Laureata in sociologia ha conseguito un master in Comunicazione e divulgazione scientifica e un dottorato di ricerca in Diritto ed Istituzioni Economico – Sociali. Profili normativi, organizzativi e storico-evolutivi. Giornalista pubblicista ama raccontare storie di ordinario coraggio e riscatto.
Représentations mythodramatiques de soi
Dessin: Raffaele Larosa - Lycée Artistique d'État Emilio Greco
Ateliers de l'imaginaire autobiographique © OdV Le Stelle in Tasca
«Una nuova soglia?
Uno sguardo rivolto verso l’altrove: brusca revisione di un percorso.
[…] Mi rifugio nella mia sofferenza, ed essa può solo, ancora e più, farmi soffrire.
[…] La nostra storia è la storia di un vizio che fa scandalo»[1].
La disabilità sembrerebbe essere concepita storicamente e socialmente come una mostruosità sia nell’immaginario individuale sia in quello collettivo. Dai mostri e fiori difettosi, di cui scrivono de Montaigne e de Torquemada[2], alle immagini riflesse nella letteratura, come ad esempio quelle tratteggiate dalla penna e dall’immaginazione kafkiana, al cinema, con personaggi come quelli della moderna corte dei miracoli della pellicola Freak, fino al protagonista dell'universo oniroide disegnato da Guillermo del Toro ne La forma dell'acqua, passando per Elephant Man, Frankenstein, La donna scimmia, King Kong e Il mostro della laguna nera. Personaggi in bilico tra realtà e fantasia che incarnano paure e incubi, capaci di attraversare i secoli. Questi mostri parrebbero rappresentare i diversi per eccellenza, estranei e stranieri per antonomasia, in quanto poco o per nulla familiari nei tratti e nelle connotazioni, vere o presunte, loro attribuite, spesso accompagnati, nel loro cammino, da un’aura di profonda tristezza.
A quelli che un tempo sono stati definiti come handicappati per la loro deformità, difformità e mostruosità, rispetto a quanto prescrive l’asse normativo, nell’antichità occidentale secondo quanto evidenzia l’antropologo Henri Jacques Stiker, viene prescritto di non farsi vedere in città ma di essere “custoditi” dai loro parenti, in virtù del pericolo che rappresentano. La deformità e l’infermità fisica sono uno dei quattro elementi d’opposizione su cui Claude Levi Strauss struttura il mito: la differenza espulsa e rigettata cui si accompagna, spesso, come nel caso di Edipo (ma anche del dio Efesto), una preclusione alla sfera del sesso o comunque una sessualità illecita. Secondo Girard, richiamato da Stiker, il rigetto mostrato nei confronti della differenza sembrerebbe derivare dalla mimesi e dalla crisi mimetica. In realtà, dunque, l’insopportabilità della differenza deriverebbe dal fatto che essa in realtà cela una più profonda uguaglianza difficile da accettare. In tal senso, il timore, ma anche il fascino, esercitato dalla diversità sembrerebbe risiedere nel rapporto con il potere e con i potenti. Da una parte, infatti, le persone non disabili parrebbero intuire la presenza di una potenza eventuale nella diversità; dall’altra, essere affascinati dalla relazione tra i “mostri” deformi, uomini e donne “marchiati” dalla diversità, e gli esponenti del potere: il signore, il re o il principe, che hanno a propria disposizione i propri personali giullari o fenomeni da baraccone[3].
L’operazione che ci interessa compiere con questo contributo non è relativa a una ricostruzione storiografica degli atteggiamenti e dei comportamenti tenuti nei confronti delle persone con disabilità attraverso le epoche e i secoli, quanto piuttosto scoprire un principio generativo, mutuando il termine da Girard, che affonda le radici nell’immaginario collettivo e individuale, rinvenendo i presupposti di quella correlazione tra disabilità fisica e mostruosità che parrebbe tradursi in una sostanziale negazione dell’accesso alla sfera della sessualità o, qualora vi si acceda, incarnarsi in una sessualità che, se agita, sembrerebbe essere percepita dagli individui non disabili come mostruosa. L’origine della società umana, dei gruppi collettivi e dello stesso meccanismo d’interazione sociale parrebbe essere legato alla ritualizzazione di un evento primigenio, un proto-evento, drammatico, la cui risoluzione sarebbe stata resa possibile unicamente dal sacrificio di un individuo considerato responsabile delle svariate avversità dai risvolti drammatici: quest’individuo è definito capro espiatorio.
L’ordine culturale che si ritrova riflesso nei gruppi umani sembrerebbe scaturire, quindi, secondo la tesi sostenuta da Girard, dalla ritualizzazione di un sacrificio originario, del quale i vari miti rappresenterebbero racconti in forma di testo[4], all'interno dei quali rifluiscono e si coagulano le paure, ma anche le aspettative, espresse dall’immaginario individuale e collettivo. Le persone con disabilità, dunque, cui sono attribuite una serie di caratteristiche mostruose, parrebbero dunque assumere il ruolo di capri espiatori, portatori di un iniziale disordine, ma anche, di conseguenza, potenziali artefici del ripristino dell’ordine. L’odio fomentato contro il diverso potrebbe essere il riverbero, riattualizzato attraverso il filtro dell’immaginario collettivo trasposto nel racconto mitico, dei grandi fenomeni di violenza di massa della storia.
Per ripristinare l’ordine, dunque, sembrerebbe essere funzionale imputare gli eventi negativi apportatori di disordine alla presenza di un individuo, facente parte di una minoranza di potere, da marginalizzare o da eliminare. Ciò che parrebbe evidente, però, è che alla fase dell’odio non sembrerebbe mai seguire quella della riabilitazione sociale e della conseguente gratitudine per aver contribuito a ripristinare l’ordine. Infatti, come sottolinea Girard, i grandi perseguitati della storia anche dopo la loro emarginazione o eliminazione, non sono mai stati eletti a eroi o eroine, cui essere grati per la cessazione del disordine e per la sua trasformazione in ordine pacifico. Parrebbe instaurarsi un flusso di demonizzazione unidirezionale, poiché, in seguito, non viene loro comunque riconosciuto il ruolo di supplemento, come lo definisce Girard, cui si deve la fondazione della comunità.
Secondo il pensatore francese, ciò che accomunerebbe tutti i miti eziologici, che indagano l’origine di un fenomeno, in cui si riverbera l’immaginario collettivo, è costituito dalla descrizione di una folla violenta, da un delirio collettivo e dal fatto che spesso le vittime sacrificali scelte dalla comunità incattivita vengono identificate sulla base di caratteristiche considerate detestabili da parte dalla maggioranza, in ogni parte del mondo. Una detestabilità, che rende reietti, legata sia a caratteristiche fisiche (l’essere menomato, disabile o non conforme a un gusto estetico dominante) o giuridiche (il non essere membro originario della comunità e, in quanto tale, estraneo e straniero).
Il termine “straniero”, attribuito a tali soggetti, parrebbe però assumere un significato molto più ampio di quello meramente letterale che identifica chi è proveniente da un altro luogo geografico e appartenente a un’altra comunità etnica. Esso, infatti, assume il significato lato di diverso, alieno, non conforme rispetto alla norma[5].
I mostri disabili sembrerebbero suscitare ribrezzo e repulsione, quella neofobia di cui parla l’antropologo Desmond Morris, ma allo tempo una forma di fascinazione ed attrazione, anche di tipo affettivo-sessuale: una neofilia che, spesso, assume la forma di una curiosità morbosa[6]. Parrebbe ritrovarsi alle radici dell'immaginario, dunque, quell'intreccio tra disabilità fisica e sessualità, intrisa di stereotipi e pregiudizi, che sembrerebbe oscillare tra una negazione di questa sfera dell’esistenza, frutto dell’assenza presunta del bisogno, e l’idea dell’esistenza di una sessualità che assumerebbe dimensioni ipertrofiche, se lasciata libera di esprimersi, e lo farebbe in maniera smodata, esondando e rompendo gli argini dei canoni sociali e culturali dominanti. Due rappresentazioni, apparentemente opposte ma complementari, accomunate dal fatto che l’ambito della sessualità non sembrerebbe mai essere agito dalla persona con disabilità quale protagonista. In entrambi i casi, infatti, che si tratti di privazione o d'ipertrofia e sregolatezza, l’individuo, nella gestione della sua sfera affettivo-sessuale, non parrebbe mai essere lasciato libero di scegliere come vivere la propria sessualità, autodeterminandosi, bensì essere oggetto di valutazioni compiute dall’alto e di comportamenti eterodiretti.
Il metodo d'indagine adottato: la ricerca delle tracce
Quando ci si ponga l’obiettivo di tentare di ricostruire la storia della disabilità, o per meglio dire delle disabilità fisiche, andandole a intrecciare con un’altra dimensione multifattoriale e multiproblematica come quella della sessualità, e cercando i presupposti di uno specifico tipo d'indagine nel bacino costituito dall’immaginario individuale e collettivo, s'incontra e ci si “scontra” subito con due aspetti che sembrerebbero essere strettamente correlati alla condizione di non abilità e che vengono rivelati precipuamente da un drammaturgo Edward Schwartz. Il primo parrebbe essere relativo a un’azione di costante intrusione nella vita delle persone con disabilità, che vengono così rese spettatori e non già protagonisti della propria esistenza, un’intrusione giustificata da un necessario, o presunto tale, intervento salvifico. L’altro sembrerebbe essere quello di decodificare e interpretare ogni elemento anomalo della vita di un individuo con disabilità attraverso la chiave di lettura della sofferenza e dell’afflizione. Una triste situazione da cui qualcuno dovrebbe toglierlo. Una sofferenza presunta che ha come risultato quella di espropriare il legittimo proprietario della possibilità di vivere pienamente e gestire la sua sofferenza reale, laddove essa comunque sussista e non sia, invece, frutto esclusivamente di uno sguardo che inquadra l’altro da sé attraverso la lente deformante del pregiudizio.
Un’azione di espropriazione coattiva, perché l’individuo parrebbe essere così privato della sua peculiare e personale dimensione del dolore, cui però potrebbe accompagnarsi tutta una rosa di altri sentimenti, tra i quali la gioia. A questo dolore vero e concreto, in seguito a quest’azione di espropriazione, sembrerebbe sostituirsi un dolore in qualche modo fittizio, in quanto frutto di una visione angusta e stereotipata, che paradossalmente in molti casi potrebbe finire per essere confermata, poiché la stessa persona con disabilità interiorizza un’immagine e un ruolo pietistici a lei attribuiti. Parrebbe essere questo, infatti, lo scotto da pagare per essere accettati e soddisfare così il proprio legittimo bisogno di appartenenza[7]. Una ragguardevole difficoltà insita nel cercare le tracce delle persone con disabilità sembrerebbe, poi, risiedere nel fatto che l’immagine che emerge dai documenti di varia natura, che a tali individui si riferiscono, è troppo spesso un’immagine spuria, a volte reale, a volte frutto e metafora di una condizione cui viene impedito di lasciare una traccia diretta, assumendo un ruolo da protagonista della propria microstoria inserita in una macrostoria. Parrebbe, quindi, esserci una sorta di rifiuto sociale e interdetto culturale ad assegnare alle persone con disabilità un posto da protagonisti, una voce, un ruolo di prima mano, all’interno della loro stessa storia.
Ci si trova dunque, di fronte ad una duplice difficoltà di indagine e metodologica: da una parte, infatti, le tracce laddove presenti, rischiano di essere di seconda mano, divenendo indicatori di una storia gestita e scritta da altri, cioè di riportare il parere e la visione precipua di medici, psichiatri, educatori o operatori di diverso tipo, a formare lo sguardo della società o quella di un’istituzione, marginalizzando, mettendo a tacere ed eclissando il peculiare orizzonte di senso dei diretti interessati. Il lavoro che parrebbe utile, e anzi necessario, fare, è quello di individuare le tracce significative e veritiere in un testo pensato e scritto da altri, che degrada le persone con disabilità da soggetti di opera a oggetti di osservazione e cura, cui non sembra essere riconosciuta la possibilità, la libertà e la capacità di modificare il quadro dei rapporti sociali. Dall’altra, quando mancano tracce, potrebbe ipotizzarsi che chi passava fosse troppo leggero per lasciare il suo segno e che quindi sia stato tenuto, a bella posta, fuori dalla storia. Ma si tratta, a ben vedere, di un’assenza che, se rispettata e ben interpretata, potrebbe raccontare molto, rimandando al rapporto tra gli elementi significanti e significativi, visibili e invisibili. Ad accomunare queste due difficoltà un comune status di esclusione, dove l’esclusione non parrebbe essere necessariamente il frutto di un processo di segregazione fisica e sociale, bensì di una negazione di umanità, legata all’impossibilità di un reciproco rispecchiamento e riconoscimento foriero di reciprocità[8].
