Dottore magistrale in Comunicazione pubblica, sociale e politica, è attualmente collaboratore e assistente alla cattedra di Sociologia dell’arte e della letteratura, Università degli studi di Napoli “Federico II”.
Représentations mythodramatiques de soi
Dessin: Fabrizio Bossari - Lycée Artistique d'État Emilio Greco
Ateliers de l'imaginaire autobiographique © OdV Le Stelle in Tasca
Immerso nell’oscurità più densa che abbia mai conosciuto, Friedrich Hölderlin (2010, p. 187), in una delle sue elegie più suggestive, si chiede “e perché i poeti nel tempo della povertà?”. È la weltnacht: la notte del mondo e del dispiegarsi dei suoi significati. Il quesito posto dal poeta e filosofo tedesco non è certo dei più semplici, «oggi a stento comprendiamo la domanda» dice Heidegger, secondo il quale «con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli Dei. È caduta la sera. Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte (…) Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza» (Heidegger, 1968, p. 267). Inesorabile, la notte del mondo dispiega il suo esercito di tenebre. La “mancanza” rivela e denota il bisogno di fondamento, di stabilità, di un luogo da poter chiamare casa, un terreno fertile in cui edificare se stessi e la propria esistenza, in cui radicarsi e stare; ma nella notte del mondo il fondamento è instabile, il terreno è intriso di pioggia, ogni equilibrio si erge sulla bocca di un baratro affamato. C’è dunque bisogno di scendere nell’abisso, penetrare l’assenza, affrontare i demoni cercando la luce, temere la luce in quanto ombra, andare incontro alla perdita, alla sconfitta, alla possibilità di rinascere e di estinguersi, andare oltre, attraversare vivi la regione della morte: siamo già dentro l’oscurità, dentro il mitologema di Orfeo.
Nelle fitte e intricate trame del mito orfico – o, per meglio dire, del mito tout court – è facile perdersi. Coglierne i tratti di fondo risulta essere un’operazione delicata, ma decisamente affascinante. Il primo e deciso ostacolo sta nel fatto, come ci ricorda con ironia Ovidio nel terzo libro degli Amores (cfr. Ovidio, 2003), che i miti racchiudono «strabilianti bugie di antichi poeti, cose mai accadute e che mai accadranno», cose di cui, però, ci nutriamo continuamente, senza sosta, con una fame infinita, per il semplice fatto di essere umani. Il mito, dunque, da questa prospettiva, può essere considerato come la risultante, o una tra le possibili, certamente la più penetrante, dell’incessante dialogo tra l’esigenza di dotare di senso gli eventi del mondo e della vita e il desiderio di valicare i limiti di entrambi, tra il bisogno di assegnare un significato a ciò che accade, di delineare i contorni della propria identità e la volontà di tracimare, di innalzarsi in volo, tra la necessità dell’ordine e la tentazione del disordine, tra mythos e logos, prosa e poesia. Il mito, con il suo carico narrativo e la sua potenza immaginifica, risponde probabilmente a una logica di questo tipo: si pone al crocevia tra le diverse dimensioni esistenziali dell’individuo, quella che Morin chiama dialettica sapiens-demens (cfr. Morin, 1994), fornendo segmenti interpretativi e visioni del mondo che possono essere declinati in ogni direzione, proprio in quanto esso, il mito, risulta essere un ambito nel quale si incrociano narrazioni e spiegazioni del reale, traiettorie ermeneutiche e di senso, essenziali per una specie destinata a operare la ri-creazione, la ri-generazione del mondo (cfr. Caramiello, 1996; cfr. Gehlen 1983). In altri termini, il pensiero mitico, attraverso la sua forza suggestiva, soddisfa e risponde alle richieste razionali della parte sapiens (perché c’è bisogno di luce in piena notte: troppa oscurità annienta) e a quelle irrazionali della parte demens (perché c’è bisogno di buio in pieno giorno: troppa luce acceca). Qui, in questo confine opaco, su questo equilibrio costantemente in bilico, risiede la difficoltà di cui dicevamo all’inizio: le “strabilianti bugie” non devono tracimare sul reale, ma non possono e non devono essere eliminate: non si può estirpare il demens – che è fondamentale, necessario, in quanto apre la via, attraverso la sua intrinseca irrazionalità, a una forma di razionalità più complessa – tuttavia abbiamo bisogno di inibire quanto esso ha di micidiale. Il mito, in sostanza, da un punto di vista squisitamente sociologico, è la trasposizione sul piano dell’immaginario di un fenomeno complesso, problematico; è il racconto trasfigurato e metaforico di un “problema”, una questione vitale, o intesa come tale; è, in termini più poveri, la “risposta semplice” a una domanda articolata e complessa. Con questa prospettiva si vuole offrire, qui, una lettura del mito di Orfeo, chiedendoci di cosa sia la metafora, cercando in primo luogo di dare forma, per quanto possibile, a questa ineffabile figura.
