicativo, il mantenere sempre e comunque aperto il dialogo, l’etica discorsiva, seppure certamente utilissimi, sono risolutivi e costituiscono un buon motivo, a loro volta, per accantonare e per ritenere superabile la questione dialettica dell’aporia di fondo della ragione umana. A questo proposito è utile ricordare che per Horkheimer e Adorno «L’universalità delle idee, sviluppata dalla logica discorsiva, il dominio nella sfera del concetto, si eleva sulla base del dominio reale» (ibidem, p. 22).

 

Ciò accade perché la ragione/intelligenza umana è incompleta e non può contenere la dimensione del salto senza ingabbiarla, senza snaturarla, senza amministrarla, senza governarla, senza dominarla, senza mediarne razionalmente la violenza di chi e di ciò che si oppone, che si contrappone, che innova, che ritualizza, che si ribella, che si rassegna e abbandona.

 

Però la coscienza e la consapevolezza, filosofica, teoretica e non scientifica, di questa aporia della ragione, di questa ambivalenza che non è componibile, che non ammette soluzioni, ma che può essere riconosciuta, accettata, oppure rifiutata, è fondamentale, perché mantiene vivo il senso dell’oltre, la credenza che oltre la «gabbia d’acciaio», oltre l’isolato lago di Narciso, nel salto,ci sia il senso pieno della vita, mediante il narciso (il fiore, il simbolo); la certezza che ciò che conta veramente, ciò che è in grado di dare “senso pieno” a tutto il resto, alla gabbia, è oltre, nel salto, nell’attività del saltare. Filosoficamente parlando, e cioè esprimendo giudizi di valore, questa coscienza e questa consapevolezza devono venire prima di ogni altra cosa, perché mantengono costantemente aperta la possibilità del “salto vitale verso il senso pieno”, in modo non sterile, nel saltare saltando; perché consentono di parlare anche di “senso sociologico pieno” (Pinello, 2018), con la possibilità di formulare giudizi filosofici di valore;perché, attuandola, “qui e ora”, la percezione del sublime, dell’umano, del sacro – che è importante che siano collettivamente percepiti –, è un vaccino che mette al riparo dai virus di nuove barbarie, dalle epidemie (sull’epidemiologia delle credenze, Dan Sperper, 1999/1996) barbariche dei nuovi totalitarismi.

 

Se «l’illuminismo» non accoglie in sé, per salti, in modo dialettico, la coscienza della regressione in un nuovo genere di barbarie totalitarista, «firma la propria condanna. E per dialettica deve intendersi l’ambivalenza originaria e strutturale della ragione, il che equivale a dire dell’uomo. Se la riflessione sull’aspetto distruttivo del progresso è lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato perde il suo carattere superiore e conservante, e quindi anche il suo rapporto alla verità [della ragione e dell’intelligenza naturale]. Nella misteriosa attitudine delle masse tecnicamente educate a cadere in balia di qualunque dispotismo, nella loro tendenza autodistruttiva alla paranoia “popolare” [Völkisch: cioè razza], in tutta questa assurdità incompresa si rivela la debolezza della comprensione teoretica di oggi» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 5).

 