Sovente, le persone con disabilità all’interno della grande storia sembrerebbero essere assenti, forse a causa di quella separazione, evidenziata da Jacques Le Goff, tra l’oggetto di studio della storia e quello dell’etnologia. In tal senso, le persone con disabilità per molti versi non sembrerebbero all’altezza di essere ricomprese all’interno delle cosiddette società evolute di cui si occupa la storia, finendo per essere relegate nell’ambito di studio dell’etnologia al pari degli uomini primitivi, i quali, similmente, vengono equiparati quasi a mostri. Anche per quel che attiene la storia delle comunità essi non sembrerebbero essere annoverati tra i personaggi ritenuti importanti, bensì assimilati a quelli da trascurare, perché di poco valore, quando non addirittura un problema e una disgrazia. Per questo, ciò che si sceglie di tacere e di rimuovere, come parrebbe essere in questo caso, è altrettanto importante, se non di più, di quello che si sceglie di “mantenere” in vita, metaforicamente, in quanto i silenzi sono lo specchio di indifferenze e paure che si vorrebbero ignorare, mettendo a tacere chi le incarna, in quanto presenza indesiderata e indesiderabile, e cancellandone ogni traccia.
Per dare voce e interpretare i silenzi sembrerebbe essere necessario interrogare anche e soprattutto i documenti appartenenti ai generi minori[9], per costruire quell’antropologia storica di cui parla Le Goff, in cui mettere al centro l’esperienza umana concreta[10]. Le parole contenute nei documenti parrebbero essere molto importanti, in virtù della loro funzione referenziale, che non le collega direttamente ai fatti reali, bensì alla struttura sociale di riferimento dell’individuo e al suo contesto relazionale. In sintesi, le parole restituiscono il senso delle persone rappresentate, dei gesti e degli oggetti, nell’ambito delle forme culturali ed ideologiche di una data società[11]. In quest'analisi, si ricorrerà anche al supporto di strumenti interpretativi come il cinema e la letteratura.
Frezza, richiamando Raymond Williams, sottolinea come egli individui il generarsi della forma di spettacolo del cinema a partire dal drama, cioè da quelle concezioni non solo espressive del teatro moderno (Cechov, Strindberg, Stanislavskij e simili), e da esigenze innanzitutto culturali, in base alle quali il pubblico, dalla seconda metà dell’800, chiedeva l’elaborazione e l’allestimento di spettacoli sempre più significativi e ben fatti, che risultassero sia divertenti sia realistici, fornendo un senso di meraviglioso. Quest’orientamento richiesto a gran voce dal pubblico, quale fruitore degli spettacoli, parrebbe implicare la necessità contenutistica di non creare mondi favolistici distanti dalla vita reale e quotidiana, bensì do rappresentarla con tutto il carico di problemi e sofferenze che reca con sé, dal lavoro alla famiglia, passando per le differenze di classe e il rapporto fra povertà, ricchezza e ruoli sociali. Ma il cinema parrebbe essere anche capace di captare, prima di altri strumenti, fenomeni in stato embrionale e germinativo, trasformandosi in precursore dei tempi. Il cinema. dunque, sembrerebbe avere in sé la capacità di librarsi al di sopra di un universo “standardizzato”, rivelando come emergano, a partire da una base condivisa e da un sentire comune, le differenze e le novità, anche laddove esse costituiscano un elemento di disordine, tali da giustapporsi, ma anche, talvolta, di sovrapporsi ad una cultura abituale e normativa.
In esso e negli spettacoli proposti, sembrerebbe sia rifluire il costante bisogno di rispecchiarsi in coloro che vengono percepiti come simili per riconoscersi come uguali, sia la capacità di intravedere il nuovo, il diverso, il difforme, l’elemento che esce fuori dalla norma standardizzata e dai canoni e su cui la coscienza umana individuale e il tessuto culturale pubblico e collettivo devono compiere delle scelte (accogliere o rifiutare). Il nucleo centrale di pensiero proprio del linguaggio cinematografico rivela così di essere aperto al nuovo, capace di ficcarsi nella profondità del sapere e delle pratiche umane, inducendo riflessioni a catena e disvelando possibili universi di significato. Se guardato dalla prospettiva delle scienze sociali, questo medium può rappresentare un ambito di osservazioni profonde, non occasionali ma strutturali, sui mutamenti della società e sugli orizzonti che questa persegue, conquista, accetta, in maniera differenziata a seconda del tipo di struttura sociale, o rifiuta[12]. Nevralgico anche l’apporto conoscitivo e interpretativo conferito dal ricorso alla letteratura.
Nell’800, il confine tra letteratura e sociologia appare sfumato: entrambe descrivono e provano a dare alcune chiavi interpretative del reale. Non è raro il caso di scrittori che inseriscano nei loro scritti concetti sociologici, divenendo sociologi ante litteram o di sociologi, come Auguste Comte, che, dopo un primo rifiuto, si trovino a dover riconoscere il ruolo interpretativo ed evocativo proprio della letteratura. A un certo punto, però, la sociologia afferma di possedere una netta differenza rispetto alla letteratura. Perché questa netta separazione? Perché vuole affermare una supremazia conoscitiva in nome della scientificità del suo sapere. Ciò la porta a discostarsi dalla letteratura, per avvicinarsi al metodo delle cosiddette scienze dure che, pur tuttavia, oggi riconoscono il mito dell'oggettività assoluta per quello che è: un mito appunto. Sicuramente sociologia e letteratura hanno un diverso modo di approcciarsi al reale ai fini conoscitivi. Infatti, la sociologia, anche quando prende in considerazione un dettaglio lo fa con lo scopo di soddisfare il parassita della conoscenza della realtà sociale. È questo, infatti, il suo scopo ultimo. La letteratura, invece, vuole valorizzare e mettere in primo piano il dettaglio. Il riavvicinamento tra questi due ambiti parrebbe essere siglato quando il confronto cessa di essere scontro per l’aggiudicazione della supremazia conoscitiva e diviene indagine che si focalizza su aspetti diversi del reale. In tal senso, la letteratura potrebbe rivelarsi di grande utilità strumentale per la sociologia, poiché il suo occhio che si posa sulla realtà sociale, interpretandola, è in grado di mettere in evidenza alcuni particolari e personaggi importanti che, in quanto espressione di una peculiarità e attori sociali nevralgici, si rivelano di grande interesse per la sociologia stessa[13].
Disabilità fisica e mostruosità: un’equiparazione che si snoda tra passato e presente
Le persone con disabilità, in virtù della loro deformità e difformità rispetto a quanto prevede l’asse normativo, che fissa lo standard di ciò che è utile e indispensabile, sembrerebbero spesso, nell’immaginario individuale e collettivo, essere equiparati a esseri mostruosi. Un’operazione che sembrerebbe finire per negarne addirittura lo status umano. Il termine mostro indica un qualcosa che sembrerebbe essere portentoso, un prodigio o, al contrario, qualcosa di negletto e orripilante. Il trait d’union di entrambe queste connotazioni parrebbe essere l'avere connotazioni e proporzioni o sproporzioni fisiche, che non si conformano a norme e canoni prestabiliti[14]. Il mostro, a seconda dell'accezione scelta e della soluzione adottata a livello storico-sociale, sembrerebbe rappresentare qualcosa da occultare, nascondere, eliminare socialmente e fisicamente, o al contrario da mostrare quale monito per le coscienze a non deviare dai giusti canoni. Oggetto di custodia di tipo conservativo, onde essere esibito per far divertire i nobili e la corte o per impaurire le anime del volgo.
I mostri parrebbero fare la loro comparsa quando alla cosiddetta soluzione di tipo 1, illustrata da Claudio Roberti nel suo libro L’Uomo A-vitruviano, corrispondente a un’eliminazione fisica accompagnata da una serie di rituali, si sostituisce progressivamente, come già detto, quella di tipo conservativo, di tipo custodialistico prima, e caritatevole poi, con annessa ostentazione quale monito per le coscienze a non cadere e permanere nel peccato. I mostri così diventano fenomeni che si palesano e vengono esposti da altri individui. Fenomeni da baraccone, freaks o deformità, che vivono occultati nell’ombra, nascondendosi agli sguardi altrui. In questo frangente, durante il periodo medievale, caratterizzato da scelte ibride nelle soluzioni da adottare, dato che si ricorre ancora, in molti casi all’eliminazione fisica, ci si comincia anche a interrogare sulla possibile causa di queste deviazioni della natura. Le risposte sembrerebbero essere, spesso, di natura mistico-esoterica, facendo ricorso all’opera di streghe e levatrici in combutta con il demonio.
L’eliminazione fisica, in tal caso, appare essere duplice: per le streghe, infatti, era previsto il rogo, per i bimbi nati deformi la subitanea soppressione, pratica legittimata, fino al XVII secolo, dalla Santa Inquisizione[15]. Secondo la Chiesa, i mostri incarnano l’inconoscibile e la loro deformità costituisce un attentato alla ragione e all’ordine cosmico. «Noi chiamiamo mostri - scrive Agostino - quelli che tali non sono secondo Iddio, il quale vede nell’immensità della sua opera l'infinità delle forme che vi ha compreso... Noi definiamo “contro natura” ciò che avviene semplicemente contro la consuetudine; ma in realtà non esiste niente che sia se non secondo la natura, qualunque cosa sia»[16]. E inoltre: «[…] Anche le deficienze non sono prive del loro ordine»[17]. Per essere classificato come mostro, dunque, sembrerebbe bastare l’allontanarsi dalla “norma”: potrebbe trattarsi di un individuo tarato, difforme o semplicemente vissuto come brutto, più alto o più basso della media, le cui abitudini, per scelta o per esigenza esistenziale e di salute, siano reputate diverse da quelle abituali[18].
A caratterizzare i mostri sembrerebbe essere l’inversione del rapporto di kalokagathia greco, dove alla bellezza era associata la bontà da intendersi come coraggio e valore in battaglia, non come capacità empatica e voglia di compenetrarsi nei sentimenti e nelle emozioni altrui, né in una sorta di pietas. Il mostro, invece è debole, kakòs, cioè cattivo, incapace di governare i propri istinti e di relazionarsi in maniera corretta agli altri e spesso a questa deformità fisica si associa la malvagità morale, intesa sia come aperta cattiveria sia come invidia o antipatia[19]. Le sue caratteristiche precipue sono rappresentate da: avere parti di sé che condivide con altri esseri umani come struttura anatomica, ma presenti in maniera deforme[20], da organi posseduti in eccesso o in difetto, o strutturalmente abnormi[21]. L’immaginario collettivo, in questo caso, si traspone nel mito greco-romano attraverso la figura dei ciclopi. Essi rappresenterebbero simil-mostri, perché giganteschi e dotati di un occhio solo. Il loro essere costretti a vivere nascostamente, secondo quanto riportano i miti, parrebbe anticipare un preciso disegno geoculturale, dove questi fenomeni verranno, con un eclatante passaggio dalla rappresentazione mitologica alla realtà fattuale, prima segregati, poi studiati in laboratori protetti e infine discriminati sessualmente[22]. E ancora il mostro può: avere parti che sono o ricordano componenti di altri esseri viventi e quindi che lo fanno equiparare a un uomo-bestia. Avere parti che sembrerebbero non appartenere ad alcun essere vivente e che lo rendono una sorta di alieno[23] o, anche, parti del corpo composte di materia inorganica, estranee per eccellenza, alla materia vivente, il che riconduce all’idea di una creatura sub o comunque non umana.
Nel suo libro Ombre viventi. Nani, buffoni, mostri e altre creature del Secolo d’Oro, Bouza Alvarez sottolinea come nel XVI secolo la venuta al mondo di un mostro, di un deforme, sia percepita come un segno di punizione divina, indicatore di imminenti disastri e calamità non solo per la famiglia in questione, ma anche per tutta la comunità e il territorio di appartenenza. Questo non solo getta discredito sulla famiglia e la espone a diverse forme di stigmatizzazione collettiva, ma rivela numerosi risvolti aberranti, caratterizzati da profonda disumanità. Ad esempio: la soppressione a furor di popolo, l’atto del seppellire vivi, o l’applicazione di collaudati protocolli come, ad esempio, lavacri e riti salvifici.
Nel 1500, a causa di esodi, guerre, sommosse, con correlati fenomeni di malnutrizione, scarsa igiene, malattie ed epidemie di massa, dagli esiti mortali o fortemente menomanti, la popolazione risulta decimata di una percentuale pari al 20 per cento. Tra quelli rimasti in vita, inoltre, le ombre viventi, questi corpi abominevoli, mostruosità umane, marginali di diverso tipo, costituivano un ulteriore 20 per cento del totale. In un clima caratterizzato da ignoranza e disperazione una possibile soluzione salvifica, dunque, sembra quella di cercare e sacrificare i capri espiatori. Nel XVII secolo, si cominciano a elaborare alcune spiegazioni dei mostri, attraverso le prime autopsie mediche, fondate sul metodo clinico e induttivo di osservazione del paziente, effettuate su quelli che vengono definiti come deviazioni della natura[24].
