Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
Cecilia Edelstein (a cura di)
M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017
UN MOVIMENTO UMANISTICO EMERGENTE:
IL COORDINAMENTO ITALIANO DEI PROFESSIONISTI DELLA RELAZIONE DI AIUTO (CIPRA)
Cecilia Edelstein
cecilia@shinui.it
Presidente CIPRA – Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione d’Aiuto (www.cipraweb.it), fondatrice e presidente Shinui – Centro di Consulenza sulla Relazione (www.shinui.it), è psicologa, counselor, mediatrice familiare, social worker e family therapist. Si è formata in Israele e Italia; specializzata in vari orientamenti sistemici con i pionieri della terapia della famiglia (in ordine cronologico: Fish, Minuchin, Boscolo e Cecchin), ha sviluppato un modello teorico e metodologico chiamato “Sistemico Pluralista”, che include diversi approcci sistemici.
La congiunzione degli opposti 3 / dettaglio 3 - Nicoletta Freti |
Il metacontesto
Con la Legge 180 del 1978, oppure più comunemente conosciuta come “Legge Basaglia” in onore allo psichiatra identificato come il promotore della riforma psichiatrica in Italia, si chiudono i manicomi e inizia la politica di un servizio psichiatrico territoriale e di carattere sociale. L’Italia è stata la prima nazione al mondo, e fino ad oggi anche l’unica, ad abolire gli ospedali psichiatrici, traducendo in azione le idee di un movimento che oltrepassava i nostri confini: il cosiddetto “Movimento Antipsichiatrico”. La legge che chiuse i manicomi ha avuto un forte impatto nel nostro Paese e il movimento antipsichiatrico, nel periodo postcoloniale e postmoderno, ha interessato diversi studiosi anche fuori dai confini italiani; per gli esponenti di questo movimento, l’istituzionalizzazione, necessaria alla sopravvivenza del sistema sociale, agisce forme di violenza su persone vulnerabili. Le istituzioni manicomiali alimentano un sistema per assoggettare i corpi, per manipolare le molteplicità umane e le loro forze, riducendole alla volontà del potere costituito (Foucault, 1993). Per Basaglia, i manicomi non sono fatti per curare i malati, ma per tenerli sotto controllo dentro un sistema di potere (Basaglia e Basaglia Ongaro, 1976). Le idee del movimento antipsichiatrico non iniziano con lo psichiatra italiano: già nel 1959, Laing vedeva la malattia mentale come sintomo di una patologia sociale, compreso il contesto familiare, individuando società e famiglia come possibili fonti di soffocamento e alienamento che portano alla sofferenza psichica, sotto forma di malattia mentale, e Szasz, nel 1961 invitava a restituire ai malati psichiatrici la libertà di decidere da chi e come farsi curare, non sottoponendoli a provvedimenti arbitrariamente restrittivi. Tuttavia, la legge viene promulgata solo in Italia ed entra in vigore.
Com’era da aspettarsi, il processo di smaltimento delle istituzioni manicomiali fu lento, tra gli altri fattori, per via delle evidenti difficoltà a svuotare gli ospedali e a collocare i pazienti (o gli ospiti) in strutture e sistemi di cura idonei; con ritmi diversi fra le regioni, ma anche fra ospedali pubblici e privati, nel 1994 si giunge finalmente al completamento dell’eliminazione dei residui manicomiali. Con l’apertura dei centri di salute mentale territoriali, ci si sposta dalla cura coatta alla prevenzione, dall’internamento alla riabilitazione, dalla malattia mentale ai bisogni del portatore di un disagio psichico.
Durante gli anni Ottanta lievita il consenso sul fatto che i “malati mentali” non siano un pericolo da cui proteggere i “sani” tramite segregazione, ma sono persone fra persone, che bisogna saper ascoltare e a cui bisogna saper parlare; cresce la consapevolezza sul fatto che l’ambiente sociale abbia un’influenza basilare sulla salute mentale dei suoi membri e che l’intera società debba contribuire a integrare le persone e i sistemi in difficoltà (Basaglia, 1984).
Una decina di anni dopo che la Legge Basaglia fu promulgata, perciò ancora durante il processo di smaltimento e chiusura degli ospedali psichiatrici, dopo un lungo percorso iniziato nel 1973, un’altra legge, la 56 del 1989, cosiddetta “Legge Ossicini”, regolamenta la professione dello psicologo, attraverso l’Ordine e secondo il sistema autorizzatorio (pur mantenendo inizialmente, come opina Barracco in questo volume, ampi margini di permeabilità con il sistema accreditatorio). Per anni e anni, gli psicologi, anche se operativi, non venivano riconosciuti ed erano esposti a denunce e attacchi di ogni genere per abuso della professione, soprattutto da parte dei medici (Borsci, 2005).
Questa legge però va oltre: detta le norme per l’esercizio della psicoterapia. Mentre nessuno sembra più mettere in questione la necessità dell’ordinamento giuridico della professione dello psicologo, molte sono le polemiche e i conflitti in merito al regolamento della psicoterapia, fino ai giorni d’oggi: chi ha il diritto di esercitarla? Quali criteri di riconoscimento per chi dichiara di svolgere già la professione? Quale genere di istituzione può o deve formare questi professionisti? (ibidem). Molte sono ancora le domande, non per ultima quella che mette in dubbio se gli psicoterapeuti debbano essere inseriti nello stesso Albo oppure rimanere professionisti autonomi. Negli anni, sembrerebbe inoltre che emerga sempre più forte l’interrogativo – da me condiviso – su come mai soltanto psicologi e medici possano diventare psicoterapeuti. Per mancanza di spazio, il dibattito non verrà sviluppato in questa sede, ma è interessante far notare che, originariamente, il Ministero vigilante era quello della Giustizia, anche se alcuni segmenti della professione si configuravano come sanitari. Solo in seguito la governance degli psicologi irrigidì progressivamente la professione, portandola nell’area sanitaria e medicale (per una maggior comprensione dello sviluppo della legge in questo senso, si veda il contributo di Anna Barracco nella sezione storico giuridica di questo volume).
Con queste due leggi si apre in Italia una nuova era che, se da una parte desanitarizza e deinstituzionalizza la cura del disagio psichico, dall’altra fa nascere la professione dello psicologo sempre più in ambito sanitario e non in quello sociale, dove i servizi di salute mentale dovrebbero svilupparsi. Questa scelta, nemmeno più apparentemente contraddittoria, viene giudicata da diversi colleghi come il “peccato originale”; peccato che, per gli psicologi, sta arrivando al culmine con il Ddl “Lorenzin”, che sicuramente diventerà legge a giorni.
L’enfasi sulla tutela della salute mentale territoriale e sull’assistenza umanizzata, l’ampia rete dei servizi diversificati di carattere preventivo, assistenziale, riabilitativo e di cura, diramati nell’intero territorio nazionale, fomenta la crescita esponenziale di diverse professioni della relazione di aiuto che si sommano allo psichiatra, allo psicologo, all’assistente sociale o all’infermiere, senza però creare ponti fra i settori sanitario, socio-assistenziale ed educativo. Questa spaccatura la vediamo, ad esempio, con la laurea in Scienze dell’Educazione che si sdoppia: gli educatori professionali, che lavorano nel mondo sanitario, appartengono a tale sistema sin dagli studi universitari, a differenza dei loro colleghi che, se formati per lavorare in ambito educativo, s’inseriranno o in strutture prettamente educative, oppure in quelle legate al sociale. Così, emblematicamente, l’educatore professionale si divide in due, e settore sanitario e ambito socio-assistenziale-educativo diventano sempre più lontani anziché uniti.
