Internati militari italiani
Maria Immacolata Macioti (a cura di)
M@gm@ vol.16 n.1 Gennaio-Aprile 2018
PORTE SPALANCATE IN UNA CASA SENZA MURA
AnnaMaria Calore
annamariacalore@outlook.it
Aperta al nuovo e dotata di senso di responsabilità. Formatrice Adulti con esperienza pluriennale nei processi di empowerment sia individuali che sociali, orientati alle pari opportunità per tutti. Docente e consulente, per diversi anni presso l’Unicivica, ha esperito un significativo percorso nel gruppo biografi UPTER. Socia LUA, sul cui sito sono state postate diverse esperienze territoriali di raccolta di narrazioni e testimonianze sociali. Alla testimonianza “Amanda racconta Armanda” (2011) è stato riconosciuto un premio speciale nell’ambito del Concorso Internaz. POWOS. Presidente dell’Ass. “RaccontarsiRaccontando e responsabile del Dipartimento Volontariato ANRP, supporta volontariamente gli insegnanti degli I.C. del Territorio Romano, nella maturazione cognitiva ed affettiva dei giovani in difesa della pace, della tolleranza e della diversità quali valori ineludibili.
Vite di IMI: percorsi di vita dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945 - mostra storico didattica permanente (ANRP). |
«Tra noi e l’inferno e tra noi ed il cielo non c’è che la vita, che è la cosa più fragile del mondo» (Blaise Pascal).
Dove si trova nascosta la forza di archetipi universali quali la fiducia, la speranza, l’amore la paura e il coraggio tra le righe delle narrazioni che troverete in questo articolo? Le narrazioni e le testimonianze che potrete leggere, appartengono a soldati italiani prigionieri, ai loro familiari e alla popolazione civile che ha subito eventi traumatici durante la seconda guerra mondiale. Sono tratte da testimonianze orali dei diretti interessati, o da documenti quali lettere, taccuini e diari, ritrovati da figli e nipoti di quella generazione che ha attraversato il periodo della Seconda Guerra Mondiale e che ha saputo elaborare, oppure ha seppellito in fondo a cassetti e bauli, le tracce di quell’esperienza.
Stiamo parlando della forza di archetipi quali fiducia, speranza, amore, paura e coraggio, dimensioni psicologiche intese come archetipi universali comuni a tutti gli esseri umani, di tutti i tempi e di tutte le civiltà. Ma quale ruolo possono aver giocato negli eventi marcatori che hanno costellato il vissuto sia dei soldati italiani prigionieri che dei loro familiari, come pure della popolazione civile che ha subito eventi traumatici durante la seconda guerra mondiale?
Tenere conto degli archetipi non significa voler incasellare i comportamenti delle persone o le motivazioni individuali e soggettive che hanno portato a tali comportamenti, perché gli archetipi non si possono riferire a tipologie di personalità, ma sono situate a monte di ciascuna personalità, del temperamento individuale, del carattere e dei valori. Quindi sottendono le motivazioni profonde dell’agire umano e collettivo.
Una collettività, come una persona, può vivere senza felicità ma non senza speranza. Può ritenersi ormai sfiduciata per aver creduto in qualcosa che non meritava la propria fede/ fiducia, ma può sempre sperare in una situazione migliore. Può accettare di non avere coraggio ma può intuire che il coraggio è l’interfaccia della paura. Così come può sperimentare la paura, sia singolarmente che insieme ad altre persone, ma può intuire che la paura è l’interfaccia del coraggio.
Lo scopo di questo elaborato è quello di cercare di comprendere come ed in che misura la forza nascosta degli archetipi collettivi ed universali, possa aver influito quale risorsa inconsapevole alla quale attingere nei momenti traumatici. Le narrazioni e le testimonianze raccolte in un lungo lasso di tempo - dal 1980 sino ai giorni nostri - che vengono narrate nella seconda parte di questo elaborato, sono collocate tutte nel periodo che va dall’inizio della II Guerra Mondiale (1940) sino all’ottobre del 1946, data nella quale tutti gli italiani prigionieri in Gran Bretagna poterono tornare in Patria. Hanno un comune filo conduttore: l’aver vissuto eventi ed emozioni negative talmente forti da creare uno scarto tra il come si immaginava il proprio mondo e se stessi prima e la necessità di cercare di sopravvivere all’evento negativo cercando di riorganizzare la propria personalità dopo. Lo shock per situazioni al limite della sopportabilità, inteso come condizione di grave compromissione della lucidità mentale e della coscienza a seguito della stimolazione psicologica molto intensa che ha segnato la vita di alcune delle persone di cui racconteremo le testimonianze, può essere definito uno degli eventi «eventi marcatori» nella vita di queste persone, riprendendo una definizione utilizzata dalla psicologia umanista di Maslow (peak experiences – Maslow 1971).
Sarà interessante, per il lettore, rendersi conto di come davanti ai tragici eventi che interrompono la consueta linearità del quotidiano, i protagonisti di queste storie, chi più chi meno (qualcuno di loro è riuscito a raccontare la propria narrazione solo in età avanzata), abbiano reagito attingendo a risorse interiori delle quali erano inconsapevoli sino a quel momento, mettendo in atto comportamenti capaci di contenere, sistematizzare e rielaborare sia gli eventi traumatici subiti che le strategie per riuscire a superarli, compresa la rimozione.
Quindi, se è vero che la fiducia, la speranza, il coraggio e la paura, sono archetipi che spesso, nelle narrazioni orali in particolare, si esprimono più a livello intuitivo che esplicativo, non possiamo che cercare di metterli a fuoco individuandone la presenza tra le righe dei frammenti di storia personale e/o famigliare sapendo che, solo in quanto frammenti, possono contribuire alla comprensione di uno stato d’animo diffuso tra persone che si sono trovate a vivere momenti traumatici tanto individuali che collettivi. In un periodo storico di cambiamenti difficili e destabilizzanti: militari e civili, sui fronti di guerra e in prigionia oppure sotto i bombardamenti delle città o nello spazio-non-spazio come quello dell’attesa del ritorno a casa dei prigionieri di guerra, durante ed alla fine della Guerra.
In particolare, per quanto riguarda i militari italiani prigionieri degli alleati sin dall’inizio del conflitto e fino all’8 settembre del 1943, la descrizione dello scacco subito, della sensazione di sfiducia e disistima in se stessi, la scelta sofferta di cooperare oppure no dopo l’armistizio e la sfiducia nella capacità del proprio Paese di sapersi attivare per il loro ritorno in Patria è stato vissuto in modo talmente traumatico da richiedere una profonda rimozione collettiva per lunghissimi anni a tutta una classe di giovani uomini partiti per la guerra.
Una storia a parte meriterebbe la vicenda degli Internati Militari Italiani nei campi di prigionia tedeschi dopo l’8 settembre del 1943, rimossa per troppo tempo dalla coscienza nazionale, sino a quando l’ANRP non ha cominciato ad occuparsene in modo serio e sistematico. Tra le narrazioni utilizzate è presente anche la testimonianza di un IMI, ovvero la storia della cattura e della prigionia di nonno Aroldo.
Le narrazioni e le testimonianze orali che troverete in questo elaborato, sono state reperite sia direttamente dalla voce dei protagonisti, tramutate successivamente in testi da volontari della memoria e riconosciuti come propria espressione da coloro che avevano raccontato la propria storia (metodo L.U.A.), sia attraverso lettere, documenti e foto in possesso dei figli di coloro che hanno vissuto in prima persona il periodo bellico, come militari in stato di prigionia, come familiari di uomini al fronte o in prigionia o, infine, come popolazione civile ed inerme. Ciascuna storia declina in termini personali i concetti di fiducia e sfiducia, coraggio e paura, speranza e disperazione che appare tra le righe di ogni racconto personale. Lievi tracce di detto e non detto che lasciano intuire al lettore il trauma a monte di ciò che si sta raccontando ed i tentativi, attraverso il racconto, di dare un senso compiuto e superato al trauma che si è, a suo tempo, vissuto.
A questo punto è necessario cercare di poter definire e condividere, convenzionalmente e nel miglior modo possibile, cosa si intenda per uno almeno degli archetipi sopra enunciati. Ho scelto la fiducia perché la fiducia, forse, appartiene più di altri alla sfera dei fenomeni complessi e non può essere banalizzata perché prevede connessioni di senso, di affettività, di comprensione tra le parti. Per cercare di definire per quanto possibile cosa possa significare 'avere fiducia o sentirsi fiduciosi', ci affidiamo ad una suggestiva ricerca etimologica di un esperto come Francesco Varanini, socio-antropologo e scrittore del nostro tempo, ed all’opera drammaturgica, della quale raccontiamo solo e brevemente la trama, di John Bynum - scrittore e drammaturgo dell’inizio ‘800 - che riprende un racconto collocato nella Sicilia del IV secolo avanti Cristo. La storia è di Aristosseno, giuntaci tramite Giamblico nel “De vita pythagorica”.
Francesco Varanini e la fiducia (2013): «La parola fiducia più che esplicitare nasconde. Parla di un concetto sfuggente, dai confini particolarmente sfumati: Fidare, fidarsi, fedele, fedeltà, fiduciario, federazione, fideiussione, fidanzamento… In latino fiducia è astrazione dell’aggettivo fiducus. Per capire come si forma l’aggettivo possiamo guardare a due casi analoghi: da cado, caducus; da mando mastico, manducus colui che mangia, il mangione. Così da fido, mi fido, fiducus - colui di cui mi fido».