La causa della regressione dall’illuminismo alla mitologia dell’illuminismo e all’avanzare di nuove forme di barbarie, di nuovi totalitarismi, nei termini della «Dialettica dell’illuminismo», non è da ricercare soltanto nelle moderne narrazioni sovranistiche, nazionalistiche, xenofobe, razziste, populistiche, «escogitate appositamente a scopi regressivi, o soltanto nel passaggio dal cosmopolitismo al neo-liberismo, o ai cosmopolitismi in tensione, quanto nell’illuminismo stesso paralizzato dalla paura della verità» (ibidem, p. 6) circa la natura ambivalente della ragione umana, nel contesto della debolezza della comprensione teoretica di ieri e di oggi. Si tratta della paura diffusa, che tende a creare (a causa dell’aumento delle povertà e delle diseguaglianze) isole totali e isolamenti totalizzanti, tanto in alto (nei cosiddetti “poteri forti”, espressione equivoca e vaga oggi di largo consumo in Italia) quanto in basso (nel popolo – senza distinzione di classi –, nei cittadini italiani, altre espressioni di largo consumo oggi in Italia), di allontanarsi dai fatti (che sono canti di Sirene su isole che isolano), da ciò che da tali soggetti sociali, economici e politici è percepito come fatto reale (in basso anche per mezzo di echo chambers e fake news).Fatti che fin dalla loro percezione sono preformati (in basso anche mediante attività di profilazione)dalle usanze dominanti, che producono chiarezza, nella scienza (che è organizzazione di isole che isolano), nella tecnica, nella tecnologia, negli affari e nella politica, compreso l’uso dell’intelligenza artificiale che genera realtà digitale, virtuale e aumentata. Tale paura «fa tutt’uno con la paura della devianza sociale» (ibidem, 6) – dei migranti, dei rom, degli omosessuali, degli ebrei, dei massoni – e mette in moto meccanismi di controllo sociale, sia dal basso verso l’alto (il popolo che pretende di mettere sotto controllo i cosiddetti “poteri forti”, facendo leva su quella che crede essere la propria percezione dei fatti), sia dall’alto verso il basso (i cosiddetti “poteri forti” che, secondo la vulgata corrente, usano le scienze e le tecnologie globali e la finanza globale per controllare il popolo). I corpi sociali intermedi e le classi non sono comunque scomparsi dallo spazio sociale. «Lo sdoppiamento della natura in apparenza ed essenza, azione e forza, che solo rende possibile il mito, come pure la scienza, nasce dalla paura dell’uomo, la cui espressione diventa una spiegazione […]. L’uomo s’illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto [quando crede di percepire i fatti finalmente in modo chiaro, senza più oscurità alcuna]. Ciò determina il corso della demitizzazione, dell’illuminismo che identifica il vivente col non-vivente come il mito il non-vivente col vivente. L’illuminismo è l’angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica, che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell’angoscia» (ibidem, 2010, p. 23).

 

È in questo modo, a causa di questa paura, che, nei termini della «Dialettica dell’illuminismo», si configura il concetto di chiarezza (mediante le usanze dominanti nella scienza, nella tecnica, nella tecnologia, negli affari e nella politica), nel linguaggio e nel pensiero, sia in alto che in basso, a cui tutto deve adeguarsi. «Questo concetto, che bolla [etichetta] come oscuro e complicato, e soprattutto come estraneo […] il pensiero che interviene negativamente sui fatti come sulle forme di pensiero dominanti, condanna lo spirito a una cecità sempre più profonda» (ibidem, 6). E la chiarezza, che è in alto non è la stessa chiarezza che è in basso. E la percezione dei fatti non è la stessa, in alto e in basso. E i problemi crescono a mano a mano che la chiarezza diventa sempre più chiara, sia in alto che in basso, seppure in modo diverso, perché le certezze diventano sempre più certe e le credenze sempre più credute e virali.

 

Da qui l’importanza, contro le nuove barbarie, contro i nuovi totalitarismi, del messaggio del “senso pieno della vita” (dello «stato veramente umano»), percepibile però solo e soltanto nel salto, nel saltare saltando, che ci perviene dalla teoria critica, mediante la «Dialettica dell’illuminismo», più come immaginazione utopica che origina dal rapporto uomo / natura, più come utopia di redenzione materiale (della carne) e non soltanto spirituale (teoretica, filosofica), dell’immediatezza nell’immediatezza, che come prassi politica e liberazione, perché le istanze emancipative sono sempre sfigurate nella logica del dominio (Galli, «Introduzione», in Horkheimer - Adorno, 2010/1944). Messaggio che, portato dentro la «gabbia d’acciaio», diventa teoria – compresa la teoria critica –, razionalizzazione, astrazione, mitizzazione. Perché il senso pieno reso in questo modo, per questa via, chiaro, conserva sempre, nella chiarezza, nella «gabbia d’acciaio», l’oscurità indicibile del salto di Kore ragazza ineffabile (Deidier, 2018, Agamben - Ferrando, 2010), eternamente giovane, ricercata da Demetra che, dopo l’isolamento di Narciso e la morte di Eco l’innamorata, con l’intervento di Zeus, ridiventa ordine naturale e sociale (Pinello, 2018). Ineffabilità di Kore che però non è irrazionalità, perché è salto vitale nel senso pieno della vita e del senso pieno della vita. E tutto ciò può continuare ad accadere fino a quando l’oscurità è conservata nella chiarezza e non è pretesa azzerata, o azzerabile, del tutto.