Inoltre, la cura umana di cui tanto si è parlato tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, il coinvolgimento della società civile e del territorio, il sostegno alla famiglia, la prevenzione e la riabilitazione vengono apparentemente tutte inglobate nel sistema sanitario, dove ancora, paradossalmente, le categorie diagnostiche continuano a moltiplicarsi, lasciando sempre più un vuoto nell’ambito sociale; un vuoto che deve riempirsi o quanto meno sente di dover dare una risposta alla sanitarizzazione della cura, un vuoto che viene colmato creando una certa dicotomia tra sanitario e sociale e privato-sociale: da una parte si parla di depatologizzazione, di posizione “etica”, di rispetto della persona, di recupero di soggettività nella relazione terapeutica; da un’altra molti reparti psichiatrici – gli SPDC – continuano a tenere persone legate al letto, le procedure diagnostiche, anche presso i servizi di salute mentale, si basano spesso su sistemi discutibili come il DSM, la somministrazione di psicofarmaci un rituale dovuto e il tutto diventa una macchina economica conveniente non solo alle case farmaceutiche, ma anche al settore privato.
Le dicotomie sono dannose, diceva Bateson (1984), creano dualità, tolgono la visione d’insieme, incentivano paragoni dove compare il meglio e anche il peggio. Questa distanza, cresciuta fra due settori in stretta connessione fra loro, per non dire inscindibili, ha bisogno di ravvicinamento, di conoscenza e riconoscimento reciproco per non perdere di vista “la struttura che connette” e per considerare il metacontesto: si tratta di una connessione di III ordine che, per conoscerla, bisogna avere informazioni appartenenti a categorie logiche differenti (ibidem).
Le professioni “affini”: una cultura differente
L’enfasi sui processi di cura territoriale e nel sociale aprono lo spazio alla cultura del benessere e della prevenzione, che in Italia per molti versi mancava; nascono professioni già esistenti nei paesi anglosassoni, come professioni “affini” alla psicologia.
A inizio anni Novanta s’introducono, in particolare, la Mediazione familiare e il Counseling, ma non mancano, solo per elencarne alcuni, gli arteterapeuti, i danzaterapeuti, i coach, i naturopati, gli shiatzuka e con loro tutti gli operatori delle discipline bio-naturali, ecc. Insorgono anche gli psicoanalisti che non hanno aderito alla psicoterapia poiché ritengono di appartenere a una professione specifica (processo questo ben delineato nell’articolo di Ciofi nell’attuale volume).
È l’inizio inarrestabile di una crescita imponente di professioni che rimangono, per anni, in uno stato di non regolamentazione. Pur non regolamentate, queste professioni incidono sulla cultura della richiesta di aiuto, sempre meno percepita come legata a situazioni psicopatologiche e sempre più connotata con la necessità o il privilegio di poter raggiungere un maggior benessere esistenziale nei passaggi evolutivi, in situazioni conflittuali, nei processi decisionali, nell’orientamento professionale, in situazioni lavorative. Si tratta di percorsi di aiuto indirizzati a persone che hanno le risorse per affrontare le situazioni di difficoltà, persone che fanno una richiesta consapevole, desiderose di raggiungere il cambiamento ambìto o sognato, in tempi anche brevi, persone che vengono chiamate “clienti” e non più “pazienti” (da client e non customer, distinzione che in italiano non esiste, mentre in inglese solo i secondi sono legati al consumo materiale).
La crisi economica che sta attraversando da un decennio il nostro Paese e l’Europa intera, di certo condiziona, un po’ come ha inciso la crisi del ’29 negli Stati Uniti, creando sempre una maggior richiesta di aiuto più snella ed efficace.
La cultura dell’aiuto è quindi cambiata negli ultimi vent’anni in Italia: rivolgersi a un professionista rappresenta sempre meno una vergogna, desiderare stare meglio è legittimo. Anzi, decade il mito per cui, nel chiedere aiuto di tipo psico-relazionale, la persona debba forzatamente essere in uno stato di particolare sofferenza, debolezza, disagio o disturbo psichico o infermità. Le persone possono intraprendere un qualsiasi percorso di aiuto fondamentalmente per migliorare la qualità della vita e, addirittura, senza percepire alcun malessere esistenziale.
Il puzzle ovvero la formazione accreditatoria
Nell’ambito della formazione, il panorama dei percorsi professionalizzanti sono spesso a mo’ di puzzle (si tratta della modalità accreditatoria di cui parla in questo volume Barracco): per esempio, gli avvocati che concepiscono il proprio lavoro come agenti di cooperazione e costruttori di ponti nei contenziosi, si avvicinano alla mediazione familiare, desiderosi di esaminare percorsi di altro tipo, con obiettivi diversi dalla mera difesa del cliente, che senza questa aggiunta crea un attacco nei confronti della controparte, soprattutto quando si tratta di diritto di famiglia, rischiando di esasperare i conflitti. Oppure, dopo uno studio universitario nel campo delle scienze umane o sociali, che non offre una professione specifica (come la laurea in Scienze della Comunicazione, oppure quella in Scienze della Formazione, etc.), il giovane laureato può desiderare di lavorare nel campo della relazione d’aiuto e aderire a un corso professionalizzante; anche professionisti come gli educatori professionali, laureati in Scienze dell’Educazione, si rivolgono a corsi che offrono una professione, come quelli di counseling, aggiungendo, così, al loro bagaglio un tassello in più, qualitativo, che spesso fa la differenza.
Altri professionisti già affermati possono desiderare di svolgere una formazione per acquistare competenze di counseling: gli infermieri avvertono il bisogno di procurarsi abilità di counseling per migliorare la qualità della loro prestazione in ambito comunicativo. Alcuni medici sentono altrettanto la necessità di arricchirsi di strumenti che agevolino la dimensione relazionale e non solo quella tecnica.
In ambito educativo gli insegnanti, in un’istituzione sempre più “industrializzata”, si formano al counseling talvolta per sopravvivere alle pressioni dell’intero sistema scolastico e gli assistenti sociali scoprono di poter gestire meglio la “relazione di controllo”, se alla dimensione socio assistenziale si aggiunge quella delle competenze relazionali.
Così, se da una parte cresce il livello di formazione degli operatori della relazione di aiuto con sempre più persone che hanno un bagaglio multiprofessionale, usufruendo di un sistema accreditatorio arricchente, dall’altra sembrerebbe che predomina, fra le professioni affini, la domanda di counseling; di conseguenza, proliferano le scuole di counseling (alcune triennali, altre biennali, altri corsi ancora brevissimi) e la richiesta di supporto e sostegno psicologico “snello” e depatologizzante, da parte del cittadino, si diffonde sempre di più, senza una legge che ordini o normi la professione e nemmeno i criteri di accesso alle scuole: anche i non laureati sono ammessi a queste scuole. Questa non regolamentazione è probabilmente un altro “peccato originale” che ha incentivato un conflitto soprattutto fra gli psicologi o psicoterapeuti e i counselor.