John Bynum “Damon and Pythias”. A Tragedy in 5 Acts (1800): «Nel quarto secolo avanti Cristo Finzia e Damone, due cari amici e seguaci del filosofo Pitagora, si recano insieme nella bella Città di Siracusa. Damone, più prudente osserva tutto e tace, Finzia invece, dinnanzi alla spudoratezza con cui Dionisio il Giovane governa da tiranno, lo contesta apertamente e pubblicamente e per questo viene imprigionato e condannato a morte. Finzia rendendosi conto di essere ormai condannato, chiede al Tiranno il permesso di fare ritorno a casa solo per abbracciare la sua famiglia e disporre con equità dei suoi beni. Dionisio rifiuta, per timore che Finzia possa sfuggire alla sua ira. Ecco che allora Damone, si offre di prendere il posto di Finzia accettando di essere giustiziato al suo posto se Finzia non dovesse fare ritorno nel tempo stabilito da Dionisio il Giovane. Il giorno prima della data dell’esecuzione, Finzia non è ancora tornato a Siracusa e Dionisio il Giovane, mentre iniziano i preparativi per uccidere Damone, irride quest’ultimo per la fiducia riposta in un amico scaltro e traditore senza però riuscire a togliere a Damone, il convincimento nella fiducia riposta in Finzia. Ultimo colpo di scena: proprio nel momento in cui si sta per eseguire la condanna, ecco giungere Finzia trafelato, appena in tempo per evitare la morte dell’amico Damone. Finzia spiega al Tiranno il perché del suo ritardo dovuto ad una tempesta che ha dirottato la nave su cui viaggiava e dei banditi che l’avevano aggredito lungo la strada depredandolo. I due amici sono salvi tra le acclamazioni dei siracusani e lo stupore del Tiranno che, inginocchiandosi, chiederà a Finzia e Damone di poter avere la loro amicizia».
Ma non solo di fiducia ci vogliamo occupare, poiché riteniamo che anche la speranza, il coraggio, l’amore e la paura, entrino a pieno titolo tra gli archetipi universali connaturati alla psiche umana ed in grado di pesare nella qualità della vita personale, sociale e multiculturale degli esseri umani e di tutti gli esseri viventi. Mi sento, allora, di chiedere ai lettori di considerare come, la chiave di lettura espressa così ben espressa nei confronti della fiducia così come rappresentata da Francesco Varanini, ovvero che la parola fiducia più che esplicitare, nasconde, poiché parla di un concetto sfuggente, dai confini particolarmente sfumati, possa valere anche per l’amore, la speranza, la paura ed il coraggio.
Narrazioni e testimonianze
Elena Carandini Albertini : Passata la Stagione (Diari 1944 – 1947)
Elena Carandini Albertini moglie dell’Ambasciatore Italiano a Londra dal 1944 al 1947, Nicolò Carandini, racconta nel suo diario alcuni momenti legati alla vicenda dei prigionieri italiani in Inghilterra ai quali, nonostante la guerra fosse terminata, veniva negato il ritorno in Patria.
La trattativa per il rimpatrio
«8 settembre. Nicolò è chiamato inaspettatamente dal Ministro Inglese Bevin. All’inizio è quasi scontro. Il Ministro incomincia indignandosi della condotta dei nostri prigionieri che minacciano disordini e scioperi perché vogliono il rimpatrio e prosegue nella sua requisitoria mentre Nicolò lo fissa e tace, tace, tace. Poi è lui che parla, calmo ma fermo, ribattendo come la lunga prigionia alimenti le tristi condizioni morali degli italiani anche se le condizioni materiali sono soddisfacenti. La lunga prigionia la sentono ormai ingiustificabile. La solitudine, lo sconforto, turbano sempre più pericolosamente i loro nervi, i loro sensi. Lo dicono i numerosissimi suicidi ed i casi, più o meno gravi di alienazione. Né si possono dimenticare le condizioni del loro lavoro. Da anni ed anni, come cooperatori operai, essi rendono all’Inghilterra un servigio enorme che può dirsi gratuito. Cosa sono infatti i cinque scellini settimanali? L’Erario inglese trae grossi profitti dal loro lavoro che è ceduto ad imprese diverse, soprattutto agricole. Pare strano che tale slave-labour venga protratto. Aggiungendo che non v’è alcun miglioramento nell’atmosfera di sospetto ed astio attorno a quei disgraziati. Alcuni di loro, a parte il resto, ignorano che ne è delle loro famiglie dopo la rovina e la confusione della guerra. Oppure conoscono le difficoltà dei loro cari a cui spesso si aggiungono quelle di ordine coniugale, amarissime. Nicolò ha concluso. «se io non posso rassicurare i prigionieri italiani, come posso rispondere di quello che faranno?» e Bevin che aveva dichiarato di non voler fare nessun statement, né promesse di rimpatrio, capisce che dovrà pur dire qualcosa.
La visita al campo degli italiani prigionieri
«… stringe il cuore entrare in quella irta recinzione per raggiungere uno dei dieci host (comprendenti ciascuno duecento uomini) formati da quattro o cinque baracche con giacigli disposti su due piani e grande stufa. Alle pareti sono affisse immagini di tante belle ragazze sorridenti, promettenti, tolte dai giornali illustrati. Uomini giovani, uomini maturi, dalle care facce nostrane che pareva d’aver già conosciuto mi dicevano, ciascuno a suo modo e spesso tutti insieme: "qui dentro non è vita, anche se non ci manca niente… ci manca il meglio: il paese nostro, i nostri cari, la casa, non se ne può più… tanto tempo senza notizie ed ora che qualcuna arriva è quasi peggio… non si capisce più niente". Sono i tormenti delle informazioni sommarie, spesso elusive o allusive. Le gelosie torturanti, le calunnie, la rovina della propria famiglia, la pena per i genitori invecchiati, l’estraneità dei figli. A questo si aggiunge che ancora è vietato fraternizzare con la popolazione locale. Non devono salutare neppure chi conoscono… mi si affollavano intorno molti baresi e leccesi, parecchi comaschi, un rapallino molto amareggiato, dei piemontesi spiritosi, dei veneti dalle molte risorse. Quello di Terni che non si dava pace non avendo mai più ricevuto notizie dalla propria famiglia. Ognuno con la sua storia, ognuno un tipo diverso, ma la stessa torturante nostalgia negli occhi di tutti. Parlavo dell’Italia tanto malconcia ma in via di riprendersi, dicevo ad alcuni che conoscevo i loro luoghi e veramente li sentivo fratelli. Era poi sopraggiunto l’ufficialetto medico inglese che percepisce una sterlina al giorno e non fa nulla. Anche il colonnello che dirige il Camp è comparso, un poco stiff ma sgelatosi, il Colonnello ha finito per dire che ho ragione, che è venuta l’ora di rimpatriarli tutti. "Alcuni di questi poveretti", diceva, "sono lontani da casa da ben sette anni. I nostri prigionieri sono 153.000"».
Il rimpatrio
«Southampton. Con Ferreo, Paolo Treves ed un giornalista, andiamo al porto, alla grande nave che restituirà all’Italia, intanto, 2.500 prigionieri di guerra. Oh la felicità di quei cari visi nostrani nel salire sui ponti! Così aperti e comunicativi quando passiamo tra loro. "Guarda chi c’è… Carandini!", "quello, vedi, è Carandini, Carandini è venuto a salutarci!". Mai sentendo il nostro nome abbiamo provato tanta commozione e fierezza. In quel loro piacere che ci sia Carandini c’è il riconoscimento di ciò che Nicolò è veramente come uomo, anche per loro, e non solo la soddisfazione che l’ambasciatore si sia degnato di essere presente. Paterno, fraterno per i tanti che ha avvicinato nelle suo molte visite nei Camps… ci fanno girare la nave: i dormitori ove stasera saranno appese le hamak per sognare, cullati rudemente dal mare di febbraio, i refettori ove troviamo ottimo cibo. C’è una rumorosa allegria, riaccesa improvvisamente e fiduciosamente. E di nuovo l’impressione di conoscerli tutti pur diversi come sono, d’ogni paese, d’ogni mestiere, d’ogni umore. Proprio compaesani ci sentiamo con reciproca soddisfazione. E ancora ne arrivano su per le scalette della nave, come formiche cariche, in fila, portando sulle spalle cassette militari, sacchi, involti, fisarmoniche e chitarre insieme a molti ricordi di ogni specie. Veniamo fotografati in mezzo a loro che ci raccontano la loro storia. Chi quattro, chi cinque anni, lontani da casa e qualcuno anche sette ed addirittura undici. Che mai potranno ritrovare, che vita ricostruirsi nel paese sconvolto dalla guerra…».
Marilena e la chiave del portone
La narrazione di Marilena, che aveva 4 anni durante il periodo bellico 1940/1945, si svolge a Roma nel Quartiere di Villa Fiorelli vicino alla Basilica di San Giovanni. La sua testimonianza orale, come altre presenti in questo elaborato, è stata raccolta nel 2014 nel contesto del Laboratorio di Narrazione di Sé presso il centro diurno di San Frumenzio in Via dei Prati Fiscali a Roma, tra gli anziani del Gruppo Lettura e tramutato in testo scritto condiviso con la narratrice da due volontarie dell’Associazione RaccontarsiRaccontando. La raccolta dei testi è stata poi postata sul sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari nello spazio Approdo di Ulisse/ progetti giunti a buon fine, quale pratica replicabile di esperienza sociale e territoriale. Le storie postate, raccolte sotto il titolo «Noi bambini al tempo della guerra» possono essere lette e scaricate gratuitamente dal sito LUA.
«La guerra, la famiglia, la mia grande famiglia. Abitavamo tutti vicini, la zia, le mie cugine Marisa e Franca; ognuno entrava nella casa dell’altro, non si disturbava, non si chiedeva il permesso, perché la famiglia era tutta la famiglia. Anche se ero molto piccola, aiutavo come potevo nelle difficoltà che la guerra ci poneva quotidianamente davanti. Facevo la fila alla fontana per riempire le bottiglie d’acqua, poi le mettevo dentro a delle borse grandi e riprendevo la strada di casa con queste pesanti sporte. Ricordo che l’acqua usciva dalle bottiglie, eppure le borse continuavano a essere pesanti. Ancora mi domando come facessi a portare a quattro anni tutto quel peso, superiore alle mie piccole forze. La chiave del portone di casa era grande e importante: ognuno aveva la propria chiave, ma ogni chiave era capace di aprire tutti i portoncini delle nostre case.