 

Tali teorie, formulate nella «gabbia d’acciaio», dopo il salto e nel saltare saltando, come il riflettere sulla teoria criticaesulla «Dialettica dell’illuminismo», sono importanti, anche se non possono non essere sommerse dentro la gabbia. Sono importanti perché hanno la loro origine, il loro nucleo genetico, nel salto e per il salto, e lo sono fino a quando si mantengono costantemente aperte al salto e dal salto, nel senso pieno della vita, saltando. È dal salto, per esempio, che emerge il senso pieno del sublime, ma non arte, musica, danza, poesia, letteratura (che invece sono sommerse nella «gabbia d’acciaio», con Kore ragazza ineffabile che trascorre metà del suo tempo nell’oscurità e metà nella chiarezza, portandosi con sé l’oscurità nella chiarezza e la chiarezza nell’oscurità); il senso pieno religioso, ma non religioni, dottrine, teologie e teorie (idem, come sopra); il senso pieno del sacro laico, ma non diritti umani universali, diritti fondamentali, libertà fondamentali, democrazia, dottrine, teorie (idem, come sopra).

 

«La Dialettica dell’illuminismo costituisce una sorta di possibile antidoto al rischio di un nostro incantamento» (Galli, «Introduzione», in Horkheimer - Adorno, 2010/1944) perché, criticando e dialettizzando le stesse categorie delle scienze sociali, aiuta a capire, in modo filosofico, frammentario e non sistematico, in un modo geneticamente originario non consentito dalla sociologia e dalle scienze sociali, che la vita è «offesa e dispersa nella totalità del dominio» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944).

 

5. Il mito di Ulisse e dell’isola delle Sirene. Narciso, Eco e Ade. Kore - Persefone e Demetra

 

Horkheimer e Adorno, nella «Dialettica dell’illuminismo», utilizzano il mito di Ulisse («Odisseo pieno di astuzie») e delle Sirene (Omero, 1963), tra epos e mito, in connessione al sadismo («Odisseo, o mito e illuminismo», Horkheimer - Adorno, 2010/1944, pp. 51-86; «Juliette, o illuminismo e morale», ibidem, pp. 87-125). Tale mito è ripreso anche da Jon Elster per indagare sulla razionalità e l’irrazionalità («Ulisse e le sirene», Elster 1983/1979) e sulla razionalità e i vincoli («Ulisse liberato», Elster, 2004/2000), all’interno della riflessione sul «cemento della società» (Elster, 1995/1989), sulla «“cassetta degli attrezzi” per le scienze sociali» (Elster, 1993/1989) e sulla «spiegazione del comportamento sociale» (Elster, 2010/2007), ma in questo mio contributo, a causa delle pagine che mi sono state concesse, non potrò approfondire questo profilo della questione.

 

Dico soltanto che la cosa interessante di Jon Elster è che lui utilizza i proverbi per fare scienza sociale qualitativa (cosa in parte diversa è l’applicazione di metodi qualitativi, in campo sociologico, unitamente o alternativamente a quelli quantitativi). A proposito dei proverbi sostiene che essi contengono massime di saggezza, ma non sempre, e che generalmente, ma non sempre, si presentano come coppie di opposti (nel senso che contengono massime di saggezza tra di loro contrapposte), sono cioè proverbi polarizzati, e sostiene anche che i proverbi contengono «meccanismi causali» utili per le spiegazioni sociologiche qualitative. Qui per meccanismo causale si deve intendere non il bruto nesso causa-effetto ma un «modello causale osservabile di frequente e facilmente riconoscibile, avviato sotto condizioni generalmente non note o seguito da conseguenze indeterminate» (ibidem, p. 63).

 

Jon Elster, inoltre, distingue tra meccanismi causali atomistici e meccanismi causali molecolari. Un proverbio contiene generalmente un meccanismo causale atomistico. Se prendiamo in considerazione due proverbi possiamo ottenere due meccanismi causali atomistici che, combinati, possono dare come risultato un meccanismo causale molecolare. È mio convincimento che i miti classici, così come i proverbi, contengano massime di saggezza nelle quali è possibile ricercare meccanismi causali.