Nel 2013, anche per una forte pressione agita per anni dall’Unione Europea sull’Italia, arriva una Legge che introduce il regime associazionista professionale, aggiungendolo a quello corporativo ordinistico già esistente. Si tratta della Legge 4/2013 di cui in questo volume scrive Barracco, una legge che qualcuno pensava potesse introdursi per sostituire il regime ordinistico, di origine fascista. L’Italia sembra lontana da cancellare il regime tradizionale, ma la legge del 2013 ha creato non poche perturbazioni:
- La società diventa più sensibile e cosciente del carattere peculiare con cui in Italia le professioni vengono regolamentate o riconosciute.
- Gli Ordini introducono novità di qualità come per esempio la richiesta di una formazione continua, aspetto ancora tutto in divenire (per esempio, per gli psicologi e psicoterapeuti, la richiesta obbligatoria di formazione continua sembra sussista per ora soltanto per gli operatori del settore pubblico, e quindi sanitario, non ancora invece per quelli del privato o del privato sociale).
- Con questa legge il professionista passa da una logica di controllo a una di responsabilità.
- La legge supporta il libero regime della formazione per cui un professionista può continuare a costruire la complessità dell’identità professionale come in un puzzle e in maniera creativa.
Compiti principali delle associazioni professionali di categoria, che funzionano come organi democratici, tutelare i consumatori e garantire la trasparenza del mercato dei servizi professionali; è attraverso questi organi che i professionisti che appartengono alle professioni “non regolamentate” ricevono gli attestati di qualifica, che tuttavia non rappresentano un requisito per l’esercizio della professione. Inoltre, lungo un processo che attraversa tavoli istituzionali, le professioni possono essere riconosciute da un ministero. Impresa non facile.
Con grande sforzo e lavoro meticoloso, le principali tre associazioni di categoria professionale dei mediatori familiari si uniscono e, nel 2017, riescono a definire la professione, senza intenzione di entrare a far parte del settore sanitario, tranquillizzando così l’istituzione: la mediazione familiare si definisce in un ambito circoscritto di aiuto alle coppie in fase di separazione o divorzio per il raggiungimento di un accordo soddisfacente a entrambi le parti e a favore degli eventuali figli (Mazzei, 2002). L’A.I.M.S. – Associazione Italiana Mediatori Sistemici, fondata dal 1995, ad oggi la prima associazione per estensione territoriale e per numero di soci e centri di formazione, definisce la Mediazione Familiare come “un percorso di aiuto nei casi di cessazione di un rapporto di coppia, a qualsiasi titolo costituito, o di conflitti parentali, che implichino aspetti emotivo-relazionali, volontario, sollecitato dalle parti, finalizzato alla riorganizzazione delle relazioni familiari e in particolare al raggiungimento di accordi concreti e duraturi concernenti l’affidamento e l’educazione dei minori, gli aspetti economici e patrimoniali, e tutto quanto previsto dalla normativa vigente in tema di separazione e divorzio”. Anche i coach riescono a ottenere questo riconoscimento. La ICF (International Coach Federation) definisce il coaching come «una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale».
Non tutte le professioni della relazione d’aiuto riescono a raggiungere questo livello di consenso (e, tra di loro, la più importante sembrerebbe quella del counselor) né tutte le professioni non regolamentate hanno un’associazione di categoria che le rappresenti (per esempio i pedagogisti sono tuttora senza tale organo rappresentante).
Il fenomeno “Counseling” e gli psicologi
Malgrado la professione nasca negli Stati Uniti negli anni Trenta del secolo scorso e si diffonda negli anni Cinquanta in Gran Bretagna, malgrado le numerose definizioni nel mondo anglosassone e la letteratura professionale esistente, per molti professionisti (e non solo cittadini) cosa significhi il counseling sembrerebbe che sia e rimanga un enigma nel nostro Paese.
Se la parola counseling, in ambito professionale, dovrebbe avere un unico significato, diverso da quello letterale, la letteratura professionale ne riporta invece numerose e diversissime definizioni, per cui riportarne una sola, univoca e soddisfacente per tutti risulta per ora impossibile.
In un suo libro, Di Fabio (2005) espone in ordine cronologico ben trenta definizioni differenti su cosa significhi counseling. Inizia con May e Rogers e chiude con le ultime formulate in Italia; svolge un’analisi accurata paragonando termini e obiettivi e arriva alla conclusione che si può trovare qualche punto in comune fra le diverse accezioni:
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l’enfasi sul comportamento sano delle persone e sulla loro capacità di adattarsi attraverso il ricorso e la mobilitazione delle proprie risorse;
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una particolare attenzione alla prevenzione;
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la valorizzazione del concetto di salute sia in relazione alle fasi evolutive di transizione, sia alla costruzione dell’adattamento delle persone alle varie circostanze di vita.
Anche Fulcheri (2005) riprende una serie di definizioni e ne individua i punti in comune:
- l’attenzione è posta sulla relazione e sull’interazione fra i soggetti in causa;
- nella maggior parte dei casi si tratta di un individuo che chiede aiuto a partire da un bisogno e di un’altra persone che, in qualità di esperto, fornisce strumenti di risposta al medesimo;
- viene descritta una specifica professione che si serve di particolari competenze basate sulla comunicazione e sulla compartecipazione emotiva;
- generalmente si tratta di un intervento non direttivo e viene posta l’enfasi sul fatto che il cliente debba trovare le proprie risorse per far fronte a situazione di disagio.
Nel 2007, analizzando le definizioni proposte nella letteratura professionale, individuavo alcune zone d’ombra e, soprattutto, appuravo che «la maggior parte delle definizioni si riferisce in particolare al contesto clinico e non è facile capire la distinzione fra psicoterapia e counseling. Una definizione sensibile a questo aspetto potrebbe dissipare malintesi e, nel contempo, l’estensione ad altri ambiti valorizzerebbe la professione» (Edelstein, 2007, pag. 19). Aggiungevo che «la relazione fra counselor e cliente viene rappresentata quasi sempre da una sola persona per ciascuna delle parti» (ibidem) e suggerivo di porre l’attenzione anche e soprattutto a gruppi, organizzazioni e comunità per uscire più facilmente dai confini clinici ed esplorare altri ambiti come quello sociale, ponendo enfasi sulla collaborazione e la capacità di lavorare in équipe interdisciplinare.
Quattro anni dopo, AssoCounseling, l’associazione di categoria a cui appartengo, approvava la seguente definizione, dopo un lungo lavoro della Commissione Scientifica: «Il counseling professionale è un'attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. È un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il counseling può essere erogato in vari ambiti, quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale» (Definizione dell'attività di counseling approvata dall'Assemblea dei soci in data 2 aprile 2011).
