I testi che qui vengono proposti affrontano la tematica dei militari italiani prigionieri, durante la Seconda Guerra Mondiale, in diversi modi: raccontando una tragedia a più voci, e sono la maggioranza. Oppure, raccontando di un caso singolo, rappresentativo però, per più versi, di una vicenda convissuta da molti. Numericamente meno numerosi, questi interventi sono di grande interesse per le memorie riportate, per i particolari emergenti, per gli spunti che ne derivano. Si parla in genere di militari italiani fatti prigionieri, anche se uno spazio a sé è lasciato agli IMI, gli Internati Militari Italiani finiti nei campi nazisti, in situazioni quindi particolarmente difficili, trattandosi di ex alleati che considerano ormai gli italiani dei traditori. Che trattano i prigionieri con evidente disprezzo. Le parole IMI e ANRP, Associazione nazionale Reduci dalla Prigionia, sono tra quelle indicate a ragione, come parole chiave, dal presidente Enzo Orlanducci, che già da anni si era occupato, come segretario generale, dell’associazione, promuovendo ricerche e studi, comunicando in più modi le dolorose vicende intercorse, facendo sì che oggi la consapevolezza in merito sia più diffusa, la storia di questi sfortunati militari italiani, più nota. Che, sia pure in ritardo e tra molte difficoltà, le istituzioni stesse se ne siano, sia pure con parsimonia, fatte carico, laddove al ritorno dei reduci dai campi avevano semmai mostrato chiusura e diffidenza.
Con questo breve scritto si intende ricordare per grandi linee quanto accaduto a troppi militari italiani finiti prigionieri in diversi campi e situazioni e accennare anche alle tante difficoltà, poi, dei reduci. Ci si richiama quindi alle Convenzioni di Ginevra riguardanti i militari o omologati, Convenzioni che garantivano ai prigionieri alcuni diritti fondamentali. Si offrono sinteticamente notizie circa diverse situazioni, in diverse parti del mondo, dalla G.B. al Medio Oriente, dal Sudafrica all’India, dall’Australia al Canada. Si accenna anche alle tante difficoltà dei rientri. Inoltre si dà conto della nascita e degli sviluppi dell’ANRP, delle sue principali, odierne attività in campo non solo storico ma anche sociale, ad oggi.
Chi si occupa di memoria sa che essa può essere uno strumento per apprendere dal passato. La lettura di varie corrispondenze formali (telespressi e lettere) tra autorità italiane e statunitensi, e in particolare tra il Ministero Affari Esteri e l’Ambasciata italiana a Washington nel periodo 1943-1945, sulla complessa questione dei prigionieri di guerra italiani negli Stati Uniti, ha dato ragione a questo uso della memoria. Dal drammatico contesto storico-culturale del periodo in esame al lettore è apparsa la stessa contraddizione e la stessa rabbia che tutti noi, nonostante gli affanni quotidiani, la voglia di emergere, di andare oltre il muro di gomma che ci imprigiona, ci troviamo nel dover accettare ciò che non abbiamo scelto: anzi, avessimo potuto, avremmo scelto proprio il contrario. La storia d’altra parte rappresenta l’intera umanità e spesso la viviamo da contemporanei degli eventi, ma non la influenziamo: partecipiamo da comparse, quasi da ignari spettatori, da cui frustrazione e insicurezza. Siamo parte di qualcosa, di situazioni determinate da altri che non comprendiamo; vorremmo agire ma non ci riusciamo, altri lo fanno ma è qualcosa di diverso che non ci piace perché quasi sempre segue la logica del più forte. Quest’ansia ci divide e ci fa perdere la fragile solidarietà che ci unisce, vivendo emozioni diverse e molte volte opposte; proprio come fecero i militari italiani prigionieri in America che, secondo l’opinione degli storici, ebbero un trattamento migliore rispetto ai militari prigionieri degli altri alleati.