Una mattina ero al parco di Villa Fiorelli insieme a mio fratello e alle mie cugine quando sentimmo le sirene dell’allarme bombardamenti. Iniziammo a correre, quattro bambini piccoli, già così responsabili di noi stessi…andammo verso la chiesa di San Fabiano e Venanzio, dove, sotto ad una specie di collina, avevano costruito un rifugio. La gente era accalcata nel rifugio, chi strillava, chi urlava che non voleva morire, chi diceva che non voleva fare la fine del topo… erano tutti vestiti con solo quello che avevano indosso… io, bambina, pensavo che fosse meglio farla finita subito, purché mi portassero in terrazza per poter morire sotto il cielo… quanto tempo ho impiegato per capire che anche se fossi stata su di una terrazza, la casa sarebbe crollata e non sarei potuta morire sotto al cielo…
Dentro al rifugio noi bambini ci accorgemmo che non avevamo più la chiave di casa, uno di quei chiavoni lunghi che sembravano d’argento. Mi venne istintivo correre fuori dal rifugio per ritrovare quella chiave che, non solo apriva la mia casa, ma era la chiave di tutti i miei affetti più importanti. Ricordo le persone nel rifugio che cercavano di trattenermi, ma io mi divincolai e uscii dal rifugio, rifacendo la strada in salita. Ero terrorizzata a ripercorrere la strada di corsa, da sola, così piccola, la paura mi sconvolgeva, ma dovevo tornare indietro correndo, correndo, correndo... e, finalmente, ritrovai la chiave per terra. Il mio ricordo è fissato su quella chiave perché, se non fossi tornata indietro a prenderla, ero sicura che avrei smarrito il senso dei miei affetti e della mia famiglia».
Elda: “sfilai le scarpe dai piedi. E non le volli indossare mai più”
Anche la testimonianza di Elda è stata raccolta presso il Laboratorio narrazione del sé del Centro Diurno San Frumenzio a Roma. Elda, che allora aveva tredici anni, racconta il bombardamento da parte degli alleati sul quartiere romano di San Lorenzo avvenuto il 20 luglio del 1943. Diverse persone anziane, allora bambini che abitavano nel quartiere o zone limitrofe, hanno raccontato questo episodio rimasto impresso nella loro mente come qualcosa di inaspettato e devastante.
«Mi chiamo Elda, e sono nata il giorno 20 luglio. Nel 1943 avrei compiuto 14 anni. Il giorno prima, il 19 luglio, giorno del bombardamento di San Lorenzo, dove abitavo con la mia famiglia vicino alla Chiesa dell'Immacolata, ero rimasta a casa con papà. Mamma era andata a far la spesa con gli altri tre fratellini, dalle parti di Piazza Vittorio.
Quella mattina mi ero svegliata presto, perché dovevo organizzare la festa del mio compleanno: mi ero lavata i capelli, avevo messo i bigodini e stavo preparando un piccolo rinfresco, perché nel mio palazzo, quando c’era qualche cosa da festeggiare, come pure quando si verificava un evento doloroso, si partecipava tutti. Era un palazzo di cinque piani, senza ascensore, uno di quei palazzi con le loggette/ballatoio che si affacciavano nel cortile interno, come quelle che Vittorio De Sica ha rappresentato nei suoi film. Si stava sempre lungo le loggette per un sorriso, un saluto, una chiacchiera… e questo creava un’unione vera tra la gente. Nel palazzo c’erano famiglie di estrazioni diverse: dal grande giornalista al ladro, dal povero al ricco, quarantotto famiglie in tutto.
Eravamo tutti molto uniti con rapporti di autentico buon vicinato. Quando qualcuno si sposava, era bello sentire la serenata prima del matrimonio. Noi eravamo una famiglia molto unita. Mamma aveva quattro figli, lavorava con papà, avevamo la tata e la nonna abitava nell’appartamento vicino. Quella mattina, sotto casa, c’erano i preparativi per uno sposalizio e lungo la strada, tra via dei Sabelli, via degli Equi e via dei Latini c’erano posteggiate tante carrozze e tanti landò a cavalli. Era un momento di grande festa e confusione. Io stavo al secondo piano e sentivo tutti i rumori della strada.
Verso le 11 principiò a suonare la sirena e poi s’iniziò a sentire la contraerea. Il rifugio era stato ricavato nelle cantine del nostro palazzo, ma papà non poteva scendere in cantina perché camminava male con una gamba e nonna, che era molto grossa, non c’entrava con le spalle. Perciò ci fermammo tutti e tre nella guardiola del portiere. Il bombardamento fu una cosa terribile: si sentivano le urla delle persone e gli scoppi delle bombe. Una bomba fece cadere metà del fabbricato dove eravamo, un'altra cadde di fronte e le altre molto vicino: cinque bombe in tutto. Nel mio palazzo ci sono stati 160 morti, e tutti sono morti dentro quelle cantine dove pensavano di essere al sicuro.....ricordo che sentii la voce di una mia amica che gridava aiuto... e quelle grida non l'ho più dimenticate!
Quando siamo usciti dalla guardiola del portiere, trovammo il portone di casa bloccato dallo scoppio delle bombe. Poi un'altra bomba squarciò il portone e potemmo uscire all'aria aperta. Nonna, che era una donna svelta, mi disse: “Corri, vai a vedere come stanno tutti gli altri”. Perché i nostri parenti abitavano tutti nelle strade vicino ed io, allora, ho iniziato a correre per tutte le vie dove sapevo che avrei potuto trovare i miei parenti che, per fortuna trovai, tutti spaventati ma vivi.
A terra c’erano i cavalli, quelli delle carrozze preparate per il matrimonio, feriti o già morti per le mitragliate e mentre correvo verso il cinema Palazzo a Piazza dei Sanniti, e per le altre strade del quartiere, trovavo persone morte o ferite, che gridavano ed imploravano aiuto e per terra tanto sangue. Quanto sangue ho visto mentre i miei piedi, chiusi dentro le scarpe, mi portavano per le strade del quartiere e si macchiavano di terra e sangue... e correvo … correvo.... correvo... queste sono cose che si ricordano per sempre.
Nel frattempo mamma aveva trovato riparo a piazza Dante, dove c’era il rifugio antiaereo. Sulla strada del ritorno passò sotto l’arco di Santa Bibiana, con i tre miei fratellini per mano, tutti più piccoli di me e con la Tata. Camminando vedevano solo macerie, morti e feriti. Disperata, pensava “Cosa troverò?”... Quando girò l’angolo del caseggiato, vide metà del nostro palazzo caduto giù e pensò che fossimo tutti morti. Invece io stavo con nonna e con papà vicino al portone.
Ci fu, allora, un grande abbraccio, un grandissimo abbraccio collettivo, disperato ed incredulo nello stesso tempo, quello di una famiglia che si ritrovava viva ed unita! Poi risalimmo dentro la nostra casa miracolosamente in piedi anche se fortemente danneggiata ed io ricordo che, lentamente, mi tolsi i bigodini dalla testa e sfilai le scarpe dai piedi. E non le volli indossare mai più».
Amanda racconta Armanda
Testimonianza raccolta a Roma dalla viva voce di Armanda de Angelis presso l’UPTER di Roma durante il Corso Autobiografico progettato e condotto dal Dott. Andrea Ciantar. Il linguaggio di Armanda - un misto di italiano con termini romaneschi tipico della borgata romana di Tiburtino Terzo - è stato rispettato in modo integrale durante la trasposizione da testimonianza orale a testo scritto e restituito ad Armanda ai fini di un riconoscimento come proprio.
«Mi madre, Iolanda Rosa, era stata una bella ragazza e faceva la cassiera in un negozio di alimentari già da giovanissima. Come facesse la cassiera nun lo so, visto che era analfabeta. Il padrone del negozio, je faceva la corte, ma lei nun lo voleva. Je piaceva un altro ragazzo, Guido, quello che poi è diventato mi padre. Lui entrava pe fà la spesa perché era capofamiglia, doveva da pensà a la madre e ai fratelli. La mamma era inferma da tanti anni, e in casa accudiva e se faceva carico tutto lui. Anche per questo era diventato un bravo cuoco. Comprando oggi e comprando domani le cose da mangiare, nel negozio dove mamma lavorava, lui guardava sempre più spesso mi madre che era bella. Io però, penso che mi padre era più bello de lei. Cominciarono a vedesse tutte le volte che era possibile, s’amavano e mamma se ritrovò incinta a 17 anni. Se n’accorse quando lui era già stato richiamato militare e mandato alla guerra dell’Italia che voleva occupà l’Albania. Così è nato mi fratello Alberto. Chissà quanto avrà penato mamma mia. Poi se sposarono, appena fu possibile.
A casa mia, quando ero ragazzina eravamo in tutto, nove figli (veramente mamma ne aveva partoriti dieci de figli, ma una sorella era morta da piccola in modo drammatico). Te la vojo raccontà ’sta storia tremenda. Fiorella, se chiamava ’sta sorellina mia e ciaveva 5 anni quando è morta. È stato quando la guerra stava pe finì. Lei giocava con due amichetti, due gemellini dell’età sua, sul prato a Tiburtino Terzo. Mamma era andata dal fotografo a ritirà ‘na foto, proprio quella de Fiorella.
Perché Fiorella era bellissima, aveva i capelli biondi, tutti a boccoli. Mamma stava a tornà a casa e, mentre stava attraversando il prato, se sente un botto terribile. Era successo che i tre regazzini, avevano trovata una specie de pignetta, hanno cercato d’aprirla con un sasso, ma quella è esplosa, perché era una bomba. I due gemellini so’ morti sfracellati. Fiorella no, pareva nun avesse niente. Invece una scheggia aveva bucato l’intestino ed è morta in ospedale. La monaca del reparto ospedaliero, pe preparà mi madre alla brutta notizia, le disse in questo modo: “Signora, se prepari a vedè un angioletto, così è diventata la pupa sua, bella, col visetto sereno, se ne è andata in paradiso co l’angeli.”
A mamma rimase quell’unica foto della figlia, e un dolore terribile nel cuore che non passava mai e la faceva continuamente piangere. Poi, dopo la guerra, nacque un’altra bambina e lei la chiamò Fiorella, come quella che nun c’era più e poi vennero anche altri figli compresa io e mamma piano piano si riprese. I miei, chiesero i danni di guerra per questa morte assurda. Arrivarono quasi trent’anni dopo, una cifra irrisoria, motivata dal fatto che si trattava di una femminuccia. I genitori dei due gemellini uccisi, ebbero molto di più per ogni figlio. I miei chiesero spiegazioni, e fu detto loro che perdere due figli maschi, voleva dire perdere quattro braccia che avrebbero lavorato e portato i soldi a casa. Una femmina no, non poteva valere altrettanto. Come se il sesso di appartenenza potesse fa la differenza davanti alla perdita de una creatura e questo fatto i miei genitori lo trovarono profondamente sbagliato e non riuscivano ad accettare questa ingiustizia!»