Uno dei problemi è che le numerose associazioni di categoria che esistono oggi non concordano fra di loro e ognuna sembra avere idee un po’ diverse, che oscillano tra un’attività più o meno vicina a quella dello psicologo italiano e quella specifica del counseling. Inoltre, sembrerebbe che il nodo principale che individuavo dieci anni fa, quello della difficile distinzione fra psicoterapia e counseling, non sia stato sciolto. Probabilmente diventa necessario:
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Vedere il counseling come un’attività professionale che interviene con persone che hanno le risorse per affrontare e superare le situazioni che stanno vivendo (accompagnamento di figli di genitori anziani, per esempio).
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Proporre il counseling in situazioni evolutive, nei passaggi di transizione del ciclo di vita, come attività tesa a migliorare la qualità della vita (gruppo di neogenitori).
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Svolgere percorsi limitati nel tempo, con domande circoscritte (per esempio, accompagnamento ai genitori in patologia neonatale).
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Occuparsi di tematiche specifiche, come quella delle badanti, offrendo un percorso di gruppo per vivere meglio la situazione di solitudine, di lavoro pesante, di lontananza dalla propria famiglia e di mancanza di spazi propri.
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Riconoscere la professione e creare una normativa con percorsi di formazione triennali, di almeno 700 ore e con accesso sia a professionisti che desiderino perfezionarsi, sia a laureati nelle Scienze Umane e Sociali (compreso gli psicologi) perché possano svolgere al meglio il loro lavoro.
D’altro canto, gli psicologi iscritti dall’Albo, dopo la laurea e l’esame di Stato che offre loro l’abilitazione, sono considerati professionisti, ma sentono comunque il bisogno di una formazione specifica che li supporti nel processo del divenire esperti nella relazione di aiuto e che consenta loro di lavorare, non meno, per esempio, degli educatori professionali. Molti si formano, dopo un quinquennio, nelle scuole quadriennali private di specializzazione in psicoterapia, scuole riconosciute dal MIUR, altri fanno Master universitari costosissimi. Pochi accedono ai corsi di mediazione familiare o alle scuole di counseling, tuttavia molto adatte a loro.
L’ulteriore elemento che non aiuta la situazione sempre più tesa soprattutto fra psicologi e counselor è la promozione del counseling proprio da parte degli psicologi: di fatto, la maggior parte dei professionisti, che si occupano della formazione al counseling, sono psicologi o psicoterapeuti che non si ritrovano nella stretta costellazione sanitaria, che desiderano ampliare il proprio operato nel sociale, nell’ambito educativo o nel mondo aziendale. La formazione al counseling viene offerta perlopiù nell’ambito privato e questi psicologi vengono accusati non di rado di operare per una mera questione di convenienza economica.
A complicare le cose si aggiunge l’articolo 1 della professione di psicologo che, di fatto, comprende tutto: non solo ricerca, diagnosi e cura, ma anche prevenzione, attività di abilitazione e riabilitazione, addirittura sostegno a persone, gruppi, organismi sociali e comunità, oltre alla didattica in tali ambiti; il nuovo articolo 21 del codice deontologico, che vieta agli psicologi l’insegnamento di materie psicologiche a non psicologi, sembra che, oltre a togliere la libertà d’insegnamento, confonda la professione di psicologo con la Psicologia, disciplina trasversale nelle professioni della relazione d’aiuto e nelle Scienze Umane.
Mentre proliferano anche le Università in Psicologia, arrivando l’Italia, in poco tempo, a essere il Paese europeo col maggior numero di psicologi (ulteriore fenomeno assai peculiare, se non un “terzo peccato”), la società continua ad avanzare sempre più una richiesta di aiuto che assomiglia a quella del counseling, della mediazione o del coaching. Questi professionisti, dimostrandosi vicini alle problematiche e al linguaggio dei clienti, appaiono sempre più credibili, ma ovviamente minacciosi nei confronti di un esercito di giovani psicologi che si trova senza lavoro, senza strumenti e molto spesso a ricoprire il ruolo degli educatori professionali. A loro volta, gli educatori professionali iniziano a mandare segni di sofferenza poiché si sentono prevaricati.
Il problema delle sovrapposizioni non si porrebbe se sussistesse la logica per cui “in quanti più siamo più lavoro c’è”, ma una parte della categoria degli psicologi diventa quasi nemica di un’altra, in quanto ritiene che tali attività siano un’esclusiva loro (per una più ampia panoramica storica e analisi dello sviluppo della professione di psicologo e delle professioni affini, si consiglia di leggere i contributi della prima parte dell’attuale volume, di Ciofi e di Barracco).
Mentre manca ancora la conoscenza da parte della società civile sul come muoversi in un così articolato panorama, per via di un conflitto a volte acceso fra gli psicologi e i counselor (anche se non solo con i counselor), sentendo i primi, nei confronti dei secondi, che, di fatto, abusano della loro professione dopo brevi percorsi formativi, l’informazione che emerge spesso è confusiva se non fuorviante e non facilita lo sviluppo armonico e coordinato della cultura del benessere.
La cultura del benessere
Le risorse di una società pluralista in materia di relazione d’aiuto sono numerose. Come in tutte le situazioni, nulla è nero o bianco; la complessità insegna che tutte le situazioni hanno vantaggi e svantaggi al contempo. È possibile attuare un’azione di sensibilizzazione evidenziando le risorse di un fenomeno che, inizialmente, ha creato disagio. L’analisi di queste risorse ci consentirà di individuare le criticità su cui agire e cambiare.
È mia convinzione che, in un Paese dove le professioni della relazione d’aiuto proliferano, si avviano processi auspicabili:
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Cresce il livello di benessere delle persone e delle comunità.
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Più l’offerta è variegata, più si moltiplica la domanda, creando lavoro.
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La cultura della relazione d’aiuto evolve trasformando i pregiudizi. Da un pensiero diffuso, in cui alla base regge un pregiudizio infondato per il quale chi si rivolge a un professionista della relazione d’aiuto sia “malato”, si passa a una cultura dove la persona sana può arricchirsi dallo scambio e dall’incontro con un professionista: processi decisionali, orientamento, superamento di crisi di transizioni, difficoltà relazionali, o semplicemente aumento della qualità della vita sono solo alcuni esempi.
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La richiesta di aiuto agisce in modo preventivo.
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Le situazioni di disagio psichico conclamato ricevono più ascolto e più facilmente vengono indirizzati ai professionisti esperti in materia, vale a dire a psicologi, psicoterapeuti e psichiatri.
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Il cittadino può, autonomamente, fare delle scelte consapevoli.
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Si creano delle reti professionali. Il lavoro interdisciplinare che, a semplice vista appare più dispendioso, riduce tempi e costi.
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Ci si arricchisce reciprocamente fra professionisti arrivando ad avere uno sguardo e orizzonti più ampi, con più respiro.
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Una competizione sana e leale incentiva la creatività.
In questi anni ho osservato come i counselor – e non solo loro – hanno contribuito all’idea che non bisogna soffrire di un profondo disagio psichico per ricorrere a un aiuto professionale. In una società dove ci si rivolge prima del disagio conclamato, funziona la prevenzione e la qualità della vita aumenta. In una società dove entra la parola, la narrazione delle piccole e grandi difficoltà e non si nascondono più le sofferenze, il malessere e i disagi, vissuti invece come parte integrante della vita, le relazioni diventano più armoniose anche fra sconosciuti. Tutto ciò fa parte dell’educazione alla pace e della cultura del benessere.