L’affermazione è vera se la consideriamo nel suo aspetto organizzativo logistico complessivo, falsa o parzialmente falsa se ci concentriamo sull’aspetto psicologico e morale delle singole esperienze della diversa tipologia dei prigionieri, in relazione al loro livello di collaborazione con l’offerta organizzativa americana, che comunque non teneva in nessun conto la situazione morale dei prigionieri; ciò che era importante per il Governo statunitense era imporre i propri interessi, il proprio modello organizzativo. Varia la reazione degli italiani: la maggior parte scelse di collaborare, altri si rifiutarono di farlo, ispirati dagli stessi principi di coerenza, naturalmente a differenti valori. Comune il senso di delusione verso una patria che avevano servito in armi, dalla quale si sentivano abbandonati. L’Italia subiva un’ulteriore sconfitta da parte dei suoi stessi militari prigionieri in America.
Dall’altra parte emerge chiaro il modello politico-militare americano, fondato su valori democratici che vanno accettati, magari dopo lunghi confronti che comunque portano sempre alla ragione del più forte. Dai campi di prigionia americani emerge una dipendenza politico-culturale dell’Italia verso gli Stati Uniti, che ancora oggi, con diversi sentimenti, viviamo tra chi condivide e sposa senza condizioni il modello culturale e una democrazia da “commercializzare” e chi invece li subisce, senza capacità di cambiare né di partecipare. C’è però una novità: l’attuale leadership politica degli Stati Uniti, con il suo ostentato neonazionalismo, porterà probabilmente ad un nuovo loro isolazionismo, che potrebbe favorire una maggiore consapevolezza delle nostre capacità nazionali. Tutto questo è emerso dalla memoria, riportando alla luce le vicissitudini dei prigionieri militari italiani con le loro aspettative, realizzate e deluse, le loro contraddizioni e il loro sacrificio. Sono stati elaborati i ricordi con l’intento di migliorare le nostre prospettive future.
Dove si trova nascosta la forza di archetipi universali quali la fiducia, la speranza, l’amore la paura e il coraggio tra le righe delle narrazioni e delle testimonianze di coloro che, quali soldati italiani nell’ultimo conflitto mondiale, furono fatti prigionieri? E dove rintracciare quella forza tra le righe delle lettere dei loro familiari in attesa del ritorno dei propri cari? E in quali testimonianze raccolte tra coloro che, in quanto civili inermi, hanno subito eventi traumatici durante quel conflitto? L’articolo contiene sia testi riportati integralmente dalle testimonianze orali raccolte dai diretti interessati che testi recuperati da documenti quali lettere, taccuini e diari, ritrovati da figli e nipoti di quella generazione che ha attraversato il periodo della Seconda Guerra Mondiale e che ha saputo elaborare, oppure ha seppellito in fondo a cassetti e bauli le tracce di quell’esperienza dolorosa. Perché a guerra terminata c’era, tra la popolazione italiana, un imperativo collettivo predominante: ricostruire una Italia martoriata dai bombardamenti, con paesi e città distrutti, con campi da coltivare e fabbriche senza le braccia degli uomini partiti per la guerra, campi e fabbriche lasciate in cura a donne e ragazzi. Si mise al mondo una nuova generazione, quella che avrebbe rappresentato, agli occhi di una Nazione Libera e Repubblicana, la generazione della ricostruzione e della speranza alla quale nessuna altra guerra avrebbe dovuto insidiare la Pace così duramente riconquistata ad un prezzo altissimo.
Il perché del titolo “Porte spalancate in casa senza mura"? Per cercare di mettere a fuoco una immagine mentale neppure lontanamente paragonabile al baratro spalancato sull’orlo del quale ci si potrebbe trovare all’improvviso, nel momento in cui si potrebbe essere costretti a vivere la perdita di tutti i propri riferimenti di interpretazione della realtà. Come, ad esempio, subito dopo un evento traumatico sino al punto da causare un vero e proprio shock emotivo, come quello vissuto da troppe persone (uomini, donne, adulti, anziani e bambini) durante gli eventi bellici, tra i quali e in particolare, l’ultimo. Perché le testimonianze che vengono raccontate in questo articolo si riferiscono proprio al periodo della seconda guerra mondiale e dei suoi devastanti effetti.