Con tali spiegazioni, però, sembrerebbe anche giungere una prima rozza e approssimativa parziale legittimazione a esistere per queste deviazioni della natura. Anche in base ad alcuni archetipi religiosi, derivanti dal marchio del peccato originale, si arriva, dunque, alla conclusione che il genere umano possa manifestarsi, talvolta, sotto forma di mostruosità. Antonio de Torquemada, ad esempio, ammette che possa accadere che i frutti del giardino terrestre siano curiosi e difettosi, non solo tra piante e animali, ma anche a livello di mostri umani. In continuità, si pone anche Isidoro de Sevilla, che muove da concetti agostiniani, sostenendo che i mostri non siano elementi contra naturam, per poi addentrarsi nei meandri di una dettagliata descrizione delle deformazioni fisiche. A questo punto, quindi, attraverso la manifestazione di un utilitarismo tematico, finalmente anche i mostri assumono una loro brutale utilità sociale. Da una parte, infatti, queste anime sfortunate e dannate parrebbero permettere a chi detiene il potere spirituale di ottemperare, con malcelata compiacenza, al compito di assolverle. Dall’altra, la vista delle loro deformità e della loro sofferenza costituisce un pauroso monito per il futuro: non sei tu ma avresti potuto esserlo e per il futuro, se devii dalla retta via, la situazione potrebbe cambiare.
Rispetto ai possibili atteggiamenti palesati nei confronti dei mostri ne abbiamo due antitetici: la repulsione, cioè il rifiuto di riconoscere questi esseri come appartenenti al consesso umano e, di conseguenza, l’allontanamento coattivo in nome della salvaguardia del benessere collettivo contro la mostruosità; e l’empatia, la pietas, la solidarietà umana, che sa trasformarsi in attrazione. Di solito, il mostro è avvertito come una presenza negativa, in quanto orribile alla vista e crudele nel comportamento, e questo parrebbe generare, nei più, una sorta di ribrezzo. Non sempre, tuttavia, è così. All’origine di una forma di attrazione, infatti, sembrerebbe esserci il concepire la deformità o, più in generale, la straordinarietà di tale essere come motivo di timore reverenziale, rispetto e compassione. A tale creatura, infatti, si attribuiscono spesso poteri sovrannaturali, oppure in lui si riconosce qualcosa di umano verso cui provare empatia, solidarietà, fratellanza, in nome di una comune e riconosciuta appartenenza al genere umano[25]. Tale creatura, però, nonostante una radice ontologica comune, è, spesso, vittima di un diverso destino, che la costringe a vivere un’esistenza sofferta e solitaria[26].
Nell’epoca contemporanea, tali esseri mostruosi parrebbero essere considerati in esubero, un termine coniato proprio dall’epoca moderna, inutili e non necessari, e in quanto tali eliminabili. In tal senso il termine esubero sembrerebbe indicare un bene privo di attrattiva e senza acquirenti o un prodotto imperfetto o difettoso, inutilizzabile. Il termine esubero, dunque, parrebbe condividere il suo spazio semantico con concetti come “scarti”, “prodotti di risulta”, “immondizie”, “pattume” e, in definitiva, rifiuti[27].
Essi risultano essere non solo indesiderabili fisicamente e socialmente a causa del loro aspetto e della loro presunta incapacità di svolgere un ruolo sociale produttivo, ma anche costituire un problema finanziario, perché occorre “provvedere a loro”, vale a dire lavarli, nutrirli, dar loro alloggio. Essi, infatti, non sembrerebbero possedere i mezzi idonei a garantirne una sopravvivenza autonoma, innanzitutto a livello biologico. Un onere economico e finanziario che parrebbe non far altro che alimentare l’intolleranza da parte di coloro che non concordano con questi rimedi di natura sociale e assistenziale, corroborando l’idea che le persone con disabilità oltre che mostruose e inutili e improduttive[28], e in quanto tali in esubero, risultino anche parassitarie, a danno degli interessi e del benessere della collettività. Non è un caso che questi esseri umani in esubero vengano definiti ombre viventi. Infatti, sembrerebbero essere ridotti a cose sfocate ed escluse, gettate nell’ombra, costrette su uno sfondo vago e invisibile. Essi infatti, non essendo conformi a un’idea, parrebbero, come già detto, portare il disordine o comunque impedire l’azione del riordinare positivamente l’ambiente. Ecco perché essi non appartengono più a quel che è, ma a loro è stata negata l’esistenza e uno spazio.
Quella legge che parrebbe decretare la conformità solo di alcuni individui a quanto stabilito dall’asse normativo di riferimento, parimenti sembrerebbe creare la categoria universale dell’escluso e un luogo, cui è vietato l’accesso agli altri, in cui relegarlo, istituendo così una discarica per quelli che vengano etichettati come rifiuti umani. L’escluso, nella definizione di Agamben, rifacendosi a quanto stabilito dal diritto romano, è un uomo sacer, la cui vita è priva di valore e che è fuori sia dalla giurisdizione umana sia da quella divina. In termini laici contemporanei, si potrebbe dire che egli non sia definito da leggi positive per quel che è e per il suo valore, nella sua inseità e non possieda diritti umani che precedano un corpus di norme cogenti per preservarne l’esistenza in vita. Infatti, nel tempo, tali norme hanno dovuto vietarne, coattivamente e facendo appello a principi etici, l’eliminazione fisica. A lui sembrerebbe essere comunque precluso, tuttora, uno status pieno di cittadino, non essendo reputato un prodotto utile, ed in quanto tale legittimato ad essere e ad agire, bensì uno scarto[29]. Quindi, l’escluso, essere inutile, molesto e mostruoso, parrebbe essere caratterizzato solo al negativo nell’immaginario collettivo, per quello che non è e non è capace di essere.
La persona con disabilità, caratterizzata come mostruosa, viene posta nell’allocazione dell’altro,irriducibile al sé, assieme al gruppo cui appartiene, perché, se ci si mette a tracciare confini, scavare fossati e innalzare muri, sormontati, fattualmente e metaforicamente, da filo spinato, l’inferiorità di un membro appartenente a una tribù estranea è e dovrà essere considerata e affrontata come se fosse un problema insuperabile, inciso nel destino, eterno e insanabile. Un’inferiorità che parrebbe corrispondere ad un marchio indelebile che si sottrae a qualsiasi possibilità di rimedio e sfugge a qualsiasi tentativo di riabilitazione[30]. Un’inferiorità che ha attraversato i secoli e le alterne vicende sociali e politiche. Nell’epoca del regime nazista, di fronte alle atrocità perpetrate nei confronti delle persone con disabilità ritenute dei mostri, ancora una volta i termini del discorso e dell’azione si invertono, inducendo l’essere umano pensante e senziente, prima ancora che lo studioso, a chiedersi chi fossero i veri mostri.
Infatti, dopo le sperimentazioni “selvagge” nelle colonie dell'Europa dell’Est i sogni di pulizia etnica vengono riportati in contesti di vita metropolitani. Le normali remore e barriere etiche sono attenuate a favore di un clima di onirica onnipotenza. Coloro sui quali si sperimenta, senza alcun freno morale ed etico, sono proprio i rappresentanti di quelle vite indegne di essere vissute. Anche grazie a tali esperimenti vengono affinati i criteri per decidere su sterilizzazione, aborto e castrazione, andando a stabilire chi abbia diritto a riprodursi e a nascere e chi no, in quanto equiparati a una razza subumana. Nel programma di eutanasia T4 vengono eliminati almeno 70mila anziani e persone con disabilità a causa di esperimenti dannosi, brutali e privi di senso, condotti sotto la maschera della scienza e della pseudoscienza, secondo i criteri di una dottrina scientifica di confine e dell’eugenetica, che andavano ben oltre qualsiasi ragionevole applicazione della biologia evolutiva. Un omicidio di massa, travestito da ricerca scientifica, troppo ampio e sistematico, nel voler eliminare tutte le vite ritenute “mostruose” e non degne di essere vissute, per essere decodificate solo come il frutto di azioni esercitate da meri individui devianti e sociopatici isolati. Atteggiamenti che stravolgono il senso della vita e della morte e che si estendono ben oltre il chiuso di un laboratorio, colonizzando la quotidianità e legittimando la mostruosità e l’orrore. Per Hitler le persone con disabilità, cui egli non sembrerebbe riconoscere il rango di esseri umani, sono simili a grosse e assetate sanguisughe, a parassiti usciti dai sogni peggiori, a virus, terribili demoni, a vampiri, a non morti, abituati a muoversi tra la putredine, il tanfo dei cadaveri, la sottomissione di sé, la debolezza, la malattia e la degenerazione. In quanto tali, sono ritenuti nemici. Nella sistematica operazione di repulisti, il ruolo svolto dall’immaginario sembrerebbe essere nevralgico, con una specifica mitologia ad hoc, che crea, sostiene e giustifica un certo assetto di potere. Infatti, nell’immaginario collettivo propugnato e nutrito all’insegna della ferocia, gli ebrei e quelle vite non degne di essere vissute penetrano, alla stregua di parassiti, sempre più a fondo nella loro vittima, essere umano o nazione che sia, succhiandone le ultime briciole di vita, nutrendosi del suo potere creativo e del suo slancio vitale, fino a portarla alla disintegrazione. L’idea del mostro parrebbe, quindi, essere supportata da una scienza, o per meglio dire da una pseudoscienza, di tipo esoterico.
Con la fine della guerra, il rapporto di forza sembrerebbe invertirsi e parrebbero essere i nazisti a essere oggetto di un processo di stigmatizzazione da parte degli stessi tedeschi. Sono loro ad essere investiti da un processo di demonizzazione, in base al quale vengono immaginati come belve, diavoli, mostri capaci di fingersi umani, in grado di arrivare a qualsiasi depravazione, anche a profanare cadaveri[31]. Potrebbe sembrare una temperie storica e sociale superata, frutto di epoche connotate dalla barbarie e dall’ignoranza ma così non è, se si pensa che negli anni ’80, il portiere Astutillo Malgioglio, che sceglie di spendere i propri soldi e le proprie ferie per aiutare i ragazzi distrofici, una scelta consapevole e supportata da una forte idea di trasformazione sociale, viene sistematicamente isolato e diviene vittima di indifferenza, insulti e di processi di stigmatizzazione. Secondo la feroce logica del branco, il suo impegno a favore dei più esposti a livello sociale, diventa il grimaldello per metterlo alla berlina. Lo si accusa di scarso impegno dato che «Se stai sempre con gli handicappati, quanno ce pensi ar pallone?». L’acme si ha durante la partita Lazio-Vicenza, serie B, quando lo striscione in curva non lascia spazio alle interpretazioni. «Torna dai tuoi mostri»[32].
Lo spazio simbolico relazionale teso tra repulsione e fascinazione
Il canone del bello e buono greco nel XVII secolo sembrerebbe essere rivisitato in chiave teocratica iberica. Infatti, da una parte vi sono i bei normodotati, quelli che Roberti definisce vitruviani, perché conformi al canone di armonia e proporzione tra le forme elaborato da Vitruvio, dall’altra i mostri disabili. Uno scontro tra la bellezza e la bruttezza, la vita e la morte così, come appaiono esemplificate e incarnate, la salute e la malattia, la punizione e la grazia divine. A quanto riferisce Lope de Vega, a un certo punto si comincia, all’interno dei serragli, equiparabili a fogne e discariche umane in cui venivano versati gli scarti della società e le ombre viventi, in una situazione promiscua tra persone con disabilità acquisita, presente dalla nascita e altri tipi di esseri inutili e dannosi,a cercare di selezionare quelli maggiormente recuperabili e rifunzionalizzabili, che possano essere resi in qualche modo utili, da adibire nei vari palazzi nobiliari e poi a corte. In base a griglie selettive che vengono strutturate progressivamente su base territoriale, parrebbe rendersi possibile la selezione capillare di quei casi reputati più piccanti, campioni da prelevare ed ergere ad esempio, ostentandoli a palazzo per produrre spectaculum, appagando la curiosità, spesso morbosa, dei signori e assecondando e aumentando il loro divertimento.
I serragli costituiscono dei veri e propri siti di giacenza per questi disgraziati e indesiderati, in cui questi mostri vengono depositati o, al contrario, da cui sono prelevati per essere portati a palazzo o in strada a dare spettacolo di sé e della propria deformità, essendo considerati alla stregua di paradossi della natura, utilizzati e mostrati come esempi viventi di punizioni esemplari. Nei mercati e per le strade si espongono e vendono mostri d’ogni specie, spesso posti in anguste gabbie tra lamenti, disperazione ed escrementi Essendo i bambini e i nani particolarmente apprezzati e ricercati, qualche solerte medico si impegna nella ricerca di unguenti per fermare la sviluppo degli infanti. Ma, non trovandosi soluzioni farmacologiche abbastanza valide, l’espediente, di stampo ortopedico, più efficace rimane quello di rinchiudere i bambini in delle casse per farli crescere da nani. Infatti, questo tipo di persone con disabilità parrebbe generare una particolare forma di attrazione, sotto forma di un feticismo patologico, che equipara i nani a marionette viventi, adulti-bambini considerati deliziosi e preziosi. Un feticismo che sembrerebbe raggiungere punte orrorifiche con il collezionismo dei resti umani dei mostri passati a miglior vita, a mo’ di feticci o reliquie.