La nascita del CIPRA
Convinti che in questo panorama ci voglia un coordinamento nazionale che raggruppi tutte le professioni della relazione d’aiuto per agevolare i processi di definizione di attività e competenze, per incentivare incontri e dialoghi, per chiarire e conoscere, per costruire reti, per arricchirsi a vicenda, per tracciare confini e progettare collaborazioni, per evolvere affianco alle inarrestabili trasformazioni in ambito professionale, sociale e legislativo, per tornare a parlare di ciò che accomuna i sistemi umani quando si tratta di benessere socio-psicofisico, per costruire ponti fra settori legati alla salute mentale, per riappropriarci dell’eredità del movimento antipsichiatrico con le sue dovute evoluzioni, per dare forza a un nuovo movimento umanistico, un gruppo multiprofessionale, impegnato in vari modi nella politica professionale, giunge nel 2013 alla fondazione del CIPRA – Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione d’Aiuto.
Pur essendo un’associazione, il CIPRA parte sin dalla nascita come un movimento; un movimento di persone che sognano di cambiare la panoramica delle professioni della relazione d’aiuto in Italia, in un’Italia che fa nascere queste professioni con grossi errori di fondo.
Si tratta di persone che da sempre sono impegnate nella lotta per costruire uno scenario politico professionale democratico, pluralista e cosmopolita. Alcuni colleghi, succubi di un regime esclusivo che espelle “i diversi”, lottano per una maggior giustizia, per un’apertura e per la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione, dove si possa uscire da una prospettiva normativa in cui regge un modello unico ideale, in cui tutto ciò che si discosta diventa deficitario, deviante o patologico ed entrare in una prospettiva pluralista, quindi abbandonare la cultura della devianza ed entrare nella cultura delle differenze (Fruggeri, 2001); questi professionisti si impegnano per trasformare il carattere “etnocentrico” della relazione d’aiuto in uno di tipo “cosmopolita”, per usare i termini utilizzati da Barnett Pearce (1993) e cioè inclusivi e non esclusivi. La comunicazione cosmopolita richiede due competenze di fondo: un’ampia autonomia personale rispetto ai riferimenti di gruppo e la capacità di rispettare le proprie e altrui risorse, in un processo di continuo scambio. La comunicazione etnocentrica, invece, propone l’antica distinzione tra nativi e non nativi, creando un “Noi” e un “Loro” e la percezione di un rischio nel parlare con “Loro”, apparentemente privi di risorse.
Il CIPRA vorrebbe poter sciogliere in maniera non violenta i conflitti attuali fra professionisti della relazione d’aiuto, promuovendo incontri e conversazioni, creando un linguaggio in comune e valorizzando le differenze, mediando fra le parti. Il CIPRA mira a sostenere un dialogo tra le professioni d’aiuto, offrendo uno spazio di confronto costruttivo e di scambio a livello etico, epistemologico e giuridico; vorrebbe inoltre costruire ponti tra il settore sanitario, quello sociale, quello educativo e quello assistenziale.
Detto così, sembrerebbe che il CIPRA sia un movimento politico professionale tout court. Invece, non esiste un impegno politico professionale senza cultura. Anzi, il CIPRA vuole essere, in primo luogo, un contenitore culturale che promuova una cultura differente nell’universo delle professioni della relazione d’aiuto, profondamente connessa alle scienze umane e sociali, senza per questo denigrare o escludere le scienze naturali, anche loro necessarie e non meno interessate alla persona. Il CIPRA intende promuovere la ricerca qualitativa e rafforzare l’aspetto scientifico delle scienze umane, dove il “prendersi cura” o la care prevalgano rispetto alla “cura” nel settore sanitario e dove la cura, nel settore sanitario, abbia sembianze umane e sia contaminata dal prendersi cura.
Dalla multidisciplinarietà all’interdisciplinarità e le reti professionali
Welfare e salute non possono che configurarsi come un’operazione collettiva. Nella complessa panoramica delle molteplici professioni nell’ambito della relazione d’aiuto dobbiamo soffermarci a pensare cosa implichi collaborare, dialogare e lavorare in rete. Nella realtà odierna (e più nel pubblico che nel privato, malgrado sarebbe basilare mantenere anche nel secondo settore questa attenzione), le équipe di lavoro sono multidisciplinari, ma difficilmente si opera in maniera coordinata e si crea la dimensione interdisciplinare.
Mentre nella prospettiva multidisciplinare si attinge a una visione quantitativa senza che gli intrecci e la sintesi producano qualcos’altro e i problemi vanno risolti attraverso l’ausilio di informazioni relative a più discipline che, di fatto, non conseguono un effettivo profitto (De Blasi, 1997), in quella interdisciplinare, di tipo qualitativo, attraverso interazioni e reciprocità di scambi, la collaborazione fra discipline diverse o fra settori eterogenei di una stessa scienza determinano mutui arricchimenti (Piaget, Bruner et al., 1982). Questo mutuo arricchimento culturale è l’elemento fondante che distingue la prospettiva interdisciplinare da una multidisciplinare. I gruppi interdisciplinari costruiscono idee, si confrontano su questioni etiche. La pratica analizzata e il nuovo linguaggio in comune giungono alla creazione di un sapere che può e deve essere trasmesso. I modelli medico, psicologico, socio-assistenziale ed educativo attingono a cornici epistemologiche diverse, ma a livello trasversale possono condividere una cultura della relazione d’aiuto dove la differenziazione non crei uno scarto di paradigma, ma consenta di ampliare i discorsi attraverso l’individuazione di queste singole cornici epistemologiche e delle prassi operative. È questa differenziazione che, attraverso un coordinamento, può sconfinare frontiere e interscambiare azioni operative, laddove necessario (Edelstein, 2010).
Alcuni corsi professionalizzanti e di perfezionamento, come quello di mediazione familiare o di counseling, possono essere aperti a professionisti diversi, che operano anche in ambiti diversi. L’eterogeneità professionale del gruppo, in una formazione con un unico orientamento, diventa una buona base per poter usufruire di un’équipe interdisciplinare, per saper lavorare in rete. E ancora, per citare un esempio, una specializzazione in counseling, mediazione e terapie interculturali, consente ai partecipanti di apprendere un approccio in comune e di confrontarsi sulle differenze degli interventi con la popolazione migrante.
Un’équipe interdisciplinare funziona quando diventa una rete. Il concetto di rete sociale (social network) presuppone la riscoperta delle capacità autoprotettive del corpo sociale e delle risorse sul territorio. Le sue caratteristiche informali sono essenziali (Maguire, 1987). Un’équipe interdisciplinare che lavora con le persone in una relazione d’aiuto dove vanno coinvolte emozioni e questioni etiche esistenziali, non può ridursi a un mero interscambio su basi cognitive, conoscitive, scientifiche ed epistemologiche. Alcuni aspetti personali e informali, come l’attenzione alla qualità delle relazioni all’interno dell’équipe, la struttura non gerarchica (con ruoli ben definiti) e le risorse informali del territorio sono basilari (Edelstein, 2010).