Parlare di lettere nell’era di Internet potrebbe sembrare anacronistico. Oggi la comunicazione è immediata, avviene in tempo reale. La tecnologia offre mezzi per poter veicolare informazioni nell’hic et nunc. Carta, penna e calamaio comportano un ricordo nostalgico del passato. Eppure le lettere consentivano di trasmettere meglio il proprio stato d’animo, le proprie emozioni. Alle lettere si dedicava tempo per scriverle, leggerle, rileggerle, evocando ricordi e rinnovando sentimenti. Era possibile scorrere con gli occhi tra le righe per cogliervi non solo il suono e il senso delle parole, ma anche lo stato d’animo di chi le scriveva. Oggi, abituati ad un aggiornamento continuo delle cronache dall’Italia e dal mondo, potrebbe sembrare impensabile l’idea di vedere nella lettera l’unica fonte di informazione per dare e ricevere notizie, trovandosi in un paese straniero.
Eppure questo è quanto accaduto ai militari italiani internati nel Terzo Reich. Tra il 1943 ed il 1945 si è assistito, infatti, ad una fitta corrispondenza tra l’Italia e la Germania. Tra i documenti d’archivio dell’Anrp sono emerse centinaia di lettere inviate dai campi di internamento e conseguenti risposte dei familiari. Speranze, notizie, preghiere, poche righe affidate ad una busta indirizzata ad una famiglia tanto lontana quanto moralmente vicina e fonte di forza interiore per andare avanti. Nel loro insieme le lettere costituiscono una fonte di informazioni, una raccolta di «frammenti», rappresentano uno spaccato delle vicende storiche dalla voce dei diretti protagonisti, ma sono anche lo specchio della società italiana dell’epoca, riflesso di un’Italia controversa, provata dalla guerra, dalla debole struttura economica e sociale. Per quanto fossero sottoposte a censura, tra le righe è nascosto un vissuto. Dalle storie personali emerge il duro trattamento rivolto agli IMI, costretti non ad una, ma a tante resistenze: resistenza alla fame, al freddo, ai soprusi, alle umiliazioni. Minati nel corpo e nell’anima, ma non nella dignità di Italiani, in tanti hanno resistito fino alla liberazione nella primavera del 1945.
Rievocare diventa un dovere per imparare dal passato, perché si mantenga vivo e non vada perduto il ricordo del sacrificio di tanti giovani, che avevano nutrito la loro adolescenza di entusiasmi e certezze, allevati all’obbedienza al Duce, alla devozione al Re, all’amore incondizionato per la Patria, a quei valori di famiglia e di fede oggi sempre più messi in ombra.
Il presente lavoro mira a dar voce a coloro i cui nomi non compaiono e non compariranno mai sui libri di storia, ma che inconsapevolmente sono diventati i diretti protagonisti di uno dei periodi più bui della storia italiana. La grande storia è fatta anche di piccoli eroismi quotidiani. L’attenzione non è riposta sugli aspetti storici o militari della vicenda degli IMI, ma si focalizza su quelli psicosociali, guardando oltre le divise e i gradi militari per far affiorare la dimensione umana ed emozionale.
Dopo l’8 settembre del 1943 più di 650.000 soldati italiani furono fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Posti di fronte alla drammatica scelta tra l’adesione a combattere nelle file del terzo Reich o l’internamento nei campi nazisti e il lavoro coatto, la quasi totalità dei prigionieri rifiutò di continuare la guerra con la repubblica di Salò al fianco dei tedeschi, dicendo il primo NO di massa al fascismo. Divennero così “schiavi di Hitler” e rimasero nei lager nazisti sino alla fine della guerra, per quasi due anni; non come prigionieri di guerra, ma come IMI (Internati Militari Italiani), per i quali non valevano né le tutele della convenzione di Ginevra né l’assistenza della Croce Rossa Internazionale, perché i tedeschi li consideravano traditori. Circa 60.000 perirono in Germania.
Mio padre, allora poco più che ventenne, è stato un IMI ed ha vissuto esperienze atroci; ricordo che, quando in famiglia provavamo a fargli raccontare la sua vicenda nei lager si turbava, si commuoveva e noi per rispetto non insistevamo oltre. Mio padre, nonostante quelle drammatiche sofferenze, riesce a resistere per 20 lunghissimi mesi e a tornare a casa perché ha un alleato: un violino, da lui trovato sotto le macerie mentre lavora allo sgombero delle rovine dei bombardamenti. Lui lo sa suonare, lo ha studiato finché non è scoppiata la guerra e ora lo raccoglie e lo rimette in sesto. riesce a formare una orchestrina nel lager e quando si mette a suonare il violino mio padre dimentica l’orrore in cui è immerso e ritrova la speranza di salvarsi e di sopravvivere; amava dire a noi figli che era riuscito “a portare la pelle a casa” perché sapeva suonare il violino. Alla fine della guerra mio padre torna dalla Germania con un leggio, con il violino che gli ha salvato la vita e con alcuni spartiti con il timbro del lager. Quel violino, che era stato il suo talismano, mio padre lo ha conservato per più di 60 anni come una reliquia, non lo ha mai più suonato; ne suonava un altro. L’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) ha dedicato una intera teca del suo museo alla storia di mio padre e del suo violino.