La fascinazione, spesso, parrebbe essere attivata, in particolare, da quei mostri con disabilità la cui menomazione possiede caratteristiche gestibili, in quanto utili per ragioni di servizio o simboliche,e per questo amati, protetti e vezzeggiati al pari di animali da compagnia[33], o funzionali a soddisfare, nascostamente, alcuni inconfessabili desideri. Quest’attrazione, a tratti morbosa, sembrerebbe rientrare nel fascino esercitato dalle novità, la cosiddetta neofilia (amore del nuovo). La neofilia si contrappone alla neofobia (timore del nuovo). che si concretizza anche in una repulsione profonda per ogni forma di diversità. Al fondo, parrebbe esserci la convinzione che qualunque cosa non familiare sia potenzialmente pericolosa e vada avvicinata con cautela. Verrebbe da chiedersi: “Non sarebbe meglio se qualsiasi forma di novità, potenzialmente destabilizzante, venisse direttamente evitata?”. La risposta sembrerebbe essere no, perché questa scelta aprioristica comporterebbe il rischio di non avanzare nella conoscenza della realtà. Infatti, l’impulso neofilico parrebbe spingere l’individuo ad avvicinarsi a ciò che è sconosciuto, per conoscerlo e farne esperienza. In questo modo, potrebbe attuarsi una sorta di normalizzazione di vari tipi di fenomeni perturbanti, riconducendoli, almeno parzialmente, a ciò che appare familiare e noto e, in quanto conforme a norme sociali conosciuto e accettato, rassicurante o comunque gestibile.
A ben vedere, anche alcune forme di nevrosi, caratterizzate dal compiere sempre gli stessi movimenti stereotipati, potrebbero essere il frutto di un estremo tentativo di opporsi agli effetti eversivi di ciò che viene avvertito come non noto e non conosciuto. Una routine messa in atto, con intenti tranquillizzanti, da alcuni individui, in ambienti che loro percepiscono come caratterizzati da una carica di neofobia particolarmente intensa e potenzialmente sovvertitrice dell’ordine costituito, ed in quanto tale difficile da gestire, finirebbe, così, per sostituire l’equilibrio generativo tra neofobia e neofilia, generando un eccessivo attaccamento alle regole socialmente definite e traducendosi in un rigetto di ogni forma di differenza, percepita e trasformata in una diversità mostruosa[34]. Tutto ciò che è considerato mostruoso ed equiparato a un rifiuto sociale sembrerebbe, parimenti, essere trattato come una cosa vile e spregevole. I rifiuti stessi, però, parrebbero possedere una natura ambivalente: divini e satanici, oggetto di attrazione e di repulsione, di ammirazione e timore. Il loro destino non parrebbe dipendere, richiamando il pensiero di Mary Douglas, da una loro natura intrinseca o da una logica interna, bensì dai progetti umani cui sono destinati, che li renderebbero ispiratori di ammirazione, timore o repulsione spingendoli a divenire rifiuti o, al contrario, reliquie[35].
Se considerato come un rifiuto, il corpo mostruoso delle persone con disabilità è involucro che racchiude un essere subumano. Il corpo-organismo, infatti, non parrebbe rappresentare solo se stesso, cioè un corpo umano concreto, ma divenire anche, e soprattutto, un tassello che dev’essere collocato all’interno di una struttura sociale, in rapporto dialettico con il corpo sociale. Nel caso delle persone non disabili, che momentaneamente si ammalano, i loro “corpi abili”, momentaneamente impossibilitati a svolgere le mansioni sociali loro affidate, diventano lo spazio di incontro tra il medico e l’ammalato e suggellano una condizione accettata e legittimata a esistere, in quanto la difformità, nel sembiante e nei comportamenti, appare transitoria. Diverso è, invece, per i mostri con disabilità, per i quali lo stato di anomalia corporea, tale, in alcuni casi, da arrivare fino alle estreme conseguenze, è permanente.
I corpi hanno, quindi, sempre un “ruolo” per l’assetto sociale, che li inserisce in una catena significante e in un sistema di griglie di rappresentazioni sociali. Una concatenazione di significati collettivi che permette al corpo sociale di controllare e gestire i corpi individuali. Il corpo biologico è caduco ed è inevitabilmente destinato a morire: anzi, in taluni casi, per la struttura sociale sembrerebbe anche essere contemplata e accettata la possibilità che la morte sopraggiunga anzitempo. Ma alcuni corpi, in bilico tra la non nascita e la morte, a causa delle loro gravi limitazioni funzionali, sembrerebbero generare particolare sgomento all’interno del corpo sociale. La loro collocazione ibrida, infatti, parrebbe prospettare, con forza, la possibilità della morte dello stesso corpo sociale, eventualità che quest’ultimo non riesce a rappresentare, perché la morte di una formazione sociale costituirebbe un crollo di senso assoluto.
Di conseguenza, tendenzialmente, ogni formazione sociale, piccola o grande che sia, sembrerebbe propensa ad allontanare da sé l’immagine di un corpo malato, tanto più se sofferente in maniera permanente ed evidente, come nel caso di disabilità corporee che comportano palesi difformità rispetto agli aspetti fisici legittimati a esistere,o morente, in quanto lo status di questo organismo, in rapido disfacimento, e in quanto tale mostruoso, sembrerebbe richiamare implicitamente la possibilità della morte stessa del corpo sociale. In questo modo, la dimensione sociale si impossessa del destino dell'individuo/corpo, garantendo la sopravvivenza di alcuni al prezzo della morte, reale o simbolica, di altri, sotto forma di segregazione o comunque di processi di marginalizzazione, accompagnati da sentimenti e manifestazioni di orrore o scherno, e dispiegando su questi ultimi la maestosità dei mezzi di cui le formazioni sociali dispongono, a livello di morfologia, fisiologia e comportamenti corporei consentiti e benvoluti. Al fine di socializzare ogni nuovo nato in maniera opportuna ed efficace, il senso della dimensione sociale va ribadito e rinegoziato, al fine di comunicare a quest’ultimo, in maniera rapida e inequivocabile, non solo il suo proprio posto e la sua specifica funzione nella struttura sociale, ma anche quello dell’altro da sé. Di conseguenza, ogni costrutto corporeo, con le sue peculiari caratteristiche, viene incasellato per essere funzionale alle esigenze di “riproduzione” del corpo sociale e al mantenimento dell’ordine e dello status quo.
Come nelle fiabe il trionfo delle virtù dell’eroe si ottiene attraverso lo scontro con l’antagonista brutto, subdolo e cattivo, che viene sconfitto e neutralizzato, parimenti la formazione sociale crea il costrutto del corpo deviante, per abnormità o stigma fisico, e del deviante, “marchiato” con una difformità (e deformità) comportamentale e sociale, funzionale alla vittoria dei corpi normali, desiderabili fisicamente e socialmente. Per devianza si intende lo scarto rispetto al corpo statisticamente “medio” ritenuto tale in base al modello dominante, una morfologia paradigmatica considerata “vincente” all’interno del gruppo e della formazione sociale di riferimento[36]. Dunque, nell’agone sociale dove si estrinseca l’immaginario individuale, che circolarmente si incorpora in quello collettivo, si gioca la partita tra coloro che parrebbero essere legittimati a esistere, in quanto affini, conformi, alla norma, e coloro che da quella norma si allontanano di una misura tale da essere definiti mostri. Il loro destino sociale, dunque, essendo posti forzosamente dalla parte sbagliata della barricata sociale, nel rapporto dialettico del tipo noi-loro, è quello di essere perseguitati ed eliminati fisicamente o di sublimare la persecuzione attraverso forme di ostentazione conservativa che funga da monito per le coscienze, insegnando sia ai normali sia ai deformi mostruosi la giusta lezione su chi siano e che posto sociale occupino e debbano occupare a suon di sofferenze eteroimposte e scherno. Le persone con disabilità, dunque, sembrerebbero diventare l’incarnazione e la misura del male, consacrando, per contrasto, l’idea che bene e bellezza appartengano alla dimensione delle persone che non sono disabili[37].
Nell’immaginario collettivo, trasmesso da una generazione all’altra attraverso lo strumento dei processi educativi, spesso alla difformità comportamentale e sociale si accompagna una deformità fisica, funzionale a corroborare la prima e a renderla visibile e prevedibile. Analogamente, al corpo deviante, marchiato dallo stigma fisico, parrebbero attribuirsi, altresì, comportamenti devianti, con conseguenze devastanti per l’individuo, come avviene, ad esempio, nel caso dell’attribuzione della colpa[38] e della cattiveria: perché il mostro non deve essere deforme solo nelle sembianze, ma anche nell’anima, caratterizzato da intenzioni mostruose e distruttive. Un’altra possibile interpretazione della duplice reazione nei confronti delle persone con disabilità, altalenante tra repulsione e timore o attrazione e feticismo, che sembrerebbe potersi affiancare a quella relativa all’equilibrio dinamico e precario tra istinti neofobici e neofilici, è quella inerente al riconoscimento di una similitudine, sulla base di una comune fragilità e di una comune radice umana, tra sé e coloro che appaiono difformi rispetto a quanto prescrive l’asse normativo. Se questa similitudine viene riconosciuta e accettata potrebbe nascere una spinta neofilica e attrattiva. Se, invece, viene negata, instaurando processi fobici, allora si paleserebbe la repulsione, Se, però, un equilibrato atteggiamento di interesse e curiosità dovesse sfociare in un’attrazione morbosa, in chiave feticistica, sembrerebbe che ci si trovi di fronte ad un’altra possibile faccia, seppur maggiormente celata, della repulsione, intesa come processo di stigmatizzazione in nome di una presunta inferiorità[39].
L’ostentazione dei mostri con disabilità, con l’intento di soddisfare una curiosità morbosa, e provocare sollazzo e dileggio, ha una sua peculiare declinazione nel fenomeno dei freaks, i fenomeni da baraccone, esposti per strada o nei circi. In quest’ambito un posto d’onore sembrerebbe riservato agli ermafroditi e ai gemelli siamesi. I primi sono considerati degli errori sessuali e corporei, rifacendosi al titolo del libro di John Money, laddove la normalità sessuale parrebbe essere un residuo dei tabù e della pruderie del vittorianesimo. Maggior fortuna, poi, sembrerebbe abbiano avuto i gemelli siamesi, forse perché essi incarnano il mistero del doppio senza implicazioni oscene. Secondo alcune testimonianze dell’epoca, sembrerebbe che essi abbiano solo due gambe e siano divisi dalla vita in su. Secondo altre, essi possedevano quattro gambe, quattro braccia e due teste. Quel che è certo è che i gemelli siamesi riescono a sedurre la corte non solo grazie alle loro deformità, ma anche grazie alla loro perizia nel suonare strumenti musicali, nel cantare e nel parlare spiritosamente varie lingue.
Nell’immaginario, tali individui sembrerebbero essere accomunati ad altri mostri, come i nani, gli irsuti, le persone mezzo uomini e mezzo donne, gli uomini-scheletri. La fobia espressa nei loro confronti, unita a una certa dose di fascinazione, potrebbe essere connessa al fatto che loro mettano in crisi il concetto di individualità, la separazione tra il Sé e l’Altro da sé, da cui alla fine l’individualità dipende. A ben vedere, dunque, essi parrebbero mettere in crisi l’unicità non già del corpo, bensì della coscienza e dell’anima dell’individuo[40].
Il contributo all’analisi proveniente dall’universo del cinema e della letteratura
Uno strumento fondamentale per cercare di comprendere i fenomeni sociali e mediare una serie di contenuti, indirizzandoli verso un pubblico trasversale, rifacendosi alle teorizzazioni proprie dell’interazionismo simbolico, parrebbe essere il romanzo. Il romanzo, infatti, sembrerebbe essere uno degli strumenti più adeguati per penetrare all’interno delle trame della realtà sociale, favorendo, al contempo, il role taking, cioè l’assunzione del ruolo dell’interlocutore, il riuscire a “mettersi nei panni dell’altro”, per essere supportati nel compenetrarsi e nel padroneggiare il mondo delle di lui emozioni. Proprio per questo il romanzo è usato in molte contesti di descrizione, analisi, e persino terapeutici, che si occupano di soggetti considerati devianti, esclusi e/o disadattati socialmente. È importante sottolineare, però, che alcuni scrittori, nelle pagine dei loro romanzi, descrivono benissimo i meccanismi sociali, dimostrandosi bravi a coglierli, ma non teorizzano i relativi concetti. È un lavoro interpretativo e di concettualizzazione che, molto spesso, resta affidato allo studioso di scienze sociali il quale, andando a leggere alcune pagine illuminate e illuminanti ravvisa, in nuce, alcuni concetti di matrice sociologica e li sviscera.
Un libro nevralgico per descrivere i meccanismi discriminatori, intrisi di stereotipi e pregiudizi, che si attivano quando ci si relaziona a persone con disabilità, tanto più se il loro aspetto appare profondamente difforme da quello codificato, conosciuto e considerato accettabile e desiderabile a livello sociale, è Stigma di Erving Goffman, che getta una nuova luce proprio sui processi di stigmatizzazione, permettendo di comprendere i meccanismi relazionali e al contempo creando i presupposti per modificarli. In questo libro, l’autore racconta l’episodio di una ragazza che scrive una lettera alla rubrica dei cuori solitari e descrive la sua sofferenza perché, pur essendo brava a ballare, magra e avendo bei vestiti, che le compra il padre, nessuno la invita a ballare perché è senza naso. Secondo le teorizzazioni dell’autore, a far soffrire le persone con disabilità non sarebbe tanto il problema fisico quanto la messa al bando, il sentirsi marchiate come diverse. Parrebbe essere questo atteggiamento stigmatizzante ed escludente, non il deficit in sé, che impedisce o limita fortemente la vita sociale[41].