Resa immortale da Ovidio nelle sue Metamorfosi (cfr. Ovidio, 2015, libro X) e da Virgilio nelle sue Georgiche (cfr. Virgilio, 2009, libro IV), che pure divergono in diversi punti, la vicenda di Orfeo, nel divenire dei secoli, ha conosciuto innumerevoli declinazioni e un’infinità di reinterpretazioni. Secondo la versione più diffusa, Orfeo, figlio della dea Calliope e del sovrano tracio Eagro, crebbe nella Pieira, il paese delle muse olimpiche, terra di sciamani e cantori. «Apollo sarebbe stato il suo maestro. Il dio lo istruiva su quella lira che gli aveva regalato Ermes e che egli a sua volta regalò ad Orfeo. Nelle balze selvagge dell’Olimpo il giovane radunava intorno a sé, suonando la lira e cantando, gli alberi e gli animali selvatici» (Kerényi, 2015, p. 466). Il suo canto era pura magia, la sua musica incantava la natura intera: gli animali tutti si fermavano e si arrendevano alla sua poesia, che aveva il potere di far muovere le montagne, di far cessare la pioggia, di far sbocciare i fiori. La fama del mito, però, è legata in maniera indissolubile alla tragica storia d’amore tra Orfeo e la sua amata Euridice. Secondo quanto narrano gli antichi racconti, il tutto ebbe inizio quando quest’ultima, «mentre vagava per i prati in compagnia di una schiera di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente» (Ovidio, 2015, p. 387). Orfeo, in preda a uno straziante dolore per la perdita, vagò per tutta la Grecia, cantando in maniera disperata e lamentevole, accompagnato dalla sua lira. Il suo canto riecheggiava nelle valli e nelle pianure, lambiva il cielo, penetrava i monti e le acque, commuovendo chiunque lo ascoltasse. Il suo errare cessò quando decise di varcare la soglia del regno dei morti, deciso a riportare tra i vivi la sua amata. Accompagnato sempre dalla sua lira, si incamminò per l’oscura via che conduce agli Inferi. Grazie alle virtù del suo canto, riuscì ad ammansire le selvagge forze infernali, «i lamenti accorati del Trace commossero le Erinni» (Schiller, p.7, 2014), cosicché Persefone, impietosita e commossa come gli altri, acconsentì a restituire Euridice al mondo dei vivi; la quale è sì un’ombra ma ancora sogna e desidera, ancora si agita e brama la luce, senza pace, perché «è faticoso essere morti» (Rilke, 1978, p. 7). Ma gli dei esigono l’osservanza di un patto, la legge dell’Ade, infatti, preveda che nessuno doveva guardarli: nessuno sguardo, soltanto la voce era ammessa nel regno dei morti. Dunque, guidati da Ermes, il messaggero alato degli dei, Euridice poteva seguire l’amato, però egli non doveva guardarla, lungo la via che conduce dalla morte alla vita. «Perché si volse il cantore? Quale fu la ragione, se non l’enorme, la definitiva separazione che divide il vivo dal morto? Fu follia? Forse voleva baciarla? O voleva soltanto assicurarsi che la seguisse ancora?» (Kerényi, 2015, p. 469). Orfeo si era voltato. A un passo dalla luce, un attimo prima di risorgere. Un unico, eterno e distruttivo istante. Si guardano negli occhi, ma Euridice è già un’ombra immersa nella notte, Ermes le ha già preso la mano per ricondurla nel regno dei morti, stavolta per sempre. Il canto e il suono della sua lira non gli valsero più nulla. «Per