Questa è la storia di una trasformazione: un giovane ufficiale fascista, entusiasta della guerra, si trova, l’indomani dell’8 settembre, a dover decidere se il giuramento di fedeltà al re e alla patria, prestato nel corso del suo arruolamento volontario, dovesse implicare la sottomissione ai tedeschi, ormai alleati di Mussolini. Al suo diniego, assieme ad altri ufficiali è caricato su un treno con destinazione i campi di detenzione per internati militari. Porta con sé nascosta una bandiera con lo stemma sabaudo, che conserverà durante le peregrinazioni nei vari campi in Polonia e Germania, come simbolo di patriottismo e di fedeltà, quindi simbolo di continuità con la sua vicenda precedente, ma a cui arriverà ad attribuire un significato molto diverso, un’idea di patria e di Italia assai lontana da quella con cui era partito per l’Albania e per la Francia solo pochi mesi prima.
Ed è la storia della forza di volontà, della capacità di immaginare soluzioni, di non farsi confinare nella prigione di un presente oscuro, di farsi sorreggere dal pensiero di un futuro tutto da riconquistare grazie a quell’intreccio fra fede nella fortuna e ostinata determinazione che gli ha reso possibile di sopravvivere in condizioni di detenzione, fame e umiliazioni continue, senza soccombere né fisicamente né moralmente.
Questa storia è ricostruita a partire dall’epistolario familiare, prima, durante e dopo la prigionia, soprattutto con la sua futura moglie Rosetta Vomero, e dalle poesie scritte anni dopo da Mario Eboli in dialetto cilentano raccolte nel volume E mo’ currite, di cui la più lunga e suggestiva, “’A priggionia”, racconta i due lunghi anni tra la sua cattura il 9 settembre del 1943 e il ritorno in Italia nel settembre del ’45.
Alla storia dei militari italiani internati nei lager nazisti tra il 1943 e il 1945, l’ANRP - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia ha dedicato in questi ultimi anni progetti e iniziative ad ampio raggio. Per ricostruire questa complessa vicenda, il lavoro si è articolato su due direttive principali: la raccolta delle dirette testimonianze orali e scritte e la ricerca su una ricca documentazione d’archivio che ha consentito di integrarle. Il presente articolo sintetizza le fasi di questo percorso operato dall’ANRP, a partire da una breve premessa storica sulle tappe più importanti di quella che fu definita una vera e propria “resistenza senza armi”. A seguire, vengono illustrate le iniziative promosse dall’ANRP.
Una prima ricerca ha consentito di conoscere, attraverso le interviste ai figli di reduci, le ripercussioni a posteriori sull’ambiente familiare di quanto vissuto dai propri padri. Successivamente i protagonisti sono stati proprio gli ex IMI, le cui audio e video interviste costituiscono uno spaccato di notevole interesse, anche a livello regionale. Altri spunti di riflessione sulle “rappresentazioni della memoria” sono offerte dalla pubblicazione di diari e memoriali, corredate di saggi critici.
Di fondamentale importanza è stato il lavoro su documentazione d’archivio, che ha portato alla pubblicazione di due database: l’Albo degli IMI Caduti nei lager nazisti 1943-1945 e il Lessico biografico degli IMI 1943-1945. Reperti e altra documentazione sono stati raccolti dall’ANRP ed esposti nel Museo "Vite di IMI". Percorsi dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945, un percorso cronologico tematico, ricco di sollecitazioni grazie anche alla presenza di supporti multimediali interattivi.