Nonno Odoardo ed il suo taccuino
Odoardo Quaglietti, catturato nella battaglia di Gela e Licata nello sbarco degli alleati in Sicilia annota nel suo taccuino i momenti salienti e più disperati della sua prigionia. Lo fa con semplicità riuscendo però a trasmettere le sue emozioni. Il suo taccuino è rimasto sempre nel cassetto del comodino della sua casa di Pesciano di Todi in Umbria, sino a quando suo nipote Simone, me lo ha consegnato perché l’esperienza di guerra di suo nonno diventasse pubblica.
«(…) Raggiunta la sventurata città di Licata e dopo 40 giorni di continui bombardamenti, il 9 luglio, all’alba, iniziava il lancio dei paracadutisti. Lo sbarco nemico era incominciato. Terribile e persistenti i bombardamenti. Dopo una vana resistenza dei nostri valorosi bersaglieri e della nostra artiglieria, il nemico riusciva ad impadronirsi della città di Licata con grandi perdite dei nostri uomini. Già in mattinata gli uomini della prima e della seconda compagnia furono fatti prigionieri. All’urto nemico e sino al tramonto, resisteva la terza compagnia e l’intera divisione 202 Costiera impegnata nel combattimento. Si aspettavano dei rinforzi, ma fu attesa vana!
(…) Mi presero prigioniero e mi tolsero tutto, restai solo con la camicia e la bustina. Ci portarono al porto di Licata e la notte patimmo il freddo. I miei amici Rosati e Grasselli si misero vicini a me, stretti, per farci un poco di caldo. (…) poi ci imbarcarono per portarci in un campo di prigionia tunisino prima ed algerino poi. Mentre si sbarcava al porto di Biserta, il porto era gremito da molte persone del luogo per vedere noi che sfilavamo, prigionieri di guerra, tra due file di sentinelle armate diretti al campo di concentramento. Ci sentivamo come leoni in gabbia!»
Nei due campi di prigionia, Odoardo passerà quasi un anno della sua vita. Poi, nell’ultima settimana dell’Agosto 1944 i prigionieri italiani del campo 134, furono imbarcati su di una nave, all’alba di una giornata che si preannunciava caldissima, senza sapere la loro destinazione. Incominciò il viaggio per mare, in direzione nord ed alle ore 16 circa, Odoardo ed i suoi compagni videro passare, a poca distanza dalla nave/prigione, le belle coste della Sardegna. «… noi prigionieri ci guardavamo l’un l’altro e guardavamo le belle coste della Sardegna che si allontanavano, ma parole non uscivano dalle nostre labbra, mentre perdevamo la speranza di tornare alla nostra casa. E poi vedemmo allontanarsi anche la costa della Corsica e allora ci prese la paura e la disperazione».
La guerra ebbe finalmente fine, ma di tornare a casa in Italia ancora non se ne parlava ed i prigionieri italiani erano sempre più avviliti. Finalmente a Settembre del 1945 cominciarono i ritorni in Patria. Odoardo, nel lungo e periglioso viaggio di ritorno verso Pesciano di Todi nel novembre del 1945, vide città e paesi colpiti dai bombardamenti, seppe di famiglie distrutte e di una Italia messa in ginocchio dalla guerra. Per contrastare l’ansia e l’angoscia che lo attanagliava, si costringeva a pensare alla piccola Giuseppa ed immaginava a come l’avrebbe ritrovata cresciuta. Pensava a sua moglie Olga ed ai suoi fratelli che avrebbe abbracciato a breve. E pensava anche, con preoccupazione, al suo appezzamento di terra abbandonato, incolto e bisognoso delle sue braccia che non vedevano l’ora di riprendere la cura dei campi. Il lavoro di contadino che aveva fatto per anni, gli aveva insegnato che bisognava saper aspettare perché il ritmo delle stagioni è diverso dal ritmo della follia umana.
Elena ed il soldato tedesco
Questa narrazione è stata raccolta nel 1980 a Roma dalla viva voce di Elena Cascioli la quale aveva un figliolo, aviatore, disperso durante una azione bellica, nel Deserto Libico. Solo in un secondo tempo seppe che era stato fatto prigioniero dagli inglesi. Durante la ritirata dei tedeschi da Roma, sotto l’incalzare delle truppe alleate, Elena si trova ad aprire la porta di casa ad un giovane soldato tedesco (Testimonianza dall’archivio famiglia Calore).
«Avevo sentito dire della ferocia dei tedeschi. Ed ora che erano in ritirata, la loro ferocia doveva essere ancora peggiore. Avevo anche sentito dire che c’erano stati degli stupri in Ciociaria, perché i soldati erano uomini incattiviti dalla guerra e dalla paura. Quando sentii bussare alla porta eravamo sole, io e Silvana, la mia giovane nuora. Mi spaventai a morte, ma capii anche che dovevo aprire se non volevo una reazione cattiva e magari la distruzione della casa. La decisione la presi in un baleno. Afferrai Silvana che tremava come una foglia, le sporcai il viso con la cenere dello scaldino e le dissi concitata: trema, trema più forte, devi sembrare una povera infelice! Poi legai un vecchio fazzoletto sui capelli di lei per nascondere i ricci neri e la feci sedere rannicchiata su di una sedia. Per me stessa non temevo. Gli anni mi avrebbero protetta. Come potevano i miei capelli grigi ed il mio corpo di vecchia madre attrarre dei giovani soldati vogliosi di avere donne? Aprii con cautela, mentre Silvana nell’ombra tremava terrorizzata battendo i denti dalla paura. Non apparvero orde di soldati, ma solo uno, giovane e spaventato che chiedeva cibo. Lo feci entrare, non potevo fare altrimenti. Tirai fuori quello che avevo in casa, pane, un poco di formaggio e delle olive.
Il giovane si lanciò sul cibo come un animale. Mangiava veloce, guardandosi attorno, come se oltre a quella povera disgraziata sporca e tremolante di mia nuora, temesse veder apparire uomini armati. Io lo guardavo mangiare, con l’orecchio teso, Chissà se nelle altre case dei vicini c’erano altri soldati. Lui era pallido, con occhi chiari, giovanissimo, poco più che un ragazzo. Mi guardò in viso, chiedendo ancora pane e da bere. Mentre gli mettevo davanti pane condito con olio e sale lui, guardandomi in viso con occhi sperduti, sussurrò: “grazie mamma”. Allora la mia paura si sciolse in singhiozzi. Cominciai a piangere. Cercavo di dire a quel figlio, che anche io ero madre di soldato, di come mio figlio fosse prigioniero in Inghilterra, di come per mesi lo avevo ritenuto disperso e poi morto nel deserto libico, visto che mi era stato recapitato il suo baule con tutte le sue cose e di come le madri italiane soffrissero tutte a causa di questa brutta guerra. Lui continuava a dire “mamma, mamma” sembrava un bambino piccolo spaurito e stanco. Un soldato nato da un’altra madre lontana, in pena come me per un figliolo alla guerra.
Due ore dopo, mentre il ragazzo dormiva sul divano, mi arrivò la notizia che una intera compagnia di soldati tedeschi, sulla via di fuga, aveva preso alloggio momentaneo, nell’istituto delle suore belghe, nella vicina Certosa sulla Via Casilina. Era vicino, bastava tagliare il prato sotto la Certosa, fare una piccola salita fino ad arrivare al cancello. Svegliai il ragazzo dicendo concitata: “Raggiungi i tuoi commilitoni, vai di corsa su alla Certosa, perché se resti qui rimani isolato ed è più pericoloso per tutti, per te e per noi”. Gli indicai la strada in leggera salita dove, dopo 50 metri, puoi trovare il cancello dell’Istituto Religioso delle suore belghe. Il ragazzo si guardò intorno prima di avviarsi e mi fissò negli occhi. Mi disse che avevo più o meno l’età di sua madre. Poi, di colpo, ci abbracciammo; io mamma di un soldato italiano e lui figliolo di una mamma tedesca, giovanissimo e con gli occhi chiari da ragazzo. La mattina dopo, mentre la compagnia di soldati tedeschi sbandati uscendo dalla Certosa riprendeva il suo cammino verso il nord, si sentì una lunga sparatoria. Furono molti i morti ed i feriti ed i soldati tedeschi furono tutti uccisi. Lì, proprio su quel prato, sotto le mura della Certosa dove, se fai pochi metri in leggera salita, c’era e c’è ancora il cancello dell’Istituto Religioso delle Suore Belghe».
Da Pescantina a Pescantina - Nonno Aroldo (IMI) racconta
La registrazione della testimonianza, raccolta dalla viva voce di Aroldo Leprini nato a Pergola il 27 ottobre del 1922, è stata gelosamente conservata dalla figlia e dal genero. Solo ora, a distanza di anni dalla sua morte, la voce di Aroldo (catturato nei giorni successivi all’8 settembre 1943, Internato Militare Italiano nei campi tedeschi) è diventato un testo scritto da destinare alle giovani generazioni, perché conoscano questo pezzo della nostra storia contemporanea, per troppi anni rimosso dalla coscienza collettiva degli italiani. Il linguaggio di nonno Aroldo ed il suo modo di raccontare la sua testimonianza, è stato preservato il più possibile in nome del rispetto, per una storia intima fatta di sofferenze e privazioni e - nonostante tutto - pervasa da una profonda umanità e con qualche punta di ironia. Questa testimonianza è stata poi depositata sia presso l’archivio dell’Associazione RaccontarsiRaccontando che presso l’archivio ANRP.