sette giorni» – dice Ovidio (2015, p. 391) – «rimase lì accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cèrere: dolore, disperazione e lacrime furono suo unico cibo. Poi, dopo aver inveito contro la crudeltà degli dei dell’Erebo, si ritirò sull’alto Ròdope sull’Emo battuto dall’Aquilone». Orfeo rifuggì il contatto con altre donne, le uniche forme di amore alle quali si concesse erano di natura omosessuale. Non smise mai di cantare. I racconti, a questo punto, divergono in diversi punti, alcuni sostengono che ricominciò il suo vagare per tutta la Tracia, altri che rimase nello stesso luogo in compagnia della sua lira e dei giovani con i quali si intratteneva, ma tutti convergono nel medesimo punto: Orfeo fu ucciso – dalle Baccanti narra una versione del mito, o da un gruppo di donne trace offese dal poeta come sostiene la storia più antica. Il suo corpo fu fatto a pezzi, smembrato, dilaniato. Le sue membra furono sparse in tutte le direzioni, e furono poi raccolte dalle Muse, che seppellirono a Libetra ciò che restava del loro prediletto. La sua lira, che nessuno era degno di possedere dopo Apollo e Orfeo, fu posta da Zeus fra le costellazioni. «Si racconta una storia singolare sulla testa e sulla lira. Le donne omicide avrebbero staccato la testa di Orfeo, l’avrebbero inchiodata alla lira, e così l’avrebbero gettata in mare o piuttosto nell’Ebro tracio, sul quale la testa fluttuava cantando e la lira continuava a suonare» (Kerényi, 2015, p. 471). Il canto immortale di Orfeo non può svanire, la inesauribile eco della sua voce continua a incantare dal regno dei morti.
Questo è quanto narra il mito. Dunque, come bisogna avvicinarsi a esso? È metafora di che cosa? Che cosa vi è stato trasfigurato? In primo luogo, ritengo, la prima osservazione da fare, verisimilmente, riguarda la questione del canto, della musica. Orfeo non è un poeta: Orfeo è il poeta, inteso nella sua primigenia declinazione: colui che, attraverso il canto e la parola, crea il mondo. Poiesis: creazione. Il suono della lira e della voce di Orfeo – che incanta gli animali, che penetra l’ambiente, che attraversa ogni uomo e ogni dio – ci ricorda che la natura della nostra specie affonda le proprie radici nell’universo simbolico della poesia. Come ho scritto altrove: «il poeta è Orfeo. Percorre sentieri che non possono essere che sconosciuti, in quanto espressione della complessità poliedrica che siamo; costantemente in bilico tra la necessità di proseguire e il desiderio di fermarsi. Orfeo è il poeta delle origini: lo sciamano che ha il potere sulla parola e sulla musica, che si intrecciano per incantare il mondo. Nel suo cammino non c’è niente di stabile e stabilito, niente di compiuto o definitivo, tutto è in costruzione, ogni cosa è possibilità. Avvicina l’oltre e il non manifesto attraverso la ricerca del conosciuto, così da riuscire ad accogliere l’inatteso (…). È un occhio che si apre a un nuovo sguardo» (Flauto, 2018, p. 79). In qualche modo, dunque, il racconto mitico ci parla, attraverso la vicenda del figlio della musa, della condizione più antica della specie umana: quella della sua nascita, quella della sua affermazione, dell’inscindibilità delle interrelazioni – delle “strutture