 

Il dodicesimo canto dell’Odissea, che narra del passaggio davanti alle Sirene, per Horkheimer e Adorno custodisce «il nesso di mito, dominio e lavoro» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 38), e cioè del passaggio dallo stato bruto, primitivo, naturale, dell’uomo a quello sociale, mediante la fissazione degli istinti, a opera di una repressione / coazione sempre più forte, e l’intellettualizzazione progressiva nelle «grandi svolte della civiltà occidentale, dall’avvento della religione olimpica fino al rinascimento, alla riforma e all’ateismo borghese» (ibidem, p. 39). Grazie all’«illuminismo», al passaggio borghese e mercantile dall’«oscuro orizzonte del mito» al «sole della ratio calcolante», i popoli e i ceti hanno espulso progressivamente il mito dalla cultura, e con esso «il timore della natura incontrollata e minacciosa, conseguenza della sua stessa materializzazione e oggettivazione», abbassandolo «a superstizione animistica», facendo «scopo assoluto della vita» «il dominio della natura» e giungendo da ultimo all’autoconservazione automatizzata (ibidem). «L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia» (ibidem, p. 41). Sotto la coazione del dominio, però, «il lavoro umano si è sempre più allontanato dal mito, per ricadere, sotto il dominio, sempre di nuovo in sua balía» (ibidem, p. 39).

 

Circe è la dea che ritrasforma gli uomini in animali. Ma Ulisse «ha saputo resisterle, ed essa, in compenso, lo mette in grado di resistere ad altre forze di dissoluzione» (ibidem, p. 41) che vanno nella medesima direzione ritrasformante: le Sirene, che sanno «tutto quello che avviene sulla terra nutrice» (Omero, 1963, vv. 189-90; Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 40), ritornata ordinata e ciclica dopo il rapimento di Kore - Persefone, e che rappresentano la «tentazione […] di perdersi nel passato» (ibidem, p. 40). Nonostante Ulisse sia stato messo in guardia da Circe, «la tentazione delle Sirene resta invincibile, e nessuno può sottrarvisi, ascoltando il loro canto» (ibidem, p. 41). «Chi cede ai loro artifizi, è perduto, mentre solo una costante presenza di spirito strappa l’esistenza alla natura [gli uomini all’essere ritrasformati in animali]. Se le Sirene sanno di tutto ciò che accade, esse chiedono in cambio il futuro, e la promessa del lieto ritorno è l’inganno con cui il passato cattura il nostalgico» (ibidem, p. 40).

 

Ulisse «conosce solo due possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa le loro orecchie con la cera, e ordina loro di remare a tutta forza […]. L’altra possibilità è quella che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode, ma impotente, legato all’albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità quanto più – crescendo la loro potenza – l’avranno a portata di mano» (ibidem, p. 41). E qui il collegamento con L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber diventa facile (Weber, 1991/1904-5).

 

Combiniamo adesso il mito di Ulisse e delle Sirene con quello di Narciso ed Eco. Il libro III delle Metamorfosi contiene miti relativi alla fondazione di una città: Tebe. Il mito di Narciso ed di Eco è riportato da Ovidio con riferimento all’indovino Tiresia (figlio di un uomo della stirpe degli Sparti, i nati dalla terra, fondatori della città di Tebe), al fine di fornire una prova dell’avveramento, a distanza di tempo, di una sua pre-dizione (riguardante Narciso), di una formula, che, in un primo momento, in base all’ordine sussistente, nessuno aveva compreso e poteva comprendere. A lungo la predizione sembrò priva di senso, ma poi l’esito delle cose, il tipo di morte e la strana passione di Narciso la confermarono (Ovidio III, vv. 349-50, p. 33). Quando Ulisse scende nell’Ade, interroga, ottenendone pre-dizioni e pre-visioni, proprio Tiresia (Omero, 2007, XI, vv. 90-137, pp. 101-5). In entrambi i casi, sullo sfondo ci sono la natura umana, il potere / dominio (la violenza irresistibile), la pre-dizione, il salto dal mondo sensoriale a quello extrasensoriale, il mito (la razionalizzazione della natura umana, del potere/dominio degli dei, della violenza e del salto).

 

La fabula del mito di Narciso ed Eco, però, non si sviluppa a Tebe, bensì in un luogo caratterizzato dalla presenza di un fitto bosco, di un lago e di un monte. E cioè non all’interno di un ordine cittadino, ma in un ambiente dominato dalle forze violente, alcune delle quali irresistibili (in quanto di origine divina), della natura. Lo stesso Narciso è figlio di un dio fluviale violento (Cefiso). La madre di Narciso è Lirìope, una ninfa delle acque dolci che, spinta in un’ansa della corrente del fiume, imprigionata fra le onde, è stata violentata dalla forza vitale, dal potere e dal dominio, dello scorrere prorompente e vorticoso delle acque di Cefiso (OvidioIII, vv. 341-46, p. 33).