Maria Immacolata Macioti
I testi che qui vengono proposti affrontano la tematica dei militari italiani prigionieri, durante la Seconda Guerra Mondiale, in diversi modi: raccontando una tragedia a più voci, e sono la maggioranza. Oppure, raccontando di un caso singolo, rappresentativo però, per più versi, di una vicenda convissuta da molti. Numericamente meno numerosi, questi interventi sono di grande interesse per le memorie riportate, per i particolari emergenti, per gli spunti che ne derivano. Si parla in genere di militari italiani fatti prigionieri, anche se uno spazio a sé è lasciato agli IMI, gli Internati Militari Italiani finiti nei campi nazisti, in situazioni quindi particolarmente difficili, trattandosi di ex alleati che considerano ormai gli italiani dei traditori. Che trattano i prigionieri con evidente disprezzo. Le parole IMI e ANRP, Associazione nazionale Reduci dalla Prigionia, sono tra quelle indicate a ragione, come parole chiave, dal presidente Enzo Orlanducci, che già da anni si era occupato, come segretario generale, dell’associazione, promuovendo ricerche e studi, comunicando in più modi le dolorose vicende intercorse, facendo sì che oggi la consapevolezza in merito sia più diffusa, la storia di questi sfortunati militari italiani, più nota. Che, sia pure in ritardo e tra molte difficoltà, le istituzioni stesse se ne siano, sia pure con parsimonia, fatte carico, laddove al ritorno dei reduci dai campi avevano semmai mostrato chiusura e diffidenza.
Enzo Orlanducci
Con questo breve scritto si intende ricordare per grandi linee quanto accaduto a troppi militari italiani finiti prigionieri in diversi campi e situazioni e accennare anche alle tante difficoltà, poi, dei reduci. Ci si richiama quindi alle Convenzioni di Ginevra riguardanti i militari o omologati, Convenzioni che garantivano ai prigionieri alcuni diritti fondamentali. Si offrono sinteticamente notizie circa diverse situazioni, in diverse parti del mondo, dalla G.B. al Medio Oriente, dal Sudafrica all’India, dall’Australia al Canada. Si accenna anche alle tante difficoltà dei rientri. Inoltre si dà conto della nascita e degli sviluppi dell’ANRP, delle sue principali, odierne attività in campo non solo storico ma anche sociale, ad oggi.
Potito Genova
Chi si occupa di memoria sa che essa può essere uno strumento per apprendere dal passato. La lettura di varie corrispondenze formali (telespressi e lettere) tra autorità italiane e statunitensi, e in particolare tra il Ministero Affari Esteri e l’Ambasciata italiana a Washington nel periodo 1943-1945, sulla complessa questione dei prigionieri di guerra italiani negli Stati Uniti, ha dato ragione a questo uso della memoria. Dal drammatico contesto storico-culturale del periodo in esame al lettore è apparsa la stessa contraddizione e la stessa rabbia che tutti noi, nonostante gli affanni quotidiani, la voglia di emergere, di andare oltre il muro di gomma che ci imprigiona, ci troviamo nel dover accettare ciò che non abbiamo scelto: anzi, avessimo potuto, avremmo scelto proprio il contrario. La storia d’altra parte rappresenta l’intera umanità e spesso la viviamo da contemporanei degli eventi, ma non la influenziamo: partecipiamo da comparse, quasi da ignari spettatori, da cui frustrazione e insicurezza. Siamo parte di qualcosa, di situazioni determinate da altri che non comprendiamo; vorremmo agire ma non ci riusciamo, altri lo fanno ma è qualcosa di diverso che non ci piace perché quasi sempre segue la logica del più forte. Quest’ansia ci divide e ci fa perdere la fragile solidarietà che ci unisce, vivendo emozioni diverse e molte volte opposte; proprio come fecero i militari italiani prigionieri in America che, secondo l’opinione degli storici, ebbero un trattamento migliore rispetto ai militari prigionieri degli altri alleati.