connettive” (cfr. Bateson, 1984) – tra uomo, società, natura, cultura, tecnica, e quanto ancora caratterizza sapiens e il suo stare al mondo (cfr. Caramiello, 1996; cfr. Caramiello, 2012). Come un fiore che sboccia al canto di Orfeo, così l’umano sboccia nella poesia. L’anthropos fiorisce nella poiesis e viceversa. Nel mito orfico, in sostanza, non è difficile cogliere la concezione primordiale del poeta – considerato il tramite tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che è percepibile con gli organi di senso e ciò che è astratto, simbolo, metafora, tra il mondo che abitiamo e il mondo che ci abita, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Sospeso tra il desiderio di voltarsi e il bisogno di proseguire, tra la tentazione del silenzio e la necessità del canto, tra l’oscurità che tutto nasconde e protegge e la luce che tutto rivela e mette in mostra, l’individuo si muove nel mondo nel tentativo costante di assegnare significato alle cose e agli eventi, al fine di fornire un senso al suo esistere. Qui risiede la sostanza della visione orfica: è l’attimo sospeso in cui l’eroe sta per voltarsi quello in cui si compie il senso della poesia: tutto è possibilità, non c’è niente di definito o definitivo, ogni cosa è allo stato nascente, niente è compiuto ma tutto sta sbocciando. Poeta è colui che, muovendosi nell’oscurità, riesce a intercettare, e a farsi intercettare da, un raggio di luce che filtra dalla soglia che intende attraversare.
In seconda battuta, e in maniera decisamente più preminente, il mito in questione, in una prospettiva escatologica, attraverso la sua forza immaginifica, trasfigura sul piano della narrazione, del racconto, in modo suggestivo ed emozionante, il rapporto tra l’individuo e l’ineluttabilità della vita, tra noi e la morte. Come ci ricorda Morin, una volta che nella mente di sapiens comincia a prendere forma una vita interiore più complessa e articolata, esso diviene al contempo consapevole della propria finitudine, cadendo verisimilmente preda di un sentimento di profonda angoscia e inquietudine per un destino segnato da una inevitabile morte. Quest’ultima, sottolinea il sociologo e filosofo francese, «non viene riconosciuta per ciò che fa, come la riconoscono gli animali (che, inoltre, sono in grado di “fare il morto” per ingannare il nemico), essa non viene sperimentata soltanto come perdita, sparizione, lesione irreparabile (cosa che possono provare le scimmie, l’elefante, il cane, l’uccello), essa viene altresì concepita come trasformazione di uno stato in un altro» (Morin, 1994, p. 98). La credenza che questo processo trasformativo, questo mutamento catastrofico (cfr. Thom 1980), conduca a un’altra vita, a una nuova condizione esistenziale, dove l’identità del trasformato si mantiene, e in qualche modo continua a essere, indica che l’immaginario fa irruzione nella percezione del reale, così come il mito fa irruzione nella concezione del mondo. Siamo nel “versante demens”, siamo nell’oscurità, nella notte del mondo: non possiamo eludere il buio, ma possiamo dargli senso costruendo l’alba, e lo facciamo (anche) attraverso la forza mitopoietica della narrazione, del racconto, della poesia, del fantasma.