 

Il tema è quello della bellezza naturale violenta che seduce, incanta, ma che si sottrae al controllo razionalizzante dell’uomo e al conseguente soddisfacimento dei piaceri della carne (in molti si innamorano di Narciso, ma lui non si fa toccare), della voce / canto che non è dialogo razionalizzante. In questo, Narciso può essere accostato all’isola delle Sirene delle quali Ulisse, separando la sua sorte da quella dei suoi compagni, mettendola a parte, vuole sentire il canto / voce, provandone tutto l’intenso piacere ma senza farsi incantare, senza avvicinarsi a esse e senza toccarle (ibidem, vv. 370-91, pp. 35-7). Proprio perché conscio del pericolo che corre, grazie all’ammaestramento di Circe (Omero, 2007, XII, vv. 36-58, pp. 147-9; vv. 151-200, pp. 155-9), Ulisse, per non avvicinarsi alle Sirene e per non toccarle, si fa legare dai suoi uomini all’albero della nave.

 

Le pre-dizioni di Tiresia e di Circe contengono il salto e vengono qui proferite saltando e per saltare; significano che sono in gioco, in linea di principio, forze misteriose e imprevedibili; che ciò non esclude il calcolo razionale; che una demitizzazione del mondo è pur sempre possibile; che i processi di intellettualizzazione sono in atto (Weber, 2004/1919). Anche il legame tra Narciso ed Eco è totalizzante, come quello delle Sirene (Ovidio III, vv. 392-95, p. 37). La sorte di Ulisse e dei suoi compagni è però diversa da quella di Narciso ed Eco, grazie alla pre-dizione di Circe circa il comportamento che Ulisse e i suoi compagni devono tenere e che egli può subito razionalizzare. La pre-dizione di Tiresia su Narciso, invece, rimane a lungo priva di senso, non razionalizzabile.

 

Come nel mito di Narciso ed Eco, il piacere mortale del canto (della voce, della parola) delle Sirene, che Ulisse non deve toccare e alle quali non deve avvicinarsi (è legato all’albero della nave, che è la tecnica, mani e piedi), è associato, in modo totalizzante, a un venir meno del corpo socializzato che può morire (la morte di Ulisse e dei suoi uomini), della socializzazione razionalizzata (la nave) che può venir meno. Nell’Odissea è detto che, accanto al prato nel quale sono sedute le Sirene, s’alza un monte d’ossa d’uomini (Omero, 2007, XII, vv. 45-6, p. 147), giunti all’isola delle Sirene con le loro navi, grazie alla tecnica della navigazione. Anche nel mito di Narciso ritorna questa immagine: le ossa e la voce di Eco, di colei che voleva interagire, creare interazioni sociali (Ovidio III, vv. 396-402, p. 37).

 

Siamo in una situazione totalizzante che rende impossibile il dialogo, il contatto, la relazione, per la sussistenza di situazioni estreme connotate di violenza e di dominio. Ulisse ha ordinato ai suoi uomini di mettersi i tappi di cera alle orecchie per non ascoltare il canto delle Sirene, per sottrarsi all’incantamento, per evitare la perdita totale della libertà di scelta e la morte sociale di gruppo e per continuare a remare per portare la nave – la tecnica – a distanza di sicurezza, al salvo. Morte che è evitata da Ulisse mediante una resistenza invincibile al canto, per il piacere di conoscere il piacere che i suoi uomini non possono conoscere, pena la perdita della nave. Si fa legare mani e piedi all’albero della nave, sceglie la perdita della sua libertà personale, sceglie la «gabbia d’acciaio». Nel decidere di rimanere dentro la «gabbia d’acciaio», però, non bolla come oscuro e complicato, e soprattutto come estraneo, il pensiero, la voce, il canto che interviene negativamente sui fatti come sulle forme di pensiero dominanti all’interno della gabbia.

 

Come si avvera la pre-dizione di Tiresia su Narciso? Quando «la confermano [la formula] / il precipitare dei fatti, la morte speciale, lo strano delirio [di Narciso]» (ibidem, vv. 349-50, p. 33). «All’indovino profetico [Lirìope] va poi a domandare / se il figlio vedrà la lenta stagione di una vecchiaia. / Risponde: “Se riuscirà a non conoscersi”» (ibidem, vv. 346-48, p. 33). L’avveramento della pre-dizione di Tiresia è dovuto a una razionalizzazione successiva, e cioè alla comprensione successiva della strana passione di Narciso, dell’esito della situazione circostanziata e del tipo di morte che lo coglie.