«Io me ricordo sì, certo che me ricordo, me ricordo che mi arrestarono mentre stavo in servizio presso il distretto di Ancona. Erano i giorni appena dopo l’8 settembre, vennero i tedeschi e ci arrestarono tutti. Ce concentrarono presso il 93° reggimento di fanteria di Ancona e mia madre mi portò dei vestiti civili venendo con un passi nella sala di aspetto del comando perché era riuscita ad averlo da un paesano che era fascista, il biglietto per entrare ed uscire dal comando. Mentre che mi stavo mettendo i calzoni da civile, ecco che il fascista che le aveva dato il biglietto ha fatto la spia e così invece di andarmene dal comando da uomo libero, sono finito per quattro giorni nella prigione dentro la caserma….
A noi, militari italiani fatti prigionieri, ci imbarcarono sulle tradotte militari e dopo tre giorni siamo arrivati a Pescantina vicino a Verona. Tre giorni senza bere; poi ci fecero scendere a quattro per volta per riempire le borracce…. Ripartiti da Pescantina, pigiati nei vagoni per carro bestiame, hanno chiuso le porte ed il convoglio si è di nuovo fermato solo dopo aver passato il Brennero. I tedeschi ci hanno permesso di scendere per farci bere di nuovo. Cinque giorni di viaggio da Pescantina sino ad Innsbruck. Durante questo viaggio la pipì si faceva fuori dal treno attraverso una feritoia, ma i bisogni corporali bisognava tenerseli dentro. Solo quando siamo arrivati a Buchenwald ci permisero di fare i nostri bisogni. Eravamo tutti con i sederoni scoperti in fila a liberarci finalmente di quanto trattenuto sino a quel momento! Al campo di Buchenwald c’era anche un forno crematorio ma noi non lo sapevamo. Eravamo in duemila e dormivamo sotto dei tendoni con la paglia per terra.
Lì siamo rimasti quattro giorni sino a quando arrivarono i compratori ovvero i capi delle fabbriche in cerca di prigionieri per utilizzarli come lavoratori. Allora ci divisero per gruppi: i fabbri da una parte, i sarti da un’altra, i falegnami da un'altra ancora. A me mi hanno messo tra i lavoratori comuni perché da civile, quando mi chiamarono per la guerra, non avevo ancora un lavoro vero e proprio, però aiutavo mia madre in casa e sapevo cucire e fare piccoli lavori di sartoria. Mio padre, invece, era il ciabattino del paese. Da ragazzo avevo avuto la TBC e per questo ero sempre stato tenuto molto a riguardo in famiglia. Mi assegnarono al campo di Spandau e nella prima settimana mi misero in una fabbrica a scaricare mattoni dalle 6 di mattina alle 6 del pomeriggio senza magnare niente. Poi si tornava al campo e facevo la fila per quattro patate, 80 grammi di pane e 25 grammi di margarina un giorno sì e uno no.
Per dormire si dormiva come si poteva, perché spesso suonavano gli allarmi ed allora si andava nel rifugio che altro non era che una lastra di cemento sotto la quale dovevamo ripararci. Nel rifugio si stava sino a mezzanotte- l’una ma all’alba dovevamo di nuovo alzarci per andare a lavorare. Per colazione ci davano una brodaglia, le docce non si facevano mai per il freddo che c’era e anche le docce erano solo fredde e, dopo sei mesi avevamo tutti le gambe gonfie e i pidocchi che ci tormentavano; erano grossi, ma così grossi come non li ho mai visti, e noi li toglievamo di dosso a manciate.
Il campo di prigionia dove stavo fu bombardato pesantemente. Allora ci trasferirono da un’altra parte sempre vicino Berlino. In fabbrica dove dovevi lavorare veloce e produrre tanto. Dovevo fare 2000 viti al giorno, altrimenti il capo fabbrica mi metteva nell’elenco di quelli che erano a scarso rendimento di lavoro e allora il lavoro che ti assegnavano come persona di scarso rendimento diventava durissimo: bisognava riempire una coperta di mattoni poi, trasportarli camminando sui gomiti e sulle ginocchia sino al punto di raccolta. Se anche lì non producevi abbastanza, lavorando anche la domenica, ti mandavano nei reparti di disciplina. Tutti quelli che sono finiti nel reparto disciplina non sono più tornati… Grazie a Dio io sono riuscito a non finirci. Bombardarono e distrussero la fabbrica dove lavoravo, con i tedeschi che tenevano chiuse le porte di uscita. I miei compagni erano terrorizzati e cercavano di proteggersi come si poteva ma ecco che una bomba colpisce le caldaie dell’acqua utilizzate per il lavoro in fabbrica. Fuoriuscì tutto il liquido bollente e duecento persone morirono. Pochi furono quelli che riuscirono a sopravvivere a quel bombardamento. Io mi salvai. Era l’estate del ’44. Segnavo tutti i bombardamenti e ne contai in un anno 380, alla media di 4 ore ognuno di seguito, senza contare gli allarmi, e venivano a ondate successive.
Gli alleati bombardavano a tappeto, lanciavano un razzo bianco e da dove il razzo cadeva cominciavano subito a cadere le bombe dalla formazione aerea che solcava il cielo sopra la nostra testa. Finita la prima parte del bombardamento, lanciavano un altro razzo bianco e, da dove era finito il bombardamento precedente, ne cominciava un altro. Ne ricordo uno del maggio del ’44 che durò dalla mattina alle 10 alle 3 dopo pranzo. Quel giorno era una bellissima giornata, ma quei bombardamenti hanno scurito il sole. È stata una cosa tremenda che mi ha lasciato dentro il terrore dei bombardamenti. Credo che quell’esperienza mi abbia sconquassato il cuore e questo sconquassamento me lo sono portato dietro per tutto il resto della mia vita.
Noi prigionieri continuavamo a lavorare in condizioni pessime. Si doveva fare un fosso anticarro intorno a Berlino e ci volevano 4 o 5 metri di profondità per fare questo fosso. Poi si riempiva di acqua, per cercare di fermare i carri armati russi. … si doveva partire per Kustrin a fare le palizzate in difesa contro l’Armata Rossa, ma io arrivato nella zona dello zoo di Berlino dovetti tornare in dietro perché stavo male. Mentre che cercavo di tornare al campo, ecco che arriva un altro bombardamento. Cercai di ripararmi sotto una pensilina per cercare di proteggermi, ma non ti dico i calcinacci che volavano in aria, dappertutto, anche addosso a me! Ero sconvolto da quest’altro bombardamento e poi stavo malissimo. Mi è andata bene perché quelli che sono andati a Kustrin dove stavo andando anche io prima del bombardamento, sono tutti morti... tutti morti sono! Io solo mi sono salvato.
Io sognavo spesso mia madre, l’ho sognata anche quando subii il bombardamento che ti ho raccontato. Una notte sognai che ero a Pergola e passavo vicino alla chiesa dove c’era la Madonna dell’Addolorata. Mamma mia era lì che pregava. Nel sogno mia madre mi disse “Aroldo vieni qui a pregare insieme a me che finisca presto questa guerra” ed io pregavo insieme a lei con tutta la fede che avevo nel cuore. Voglio dire che mamma mia era molto devota alla Madonna dell’Addolorata ed io credo di essere stato protetto dalle sue preghiere.
Parecchi particolari ora mi sfuggono della mia storia, però ricordo che poi arrivarono i russi e ci mandarono in un altro campo, nell’aprile del 1945. Era passato tutto l’inverno, sempre sotto i bombardamenti, ed arrivarono i russi mentre eravamo in un campo tra due fiumi. In quel periodo era una lotta continua tra russi e tedeschi e noi, certe volte eravamo sotto i russi e certe volte sotto i tedeschi. Passavamo tanto tempo nei rifugi. Poi è arrivato il momento che siamo passati definitivamente sotto i Russi. Noi davanti al primo rifugio avevamo messo un italiano che parlava il russo e che spiegava che eravamo italiani e così i russi ci fecero passare oltre la linea loro. Era notte, pioveva e vedevo una infinità di morti, tanti, tanti morti dappertutto! … E siamo andati avanti così per tre mesi. Poi i russi ci concentrarono nel grande campo che ti dicevo prima.
Nel grande campo, eravamo circa 5 milioni di prigionieri di diverse nazionalità, passava un altoparlante che diceva: tutti gli italiani si riuniscano a tal posto, tutti i francesi in tal altro etc etc. Così tutti noi italiani siamo stati riuniti e camminammo per sette giorni per raggiungere un campo nel territorio che prima della guerra era Polonia. Era aprile e c’erano, lungo il percorso, tanti morti e anche donne, morte dopo aver subito violenza. Nelle soste andavamo a cercare qualcosa da mangiare o da poter utilizzare ed io dicevo: “anche se troviamo un pezzo di stoffa soltanto, poi io qualcosa ci faccio” Cercando cercando, trovammo due corpi con il volto coperto da un pezzo di stoffa. Scostai il pezzo di stoffa e mi resi conto, con orrore, che i cadaveri erano quelli di due ragazze che erano state violentate.
In questo campo mi hanno assegnato al VI battaglione dove gli italiani arrivati prima di me avevano organizzato l’Azione Cattolica. Ci avevamo un frate francescano ed ho ancora i santini di Pasqua che quel frate mi diede… Io lavoravo da sarto poi c’erano quelli che andavano allo smantellamento delle fabbriche. Un giorno viene il capitano e dice a me: “tu che sei sarto insieme ad un altro militare italiano sarto anche lui che è di Cupramontana, dovete andare all’ospedale, perché i russi hanno bisogno di qualcuno che metta delle toppe alle lenzuola”. Io solo le toppe sapevo mettere, non ho mica ho fatto scuola di taglio, quindi andava bene.
Andiamo in quell’ospedale per fare il nostro lavoro di sarti. Ma anche l’altro italiano di Cupramontana non è che si intendesse molto di sartoria perché, anche se aveva il padre sarto, aveva lavorato in un osteria. All’ospedale ci riceve una soldatessa che ci dà da mangiare una zuppa con pesce e segale. Era buona davvero, da tanto non mangiavo pesce! Poi la soldatessa ci dice: “ora che avete mangiato si lavora”. Due soldati russi portano una macchina da cucire ed una stoffa. Ma non era stoffa per toppe, era una stoffa di seta con lo sfondo nero e tanti fiorellini color viola o forse turchesi. Forse dovranno fare qualche tenda, penso io. Invece la soldatessa voleva che le cucissi un vestito. Io le dico che in Italia i sarti lavorano per gli uomini e le sarte per le donne, ma lei risponde che gli italiani sono tutti scemi.