Il mito, secondo Bronislaw Malinowski (cfr. 1974), esprime un desiderio presente in tutta la collettività, è l’espressione di istanze profonde che attraversano l’habitat cognitivo di una comunità, intercettando dilemmi collettivi, deliri fantastici, bisogni atavici, ambizioni e speranze intrepide, sogni e timori indicibili. Come ci ricorda Luigi Caramiello, possiamo ordinare le mitologie in due grandi classi: «le mitologie denotative: cosmogonie e racconti che guardano al passato e che cercano di spiegare il perché delle cose e del mondo; le mitologie prospettiche: vale a dire l’insieme delle narrazioni che si rapportano più a un desiderio futuro che al ricordo» (Caramiello, di Martino, Romano, 2016, p. 24). Dunque, il mito di Orfeo, stando a quanto finora detto, possiamo dire che si pone in una zona di transizione tra le due classi appena descritte: esso è un racconto denotativo, in quanto guarda al ricordo, a ciò che è stato: la morte è il passato; ma allo stesso tempo esso è anche una narrazione prospettica, in quanto contiene un esplosivo desiderio che guarda al futuro, che lo desidera, lo prefigura, lo esorcizza e lo invoca: è il desiderio di valicare i limiti della morte. Sono questi, in estrema sintesi, il sostrato semantico e l’universo simbolico tessuti dalle traiettorie del mito orfico.
Euridice muore. Il mito ci dice che si trasforma, diventa un’ombra, che però ha ancora fame, un cuore che pulsa e che vibra nella luminosa oscurità della morte. Orfeo si immerge in un viaggio che mai nessuno aveva compiuto prima di lui, attraversa vie che non avrebbe mai pensato di percorrere, varca la soglia del regno dei morti: agisce per amore? È il desiderio di ritrovare la sua amata che muove ogni suo passo? Il viaggio di Orfeo, in questa prospettiva, credo possa essere in qualche maniera considerato come la metafora del processo di elaborazione del lutto. Orfeo si ritrova, solo e perso, in un mondo che non riconosce, in una vita che non gli appartiene, senza punti di riferimento, ferito, sanguinante, annientato – come l’io lirico di Funeral Blues, struggente poesia di Wystan Hugh Auden (1994, pp. 62-65). L’inferno in cui si immerge è collocato dentro di sé, gli Inferi non sono altro che il suo mondo devastato dalla perdita, la sua identità in frantumi, la sua mente invasa dal dolore. La psicanalisi ci dice che l’elaborazione del lutto è un processo che si snoda in una serie di cinque “fasi”, le quali racchiudono lo scenario emotivo e cognitivo di colui che ha subito la perdita. Orfeo, raggiunto dalla notizia della morte di Euridice, subisce uno shock, sperimenta una frattura, alla quale però non si rassegna (rifiuto); il suo furioso vagabondare per i territori della Grecia, accompagnato dal suono celestiale della sua lira, funge da “valvola di sfogo”, nel tentativo di colmare il vuoto, di placare la sofferenza (rabbia); ma è una condizione che non può persistere: il suo errare cessa nel momento in cui, varcata la soglia degli inferi, commossi gli dei con il suo canto, ottiene di riportare tra i vivi la sua amata (contrattazione); tuttavia ciò non è possibile: la morte è una frattura insanabile, una trasformazione dalla quale non si torna indietro, Euridice muore per sempre, Orfeo ha toccato con mano l’irrimediabile, ne prende coscienza in maniera definitiva: dalla morte non si torna (depressione); in ogni caso, però, anche il lutto sfuma, declina, si articola nel tempo, attraverso quel lavoro che conduce ad accettare la perdita (accettazione), in accordo a quell’«esame di realtà che ha disposto che l’oggetto amato non c’è più» (Freud, 1976, p. 103). L’indicibile della morte trova parola, trasformando la perdita in una possibilità di acquisto, in una sorta di rinascita. Nei suoi splendidi Sonetti a Orfeo, Rainer Maria Rilke a un certo punto dice: «vedi, ora è il compito di legare insieme frammenti e parti, come fossero il tutto. Arduo sarà darti aiuto. Anzitutto: non radicare me nel tuo cuore. Troppo presto crescerei. Mentre voglio condurre la mano del mio signore, e dire: Qui» (Rilke, 1991, p. 49). Sono versi preziosi, evocativi e dotati di rara potenza lirica, e sembrano quasi le ultime parole di Euridice, il suo ultimo saluto, prima di svanire per sempre, come un’ombra nella notte, il suo ultimo sguardo, in quel drammatico, eterno e inevitabile istante in cui Orfeo si è voltato. «Troppo presto crescerei». Ovvero, “lasciami andare, sii libero, l’inferno è domato”. Contiene forse questo l’ultimo sguardo che si sono scambiati i due amanti prima dell’oblio? E poi Euridice sparisce dolcemente, come un’onda anomala che si ritira dopo aver devastato ogni cosa che ha incontrato. Il processo di elaborazione del lutto termina, inevitabilmente, e conduce a una nuova trasformazione, un nuovo mutamento, come ogni morte, come ogni nascita. Dopo un «lungo sorso alle sorgenti dell’Oblio» (Campana, 2003, p. 142), Orfeo torna a cantare, in qualche modo libero, sicuramente diverso, cambiato, mutato, ma con un cuore che pulsa e che vibra nella oscura luminosità della vita[1].