L’affermazione è vera se la consideriamo nel suo aspetto organizzativo logistico complessivo, falsa o parzialmente falsa se ci concentriamo sull’aspetto psicologico e morale delle singole esperienze della diversa tipologia dei prigionieri, in relazione al loro livello di collaborazione con l’offerta organizzativa americana, che comunque non teneva in nessun conto la situazione morale dei prigionieri; ciò che era importante per il Governo statunitense era imporre i propri interessi, il proprio modello organizzativo. Varia la reazione degli italiani: la maggior parte scelse di collaborare, altri si rifiutarono di farlo, ispirati dagli stessi principi di coerenza, naturalmente a differenti valori. Comune il senso di delusione verso una patria che avevano servito in armi, dalla quale si sentivano abbandonati. L’Italia subiva un’ulteriore sconfitta da parte dei suoi stessi militari prigionieri in America.
Dall’altra parte emerge chiaro il modello politico-militare americano, fondato su valori democratici che vanno accettati, magari dopo lunghi confronti che comunque portano sempre alla ragione del più forte. Dai campi di prigionia americani emerge una dipendenza politico-culturale dell’Italia verso gli Stati Uniti, che ancora oggi, con diversi sentimenti, viviamo tra chi condivide e sposa senza condizioni il modello culturale e una democrazia da “commercializzare” e chi invece li subisce, senza capacità di cambiare né di partecipare. C’è però una novità: l’attuale leadership politica degli Stati Uniti, con il suo ostentato neonazionalismo, porterà probabilmente ad un nuovo loro isolazionismo, che potrebbe favorire una maggiore consapevolezza delle nostre capacità nazionali. Tutto questo è emerso dalla memoria, riportando alla luce le vicissitudini dei prigionieri militari italiani con le loro aspettative, realizzate e deluse, le loro contraddizioni e il loro sacrificio. Sono stati elaborati i ricordi con l’intento di migliorare le nostre prospettive future.
AnnaMaria Calore
Dove si trova nascosta la forza di archetipi universali quali la fiducia, la speranza, l’amore la paura e il coraggio tra le righe delle narrazioni e delle testimonianze di coloro che, quali soldati italiani nell’ultimo conflitto mondiale, furono fatti prigionieri? E dove rintracciare quella forza tra le righe delle lettere dei loro familiari in attesa del ritorno dei propri cari? E in quali testimonianze raccolte tra coloro che, in quanto civili inermi, hanno subito eventi traumatici durante quel conflitto? L’articolo contiene sia testi riportati integralmente dalle testimonianze orali raccolte dai diretti interessati che testi recuperati da documenti quali lettere, taccuini e diari, ritrovati da figli e nipoti di quella generazione che ha attraversato il periodo della Seconda Guerra Mondiale e che ha saputo elaborare, oppure ha seppellito in fondo a cassetti e bauli le tracce di quell’esperienza dolorosa. Perché a guerra terminata c’era, tra la popolazione italiana, un imperativo collettivo predominante: ricostruire una Italia martoriata dai bombardamenti, con paesi e città distrutti, con campi da coltivare e fabbriche senza le braccia degli uomini partiti per la guerra, campi e fabbriche lasciate in cura a donne e ragazzi. Si mise al mondo una nuova generazione, quella che avrebbe rappresentato, agli occhi di una Nazione Libera e Repubblicana, la generazione della ricostruzione e della speranza alla quale nessuna altra guerra avrebbe dovuto insidiare la Pace così duramente riconquistata ad un prezzo altissimo.
Il perché del titolo “Porte spalancate in casa senza mura"? Per cercare di mettere a fuoco una immagine mentale neppure lontanamente paragonabile al baratro spalancato sull’orlo del quale ci si potrebbe trovare all’improvviso, nel momento in cui si potrebbe essere costretti a vivere la perdita di tutti i propri riferimenti di interpretazione della realtà. Come, ad esempio, subito dopo un evento traumatico sino al punto da causare un vero e proprio shock emotivo, come quello vissuto da troppe persone (uomini, donne, adulti, anziani e bambini) durante gli eventi bellici, tra i quali e in particolare, l’ultimo. Perché le testimonianze che vengono raccontate in questo articolo si riferiscono proprio al periodo della seconda guerra mondiale e dei suoi devastanti effetti.