Infine, co-progettazione, passaggio d’informazioni e processi decisionali condivisi vanno intrecciati con l’ascolto diretto dei clienti che vanno coinvolti nelle riunioni che li riguardano (ibidem) partendo dalla premessa che ogni persona, quindi ogni cliente, paziente o utente è l’esperto di se stesso (Anderson e Goolishian, 1992). Quindi i nostri clienti fanno parte delle équipe interdisciplinare.
Tracciare un common ground o individuare le specificità?
Nel 2013, quando il CIPRA è stato fondato da una quindicina di professionisti della relazione d’aiuto, tra le tante cose, discutevamo se partire dalla specificità delle professioni, per offrire maggior chiarezza, oppure se tracciare inizialmente un terreno comune dove poter spaziare, muoverci, conoscerci, discutere su questioni etiche e incontrarci. Già allora avevamo degli scambi per iscritto, essendo sparsi per l’Italia.
Riporto qui due scritti, uno di Marina Foramitti (attuale membro del direttivo e autrice di un articolo nella sezione “Testimonianze”) a favore della definizione dei confini, l’altro, in risposta, scritto da me (attuale presidente), avvallando l’ipotesi del tracciato di un terreno comune. Questi brevi brani risalgono al febbraio del 2014, quando entrambe eravamo consigliere.
Definire una professione: vincolo o risorsa? – 1
«Dovendo inaugurare un contradditorio, inizierò coscientemente con una provocazione: il vincolo è una risorsa. Nelle prossime righe proverò ad articolare la provocazione.
Il vincolo è un legame (accezione positiva), ma in meccanica definisce qualsiasi limitazione alla libertà di movimento di un corpo. Alla mia mente si affaccia subito un'immagine speculata: la costrizione di una corda attorno al torace e la consolazione di un abbraccio contenitivo.
In modo nient'affatto originale, mi focalizzo per prima cosa sull'aspetto sgradevole. Emerge a catena il concetto di limite, neppure tanto occultato nel significato di definire, ossia determinare fissando i limiti. Limes, confine, assonante con limen, ovverosia soglia, elemento spaziale e figurato che rimanda a un passaggio. Il passaggio più angusto e spaventoso noto all'uomo è la morte, un cambiamento ignoto, ma che dai viventi è percepito come assenza, vuoto, decomposizione di ciò che è amato, incomunicabilità.
Eppure, questo passaggio ineluttabile, generatore di impotenza e angoscia, è un passaggio che dona senso a tutta l'esistenza.
I limiti generano frustrazione del desiderio, ma senza questa frustrazione, che sottolinea la mancanza, forse il desiderio non avrebbe vita.
Seguendo i miei pensieri, mi ritrovo con un aspetto, prima qualificato come sgradevole, che diviene connotabile come necessario, quindi positivo. Contestualizzare un conflitto mi aiuta a svelarne l'aspetto apparente e le componenti proiettive, distinguibili perché connotate innanzitutto dalla atemporalità.
E a proposito di tempo: in tutta la questione dell'identità professionale ritrovo una staticità che porta menzogna. L'identità, infatti, non è un concetto assoluto, cristallizzato dal diritto, ma qualcosa che residua da processi continui di identificazione. Nei processi di identificazione si concretizza il riconoscimento di un'alterità, di un'estraneità, di un doppio, di un sosia che vanno a frammentare e ricostruire l'Io, e questo processo non è certo escluso dal campo dell'identità professionale (ho letto, a questo proposito, un bellissimo articolo di Giancarlo Ricci, che voglio ringraziare). Con queste premesse, sostengo che il vincolo di una definizione della professione che ciascuno di noi ama e pratica non è altro che il riconoscimento dell'essere professionisti radicati in una realtà sociale, da cui nasce la domanda di competenza professionale a cui vogliamo rispondere. Riconoscere che dal nostro processo di identificazione professionale residua un'identità professionale definibile non equivale, a mio parere, a rendere questa identità professionale immutabile, codificata nei secoli. Permette piuttosto il confronto con altre identità professionali, lo sviluppo di tavoli di riflessione attorno alla necessità di focalizzare la nostra mission, ossia “a quale domanda dell'utenza, e come, rispondiamo?”. E se, mentre si condividono i linguaggi, le esperienze formative, le impostazioni relazionali con l'utente, dovessero emergere aree di sovrapposizione reali, non dettate dalla logica corporativistica difensiva oggi imperante ed esclusiva, allora se ne potrà parlare come di un possibile problema per la suddivisione di segmenti di mercato, e a quel punto saremo pronti per affrontare un altro tavolo, quello della concertazione e del confronto con le istituzioni, forti di una definizione che, per dirla con la linguistica, consiste nell'individuare e formulare in modo comprensibile e per lo più seguendo determinati schemi il significato, o i significati, di un vocabolo (o di una locuzione), cioè il suo nucleo semantico e tutte le sue possibili espansioni, specificandone insieme la funzione e l’uso nei diversi contesti.
Sperando vivamente di avervi punzecchiato, irritato e mosso in qualche modo, aspetto valanghe di critiche...
Affettuosamente,
Marina»
Definire le professioni: vincolo o risorsa? – 2
«Cara Marina, mi hai infatti punzecchiata e colgo l'occasione per esporre la mia posizione, che è quella di occuparci, per prima, della creazione di un mondo comune alle professioni della relazione di aiuto e, soltanto in un secondo momento oppure, di conseguenza, affrontare l'aspetto della valorizzazione delle differenze.
Parli di limiti (limen, ovvero soglia), di confini (cum-finem ovvero fine, termine): iniziare a definire le professioni pensando alla loro fine e circoscrivendo dove terminano, rischia di essere un'operazione esiliante (si dice “mandare a confine”, vero?).
Il concetto di confine richiama inoltre le frontiere. In un convegno all'Università di Tel Aviv sul conflitto Israelo-Palestinese, sentii dire Tobie Nathan, esponente dell'etnopsichiatria, che le frontiere sono cicatrici: sono state tracciate con il sangue e, quando vengono toccate, la ferita si riapre. Questa metafora, così forte e così attuale, si può traslare all'universo delle professioni della relazione d'aiuto in un periodo in cui le collaborazioni e i dialoghi diventano così faticosi da chiamare in causa concetti legati all'invadenza e “all'occupazione". Viviamo in Italia, in una realtà in cui, finché non si costruisca un linguaggio in comune, non potremo sederci attorno a un tavolo per individuare confini. Anzi, scelgo l’immagine dell’individuazione di nastri colorati, più che di confini, che caratterizzano e appartengono a una o più professioni, creando talvolta intrecci e consentendo al vento di spostarli o spazzarli via.
Nella comunicazione interculturale in generale e, nello specifico, mettendo insieme faticosamente i miei pezzi identitari e le mie appartenenze, ho imparato che "essere tutta d'un pezzo" non sia né possibile, né rappresenti una risorsa. Siamo, di fatto, tutti costituiti da una pluralità di sé, che, a seconda del contesto, si configurano in maniera diversa. Pensare ad un unico Sé come nucleo identitario impoverisce le persone e i sistemi umani, irrigidendoli e impedendo loro di affrontare la complessità intrinseca nella vita. Un'altra quindi motivazione per non partire con la pretesa di definire ogni professione nella relazione d’aiuto come un corpo forte, tutto d'un pezzo, che rischia di posizionarsi come un compartimento stagno rispetto agli altri.