Anche il cinema, d’altronde, come già detto, è in grado di descrivere con grande immediatezza fenomeni e dinamiche sociali ma anche essere capace di disvelarne significati altri. Proprio per questo, si è scelto di analizzare alcuni racconti e romanzi, ma anche pellicole, che abbiano come protagonisti i mostri con disabilità. I mostri, rappresentati nel cinema e nella letteratura, ma anche nella peculiare declinazione del fumetto porno, parrebbero essere aberrazioni della natura. In passato, sembra che si cercasse di dare una spiegazione della loro esistenza, percepita come qualcosa di sconcertante, attraverso la teratologia. Come sarebbe potuto essere altrimenti spiegabile che la perfezione divina potesse consentire l’esistenza di orrori, aggiungendo un'ulteriore fonte di paura al già delicato, e in parte oscuro, mistero della nascita? I mostri che popolano la letteratura e le pellicole del Novecento sembrerebbero, però, non aver ereditato paure ancestrali e credenze antiche trasposte nella mitologia. Essi sono figli di paure nuove, di tipo sociale e politico, che si insinuano nell’immaginario contemporaneo, partorite dalla crisi permanente e dall’incertezza che attraversano tutto il Novecento, per poi allungare le loro ombre lunghe anche oltre. Sono, spesso, mostri dalla sessualità smisurata e quindi paurosa. Caratterizzati da un destino infelice, sembrerebbero avere sempre un lato sofferente e patetico, con un mondo normale loro ostile. Ma mettere in scena questi esseri deformi e devianti non parrebbe bastare a rassicurare, a riconciliare i normali con la vita di tutti i giorni e con i loro demoni. Il mostro sembrerebbe generare pena e repulsione, ma, parimenti, affascinare. Se in un passato lontano, secondo un’iniziale teratologia, la rappresentazione del mostro parrebbe essere collegata a un’aberrazione della natura, avvertita come minacciosa e insidiosa, accompagnata dalla paura della perdita della propria natura umana e da un profondo timore per la sessualità, soprattutto per quella agita da soggetti tradizionalmente considerati subalterni, a partire dall’Ottocento i mostri cominciano a essere connotati da risvolti sociali[42].
Le persone con disabilità, equiparate a mostri per le loro membra deformi, sembrerebbero rappresentare l’alterità per antonomasia, l’Altro per eccellenza, rifacendosi a una mitologia piccolo borghese. Il mostro, quale incarnazione dell’Altro, sembrerebbe essere il concetto che, secondo Roland Barthes, più ripugna al buon senso, così da creare una vera e propria incapacità a immaginarlo. Inizialmente, sulla scorta della fiducia nel progresso propria del neopositivismo, sia l’industria del cinema sia la cultura di massa pensano che l’effetto disturbante legato alla diversità e all’alterità sia risolvibile attraverso un’operazione di appropriazione, di assorbimento, di omologazione, di normalizzazione tout court, che ridefinisca morfologicamente l’Altro assimilandolo all'identico, attraverso il ricorso agli strumenti offerti da una razionalità tecnologica. Ma l’eclisse del nemico, com’era prevedibile, non è destinata a durare. Infatti, già verso la seconda metà degli anni ’70, sembrerebbe riaffermarsi, sotto la crosta di una razionalità indebolita e squassata, un brusco ritorno al rimosso, che coagula attorno a sé tutte le angosce persecutorie dell’estraneità, creando una nuova e contemporanea mitologia del negativo. Parrebbe esserci bisogno di individuare, oggi come ieri, un nemico esterno, ben connotato e definito, su cui scaricare e cui attribuire la responsabilità delle proprie paure.
Il mostro parrebbe essere, inoltre, il simbolo. in negativo. di una sessualità paurosa e, quindi, non può essere che annientato ed ucciso[43]. A metà tra il deforme buffo e il buffone malvagio parrebbe porsi il gobbo Mecheri de Il Palio dei Buffi di Palazzeschi. Mecheri, indubbiamente, sembrerebbe peccare di perfidia verso i suoi simili, cioè gli altri gobbi. Li sbeffeggia, li dileggia, ma la sua, a ben vedere, non è una malvagità tout court, ma il disperato tentativo di appartenere al gruppo dei normali. Lui sa di essere assimilato a una fonte di disordine e malformazione fisica, etichettabile come sudicio, potenziale apportatore di contagio e dalla sessualità vorace, un caos capace di turbare lo status quo, a causa della sua mancanza di simmetria fisiologica, ma sa anche che la sua difformità è parziale, essendo sì basso, ma dritto e snello sul davanti. Lui è amato da tutti e non invidiato da nessuno nel mondo dei normali, che lo ricercano e reclamano per allietare la compagnia e dissetarsi a quella sorgente di giocosità. Per essere assimilato e inglobato nell’universo dei normali e completare il processo di normalizzazione parrebbe esserci, però, la necessità di ripudiare l’appartenenza gruppale ai gobbi e così, in questo tentativo di legittimazione e di ripudio della sua inferiorità sociale, Mecheri non si fa specie di ridere e beffarsi degli altri gobbi.
Richiamando Guglielmi, egli parrebbe voler confondere il proprio riso con quello degli uomini normali e, così facendo, escludersi dalla famiglia dei deformi, consacrando la superiorità di quanto socialmente prescritto dall’asse normativo di riferimento[44]. Quando però si renderà definitivamente conto che il processo di normalizzazione non può che rimanere monco, resterà escluso dai due gruppi. Ripudiato sia dai normali sia dai gobbi, inviso a se stesso e disperato per la sua ormai innegabile diversità, così orrorifica da non riuscire più a guardare neanche la sua stessa ombra, Mecheri verrà così degradato ad una condizione subumana, ridotto ad un cumulo di stracci, ammucchiati lungo un marciapiede, da cui emergono dei tentacoli simili a quelli posseduti da un animale ed una forma che ricorda quella di una viscida chiocciola gigantesca[45]. Al gobbo dal cuore malvagio, reso tale dal suo tentativo parossistico di inseguire il miraggio di una possibile legittimazione dell’appartenenza al mondo dei normali, la letteratura contrappone il nano gentile e inconsapevole del proprio aspetto e della propria goffaggine, che crede che la piccola nobile, al cui sollazzo è stato destinato in occasione del di lei dodicesimo compleanno, lo ami, visto che gli ha donato una delicata rosa bianca. Le farfalle, gli uccelli e le lucertole provano simpatia per lui e sostengono che non sia poi così brutto se si chiudono gli occhi e se non lo si guarda, Però, condividendo l’atteggiamento degli esseri umani, non possono fare a meno di schernirlo, dicendo che dovrebbero rinchiuderlo, sottraendolo alla vista, per tutta la vita, a causa del suo aspetto deforme e delle due gambe storte. Il piccolo nano, del quale narra il racconto Il compleanno dell’infanta, di Oscar Wilde, vuole solo amare e proteggere la bambina, portarla nei boschi, farle conoscere il bello della natura e vegliare sul suo sonno. La sua percezione della realtà si infrangerà di fronte all’immagine riflessa nello specchio, che gli rivela che lui stesso è il mostro. Di nuovo, però, sembrerebbe tornare, implicitamente, la domanda su chi siano i veri mostri. L’infanta, infatti, nel vedere il piccolo nano contorcersi e gemere dal dolore, lo prende ulteriormente in giro, assieme agli altri bambini, incitandolo a dare ulteriore mostra delle sue capacità recitative. Poi, quando viene appurato che il nano è morto, con il cuore spezzato, dà sfogo a tutto il suo animo mostruoso dicendo che, per il futuro, per il suo sollazzo, vuole avere, come marionette viventi, solo giocattoli senza cuore, così essi non vengano mai meno al loro ruolo di giullari e buffoni[46].
Sul versante cinematografico si è scelto di analizzare quattro pellicole: Freaks, un film del 1932, diretto da Tod Browning. La donna scimmia, del 1964, diretto da Marco Ferreri, The Elephant Man, del 1980, diretto da David Lynch e La forma dell’acqua, del 2017, diretto da Guillermo del Toro. Il film Freaks[47] comincia con un ammonimento: «Questi mostri viventi provocano riso o ribrezzo, eppure, se la Natura beffarda avesse voluto, anche voi avreste potuto essere come loro!». Dei Freaks, i fenomeni da baraccone, si dice dovrebbe esistere una legge che impone di ucciderli appena nati o di rinchiuderli, celandoli alla vista, in quanto mostri, ma la proprietaria del circo sembrerebbe mostrare per questi esseri deformi e difformi, che equipara a bambini inconsapevoli, un’equiparazione stereotipata che appare tipica di quest’universo di senso e significato, uno sprazzo di umanità, dicendo loro di non aver paura. Rifiutati dal mondo, rappresentato da Cleo e dal suo amante Ercole, un uomo privo di scrupoli, prototipo di pomposa virilità, ma anche di totale assenza di empatia, i fenomeni da baraccone alimentano il loro reciproco senso di appartenenza e palesano di possedere un codice di comportamento, la cosiddetta Legge dei freaks, in base al quale promettono di difendersi l’un l’altro. I freaks si riconoscono come simili e sanno di essere contrapposti ai normali, da cui vorrebbero essere accettati ma che li deridono alle spalle, verso i quali, di conseguenza sembrerebbero nutrire un profondo senso di diffidenza più o meno evidente.
Di nuovo si affaccia la domanda: “Chi sono i veri mostri?”. Cleo, infatti, come sottolineano i freaks, prova solo disgusto per Hans e per tutti loro. Nel loro: «Non ci conoscere, ma se ne accorgerà» sembrerebbe risuonare sia un richiamo a una comune radice di umanità, che permetterebbe, se solo si volesse, di rispecchiarsi per riconoscersi simili, sia una minaccia che allude alla punizione incombente per chi si è mostrato incapace di provare un sentimento di genuina fratellanza e di rispetto per l’altrui dignità. Anche Hans parrebbe essere consapevole, in fondo al suo cuore, della mostruosità che alberga nel cuore di Cleo, consapevolezza che si evince nella frase in cui sottolinea: «Lei non si rende conto che sono un uomo con gli stessi sentimenti degli altri». A fargli eco la sua ex compagna Frida: «Per me tu sei un uomo. Per lei sei solo qualcuno di cui ridere». La verità, infatti, si paleserà, in tutta la sua crudeltà, durante il banchetto di nozze di Hans e Cleo, quando quest’ultima, in un eccesso di repulsione, griderà: “ Vi odio mostri schifosi! Mi fate schifo. Io non sarò mai una di voi […] Che cosa sei un uomo o un bambino? […] Sono io che ho vergogna di te! […] Devo farti giocare come un bambino?». Il film si conclude con la vittoria dell’amore tra Hans e Frida, che parrebbe rinsaldare il vincolo tra i freaks e quella parte del mondo dei normali capaci di mostrare empatia, solidarietà e reale umanità. Cleo, invece, verrà punita, divenendo il vero mostro e conformandosi, nelle fattezze, alla mostruosità che ha dentro.
Ne La donna scimmia[48], Antonio Focaccia, impresario di fortuna, decide di fare di Maria, una giovane orfana che vive in un orfanatrofio, nascosta alla vista della collettività, un fenomeno da baraccone, sottraendola, così, a un luogo sicuro, dove le è assicurato un piatto caldo. Costruisce un apposito setting dove la espone agli sguardi e ai tocchi indiscreti e pruriginosi del pubblico, la ostenta e la ridicolizza. Di fronte alle proteste della donna, che gli chiede rispetto e considerazione e si stupisce che non gli dia fastidio che alcuni sporcaccioni la tocchino, Antonio ribadisce: «Tu non sei una donna: sei un fenomeno e basta!» La riduzione di Maria a cosa da ostentare e dalla quale trarre guadagno, è un atteggiamento che sembrerebbe attraversare tutto il film, divenendo particolarmente feroce in alcuni passaggi, come quando Antonio vuole cedere la donna, per alcuni giorni, a uno studioso che si occupa di fenomeni. Lo pseudo-scienziato palesa subito la sua intenzione di voler studiare questi esseri dal punto di vista biologico. Maria viene così equiparata a un animale, non privo di timidezze, che a volte sembrerebbe palesare comportamenti umani. Ma lo studioso ha anche altri intenti torbidi: dopo essere stato rassicurato sul fatto che il fenomeno non abbia ancora avuto una vita sessuale, dichiara, infatti, di volerne studiare la capacità evolutiva e di volerla osservare nella sua reale vita affettiva.