Una simile lettura del mito orfico, per quanto arbitraria e discutibile, si rifà all’idea secondo la quale, come sostiene Károly Kerényi (1992, p. 226), «ai viaggi negli Inferi da parte di uomini mortali – e non di dei, come Dioniso – sono inerenti quanto meno gli inizi di una psicologia e di una filosofia morale: una dottrina dell’immortalità dell’anima e della punizione dei peccatori». Ed è quanto, a mio avviso, è riscontrabile nella narrazione mitica del viaggio di Orfeo: in essa (come nelle altre narrazioni mitiche), stando a quanto finora detto, vi è racchiuso un embrione di quella complessità che sfocerà e si formalizzerà, poi, nell’insieme di valori e habitat cognitivi peculiari del pensiero occidentale. Non è forse così azzardato affermare che la vicenda in questione, attraverso il suo carico immaginifico, trasfiguri sul piano dell’immaginario una tensione psichica, quella relativa al senso di perdita, un processo che nella mente di sapiens continua a dare senso al suo stare al mondo. Molto prima di Dante, dunque, un mortale cammina tra le anime dei morti. Lo fa per sanare una frattura interiore, per ricucire lo strappo che il lutto ha lasciato sul velo che avvolge il suo mondo, per caricare di nuovi significati ciò che si è perso nella notte del mondo, nel tempo della povertà, come Hölderlin che si chiede “perché i poeti?”. Orfeo è l’individuo che si frantuma di fronte alla morte, che si frammenta dinanzi alla perdita; è l’individuo che ama e distrugge, che piange e si dispera, che lotta e si reinventa, che si trasforma e impara a diventarsi, muovendosi senza sosta tra «gli indistinti confini» (cfr. Calvino, 2015) che separano e al contempo tengono insieme – dando senso a entrambi – sapiens e demens, prosa e poesia, hybris e dike, il fluire della vita psichica e quello dell’esistenza nel suo complesso, la parzialità che ci attraversa e la totalità a cui aspiriamo. In altre parole: Orfeo siamo noi.
E siamo nella notte del mondo, nel tempo della povertà, una condizione in cui la parola poetica appare l’unico luogo dove può risuonare e trovare sostanza la necessità di «essere Uno con il Tutto» (cfr. Hölderlin, 2013; cfr Hölderlin 1977). L’opzione orfica restituisce un’idea di poesia che aspira alla totalità agognata dal poeta tedesco, una totalità che muove dalla consapevolezza della dispersione, della frattura, della separazione, dello smembramento di una più vasta unità originaria dell’essere (come il corpo di Orfeo dilaniato dalle baccanti), cercando attraverso la lingua della poesia quel fondamento di cui dicevamo all’inizio, il terreno su cui edificare il proprio posto nel mondo, quel luogo che si può chiamare casa. La parola poetica nel tempo della povertà non può che appartenere a una lingua che si fa carico dell’istanza di “remitizzazione” del reale, la poesia è quindi intesa come processo mitopoietico, atto costitutivo, scena primaria. Era attraverso il mito e la mitologia, infatti, che, secondo Kerényi, l’uomo greco instaurava un rapporto col mondo, fino a sentirsi appartenere a esso, a “essere uno con il tutto”: l’agire del mito non è cambiato, perché non è cambiato l’uomo. Ieri come oggi necessitiamo di significati altri e ulteriori, di andare alla deriva, di attraversare vivi la regione della morte, di percorrere le vie che si snodano nella profondità di quel luogo infernale che è il proprio io, nel tentativo di ripopolare i nostri cieli.