Comunque mi metto all’opera e penso: “vediamo un po’ cosa mi riesce di fare” anche perché questa donna aveva un petto molto sporgente ed io pensavo dove lo metto questo grande petto? Vediamo un po’, mi ripeto tra me e me. Allora cominciai a cucire una gonna come parte di sotto del vestito, una piega davanti ed una dietro, poi prendo le misure per il sopra e lo faccio molto arricciato così che ci entri tutto il grande petto della donna. Con le maniche però mi sbagliai perché le avevo fatte di un altro verso. Insomma un falegname quel vestito lo avrebbe fatto meglio! Poi sistemo nel verso giusto le maniche, faccio una seconda prova, poi una terza e, finalmente, il risultato era per me accettabile. Ma tu dovevi vedere la contentezza de sta’ russa! E avresti dovuto vedè come le stava bene quel vestito!
Intanto erano passati due anni da quando mi avevano preso i tedeschi ed era di nuovo il 5 ottobre quando è iniziato il mio viaggio di ritorno verso l’Italia. Oh il viaggio di ritorno! Stavamo su di un treno tutto addobbato di bandiere rosse e il capitano ci diceva: ”ragazzi, mi raccomando, esaltatevi insieme ai russi , almeno finché non abbiamo passato il confine” così ci diceva. E noi ci esaltavamo, perché il desiderio di tornare a casa era tanto! E poi siamo arrivati nella terra di nessuno dove c’erano russi e americani e dove la guerra aveva lasciato segni terribili. Berlino, per esempio, era tutta a terra, non c’era una casa in piedi e morti, tanti morti, tutti lasciati lì e coperti solo da un lenzuolo chilometri di morti. Ed io a Berlino ho visto Stalin arrivare trionfante. Stavo in mezzo alla folla insieme ai miei compagni del campo. Sì io ho visto Stalin arrivare al Reichstag, in una Berlino sconvolta dai bombardamenti ed ho visto e vissuto tutte le atrocità di questo ultimo scampolo di guerra a cominciare dalle distruzioni e dalla morte di tanti civili.
Poi, finalmente il ritorno a casa cominciò a diventare non più un sogno, ma una possibilità. A Dresda ci arrivammo di mattina, ma i russi si presero la locomotiva del treno che doveva portarci in Italia e abbiamo dovuto aspettare fino alla sera tardi ma poi, finalmente siamo ripartiti. Mi accomodai in un vagone, pensando di viaggiare tutta la notte. Un amico, pensa tu il destino, mi propose di cambiare vagone e di andare più avanti insieme a lui che stava nel primo vagone, ma a me gli altri del gruppo non mi piacevano e così restai dov’ero, al ventiduesimo vagone. Però guardando fuori dal finestrino mi accorsi che stavamo su un binario dove i treni non passavano mai, perché c’era l’erba alta sui binari. Non faccio in tempo a pensare questo che sento un gran botto e uno scossone e tutti gridavano di saltare giù dal treno e io mi lanciai e restai in bilico sulla scarpata, per fortuna non ruzzolai giù. Pensai che era saltata in aria la locomotiva del treno per un attentato fatto da quei tedeschi delle SS che ancora giravano per la città, perché avevo sentito anche delle schioppettate.
Invece era successo che il russo che stava di guardia sulla locomotiva, aveva sparato al macchinista tedesco che invece di prendere il binario giusto, stava facendo muovere il treno su di un binario morto dove alla fine c’era un burrone e la locomotiva ed i primi tre vagoni erano andati giù nel burrone facendo 10 morti e trenta feriti. L’amico che mi aveva detto di andare da lui nel primo vagone aveva la testa presa tra due vagoni, schiacciata, e io l’ho riconosciuto solo dai calzoni perché quei calzoni li avevo accomodati io. E ho portato la notizia a casa anche di questo morto, mentre io mi sono salvato ancora una volta! Così siamo passati sotto gli americani e poi abbiamo passato il confine francese e poi di nuovo verso il Brennero. Al Brennero abbiamo trovato ad accoglierci la “Pontificia Opera Assistenza” e dopo due anni ho mangiato una minestra con i fagioli, sai quelli bianchi con la buccia tenera, che neppure me la potevo sognare durante la prigionia e mi dettero pure un pezzo di provolone.
Arriviamo a Pescantina l’ultimo posto italiano dove ero stato prima di essere preso prigioniero dove c’era lo smistamento per distretti militari. Il mio distretto di Pisa non c’era più e così allora non mi resta che riprendere il viaggio per tornare a casa in treno. Appena passato Rimini, tra Rimini e Cattolica, il treno si ferma perché il ponte della ferrovia era crollato. Rimanemmo fermi e un mio amico ed un vicino di casa mia che facevano con me il viaggio di ritorno dicono: “cosa ne dite ragazzi di tornare a casa con un mezzo di fortuna?” Sì, sì, La mattina ci mettemmo sulla strada che porta a Fossombrone. Con dei passaggi di fortuna arrivammo lì ed io incontrai un amico con la bicicletta che mi disse: “vado a dare la notizia che state arrivando?”. Io gli risposi: “Sì, va dire che quelli che erano partiti per quella passeggiata stanno tornando!” Noi, invece, facemmo ancora un tratto di strada a piedi, poi io prendo una scorciatoia che ben conoscevo da quando ero ragazzo, e la faccio di corsa perché volevo andare a casa mia il più presto possibile. Poi ci ripensai ed andai prima da mia cognata, la fidanzata di mio fratello. Preferii che fosse mio fratello ad incontrarmi per primo per poi incontrare la mamma, perché l’emozione era troppo forte.
E lei venne, mia madre, avvisata da una cugina……….. (qui la voce di Aroldo si interrompe per la commozione per poi riprendere il racconto non più in registrazione, ma narrato a voce alla figlia ed al genero che l’hanno riportata come segue)… e non ti dico quanti abbracci e baci e l’emozione e le lacrime di gioia che sembrava non finissero più. Insieme a lei mi venne incontro anche un gatto. Era la Mimma, che non mi vedeva da anni e che, per la felicità di rivedermi, si rotolava per terra in mezzo alla strada... è questa è l’immagine che ho memorizzato della fine di quella brutta avventura che fu la guerra e l’immagine che ho davanti agli occhi quando penso al mio ritorno a casa. Dopo anni ed anni, questa immagine mi emoziona ancora tanto!».
Aroldo riprese possesso della sua vita da civile alla fine del 1945, incominciò a lavorare, si sposò ed ebbe dei figli, come fecero tanti altri italiani che ebbero la fortuna di poter ritornare a casa. Nel suo sguardo, nella sua memoria e nel suo cuore rimasero le immagini terribili di quando l’essere umano si fa belva verso altri esseri umani, e la pietà per i suoi compagni che non tornarono più.
Alberta: la guerra è contro i bambini (brano gentilmente concesso dal testo privato, scritto da Alberta Montanari Guglielmi, destinato ai propri nipoti.
«Sono nata nella primavera del 1938 e quando l’Italia entrò in guerra, vivevo a Roma con mia madre, mio padre e mio fratello più piccolo, Arrigo. Mio padre partì per l’Africa e mia madre, rimasta sola, portò me e mio fratello da suo padre, ad Ancona. Nella casa del nonno vivevano anche la sorella di mia madre Egle con i suoi bambini, Pietro e Isabella. Il marito di zia Egle era stato fatto prigioniero dagli inglesi in Egitto (allora possedimento inglese) dove lavorava come ingegnere portuale in un’impresa italiana.
Purtroppo Ancona fu tra le città più bombardate d’Italia. Per metterci al sicuro mamma e zia presero una casetta a Marzocca (frazione di Senigallia). Davanti a casa c’era una spiaggia di sassi con cui noi bambini facevamo le costruzioni perché in tempo di guerra non si trovavano giochi. Un pomeriggio inoltrato uscimmo da soli per andare a prendere dei ciottoli sulla spiaggia. Faceva freddo ma il tempo era bellissimo, il mare calmo e trasparente, il cielo azzurro azzurro. Era il tramonto e lontano sulla spiaggia vedevamo i pescatori che tiravano a terra le reti con i pesci. Stavamo scegliendo i sassi quando sentimmo il rumore di un aereo. Era piccolo e brillava e mentre si abbassava sentimmo una serie di spari secchi e ravvicinati e i sassi saltavano per aria tutt’intorno: dall’aereo stavano sparando proprio su di noi con la mitragliatrice.
Corremmo come disperati verso il mare tuffandoci sott’acqua. Trattenevo il fiato quanto più potevo perché avevo paura che se fossi uscita troppo presto mi avrebbero sparato ancora. A un certo punto non ce la feci più e tirai un po’ fuori la testa, solo gli occhi e il naso per respirare. Era il tramonto, in basso si vedeva una striscia rosa di cielo. E contro quel rosa si stagliavano le figurine blu dei pescatori che tiravano la rete. Vidi l’aereo abbassarsi verso di loro e quelle figurine cadere lentamente una a una. Poi l’aeroplanino si alzò verso il cielo, diventò un punto luminoso e scomparve. Tutto nel più assoluto silenzio perché avevo le orecchie dentro l’acqua. Urlai e la bocca mi si riempì di acqua gelata. Mi sembra ancora di sentire quel silenzio terribile e la sensazione di gelo nella gola. Dopo di allora non riuscii più a urlare di paura perché mi si ghiacciava la gola e la voce non usciva. Davanti a me uscì dall’acqua Isabella, ci guardammo e senza parlare tutte e due ci mettemmo in cerca di Arrigo. Funzionava così tra me e Isabella, ci capivamo con una sola occhiata e facevamo tutt’e due la stessa cosa.
Isabella si guardava intorno e lo chiamava a voce sempre più alta. A me si era bloccata la voce. Sapevo che avrei dovuto buttarmi sott’acqua per ritrovare Arrigo ma avevo paura di quella sensazione terribile di gelo e di silenzio che avevo provato prima. Dovevo ritrovarlo, toccava a me pensare ad Arrigo che era piccolo perché mamma doveva occuparsi anche di tutti gli altri. Mi sentivo così vigliacca e colpevole per non avere la forza di tuffarmi e mi misi a tastare il fondo del mare con le braccia, speravo di trovarlo e di riportarlo a galla, poi di colpo, come spinto da una molla, Arrigo saltò su dall’acqua, senza ansimare e senza l’aria spaventata. Lui era così, niente gli faceva paura. Aveva gli occhi spalancati e un’espressione buffa mezza arrabbiata e mezza sbalordita come a dire "ma che diavolo è successo?".