 

Narciso conosce se stesso non allo stesso modo di Ulisse. Al contrario, è come se Circe lo ritrasformasse in un animale che, rifiutando di distinguere il segno dall’immagine, ridiventasse prigioniero di tale indistinguibilità. Narciso diventa prigioniero, suo malgrado, della sua immagine, e precipita dentro essa, nella preistoria della sua stessa esistenza animale (ibidem, vv. 437-40, p. 39), lui che era nei luoghi della narrazione mitica a caccia di animali, mettendo a frutto la tecnica della caccia.

 

Ulisse è colui che sa razionalizzare la pre-dizione già razionalizzata di Circe e che può conoscere anche il canto totalizzante delle Sirene, senza implodere in esso. È il capo, il condottiero, il re. È colui che è legittimato all’esercizio del potere e del dominio, che pronuncia e dichiara le formule di legittimazione politica (Martinelli, 2009) e i dispositivi di autorità (Bettini, 2012; a proposito del mito di Kore, Pinello 2018). Ordina ai suoi stessi uomini, dopo averli istruiti sulla pre-dizione di Circe, di aiutarlo a limitare il suo stesso potere, di mettere in moto, insieme a lui, i meccanismi della «gabbia d’acciaio» adeguati, di aumentare ulteriormente le misure restrittive alla sua richiesta di liberazione, e infine di liberarlo, dopo il salto, dopo che ha aumentato la sua coscienza e consapevolezza grazie al piacevole e incantevole canto delle Sirene, al quale non soccombe in forza delle attività di razionalizzazione messe in opera con Circe e con i suoi sottoposti.

 

Narciso, invece, non è in grado di razionalizzare la pre-dizione di Tiresia, non ha uomini, compagni, che lo ascoltino, che possano dialogare con lui e che gli obbediscano, non può dialogare con Eco. Rimane solo, prigioniero dell’immagine totale di sé. Diventa per un attimo re di se medesimo, un’isola totale, e, subito dopo, smarrisce se stesso e la sua stessa soggettività. Si accorge che il giovane dello specchio del lago è lui: «Ma sono io, questo tu! [ecco che si avvera la pre-dizione, la formula]. Non mi abbaglia il riflesso, ho capito» (Ovidio III,v. 463, p. 41). Ma a nulla ciò vale! «io brucio d’amore per me, questo fuoco io l’accendo e lo soffro. / Che faccio? Lo prego, mi prego? E pregarlo di che? / Ce l’ho già, quello che voglio: è la stessa ricchezza a mandarmi in miseria. / Se solo potessi staccarmi dal corpo» (ibidem, vv. 464-67, p. 41). Narciso è in grado di razionalizzare, ma non è in grado di porre strumentalmente uno scopo al di fuori, al di là, della coincidenza in lui di segno naturale e immagine (ibidem, vv. 469-74, pp. 41-43). Ha definitivamente perso la sua soggettività, anche quando raggiunge Ade (ibidem, vv. 502-05, p. 45). Il segno naturale, nell’indistinguibilità, è ridiventato immagine e l’immagine segno. L’immagine non può staccarsi dal segno e il segno dall’immagine.

 

Quando muore – e si tratta di un tipo di morte diversa da quella di tutti gli altri uomini socializzati, che sono capaci di razionalizzare la propria vita –, il suo corpo scompare. Al suo posto c’è un fiore, simbolo della vittoria della natura sulla razionalizzazione sociale, color croco, e in giro petali bianchi: il narciso (ibidem, vv. 509-10, p. 45). Ed è qui che inizia il collegamento con il mito di Kore e Demetra, grazie a quel fiore (Omero, 2010, pp. 89-91), che è naturalmente predisposto alla distinzione (è di due colori). Con tale collegamento, l’indistinzione di segno naturale e immagine cessa di persistere, l’aporia si ricostituisce – mediante il ritorno a Ade – in Kore / Persefone, che è una, in modo oscuro, e che è anche due soggetti chiaramente distinti. Né il totalitarismo della «gabbia d’acciaio», dunque, ma neanche quello della natura. Così posso anche concludere questo mio contributo.

 

Narciso e il narciso. La migrazione dei simboli da un mito in un altro (i migranti). La metamorfosi dei miti. «Il mondo come gigantesco giudizio analitico, il solo rimasto di tutti i sogni della scienza, è dello stesso stampo del mito cosmico, che assoggetta al ratto di Persefone la vicenda della primavera e dell’autunno» (Horkheimer - Adorno, 2010/1944, p. 35; Pinello, 2018).

 

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