Maria, vistasi privata della sua legittima condizione umana e della sua libertà di scelta e autodeterminazione, fugge, ma Antonio, per continuare a sfruttarla, riesce ad ottenere la possibilità di sposarla, salvo poi negarle l’accesso, in un primo momento, a un pieno esperimento della sua dimensione sessuale, adducendo come giustificazione il fatto che lei sia una bambina e certe cose non le possa capire e che il loro affetto possa essere solo quello esistente tra un fratello e una sorella. Ma Maria, testardamente e tenacemente, ribadirà sempre di essere una donna tout court e non un fenomeno e perorerà la legittimità della sua richiesta d’accesso alla sessualità, essendo loro marito e moglie a tutti gli effetti. Di fronte all’ennesimo tentativo di lucrare di Antonio, in occasione della scoperta della sua gravidanza, Maria si ribellerà, ribadendo la sua aspirazione a un destino di normalità e di accettazione per il figlio: «Sei un porco… Pensi solo ai soldi… Sei tu che sei un mostro! Mio figlio lo porterò dai medici e lo farò curare. Farò tutto quello che non hanno fatto per me!». La pellicola si conclude con la morte di Maria e del figlio che ha partorito, mostruoso come lei, anche se Antonio rassicura la moglie morente sul fatto che le tante preghiere e invocazioni abbiano avuto effetto e che il bambino sia, come tanto agognato, normale e bello. Antonio, che in un primo tempo pare addolcito da un amore sincero, non perderà l’occasione per continuare a lucrare sui corpi della moglie e del figlio, anche dopo morti. Infatti, in un primo tempo ne cederà i corpi a un museo, affinché vengano imbalsamati ed esposti per amore della scienza. Poi, con un espediente, li reclamerà e riuscirà a ottenerne la restituzione, facendone, per l’ennesima volta, oggetto di esposizione per le strade.
A questo punto verrebbe da chiedersi: ma cos’è davvero la tanto decantata normalità? Il termine è profondamente connotato ideologicamente, secondo quanto sottolinea Zygmunt Bauman, e a ben vedere sembrerebbe indicare una rappresentatività o meno a livello statistico. I normali, dunque parrebbero essere coloro che appartengono a una maggioranza statistica. Gli anormali, invece, quelli che ricadono in una minoranza di tipo statistico, che non si conforma alla norma e che, quindi, presenta una dissimiglianza, una difformità[49]. Tale gruppo subalterno parrebbe, inoltre, costituire anche una minoranza di potere. In The Elephant Man[50] il dott. Treves, sottolinea: «Nel corso della mia vita ho visto tante deformazioni fisiche e del volto dovute a lesioni e morbi, ma non ho mai incontrato una tanto e terribile degradata versione di un essere umano con anomalie congenite tali da essere chiamato uomo elefante».
Nella consapevolezza che la gente sviluppi un sentimento di paura per ciò che non riesce a capire, Treves, di fronte alla depravazione d’animo mostrata da tanti sedicenti esseri umani normali, si chiede, rispetto al suo proprio comportamento nei confronti di Merrick, «Sono un uomo buono o un uomo cattivo?». John/Joseph, infatti, sembrerebbe essere costantemente al centro di una girandola di comportamenti mostruosi: lo prendono in giro, ne mostrano le deformità, per farlo deridere. Lo fanno bere, per farne zimbello e per simulare, in maniera grottesca e priva di empatia e umanità, quello che a John/Joseph parrebbe essere precluso nella vita reale e quotidiana: una bevuta con amici, quale rito di aggregazione, e il bacio di una donna quale segno di amore e desiderio. Non a caso, infatti, quel bacio arriverà da una prostituta, non per trasporto sincero, ma per schernirlo ulteriormente e ferocemente.
La negazione della legittimità dell’esistenza e del bisogno di appartenenza e accettazione, parrebbe avvenire anche quando il medico sottolinea come non sia in ballo l’accettare o meno un simile essere nella compagine umana, bensì l’accertarsi entro quanto verrà liberata la sua stanza, per occuparsi di casi davvero utili per i quali valga la pena adoperarsi. Il medico, dunque, sembrerebbe implicitamente evidenziare come sia inutile, e anzi inopportuno, spendersi per aiutare un essere subumano o addirittura ritenuto non umano. Appare quindi dannoso, perché sottrae risorse e tempo da dedicare a soggetti guaribili, adoperarsi per un essere fattualmente non normalizzabile e non curabile. Nella scena dell’inseguimento alla stazione, il protagonista, prima di svenire, esausto e spaventato, riafferma con forza e disperazione la richiesta di riconoscimento della sua natura umana: «Io non sono un elefante, non sono un animale... Sono un essere umano». Merrick, dall’animo gentile e sofisticato, quindi, anela che venga riconosciuta la legittimità della sua esistenza e alla fine riesce a vivere uno “scampolo” di soddisfazione del suo bisogno di appartenenza, attraverso l’amicizia e la protezione offertagli da Treves, da sua moglie Ann e da Miss Kendall. Ma questo spiraglio di luce e autentica umanità non riesce a sottrarlo allo scherno, alla cattiveria, alla presa in giro feroce e all’esibizione nei circhi e nelle fiere delle sue deformità, a scopo di sfruttamento e ostentazione, per il sollazzo degli astanti e come monito per le coscienze. Alla fine Joseph/John, ormai allo stremo delle forze, deciderà di morire e lo farà dormendo nella posizione dei normali, una posizione che lo soffocherà, come lo hanno soffocato tutti gli schemi normativi, quelle regole decise dall’alto ed eteroimposte in nome di un processo di normalizzazione.
La possibilità di umanizzazione, come la pellicola sembra sottolineare, parrebbe essere possibile solo attraverso uno sguardo che è in grado di rispecchiarsi nell’uomo elefante, riconoscendone la gentilezza d’animo e riconoscendolo simile a sé, pur nelle evidenti diversità. A incarnare tale sguardo è l’attrice Miss Kendall che riporta l'uomo verso se stesso e verso la consapevolezza del suo valore, dicendo «Signor Merrick lei non è affatto l'uomo elefante... È Romeo». L’ostentazione, a scopo lucrativo, sembrerebbe essere rappresentata dal malvagio e violento signor Bytes, e il rifiuto da parte della figura femminile, comportante l’interdizione alla sfera affettivo-sessuale, parrebbe incarnarsi nel terrore suscitato nelle infermiere dall’aspetto di John/Joseph, un orrore che costringe l’uomo all’isolamento, allusione alla più ampia esclusione dalla compagine sociale e lo obbliga a sottomettersi alla necessità, eteroimposta, che egli viva segregato e nascosto agli sguardi. In un passaggio nevralgico della pellicola, Merrick viene invitato dal dottore a prendere un tè a casa sua, per fargli conoscere sua moglie Ann. Dopo un iniziale momento di sorpresa e titubanza, la donna gli porge la mano e l’uomo scoppia in lacrime perché non è mai stato «trattato bene da una signora così bella». Infatti, la non accettazione, il rifiuto, la repulsione, sembrerebbero essersi palesati, per lui, sin dalla nascita, agiti da parte della sua prima donna di riferimento: la madre. Perché lei, con un viso d’angelo, come riflette John/Joseph, è rimasta sicuramente profondamente delusa dall’aspetto del figlio. «Ma forse - spera l’uomo - se oggi mi vedesse con i miei nuovi amici, forse riuscirebbe ad amarmi anche così».
Se uno dei messaggi principali con cui si chiude il film The Elephant Man è che le regole imposte dall’asse normativo, che agiscono in maniera stigmatizzante ed escludente, finiscono per uccidere, privando un essere umano della legittimità dell’esistenza, ne La forma dell’acqua, il regista sembrerebbe tentare di sovvertire i canoni e gli schemi dell’immaginario dominante. Infatti, il mostro, in un’altra dimensione geografica e sociale, è una divinità venerata, ma in un Occidente feroce e stigmatizzante, assoggettato ai dogmi di capitalismo e normalizzazione, è un orrore che provoca, da una parte, curiosità morbosa, tale da essere studiato per capirne i meccanismi di funzionamento e, dall’altra, repulsione. A esserne sinceramente affascinata è, invece, Elisa, la protagonista, a sua volta etichettata come diversa e anormale e, in quanto tale, marginalizzata. In lei la forza della fascinazione si sostituisce all'istinto di repulsione. In questo caso, l’erotismo parrebbe esondare e rompere gli argini: non è convenzionale e stereotipato e, in virtù di questo cambiamento di percezione, anche colui che viene considerato, dai più, come un mostro può essere vissuto, da altri, come sensuale e desiderabile. Torna a palesarsi anche qui l’interrogativo su chi siano i veri mostri: quelli che nelle sembianze difformi rispetto a quanto detta l'asse normativo parrebbero tali, ma che si rivelano emotivi e compassionevoli, capaci di provare reale angoscia, tenerezza e dolcezza, o i cosiddetti normali, i furbi, i privilegiati, che hanno accesso a tutto e a tutti, ma che sembrerebbero incapaci di provare empatia[51]?
Come sottolinea del Toro, che prova, con la sua pellicola, a promuovere un possibile cambiamento culturale e di visione, un mostro potrebbe rappresentare anche qualcosa di erotico e sensuale e non solo un cattivo dal cuore tenero, cui piace esclusivamente il sesso perverso. Elisa, d’altro canto, sembrerebbe anelare fortemente a esprimere il suo desiderio sessuale, una pulsione che prende forma nei sogni, un mondo onirico in cui l’intera casa appare immersa nell'acqua, chiaro rimando simbolico alla sfera della sessualità. Infatti, in un’esistenza stagnante, ingabbiata in troppe regole, sembrerebbe essere proprio la possibilità di vivere la propria sessualità a poter restituire a Elisa l’occasione di vivere pienamente, immaginando altri orizzonti di significato. Ci si potrebbe addirittura chiedere se la stessa creatura marina sia un’emanazione del suo desiderio sessuale, espressione, in un mondo dalle connotazioni oniroidi, di una solitudine speculare alla sua. Uno strumento per sfuggire a una quotidianità logorante, frustrante, degradante? Verso il mostro sia la protagonista, incarnazione della bontà, sia l’antagonista, il cattivo per eccellenza, provano attrazione. L’uno ne è attirato morbosamente, così com'è affascinato da Elisa, che rappresenta l’altra individualità diversa e marginale della storia. L’altra prova per il diverso per antonomasia, in cui si rispecchia per riconoscersi, una sensualità profonda, addolcita da tenerezza e amore[52].
La diversità, dunque, parrebbe incarnare paure ataviche, che assumono la forma di figure angoscianti e creature mostruose. Sembrerebbe riaffacciarsi alla coscienza l’equiparazione tra deformità fisica e devianza morale. Il timore di imbattersi nella malvagità dell’anima altrui, cui sembrerebbero far da specchio alcune istanze presenti nella propria stessa psiche, anche se ben nascoste e di cui sembrerebbe meglio non prendere coscienza, parrebbe incarnarsi in una serie di mostri. Il mostro spesso si acquatta, per poi emergere, nel buio degli abissi, tanto marini quanto dell’inconscio. È il caso di Gill-Man, creatura orrenda, ma al contempo seducente, che ben dialoga, in virtù di questa sua dualità, con le pulsioni di attrazione e repulsione che sembrerebbe in grado di generare in chi lo incontra. Questo essere riemerge dal fondo melmoso delle paludi amazzoniche, un habitat che parrebbe richiamare l’idea di una peste, di un verme, che vive da solo in luoghi deserti, ma fa ripetute incursioni tra gli esseri umani, portando con sé sudiciume e contagio[53], per vivificare l’immaginazione erotica più ancestrale. Un mostro che, progressivamente, sembrerebbe essere oggetto di un processo di umanizzazione, vittima più che carnefice, animato da un desiderio frustrato di appartenenza e di riconoscimento. Non a caso, Gill-Man finisce schiacciato tra due universi da cui si sente escluso e a cui, di conseguenza, avverte di non appartenere. Ed è proprio l’archetipo di Gill-Man a essere protagonista de La forma dell’acqua. In un clima diverso, a livello storico-sociale, rispetto all’atmosfera che permea gli antesignani cinematografici, Guillermo del Toro parrebbe riproporre il tema del sogno erotico e del colloquio di amorosi sensi tra anime affini che sfocia in un «amplesso tra diversi»[54].
Demoni e mostri che dilaniano la mente e il corpo
I mostri, per le persone con disabilità, non sembrerebbero essere solo quelli a cui essi stessi sono equiparati, ma anche quelli che dilaniano il loro corpo e la loro mente e anima. “Demoni” interiori, dunque, che degradano ulteriormente l’organismo e corrodono l’anima a causa dell'immobilità forzosa e protratta, dell’impossibilità imposta di esprimere il proprio amore e il proprio desiderio, tale da generare un rifiuto per la vita stessa. Ne parla Bousquet quando si riferisce alla bassezza della sua infermità e alla meschinità dell'atteggiamento che egli pare avere assunto, con le sue pene che schiacciano i suoi desideri sotto il peso, duro come un macigno, di pensieri micidiali, che lo seguono come un'ombra scura, simile a quella che egli stesso è divenuto. Il suo corpo è equiparabile a una prigione di cui il pensiero forgia le catene[55].