Mi si allargò il cuore mi venne quasi da ridere, ritrovai la voce e anche le orecchie tornarono a funzionare. Solo allora sentii mamma e zia Egle che correvano verso di noi chiamandoci tante e tante volte a voce sempre più alta. Dietro di loro veniva anche Elide. Ci presero e ci abbracciarono stretti, poi mamma vide quelle figurine azzurre dei pescatori buttate come stracci sulla spiaggia. Affidò me e Arrigo a zia Egle che ci consolava sempre e si mise a correre verso di loro. Poi non si parlò più di quello che era successo ma io continuavo a chiedermi perché quel piccolo aereo era sceso apposta per mitragliare noi bambini. Era chiaro che voleva colpirci, le pallottole della mitragliatrice avevano fatto schizzare in frammenti i sassi intorno ai nostri piedi e si erano fermate solo quando ci eravamo buttati sott’acqua.
In quel periodo i tedeschi davano la caccia agli ebrei e li deportavano nei campi di sterminio. Deportavano anche chi li aiutava e li nascondeva. Mamma e zia Egle erano amiche, dai tempi della scuola, di una famiglia ebrea, gli Ascoli, che avevano una villa a Montemarciano e cercavano qualcuno che nascondesse dei loro parenti: una giovane madre Ester e il suo bambino Davide. Così mamma propose un patto agli Ascoli. Lei avrebbe fatto finta di prendere in affitto la loro villa di Montemarciano che risultava disabitata, e avrebbe tenuto con sé nascosti Ester e Davide. Così andammo nella grande villa degli Ascoli.
Una mattina, ci eravamo appena svegliati quando mamma arrivò di corsa e ci portò in camera sua. Era la camera con il letto matrimoniale dove dormiva con zia Egle; c’era un tavolino con lo specchio, i rossetti e le ciprie. Mamma cominciò a spazzolarsi e truccarsi e intanto parlava con la sua voce bassa e determinata. Ci spiegò che stavano arrivando i tedeschi e che se sentivano il nome di Sara o di Davide diventavano pazzi e li portavano via in Germania. Noi dallo spavento ci infilammo sotto il letto e io chiesi "Ma i nostri nomi vanno bene?". “Certo” rispose mamma “se sentono i nostri nomi stanno tranquilli”. Ma se diventavano pazzi solo a sentire un nome, come facevamo a fidarci? Intanto mamma finito di truccarsi, si infilò un vestito elegante e si mise le perle. Da sotto si sentì il rumore del portone che veniva spalancato e delle voci che parlavano in tedesco.
Mamma si alzò e si avviò verso la scala che portava a pianterreno, noi a gattoni la seguimmo e ci sdraiammo sul ballatoio, guardando attraverso la ringhiera. Mamma scese lentamente con la schiena dritta e a testa alta. In basso alcuni soldati tedeschi si erano fermati e la guardavano. Mamma si fermò a metà della scala e con la sua voce calma e decisa disse: “Sono la moglie di un ufficiale italiano che è in guerra per la sua patria come lo siete voi e per questo vi chiedo di trattare me e i miei figli con rispetto comportandovi come soldati che hanno il senso dell’onore. Così come vorreste che si comportassero i russi se riuscissero ad arrivare in Germania”.
Ci fu silenzio. Il tedesco piccolo con gli occhiali si strinse nelle braccia e chinò la testa. Poi disse in italiano “Sarete trattati con rispetto. Vi lasceremo le camere e la cucina e occuperemo solo il pianterreno”. Iniziò a dare ordini e i soldati portarono molti sacchi di sabbia per sbarrare la scala. Mamma ringraziò e tornò in camera e noi dietro di lei. Il giorno dopo Sara e Davide non erano più alle case coloniche. Quel giorno continuavo a chiedermi: se questi tedeschi diventano pazzi per nomi così comuni come Davide e Sara cosa possono fare quando sentono i nomi della nostra famiglia Socrate, Spartaco, Zaira? E il mio nome che anche gli abitanti delle case coloniche non sopportano? Allora decisi che non avrei mai detto il mio nome. Ma c’era un soldato tedesco tanto gentile che mi fece vedere le fotografie dei suoi bambini e mi disse di chiamarsi Albert, allora gli confidai di chiamarmi Alberta e lui si mise a ridere. Mi prendeva in braccio, mi metteva in alto sui sacchi di sabbia e poi diceva “Eine, swein, stukas!”. Io mi buttavo con le braccia aperte, lui mi prendeva al volo e mi faceva girare come fossi stata un aereo.
Quando giocavamo in giardino e c’erano anche mamma e zia Egle, il comandante tedesco, quello con gli occhiali che si chiamava Rudolf e parlava italiano perché aveva studiato arte a Firenze, veniva a sedersi e parlava con noi bambini. Mamma e zia Egle, infatti, non volevano dare confidenza ai militari. Rudolf ci diceva, in modo che mamma e zia Egle sentissero, che lui veniva da una famiglia di soldati e che combatteva solo contro altri soldati non contro donne e bambini. Adesso capisco che intendeva rassicurarle sulla sorte di Ester e Davide e sulla nostra. Ma allora io lo prendevo alla lettera, lui non combatteva contro i bambini ma sapeva che gli altri lo facevano, così capii perché l’aereo ci aveva mitragliato e perché lanciavano sempre bombe dove stavamo. La guerra era contro i bambini.
Quando lo dissi a mamma lei si preoccupò. Pensava che per una bambina era terribile pensare che eserciti in armi si muovessero contro di lei e, naturalmente, mi diceva che non era vero. E io ribattevo: “Ah sì? Ci tolgono i papà, ci bombardano, ci mitragliano, vogliono portare un bambino in Germania solo perché si chiama Davide e la guerra non è contro i bambini? La guerra è contro i bambini”.Ora so che la guerra non era contro i bambini però i bambini sono sempre le prime vittime di una guerra. So anche che Rudolf da soldato con il senso dell’onore, salvò la vita a tutti noi, anche se avremmo dovuto considerarlo un nemico».
Cesare – Via Alessandria 65 – Roma
Testimonianza raccolta a Roma nel Quartiere Salario nell’ambito del progetto territoriale Archivio di Voci di Quartiere curato dall’Associazione di Volontariato RaccontarsiRaccontando che, oltre a raccogliere testimonianze e narrazioni, organizza passeggiate sociali per adulti e scolaresche “Tra storia ed archeologia industriale” partendo dalla Breccia di Porta Pia, passando per gli edifici della ex fabbrica della Birra Peroni per finire all’altezza di dove si trovava fabbrica di biscotti Gentilini. In queste passeggiate vengono coinvolti, in prima persona gli anziani del Quartiere che scendono in strada dalle loro abitazioni lungo Via Alessandria per raccontare dal vivo come si è modificato il Quartiere nel corso degli anni. Cesare era una persona che non mancava mai di partecipare queste passeggiate con i suoi racconti forbiti, ironici e coinvolgenti.
«Durante il periodo della guerra, abitavo a Corso Trieste, all’angolo con Via Corsica e giravo con i pattini per le strade del quartiere, pur sapendo che se mi incontravano i vigili urbani, mi avrebbero sequestrato i pattini. Mi ricordo molto bene del bombardamento di San Lorenzo, anche se ero solo una ragazzino. Ho un ricordo legato ad un odore terribile che aleggiava nell’aria di quel torrido Agosto quando, per diversi giorni i volontari, con un fazzoletto legato su naso e bocca, scavavano tra le macerie per recuperare i cadaveri. Faceva caldo ed i corpi delle persone uccise dal bombardamento, erano ormai in decomposizione a causa del caldo e rendevano l’aria irrespirabile impregnata di un forte odore di morte. Quell’odore mi restò nelle narici per giorni e giorni e non l’ho più dimenticato.
Ricordo anche che trovai nel cortile del palazzo dove abitavo, quattro spezzoni di bombe, perché una bomba era caduta a via Pola, vicinissima a casa mia. Un’altra bomba era caduta a Via Messina, vicinissima al negozio di mio padre. Quest’ultima aveva sfondato un palazzo, senza esplodere. Queste bombe, tutte sganciate sopra San Lorenzo, mi fecero comprendere quanto i civili inermi potessero pagare il prezzo della guerra. La scuola che frequentavo, era chiusa e quindi stavo a casa. Ricordo pure che, una mattina girando per il quartiere, vidi in alto nel cielo sopra il parco Nemorense, aerei militari che cercavano di colpirsi a vicenda. Avevo paura di quel duello aereo e sapevo che qualcuno di quegli aerei impegnati nel combattimento sarebbe potuto cadere, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quella scena. Della guerra ricordo tanta paura… e tanta fame. C’era un fornaio vicino a dove abitavo che esponeva roba da mangiare da far venire l’acquolina in bocca. Io guardavo la vetrina insieme a mia sorella che era più grande di me e piuttosto cicciottella. Ma non osavo chiedere mai cibo. Lei no, lei chiedeva e qualche volta rimediava pure qualcosa.
Quando arrivavano gli aerei da bombardamento, scappavamo nel ricovero antiaereo sotto il palazzo dei gerarchi fascisti a Piazza Trento. Sotto quel palazzo c’era un rifugio che passava oltre Corso Trieste, tutto scavato sottoterra. Se invece i bombardieri arrivavano mentre stavamo a negozio, ci rifugiavamo nelle cantine di Via Alessandria 63, molto più vicine al negozio di papà. Nel parco Nemorense c’era un campo militare di tedeschi, un loro comando e, dopo la liberazione di Roma, nello stesso posto, c’era un comando militare di Americani. La guerra era fatta così! Un altro comando tedesco era all’interno del Liceo Giulio Cesare e, dopo la caduta di Mussolini vi si era insediato un commando di soldati italiani sbandati. Una mattina vidi il “Giulio Cesare” circondato da camionette e da soldati con i fucili puntati. Fecero uscire tutti quei militari sbandati, li fecero salire sulle camionette e li portarono tutti in un campo di concentramento.