Calandoci nel concreto, proponevi nella Commissione Culturale di fare quest’operazione di definizione delle professioni rispondendo a quattro domande specifiche, due delle quali (se non tutte e quattro) non rispondono, a mio avviso, alle differenze fra le professioni, bensì all'approccio di riferimento e all'orientamento culturale: 1) A quale domanda d’aiuto rispondi? 2) Quale risposta dai? 3) Con quali strumenti offri la tua risposta? 4) Come li hai acquisiti?
Non credo sia un caso che nella fase di formulazione di domande che tracciano confini e differenze ci siamo impantanati. Qualsiasi sistemico, che sia psicoterapeuta, counselor o mediatore familiare, risponderà alla terza domanda allo stesso modo. Il mio invito, perciò, è quello di iniziare a tracciare delle caratteristiche o degli obiettivi comuni al mondo della Relazione d’Aiuto per consentire la fondazione di terreni comuni, la nascita di un linguaggio condiviso e la possibilità di operare all'interno di vere équipe interdisciplinari, attorno a una cornice umana o umanistica, quella democratica, quella che non utilizza in modo improprio il potere dettato dal ruolo, quella che considera il cliente/ paziente/ utente una persona esperta di se stessa, in posizione paritaria, e noi, professionisti, esperti dei processi comunicativi, dell’ascolto, del benessere e delle relazioni umane, alla loro “altezza”.
Mentre queste caratteristiche o obiettivi si basano sulla co-costruzione di idee e sul confronto di questioni etiche, dove la pratica analizzata e il nuovo linguaggio in comune giungono alla creazione di un sapere che può e deve essere trasmesso, nelle équipe multidisciplinari i problemi vengono risolti attraverso l’ausilio di informazioni relative a più discipline che, di fatto, non conseguono un effettivo profitto. Sto lavorando molto con reti di professionisti ed è proprio la definizione del terreno in comune quella faticosa e non tanto l’individuazione delle caratteristiche di ogni professione che, per forza, emergerà all'interno di questo processo di creazione di un “Nuovo condiviso” non predefinito ma da co-costruire, calato nel contesto italiano.
Cécile
13 febbraio 2014»
E così, iniziando con questo dibattito, siamo giunti nel 2017, tre anni dopo, alla conclusione che non sia possibile definire se dobbiamo prima tracciare un terreno comune oppure definire le specificità, ma che siano due azioni che devono coincidere e rimanere connesse, così come cultura e politica professionale camminano insieme.
Cosa ci accomuna?
Durante l’estate del 2017, in uno scambio all’interno di una mailing list legato al tema della relazione di aiuto, con un gruppo di professionisti associati al CIPRA siamo arrivati a degli accordi che abbiamo sintetizzato in questo modo:
Common ground – Appartenenza a un movimento umanistico:
Vivere nel mondo del welfare, incentivare il benessere personale e di comunità.
Competenze trasversali:
Sapere, sapere di non sapere, saper fare, sapere essere, saper divenire...
Sapere – formazione, conoscenza (medica, psicologica, sociologica, pedagogica, antropologica, filosofica, etc.) Mappe cognitive, formazione teorica.
Sapere di non sapere – capacità di mettere da parte le proprie conoscenze, i propri pregiudizi, capacità di ascolto profondo dell’altro, riconoscere che il paziente, cliente, utente, la persona con cui lavoriamo è “l’esperta di sé stessa” (Anderson e Goolishian, 1998).
Saper fare – applicazione delle mappe al territorio, metodologia, formazione pratica. Saper dialogare, saper tacere.
Saper cogliere le possibilità di crescita e cambiamento / saper riconoscere i segni di una crescita arenata oppure saper riconoscere anche come la crescita si è arenata.
Saper cogliere incondizionatamente, identificare quando ciò non può avvenire, facendo un invio, saper stare in équipe multidisciplinare e co-costruire un’équipe interdisciplinare.
Saper essere – consapevolezza, compassione / empatia, responsabilità (Osservazione pura, Sensazione pura, Azione pura).
Capacità di ascolto di se stessi e dei propri pregiudizi, sospensione di giudizio. Riconoscimento dei propri limiti.
Sapere divenire – capacità di sostenere il cambiamento e le perturbazioni, nostre e dei nostri pazienti / clienti / utenti senza perdere il contatto col punto di riferimento interno nostro né quello con le persone con cui stiamo lavorando.
Stare con rispetto, attenzione e interesse sincero nelle mappe e nei territori dell'altro (il cliente), sospendere temporaneamente il nostro sapere e modificarlo apprendendo dall'esperienza della relazione e dell'altro...
Essendo una sintesi, può sembrare semplicistico o superficiale ma, nel CIPRA, arrivare a questa sintesi, è stato per noi significativo e consideriamo queste azioni, tese a costruire un terreno comune, un’arte.
A mio avviso, ciò che accomuna questo gruppo di professionisti è il desiderio di entrare in processi di scambi dialogici sostenendo processi di riconoscimento e mutuo arricchimento fra professionisti, sciogliendo conflitti e uscendo dalle dicotomie, creando connessioni. È questa una base umanistica della relazione d’aiuto. Umanistica non in quanto legata in modo specifico all’umanesimo rogersiano, o alla “terza via”, ma intesa come umana e, in quanto tale, vicina alla persona, attraverso la parola, l’ascolto e lo scambio paritario nei processi dialogici. Se questo non avverrà fra colleghi, difficilmente può avvenire con i clienti o i pazienti.
Crediamo che, se questi obiettivi venissero raggiunti, si aprirebbe lo spazio per la definizione di specificità in un contesto plurale e non più duale, dicotomico o addirittura monolitico.
Cosa distingue le professioni?
A seguire un elenco che funge come punto di partenza di un lavoro ancora da sviluppare, che potrebbe arricchire l’intero mondo della relazione d’aiuto. In questo volume, peraltro, Zerbetto affronta e approfondisce la tematica.
Differenziazione
Verso noi stessi:
- Cultura della formazione, creando nessi ma distinguendo.
- Conoscere il territorio e gli ambiti di operatività dei vari professionisti.
- Riconoscere la formazione e le competenze dell’altro.
- Riconoscere le frontiere, consapevolezza dei limiti.
- Saper lavorare in rete, stare dentro le équipe multidisciplinari, riconoscere la ricchezza delle équipe interdisciplinari riuscendo a stare nel processo (ascolto, intreccio, far emergere qualcosa di nuovo e tramandabile).
Verso gli altri:
- Diffondere una cultura della differenza, della ricchezza nella pluralità di offerta, agevolare processi consapevoli di scelta personale rispetto al tipo di percorso desiderato, rinforzare la libertà di scelta dei cittadini.
Verso noi stessi e verso la cittadinanza:
- Orientare, proporre, suggerire, facilitare, motivare, dialogare, inviare.
Le attività del CIPRA
Questa sintesi richiede delle azioni coerenti.
1) Dimensione scientifica e dimensione umanistica
I professionisti della relazione di aiuto, alle prese con un saper fare e un saper essere e divenire, faticano a tramandare un sapere. Ancor più ardua è l’impresa di intrecciare i tre livelli di sapere e documentarli; immensa l’opera di diffusione e condivisione, obiettivo principale dell’editoria professionale.