Questi sentimenti annichilenti che sembrerebbero avere origine dalla sua esclusione dalla bellezza del mondo portano l’autore a definirsi come infermo e spento, un relitto, mancante di forza e, quindi, inadeguato per ogni donna, poiché ogni presenza femminile parrebbe poter amare solo uomini forti. Il suo demone interiore lo separa dalla vera essenza di se stesso e la voluttà sembrerebbe trasformarsi in delirio. La condizione abominevole che l’autore parrebbe vivere è quella in cui egli debba diventare pienamente se stesso per distruggersi; conoscersi per potersi ripudiare. All’improvviso, egli si vede diventare un’ombra e nella notte fonda, nella quale si nasconde, osserva la sua nullità e la mediocrità dei suoi sentimenti. Una disperazione che giunge a far desiderare che gli occhi, la voce e la stessa vita abbandonino il suo corpo, in quanto infedeli e nemici. Dell’amore, dice che dovrebbe essere solo pazzo per essere il suo amore e che, dunque, occorre che quest’ultimo operi nell’ombra e si celi, persino alla consapevolezza che egli stesso ne ha. Poiché, data la bassezza della sua infermità, ammettere che un uomo come lui possa amare equivarrebbe a rinnegare l’amore stesso e a gettare un segno d’infamia sulla bellezza delle donne. L’essere amato sembrerebbe diventare per Bousquet oggetto di ossessione: prigioniero della sua ferita, dell’autopercerpirsi brutto, triste, mediocre anche nel dolore, e gettato in un angolo, lo studioso parrebbe riuscire a vedere la donna amata solo come l’immagine di ciò che a lui sarà sempre rifiutato, al pari di come gli viene negata la vita, nella sua reale essenza. Sembrerebbero connotare la sua condizione esistenziale uno stato fisico e psicologico mortifero, quale forma acuta di disgusto di sé, simile a quello che si prova per il pus in una piaga, e il sentirsi ridotto a niente. Bousquet si rimprovera aspramente l’aver potuto pensare che la felicità e l’amore, l’unione con la donna desiderata, possano appartenere a questo mondo e, in modo particolare, a un essere come lui, un uomo mostruosamente menomato, dalle membra paralizzate e dal petto malato. Schiavo della sua solitudine, egli vede il suo spirito infettarsi di immagini ogni giorno più avvilenti cosicché i rifiuti da parte della donna amata sembrerebbero forgiare la sua anima a immagine delle deformità del suo corpo. Uno stato d’animo tale che quella che rappresenta la bellezza muliebre arriva a ferirlo e la sua delusione lo spinge a voler trascinare anche la donna al di sotto dell’umano. Per lui e la sua carne martoriata sembrerebbe esservi un’unica consapevolezza possibile: la vergogna per il suo essere e il fatto che per lui sia vergognoso amare[56].
Di dolore e dei demoni che dilaniano il corpo parla anche una giovane malata rara: il dolore di quello che ha irrimediabilmente perso, un dolore che non avrà mai fine. Un dolore che sarebbe troppo per qualsiasi essere umano e che sgorga dalle ferite che ricoprono il suo corpo e che non smetteranno mai di sanguinare. Un dolore accompagnato dalla paura di quello che nemmeno la volontà riuscirà a contrastare, mentre si pensa che se i propri interlocutori si sforzassero di mettersi nei panni di chi è malato, senza pietismi, provando, per una volta, a prendere su di sé il peso che la malattia obbliga a sopportare, capirebbero quanto sia difficile combattere ogni giorno con i mostri che distruggono il corpo, o fare i conti con gesti equiparabili ad altrettanti mortificazioni. Un dolore che parrebbe non poter ricevere consolazione perché alimentato dalla costante certezza che niente potrà mai cambiare, se non in peggio[57].
Conclusioni: come modificare la visione dominante
Dalla trattazione finora condotta appare chiaro che il tema della diversità, intesa come deformità non solo fisiologica ma anche morale, è trasversale a tutte le epoche e sembrerebbe connotare anche la contemporaneità, in maniera più nascosta e subdola, con improvvisi balenii di intolleranza estrema, ma comunque profonda e innegabile. Il mostro, ritenuto tale perché non vuole o non può conformarsi ai dettami imposti dall’asse normativo di riferimento, parrebbe sempre e comunque essere un reietto a livello sociale, apportatore di sciagura per sé e per la sua genia, sudicio e possibile agente di contagio, che, in virtù della sua orribile deformità fisica, potrebbe trovare un’eventuale utilità per la più ampia compagine sociale come strumento di sollazzo e, al contempo, di monito per le coscienze.
Il mostro, quale ricettacolo di paure ataviche ma anche di desideri inconfessati e inconfessabili, trova espressione nella letteratura e nelle pellicole cinematografiche, quale riflesso di uno specifico clima storico-sociale, ma anche di un orizzonte trasformativo temuto, o, al contrario, auspicabile, in nome della realizzazione di una più ampia giustizia sociale. I mostri sono figli della paura e, come sottolinea V.G. Rossi, è la paura a esistere in natura, essa viene da sé, non occorre andarla a cercare. Ecco perché è più facile avere paura che avere coraggio, un coraggio tale da affrontare i demoni partoriti dall’immaginario collettivo e individuale. Infatti se, richiamando Oscar Wilde, esistono tante realtà quante se ne possono inventare, parimenti esistono tante paure quante se ne possono immaginare. La paura stessa è un mostro, che l’essere umano partorisce e a cui, poi, si sottomette, facendosene spaventare e perseguitare. Essendo, però, una costruzione della mente umana, se da una parte non ci sono limiti alla potenziale creazione di paure, dall’altra tali costrutti possono essere destrutturati e superati[58].
Dunque, il cambiamento di visione parrebbe essere innanzitutto di tipo culturale, un mutamento che potrebbe passare attraverso un possibile utilizzo sistematico della pedagogia dell’ironia e della compensazione, ma anche di quella del controdolore, suggerite da un autore come Palazzeschi[59]. Se, infatti, nella pedagogia compensativa, la disabilità trova una forma di riscatto, che sembrerebbe equipararne il valore a quello della normalità; nella pedagogia del controdolore la deformità parrebbe assumere addirittura un valore catartico e salvifico, divenendo strumento che permette l’instaurarsi di un nuovo modo di vedere la realtà e l’affermarsi di fattuali valori di rinnovamento. La disabilità, quindi, sembrerebbe mettere in discussione i canoni convenzionali, proponendo un atteggiamento critico e provocatorio verso il sentire comune, fino ad affermare a una verità più alta. Palazzeschi, infatti, è forse l’autore italiano che più contribuisce a suggerire un nuovo modo di vedere, rappresentare e interagire con l’universo della disabilità, presentandolo non come perdita, ma come ricchezza e restituendogli, così, una piena dignità. Palazzeschi dà voce ai buffi, la cui diversità non si esplicita solo nella deformità fisica, ma che sono, sempre e comunque, simbolo di altro. In lui lo spazio attribuito alla diversità tout court diventa viatico di una critica radicale a un certo modo di pensare, convenzionale, bigotto e formalista, tutto appiattito sull’apparenza[60].
Esempi di cosa possa produrre questo cambio di visione, attuato già dal modo in cui l’individuo con disabilità vede se stesso, sembrerebbero essere presenti sia nella letteratura sia nel cinema. Si pensi ad esempio al personaggio di Sor’ Isabella, protagonista di un ricordo de Il piacere della memoria (1964) di Palazzeschi. Ella è più forte del sentimento di disagio che sembrerebbe doverla spingere a fuggire e nascondersi. Nonostante il suo nanismo Sor’ Isabella si mette in mostra, non vive reclusa, ma frequenta caffè alla moda, ride di gusto e deride chi la schernisce, mette in mostra le sue forme con abiti vistosi e sgargianti, ama ed è riamata dal suo bel Saulle. E proprio questo atteggiamento, questa sfacciata voglia di vivere, che la collettività parrebbe non perdonarle: il suo non rassegnarsi a essere una marginale, piangente e avvilita, oggetto di compassione, ma l’essere, invece, sempre più eccezionale e provocante. Se Sor’ Isabella, infatti, mostrasse le sue ferite, probabilmente qualcuno le passerebbe le bende per coprirle e le offrirebbe, dall’alto, un aiuto, ma così non è. Ella, invece, rivendica i suoi diritti da attuare nella vita pratica e non solo da proclamare a livello teorico e questo suo atteggiamento, ritenuto presuntuoso, perché sfida una silloge di idee preconcette, sembrerebbe un boccone amaro da digerire per la società.
Il modo giusto di porsi nei confronti delle persone con disabilità parrebbe essere incarnato dallo sguardo del bambino protagonista del racconto, antitetico a quello adottato dall’universo degli adulti. Se gli adulti, infatti, suggeriscono ai propri figli un comportamento composto dettato non da accettazione vera, ma da compassione e buona educazione caritatevole, il bambino, vedendo che la donna ha la sua stessa altezza, prova per lei un’immediata e genuina simpatia e la percepisce, positivamente, come una palla policroma, un uccellino o una farfalla che salta e svolazza e uno scoiattolo che frugola. Il suo, dunque, non è un riso di scherno, bensì uno di profonda condivisione[61].
I canoni che sembrerebbe soffocare le forme e l’esistenza delle persone con disabilità rivelano tutta la loro natura squisitamente sociale, e non già inscritta in un ordine immutabile di natura, nel racconto Il Paese dei ciechi: infatti, in un mondo in cui le cose appaiono organizzate e vissute in base ad un ordine che asseconda le necessità e le percezioni di chi è nato cieco o ha perso progressivamente la vista, ma non ha memoria del tempo in cui vedeva, il personaggio folle, lontano dai canoni sociali, capace di suscitare scandalo e in conseguenza di ciò, marginalizzato, dotato di un intelletto poco sviluppato ed equiparato a un selvaggio, sembrerebbe essere Nùnez, che è dotato, contrariamente agli altri, di un organo dalle palpebre che sbattono. Un organo ritenuto dagli abitanti del villaggio responsabile di un deterioramento fisiologico che si riverbera in un comportamento ritenuto così anomalo e destabilizzante, a livello sociale, da richiedere l’applicazione di una soluzione estrema ai fini del processo di normalizzazione: l’eliminazione, con una piccola operazione chirurgica, di quelle piccole e strane cose chiamate occhi che, essendo malate, sono causa di alterazione e distrazione e disturbano il funzionamento cerebrale [62].
A livello cinematografico, infine, un personaggio che utilizza il proprio aspetto, definito mostruoso da chi lo deride a tal punto da suggerirgli di camminare con una maschera a coprirgli il viso, per mostrare, invece, il proprio valore e divenire, progressivamente, un esempio, e addirittura una sorta di eroe per il gruppo-classe, è Auggie, diminutivo di August, il bambino affetto da una grave anomalia cranio-facciale, protagonista della pellicola Wonder[63]. Auggie sa di non avere un aspetto del viso normale e di non essere un normale bambino di dieci anni: proprio per questo, i suoi compagni inizialmente lo osservano da lontano, con diffidenza, ostilità e uno sguardo pieno di giudizi e pregiudizi. Il gruppo dei pari, però, alla fine lo accetta perché impara a conoscerlo e a non fermarsi alle apparenze, contagiato dalla sua voglia di vivere, dalla sua creatività, dal suo spirito sempre allegro. August, dal canto suo, non si vergogna di ciò che è e conosce il suo valore, grazie anche all’atteggiamento della sua famiglia, che l’ha cresciuto nell’amore e in un clima di accettazione. Il piccolo protagonista si sente un eroe di fronte ai suoi compagni, un esploratore che ha piantato la sua bandiera su un pianeta inesplorato, perché lui affronta e sta vincendo la sua sfida con il mondo esterno e con le persone che lo abitano. È uscito dal nido caldo, protetto e rassicurante, costituito dalla sua famiglia, e ora è all’esterno, esposto alla pioggia costituita da cattiverie, prese in giro e insulti, ma lui non si sottrae al confronto, rimane fuori, esplora, vive e rischia. Si comporta con naturalezza nei confronti dei suoi compagni e cerca, laddove necessario, di dare consigli. Vuole esserci, vuole partecipare, vuole essere accettato dal gruppo e per farlo deve far conoscere la sua parte interna, i suoi pregi. Deve avere un atteggiamento che faccia capire ai suoi coetanei il suo reale modo di essere e che li porti a superare la diffidenza e la paura verso il suo aspetto esteriore, così diverso da quello che per i bambini è normale, in quanto familiare e noto, e a cui sono abituati.
Il cambiamento di visione e interazione reciproca, dunque, potrebbe passare attraverso quello che Bertrand Schwartz, nel suo Modernizzare senza escludere, definisce ascolto partecipante, tale da riuscire a capire le rappresentazioni degli altri e a saperle restituire ai protagonisti nella loro autenticità. Un ascolto che sembrerebbe potersi tradurre nella scoperta di una narrazione partecipante, dove il protagonista di ogni percorso esistenziale possa raccontare la propria visione della realtà, senza imporla, ma cercando di farla capire, nel profondo, al proprio interlocutore[64].
Libri
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Codeluppi Vanni (a cura), Mostri. Dracula, King Kong, Alien, Twilight e altre figure dell'immaginario, Franco Angeli, Milano, 2013.
D’Ippona Agostino Aurelio, Controversia Manichea e Libero arbitrio, Libro III.
D’Ippona Agostino Aurelio, La genesi alla lettera, Libro incompiuto 5.25.
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Jabès Edmond, Il libro dell’ospitalità, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
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Wilde Oscar, Il compleanno dell’Infanta, in La casa dei melograni, (1891).
Riviste
Cardini Franco (2014), Jacques Le Goff. Un ricordo, in «Nuova Rivista storica», XCVIII, 3.