Quando arrivarono gli americani, per noi ragazzini fu tutta una festa. Ci arrampicavamo sui loro blindati e li accoglievamo con gridi di gioia perché loro ci gettavano, a piene mani, delle strane caramelle colorate con il buco, che noi non avevamo mai visto. Noi ragazzini capimmo che qualcosa era cambiato e che la vita poteva ricominciare, da queste caramelle con il buco e dall’aria gioiosa che si sentiva intorno; c’era voglia di ricominciare a costruire una vita normale».
Enrico: scoprire un talento per scacciare la tristezza
Anche la testimonianza di Enrico Galluzzi fa parte dell’Archivio Voci di Quartiere, una raccolta di registrazioni orali e narrazioni scritte conservate in parte presso la sede dell’Associazione di Volontariato RaccontarsiRaccontando in Via Alessandria 63 00198 Roma ed in parte presso la biblioteca dell’Associazione Onlus Come un Albero, sempre su Via Alessandria, punto di ritrovo e salotto del Quartiere.
«Durante la guerra abitavo con mamma in Via Alessandria 174 e la sera, dopo cena, mamma prendeva le poche lettere che giungevano da mio padre, prigioniero in Sicilia, e le leggeva ad alta voce per dimenticare che su quel tavolo dove ora mangiavamo in due prima della guerra eravamo in tre. Io ricordo molto bene la mancanza di cibo, la paura dei bombardamenti e sapevo benissimo che mio padre prigioniero in Sicilia e come, né io né la mamma sapevamo se e quando sarebbe tornato a casa. Così passavamo le nostre malinconiche serate con lei che leggeva e rileggeva le lettere di papà ad alta voce ed io che disegnavo uomini in divisa diventando sempre più bravo nel disegno. È così che ho scoperto il mio talento per le immagini e la pittura, su quel tavolo di cucina e forse proprio per questa scoperta precoce ho poi lavorato come incisore alla Zecca dello Stato. Ricordo e molto bene, anche le corse verso il ricovero antiaereo dove scappavamo al suono della sirena di allarme antiaereo. Si trovava all’angolo di Viale Regina Margherita con Via Nomentana. E ricordo pure le bombe che colpirono Piazza Galeno e Via Messina dove crollò un intero palazzo. Quando bombardarono San Lorenzo, io che ero un ragazzino curioso, andai a vedere quello che era successo dirigendomi verso lo scalo ferroviario. In Via dei Reti le rotaie del tram erano tutte arricciate, una polvere bianca ed appiccicosa copriva tutto ed impediva di vedere con chiarezza, la gente del quartiere piangeva e si sentavano le grida di tante persone. Vidi anche che accatastavano i morti addosso ai muri del Verano. Quelle scene non le ho più dimenticate.
Forse sarà stato perché la sera continuavo a disegnare uomini in divisa, ma avevo una specie di attrazione quando vedevo un militare e non mi domandavo neppure di che nazione fosse. Una volta incontrai un militare tedesco in divisa a Piazza Regina Margherita mentre andavo a prendere il pane da Germana un negozio che affacciava su quella piazza. Io lo guardavo, lui mi guardava. Poi mi prese in braccio coprendomi il viso e la testa di baci. Io ero un po’ sorpreso e titubante, ma capii che come lui mi poteva ricordare mio padre partito con una divisa addosso, io potessi ricordargli un suo figliolo, perché il suo modo di stringermi a sé non era malintenzionato, ma commovente ed affettuoso. Sempre la mia attrazione per le divise rischiò di mettermi in un guaio serio. Un giorno vidi lungo via Alessandria un uomo in divisa che camminava con un cane al guinzaglio seguito da un camion a passo d’uomo e con delle persone sopra. Curioso mi misi a camminare di fianco al camion che, ma io non lo sapevo, stava facendo razzia di ebrei. Infatti vidi un uomo che, cercando di non essere notato, si infilava in un negozio cercando di infilarsi un grembiule per coprire gli abiti civili. Fu notato dai tedeschi e caricato sul camion. Poi, ad un certo punto, presero anche me e mi gettarono dentro il camion.
Solo allora realizzai il pericolo che stavo correndo e cominciai a gridare con tutta la voce che avevo in gola. Per mia fortuna e forse vedendo che ero solo un bambino curioso, mi agguantarono velocemente perché con le mie grida potevo allertare le persone che volevano catturare, così dal camion mi rigettarono sulla strada. Per fortuna quella volta mi andò bene. Ma l’attrazione per gli uomini in divisa rimase. Così quando arrivarono gli americani, feci amicizia con un certo Fred, un ragazzo statunitense di circa 24- 25 anni che era accampato con il suo battaglione a Piazza di Siena dentro Villa Borghese. Fred (il suo nome mi ricordava papà mio che si chiama Alfredo) veniva la mattina a cercarmi, mi caricava sulla jeep ed insieme giravamo tutta la citta. Poi un giorno, incontrammo la Police che ordinò a Fred di farmi scendere immediatamente, perché non poteva far salire civili su di un mezzo militare. Io ero sempre in giro nel Quartiere dove abitavo ed ecco che un giorno tornando verso casa, vedo da lontano lungo via Alessandria una figura in divisa che camminava verso casa nostra… lo guardai con il cuore in tumulto… erano passati anni da quando lo avevo visto l’ultima volta ma qualcosa mi diceva che era una figura familiare… ( Enrico si interrompe per la commozione). Era mio padre.. gli corsi incontro e capii che la guerra finalmente era davvero finita».
Il processo di recupero post traumatico
Un modello convincente per descrivere il processo di recupero e crescita post-traumatica è quello messo a punto negli anni ’90 dai ricercatori Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, psicologi dell'Università del North Carolina. Secondo tale modello, le persone sviluppano naturalmente e si affidano ad una serie di credenze e supposizioni che si sono formate sul mondo. Per far sì che dopo il trauma ci sia una crescita, l’evento traumatico deve necessariamente sfidare tali convinzioni. Secondo Tedeschi e Calhoun il modo in cui il trauma distrugge la nostra visione del mondo, le nostre opinioni e la nostra identità, equivale ad un terremoto, le fondamenta dei nostri pensieri e delle nostre convinzioni vanno in mille pezzi a causa della forza dell’impatto traumatico subito. Siamo scossi, quasi letteralmente, dalla nostra percezione ordinaria delle cose e ci tocca ricostruire noi stessi e il nostro mondo. Più vacilliamo, più lasciamo andare le nostre precedenti identità e convinzioni e più sarà possibile un nostro cambiamento in positivo.
«Un evento psicologicamente sismico può far vacillare, minare o ridurre in macerie molte delle strutture schematiche che hanno guidato la nostra comprensione delle cose, le nostre decisioni e il senso che diamo al mondo», scrivono. Quindi, e per concludere, la ricostruzione fisica di una città che avviene dopo un terremoto può essere paragonata all’elaborazione cognitiva ed alla riorganizzazione che un soggetto vive subito dopo un trauma.
Una volta che le strutture di base dell’io siano state sconvolte, si creerebbero le condizioni per essere pronti ad individuare nuove, forse più produttive, opportunità. Soprattutto se riusciamo a trovare, nell’ambiente che ci circonda e nelle persone che ci sono accanto, compresa la nostra comunità di appartenenza.
Il processo di ricostruzione dovrebbe, poi, funzionare in questo modo: dopo un evento traumatico, i soggetti elaborano l’accaduto intensamente, pensano continuamente a quello che è successo e generalmente hanno reazioni emotive molto forti. È importante notare che la tristezza, il dolore, la rabbia, l’ansia sono reazioni molto comuni al trauma e la crescita si presenta insieme a tali emozioni contrastanti, non al loro posto. Il processo di crescita può essere considerato come un modo per adattarsi a circostanze particolarmente avverse e per comprendere sia il trauma che i suoi effetti psicologicamente negativi (Unraveling the Mysteries of the Creative Mind - 2016).
La ricostruzione della propria identità, quindi, può essere un procedimento incredibilmente impegnativo. Il lavoro di crescita richiede un distacco, un allontanamento dagli obiettivi più radicati, dalla propria identità, dalle proprie supposizioni mentre si costruiscono nuovi obiettivi, nuovi schemi e significati. Può essere un percorso arduo, atroce ed estenuante. Ma può aprire la porta ad una nuova vita. Una persona sopravvissuta ad un trauma o ad una serie di traumi, inizia a riconoscere i propri progressi e rivede la propria definizione di sé per adattarsi alla forza e alla saggezza che ha scoperto di possedere. È una persona che può ricostruire se stessa in un modo più autentico, più fedele al suo io profondo e al suo percorso di vita unico perché, paura, traumi, sfiducia, disperazione non possono bloccare la nostra strada. Sono la strada.
Bibliografia
Autori Vari dell’ Ass.ne di Volontariato RaccontarsiRaccontando, luglio 2014, Noi Bambini al Tempo della Guerra, Youcanprint – Self Publishing, Tricase (LE).
Autori Vari, Gennaio 2012, Elena, una vita tra due guerre, Self Publishing Associazione di Volontariato RaccontarsiRaccontando, Roma.
Autori Vari, Dicembre 2011, 26 finestre su Via Alessandria, Self PublishingAssociazione di Volontariato RaccontarsiRaccontando, Roma.
Carandini Albertini Elena, febbraio1989, Passata è la Stagione (diari 1944 – 1947) Passigli Editore, Collana il Tempo e le Cose, Roma.
De Angelis Armanda e AnnaMaria Calore, 2010, Amanda racconta Armanda, Self Publishing, Roma.
Joost- Gaugier Christiane , settembre 2008 , Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, Edizioni Arkeios, Collana: La via dei simboli, Roma.
Maslow Abraham - 1971, Verso una psicologia dell'essere, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma.
Montanari Guglielmi Alberta, 2013, Cari nipoti vi scrivo, Self Publishing, Roma.
Scott Barry Kaufman and Carolyn Gregoire, 27 Decembre 2016, Unraveling the Mysteries of the Creative Mind, mp3 cd – Audiobook, USA.
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