Maria Elena Ciccarello
Parlare di lettere nell’era di Internet potrebbe sembrare anacronistico. Oggi la comunicazione è immediata, avviene in tempo reale. La tecnologia offre mezzi per poter veicolare informazioni nell’hic et nunc. Carta, penna e calamaio comportano un ricordo nostalgico del passato. Eppure le lettere consentivano di trasmettere meglio il proprio stato d’animo, le proprie emozioni. Alle lettere si dedicava tempo per scriverle, leggerle, rileggerle, evocando ricordi e rinnovando sentimenti. Era possibile scorrere con gli occhi tra le righe per cogliervi non solo il suono e il senso delle parole, ma anche lo stato d’animo di chi le scriveva. Oggi, abituati ad un aggiornamento continuo delle cronache dall’Italia e dal mondo, potrebbe sembrare impensabile l’idea di vedere nella lettera l’unica fonte di informazione per dare e ricevere notizie, trovandosi in un paese straniero.
Eppure questo è quanto accaduto ai militari italiani internati nel Terzo Reich. Tra il 1943 ed il 1945 si è assistito, infatti, ad una fitta corrispondenza tra l’Italia e la Germania. Tra i documenti d’archivio dell’Anrp sono emerse centinaia di lettere inviate dai campi di internamento e conseguenti risposte dei familiari. Speranze, notizie, preghiere, poche righe affidate ad una busta indirizzata ad una famiglia tanto lontana quanto moralmente vicina e fonte di forza interiore per andare avanti. Nel loro insieme le lettere costituiscono una fonte di informazioni, una raccolta di «frammenti», rappresentano uno spaccato delle vicende storiche dalla voce dei diretti protagonisti, ma sono anche lo specchio della società italiana dell’epoca, riflesso di un’Italia controversa, provata dalla guerra, dalla debole struttura economica e sociale. Per quanto fossero sottoposte a censura, tra le righe è nascosto un vissuto. Dalle storie personali emerge il duro trattamento rivolto agli IMI, costretti non ad una, ma a tante resistenze: resistenza alla fame, al freddo, ai soprusi, alle umiliazioni. Minati nel corpo e nell’anima, ma non nella dignità di Italiani, in tanti hanno resistito fino alla liberazione nella primavera del 1945.
Rievocare diventa un dovere per imparare dal passato, perché si mantenga vivo e non vada perduto il ricordo del sacrificio di tanti giovani, che avevano nutrito la loro adolescenza di entusiasmi e certezze, allevati all’obbedienza al Duce, alla devozione al Re, all’amore incondizionato per la Patria, a quei valori di famiglia e di fede oggi sempre più messi in ombra. Il presente lavoro mira a dar voce a coloro i cui nomi non compaiono e non compariranno mai sui libri di storia, ma che inconsapevolmente sono diventati i diretti protagonisti di uno dei periodi più bui della storia italiana. La grande storia è fatta anche di piccoli eroismi quotidiani. L’attenzione non è riposta sugli aspetti storici o militari della vicenda degli IMI, ma si focalizza su quelli psicosociali, guardando oltre le divise e i gradi militari per far affiorare la dimensione umana ed emozionale.
Gemma Manoni
Dopo l’8 settembre del 1943 più di 650.000 soldati italiani furono fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Posti di fronte alla drammatica scelta tra l’adesione a combattere nelle file del terzo Reich o l’internamento nei campi nazisti e il lavoro coatto, la quasi totalità dei prigionieri rifiutò di continuare la guerra con la repubblica di Salò al fianco dei tedeschi, dicendo il primo NO di massa al fascismo. Divennero così “schiavi di Hitler” e rimasero nei lager nazisti sino alla fine della guerra, per quasi due anni; non come prigionieri di guerra, ma come IMI (Internati Militari Italiani), per i quali non valevano né le tutele della convenzione di Ginevra né l’assistenza della Croce Rossa Internazionale, perché i tedeschi li consideravano traditori. Circa 60.000 perirono in Germania.