Come la testa recisa di Orfeo, il mito continua a cantare anche dopo la sua morte. La notte del mondo continua imperterrita a dispiegare il suo esercito di tenebre. Siamo dentro l’abisso, dentro noi stessi, immersi nell’oscurità che illumina il nostro cammino, nel tentativo di contornare di cieli i nostri dei. Siamo sospesi nell’attimo in cui la poesia fiorisce, perché siamo Orfeo che sta per voltarsi. Un attimo effimero che non finisce mai, in cui ogni cosa è possibilità, tutto sta per accadere, per nascere e ri-sorgere. Immersi nell’oscurità della notte del mondo, nella weltnacht, cerchiamo la luce, in attesa del der kommende gott, il dio che deve arrivare, e che forse è Orfeo, Ercole, Dioniso o Cristo. O forse siamo noi: divinità figli di divinità. Del resto, diventare creatore è quanto ogni dio augura alla sua creatura. E restiamo in attesa, eternamente fermi, sulla soglia di infinite porte.
Bibliografia
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Note
[1] Tra le tante reinterpretazioni del mito di Orfeo, vorrei qui riproporne una, certamente tra le più originali e meno conosciute, ma che ritengo si inserisca a pieno titolo nel ragionamento che stiamo delineando, a proposito del processo di elaborazione del lutto e del rapporto tra colui che ama e la persona amata, tra eros e thanatos, tra la perdita, il senso di annientamento e il processo di ridefinizione dell’io, dell’identità. Si tratta de Il sogno di Orfeo (Sclavi, 1997), una brevissima storia a fumetti del 1997 firmata da Tiziano Sclavi, in cui il protagonista, Dylan Dog, decide di scendere all’inferno, ripercorrendo le gesta dell’antico poeta, per riportare dalla morte la donna che ama. Riesce a raggiungerla, proprio un attimo prima che lei salga sul galeone che conduce le anime dei morti nell’irraggiungibile oblio. Lei sorride e sembra non capire. «Sono sceso all’inferno per ritrovarti!» urla Dylan con voce speranzosa, «Grazie, ma non dovevi» risponde lei, con un sorriso accennato, innocente. «“Non dovevo”? Guarda che non ti ho portato un regalino per il compleanno! Ho fatto una sciocchezzuola tipo ripetere il mito di Orfeo!». La risposta che riceverà Dylan, e qui arriviamo al punto, sembra quasi essere la parafrasi dei versi di Rilke, la “versione di Euridice”, quasi a spiegare l’ineluttabilità della morte, della perdita, dell’oscurità che non si può eludere, del galeone che non si può perdere. «Orfeo? Non ricordo chi è. A poco a poco sto dimenticando tutto del mondo, anche il tuo ricordo stava quasi per svanire. Ed è normale che succeda. Da vivi sembra che la morte sia un orrore senza senso, ma da morti è la vita che diventa un’atrocità assurda. Forse tu, che stai ancora soffrendo, non riesci a capirlo, ma se ci pensi bene è logico, è giusto che sia così. Povero amore mio, sono tanto triste per te, che sei ancora vivo. La vita è crudele: ti ha portato via da me…».