Fadini Ubaldo, La paura e il mostro. Linee di una “filosofia della simpatia”, in «Atque», n. 23-24, maggio 2001- giugno 2002.
Pozzi Enrico (1994), Per una sociologia del corpo, in «Il corpo», vol. 1, n. 2, marzo 1994.
Rebuffo Cristina (2015) Recensione a René Girard, Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale in (Non-)Violenza pubblica e giustificazione religiosa. «Lessico di etica pubblica»,2.
Sparano Eleonora (2018), L’immagine del male che seduce. La potenza degli amplessi acquatici dal mito di Cthulhu passando per Gill-Man fino a La forma dell’acqua, in «Isha Magazine», n. III, Luglio.
Contributi tratti da convegni
Rosalba Perrotta, convegno Colloqui inserzionisti 2, 11 novembre 2015, Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno.
Articoli e materiali dal web
Caputo Eleonora (2018), Il muro, in: https://alidiporpora.it/il-muro/.
Caron Mauro (a cura), (2018), Il favoloso mondo di Elisa e del mostro della laguna nera, in: https://intothewonderland.weebly.com/hollybloog-cosa-cegrave-da-vedere/il-favoloso-mondo-di-elisa-e-del-mostro-della-laguna-nera#.
Frezza Gino (2015) Cinema e società: nodi ancora irrisolti, pubblicato su mediascapesjournal.it.
La Bestia (2018) ‘La forma dell’acqua’: amore e sesso in fondo al mare, in https://www.rollingstone.it/cinema/news-cinema/la-forma-dellacqua-amore-e-sesso-in-fondo-al-mare/402590/.
Mostro in Wikipedia, L’enciclopedia libera, in: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro.
Pagani Malcom (2008), Storia di Astutillo Malgioglio, il portiere che difendeva gli ultimi, in: https://www.superando.it/2008/12/19/storia-di-astutillo-malgioglio-il-portiere-che-difendeva-gli-ultimi/.
Film
Browning Tod, Freaks, 1932.
Chbosky Stephen, Wonder, 2017.
Ferreri Marco, La donna Scimmia, 1964.
Lynch Davd. The Elephant Man, 1980.
Notes
[1] Jabès Edmond, Il libro dell’ospitalità, Raffaello Cortina, Milano, 2017, p. 13; p. 20; p. 22.
[2] Cfr. Roberti Claudio, L'uomo a-vitruviano. Analisi storico-sociologica. Per altre narrazioni delle disabilità nel sistema-mondo, Aracne, Roma, 2011, pp. 70-92.
[3] Cfr. Canevaro Andrea (a cura di), Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati, Carocci, Roma, 2005, pp. 18-19.
[4] Cfr. Rebuffo Cristina (2015) Recensione a René Girard, Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale in (Non-)Violenza pubblica e giustificazione religiosa. «Lessico di etica pubblica», 2, pp. 110-111.
[5] Cfr. Rebuffo Cristina (2015) Recensione a René Girard, Miti d’origine cit., pp. 111-113.
[6] Morris Desmond, La scimmia nuda, Bompiani, Milano, 1992, p. 79.
[7] Cfr. Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., p. 14.
[8] Ibidem, pp. 19; 22-23; 27; 31; 33-34.
[9] Ibidem, p. 189.
[10] Cardini Franco, Il lungo, profondo, luminoso Medioevo di Jacques Le Goff in Omaggio a Jacques Le Goff, p. 952, consultabile in: https://core.ac.uk/download/pdf/53358228.pdf. Questo saggio riprende, in parte, alcuni temi toccati nel precedente contributo: Jacques Le Goff, Un ricordo, in «Nuova Rivista storica», XCVIII, 2014, 3, pp. 1097-1111.
[11] Cfr. Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., p. 190.
[12] Frezza Gino (2015) Cinema e società: nodi ancora irrisolti, pubblicato su mediascapesjournal.it e disponibile al seguente link: https://ojs.uniroma1.it/index.php/mediascapes/article/viewFile/13085/12896.
[13] Longo Mario (2006), Sul racconto in sociologia. Letteratura, senso comune, narrazione sociologica, in «Nomadas. Revista de Ciencias Sociales y Juridicas», Revistas Científicas Complutenses, vol. 14, n. 2, reperibile in: https://webs.ucm.es/info/nomadas/14/marianolongo_it.pdf.
[14] La definizione di mostro è rinvenibile in Wikipedia, L’enciclopedia libera: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro.
[15] L’analisi storico sociologica di vari tipi di soluzione adottata è tratta da Roberti Claudio, L’uomo a-vitruviano cit.,p. 68; pp. 70-72.
[16] Moretti Felice (a cura di), (2004), Immaginario medievale: Fra mirabilia e terribilia in: https://www.mondimedievali.net/Immaginario/framirabilia.htm.
[17] D’Ippona Agostino Aurelio, La genesi alla lettera, Libro incompiuto 5.25. Per ulteriori approfondimenti si veda anche Controversia manichea e libero arbitrio (Libro III).
[18] Ci si rifà a quanto enunciato in Sebenico Sara, I mostri dell’Occidente medievale: fonti e diffusione di razze umane mostruose, ibridi e animali fantastici, EUT Edizioni, Università degli studi di Trieste, 2005, p. 29. Il contributo è reperibile in: https://www.openstarts.units.it/handle/10077/5151.
[19] Le caratteriste dell’individuo maschio adulto nell’antica Grecia a Roma, da cui, per un processo di sovvertimento dei canoni del kalòs kai agathòs, sono tratte le caratteristiche mostruose delle persone con disabilità, sono rinvenibili in Cantarella Eva, Secondo Natura. La bisessualità nel mondo antico, Feltrinelli, Milano, 2016, p. XII; pp. 7-8.
[20] Questi tratti sono riproposti in pellicole cinematografiche come Il Gobbo di Notre Dame o il personaggio parodiato di Igor in Frankenstein Junior.
[21] Questo tipo di caratterizzazione del mostro, l’altro per eccellenza, è riproposto in pellicole come King Kong o in film i cui protagonisti siano gli orchi.
[22] Cfr. Roberti Claudio, L’uomo a-vitruviano cit., p. 61.
[23] L’aspetto della persona con disabilità parrebbe essere reso alieno e, per alcuni versi, mostruoso, anche dall’uso coattivo di ausili come tutori, cannule, respiratori, mascherina e stampelle.
[24] Cfr. Roberti Claudio, L’uomo a-vitruviano cit., pp. 73-75.
[25] In tali casi, però, il concetto di mostro si sovrappone e stratifica con quello di freak, come avviene per Elephant Man, Edward mani di forbice e, per l'appunto, i fenomeni da baraccone di Freaks.
[26] Le caratterizzazioni del mostro e i vari atteggiamenti e comportamenti e atteggiamenti assunti sono stati rielaborati rifacendosi alla trattazione tratta da Wikipedia, L’enciclopedia libera, in: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro.
[27] Cfr Bauman Zygmunt, Vite di Scarto, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 17-18.
[28] Un’improduttività sociale e lavorativa che, per una sorta di effetto alone, finisce per essere proiettata ed estesa anche al campo della capacità riproduttiva e sessuale fino a negare la legittimazione a riprodursi.
[29] Ci si rifà, rifunzionalizzandolo rispetto a quanto esposto nella nostra trattazione, a quanto enunciato in Bauman Zygmunt, Vite di Scarto cit., pp.24-25; pp. 41-42.
[30] Ibidem pp. 43-44.
[31] Cfr. Kurlander Eric, I mostri di Hitler. La storia soprannaturale del Terzo Reich, Mondadori, Milano, 2018.
[32] Pagani Malcom (2008), Storia di Astutillo Malgioglio, il portiere che difendeva gli ultimi, in: https://www.superando.it/2008/12/19/storia-di-astutillo-malgioglio-il-portiere-che-difendeva-gli-ultimi/
[33] Cfr. Roberti Claudio, L’uomo a-vitruviano cit., pp. 83-85; p. 122.
[34] In questa argomentazione ci si rifà a quanto enunciato in Morris Desmond, La scimmia nuda cit., pp. 79-85.
[35] Si è rifunzionalizzato, rispetto al tema trattato, quanto espresso in Bauman Zygmunt, Vite di Scarto cit., p. 29.
[36] Cfr. Pozzi Enrico (1994), Per una sociologia del corpo, in «Il corpo», vol. 1, n. 2, marzo 1994, p. 109; 120. Il contributo è consultabile al seguente link: https://www.enricopozzi.eu/pubblicazioni/ilcorpo/Perunasociologiadelcorpo.pdf.
[37] Cfr. Roberti Claudio, L’uomo a-vitruviano cit., pp. 77-79.
[38] Cfr. Pozzi Enrico (1994), Per una sociologia del corpo, Il corpo cit., pp. 141-142.
[39] In merito al palesarsi di processi fobici e di attrazione morbosa in chiave feticistica ci si rifà a quanto enunciato in Roberti Claudio, L’uomo a-vitruviano cit., p. 79.
[40] Cfr. Fiedler Leslie, Freaks. Miti e immagini dell’Io segreto, Il Saggiatore, Milano, 2009.
[41] Quanto riportato si rifà a un contributo di Rosalba Perrotta, convegno Colloqui inserzionisti 2, 11 novembre 2015, Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno. Per un approfondimento tematico si veda anche Goffman Erving, Stigma, Ombre Corte, Verona, 2003.
[42] Ci si rifà, rifunzionalizzandole rispetto al tema di questa trattazione, alle argomentazioni contenute in Giovannini Fabio, Mostri: protagonisti dell'immaginario del Novecento: da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Castelvecchi, Roma, 2003, pp. 6-9; p. 85: In merito si veda anche Fadini Ubaldo, La paura e il mostro. Linee di una “filosofia della simpatia”, in «Atque», n. 23-24, maggio 2001- giugno 2002.
[43] Cfr. Codeluppi Vanni (a cura), Mostri. Dracula, King Kong, Alien, Twilight e altre figure dell'immaginario, Franco Angeli, Milano, 2013, pp. 77-78.
[44] Cfr. Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., pp. 146-149.
[45] Palazzeschi Aldo, Il palio dei buffi, Mondadori, Milano, 2002.
[46] Wilde Oscar, Il compleanno dell’Infanta, inserito nella raccolta di racconti La casa dei melograni, (1891). La versione integrale è consultabile online in: https://zerkalo-mitomania.blogspot.com/2013/06/il-compleanno-dellinfanta-versione.html. Per un approfondimento interpretativo si veda anche Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., p. 150.
[47] Browning Tod, Freaks, 1932.
[48] Ferreri Marco, La donna scimmia, 1964.
[49] Bauman Zygmunt, Mazzeo Riccardo, Conversazioni sull'educazione, Erickson, Trento, 2011, p. 80.
[50] Lynch David, The Elephant Man, 1980.
[51] Ci si rifà a quanto espresso in La Bestia (2018) ‘La forma dell’acqua’: amore e sesso in fondo al mare, in https://www.rollingstone.it/cinema/news-cinema/la-forma-dellacqua-amore-e-sesso-in-fondo-al-mare/402590/.
[52] Ci si rifà alle argomentazioni espresse in Caron Mauro (a cura), (2018), Il favoloso mondo di Elisa e del mostro della laguna nera, in: https://intothewonderland.weebly.com/hollybloog-cosa-cegrave-da-vedere/il-favoloso-mondo-di-elisa-e-del-mostro-della-laguna-nera#.
[53] Per l’idea dell’essere che vive isolato ed è reputato sudicio e apportatore di potenziale contagio, si veda Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., p. 146.
[54] Cfr. Sparano Eleonora (2018), L’immagine del male che seduce. La potenza degli amplessi acquatici dal mito di Cthulhu passando per Gill-Man fino a La forma dell’acqua, in «Isha Magazine», n. III, Luglio, pp. 21-23.
[55] Cfr. Bousquet Joe, Tradotto dal silenzio, Marietti 1820, Genova, 1999, pp. 15; 57-59.
[56] Ibidem p. 4; pp. 6-9, p. 15; pp. 58-60; pp. 62-64.
[57] Cfr. Caputo Eleonora (2018), Il muro, in: https://alidiporpora.it/il-muro/
[58] Nardone Giorgio, Oltre i limiti della paura. Superare rapidamente le ossessioni, le fobie, il panico, BUR – Rizzoli, Milano, 2018, p. 7.
[59] Per un approfondimento sul tema della pedagogia del controdolore si veda Palazzeschi Aldo, Il controdolore, Millelire Stampa Alternativa, Viterbo, 1994.
[60] Cfr. Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., pp. 154-156.
[61] Ibidem, pp. 150- 154.
[62] Wells Herbert George, The Country of the Blind and Other Stories, 1911, leggibile in: https://www.unich.it/progettistisidiventa/REPRINT-INEDITI/Wells-PAESE-DEI-CIECHI.pdf. La soluzione dell’operazione chirurgica per eliminare gli occhi è proposta, in particolare, a pp. 23-24.
[63] Il film Wonder, diretto dal regista Stephen Chbosky, è uscito nel 2017.
[64] Canevaro Andrea, Goussot Alain, La difficile storia degli handicappati cit., p. 15.