Mio padre, allora poco più che ventenne, è stato un IMI ed ha vissuto esperienze atroci; ricordo che, quando in famiglia provavamo a fargli raccontare la sua vicenda nei lager si turbava, si commuoveva e noi per rispetto non insistevamo oltre. Mio padre, nonostante quelle drammatiche sofferenze, riesce a resistere per 20 lunghissimi mesi e a tornare a casa perché ha un alleato: un violino, da lui trovato sotto le macerie mentre lavora allo sgombero delle rovine dei bombardamenti. Lui lo sa suonare, lo ha studiato finché non è scoppiata la guerra e ora lo raccoglie e lo rimette in sesto. riesce a formare una orchestrina nel lager e quando si mette a suonare il violino mio padre dimentica l’orrore in cui è immerso e ritrova la speranza di salvarsi e di sopravvivere; amava dire a noi figli che era riuscito “a portare la pelle a casa” perché sapeva suonare il violino. Alla fine della guerra mio padre torna dalla Germania con un leggio, con il violino che gli ha salvato la vita e con alcuni spartiti con il timbro del lager. Quel violino, che era stato il suo talismano, mio padre lo ha conservato per più di 60 anni come una reliquia, non lo ha mai più suonato; ne suonava un altro. L’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) ha dedicato una intera teca del suo museo alla storia di mio padre e del suo violino.
Mariella Eboli
Questa è la storia di una trasformazione: un giovane ufficiale fascista, entusiasta della guerra, si trova, l’indomani dell’8 settembre, a dover decidere se il giuramento di fedeltà al re e alla patria, prestato nel corso del suo arruolamento volontario, dovesse implicare la sottomissione ai tedeschi, ormai alleati di Mussolini. Al suo diniego, assieme ad altri ufficiali è caricato su un treno con destinazione i campi di detenzione per internati militari. Porta con sé nascosta una bandiera con lo stemma sabaudo, che conserverà durante le peregrinazioni nei vari campi in Polonia e Germania, come simbolo di patriottismo e di fedeltà, quindi simbolo di continuità con la sua vicenda precedente, ma a cui arriverà ad attribuire un significato molto diverso, un’idea di patria e di Italia assai lontana da quella con cui era partito per l’Albania e per la Francia solo pochi mesi prima.
Ed è la storia della forza di volontà, della capacità di immaginare soluzioni, di non farsi confinare nella prigione di un presente oscuro, di farsi sorreggere dal pensiero di un futuro tutto da riconquistare grazie a quell’intreccio fra fede nella fortuna e ostinata determinazione che gli ha reso possibile di sopravvivere in condizioni di detenzione, fame e umiliazioni continue, senza soccombere né fisicamente né moralmente.
Questa storia è ricostruita a partire dall’epistolario familiare, prima, durante e dopo la prigionia, soprattutto con la sua futura moglie Rosetta Vomero, e dalle poesie scritte anni dopo da Mario Eboli in dialetto cilentano raccolte nel volume E mo’ currite, di cui la più lunga e suggestiva, “’A priggionia”, racconta i due lunghi anni tra la sua cattura il 9 settembre del 1943 e il ritorno in Italia nel settembre del ’45.
Rosina Zucco
Alla storia dei militari italiani internati nei lager nazisti tra il 1943 e il 1945, l’ANRP - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia ha dedicato in questi ultimi anni progetti e iniziative ad ampio raggio. Per ricostruire questa complessa vicenda, il lavoro si è articolato su due direttive principali: la raccolta delle dirette testimonianze orali e scritte e la ricerca su una ricca documentazione d’archivio che ha consentito di integrarle. Il presente articolo sintetizza le fasi di questo percorso operato dall’ANRP, a partire da una breve premessa storica sulle tappe più importanti di quella che fu definita una vera e propria “resistenza senza armi”. A seguire, vengono illustrate le iniziative promosse dall’ANRP.
Una prima ricerca ha consentito di conoscere, attraverso le interviste ai figli di reduci, le ripercussioni a posteriori sull’ambiente familiare di quanto vissuto dai propri padri. Successivamente i protagonisti sono stati proprio gli ex IMI, le cui audio e video interviste costituiscono uno spaccato di notevole interesse, anche a livello regionale. Altri spunti di riflessione sulle “rappresentazioni della memoria” sono offerte dalla pubblicazione di diari e memoriali, corredate di saggi critici.
Di fondamentale importanza è stato il lavoro su documentazione d’archivio, che ha portato alla pubblicazione di due database: l’Albo degli IMI Caduti nei lager nazisti 1943-1945 e il Lessico biografico degli IMI 1943-1945. Reperti e altra documentazione sono stati raccolti dall’ANRP ed esposti nel Museo "Vite di IMI". Percorsi dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945, un percorso cronologico tematico, ricco di sollecitazioni grazie anche alla presenza di supporti multimediali interattivi.