D’altro canto, le scienze umane hanno da sempre combattuto per dare rilievo a una conoscenza e alla ricerca qualitativa, che non appare sufficientemente “scientifica”, malgrado il suo spessore. E, tuttavia, in Italia sopravvivono e addirittura nascono non poche riviste scientifiche di grande spessore in ambito umanistico.
Il CIPRA, che ha come obiettivo principale quello di costruire un movimento umanistico attorno all’universo della relazione di aiuto, promuove, da giugno 2017 un ciclo di serate di presentazione di riviste professionali con lo scopo di dare loro visibilità, di offrire al pubblico un ventaglio della panoramica italiana in materia, di mettere in dialogo i direttori redazionali – fra di loro e con noi – di posare le fondamenta di una cultura della conoscenza, della libera espressione e della valorizzazione di idee emergenti, all’interno di una cornice scientifica umanistica. Abbiamo anche dibattuto su tematiche pertinenti la realtà italiana odierna e, in particolare, sul rapporto tra psicologia e altre scienze umane (sociologia, filosofia, pedagogia, antropologia), sul ruolo dell’interdisciplinarità e su quello dell’editoria attorno ai quesiti esposti.
Nella prima serata abbiamo presentato riviste pionieristiche e neonate di psicoterapia: Psicoterapia e Scienze Umane, Terapia familiare, Educazione sentimentale. Rivista di psicosocioanalisi, Monografie di Gestalt; nella seconda serata ci siamo addentrati nel dialogo fra discipline e ambiti diversi, inserendo insieme al campo psico-sociale, quello educativo: Connessioni, Riflessioni sistemiche, Cooperazione educativa. Nel terzo appuntamento, che avverrà con l’apertura dell’anno nuovo, introduciamo le tematiche legate alla rete fra professionisti, alle équipe interdisciplinari, alle professioni affini a quella dello psicologo. Con tale scopo abbiamo scelto per ora una rivista di Counseling, una di Mediazione Familiare e una di psicoterapia.
2) Convegno Nazionale
Intitolato I diversi linguaggi nella relazione d’aiuto. Verso una cultura differente, il secondo convegno nazionale, svoltosi a novembre 2017 (il primo si era svolto a settembre 2014, con la presentazione dell’associazione), aveva l’intento di dare voce ai diversi professionisti di vari ambiti, per assaporare la ricchezza della varietà, per percepire i fili conduttori, per iniziare ad ascoltarci, a dialogare.
In una sala stracolma, abbiamo sentito durante la mattina, intercalando performance artistiche legate alle relazioni, i brevi interventi di professionisti arrivati da tutta Italia: un medico ospedaliero di Cremona (Foramitti), una mediatrice familiare di Verona (Mantovani), una counselor di Bologna (Caporale), uno psicologo di Milano (Barlascini), due psicoterapeute di Ferrara (Meneghini e Vianello), un’educatrice professionale di Bergamo (Morosini), un coach di Roma (Boccucci), uno shiatzuka di Bergamo anch’egli (Curtaz). Le due prime relazioni sono inserite nella terza parte delle testimonianze di questo volume. Le altre relazioni verranno pubblicate in altra sede. Siamo consapevoli di non aver coinvolto tutte le professioni che avremmo voluto e che siano tante le professioni che appartengono a questa galassia; speriamo di avere nel futuro prossimo con noi, per esempio, associati che appartengano al sistema scolastico e, in particolare, l’insegnante di sostegno o il pedagogista; ad oggi nessun assistente sociale è iscritto al CIPRA e ci auspichiamo di poter a breve conoscerne più di uno in questa veste.
La giornata, molto densa, ha visto poi otto gruppi di circa 10-12 persone lavorare attorno a casi clinici per discuterne e costruire delle équipe multidisciplinari su mappe concettuali. I casi, ritenuti di alta qualità e riportati dai membri del direttivo, verranno utilizzati ancora in un futuro breve.
In chiusura, una tavola rotonda, intitolata Le professioni della relazione d’aiuto – somiglianze, differenze, condivisione, condotta da me, ha visto come partecipanti altri autori di questo volume (Barracco, Carere-Comes, Migone, Zerbetto) in un’animata e piacevole discussione, fra di loro e con il pubblico.
3) Prima pubblicazione
Il numero monografico presenta il CIPRA, le sue idee, i suoi progetti, le sue attività, ma soprattutto, nell’insieme, vuole essere una fotografia di chi siamo oggi. Siamo professionisti che si occupano di politica professionale, altri che si concentrano nella ricerca, nella scrittura, nella documentazione, altri ancora che preferiscono le attività culturali, tutti che si occupano di pratica professionale; forse la maggior parte di noi prova a svolgere e a coniugare l’insieme delle attività. Siamo professionisti che crediamo nei sogni e che non abbiamo smesso di sognare, con ottimismo; professionisti che vogliono ricordare che, malgrado i “peccati originali”, siamo nel Paese del Rinascimento, in quello dell’Arte, in quello che ha chiuso i manicomi e in quello che ha introdotto la legge dell’integrazione dei bambini con disabilità a scuola, in un Paese di grande creatività e spessore umano. Crediamo che ogni vincolo può diventare risorsa e che, dopo periodi di oscurantismo, emerga un’energia capace di creare trasformazioni epocali, che però non avvengono da sole.
La strada non è tracciata
A quarant’anni dalla Legge 180 del 1978, un movimento umanistico emergente non può porsi in posizione nostalgica rispetto a un periodo passato senza considerare le profonde trasformazioni della società. Sicuramente, come scrive D’Elia, presidente di Psichiatria Democratica, Basaglia ha subìto un processo di mitizzazione, inevitabile per diversi motivi, anche per la sua morte prematura, e collega questa idealizzazione con una mancanza di aggiornamento della psichiatria sociale, descrivendo il mantenimento di “un’eredità statica” priva di un autentico scambio con la società e le persone che la compongono, senza un confronto articolato con le modalità con cui il disagio viene manifestato (D’Elia, 2016).
Più che avvertire il rischio di una riapertura dei manicomi, che D’Elia non teme come luoghi e come tali, il presidente di Psichiatria Democratica accusa un processo in atto di un sistema di salute mentale desoggettivante (che, di fatto, tutti noi nel CIPRA percepiamo), riprendendo però l’idea basagliana per cui la “nuova” psichiatria territoriale messa in atto diventa già un’istituzione e in quanto tale depersonalizza, controlla e toglie diritti, aggiungendo a questo processo già in atto da tempo, l’oscuramento più generale del Welfare, della dimensione socio assistenziale, politica e culturale (ibidem).
Da una conversazione con psicologi in formazione psicoterapica sulla loro visione sulla legge che ha chiuso i manicomi e sul loro vissuto a riguardo, da giovani professionisti della relazione d’aiuto che conoscono le istituzioni attraverso le attività di tirocinio, di volontariato o il lavoro precario come educatori, emerge che questi giovani, disincantati, hanno bisogno di un’alternativa a ciò che chiamano “l’ingenuità del romanticismo”, anche e, forse soprattutto, per la paura di rimanere in solitudine e di non riuscire a entrare in rete con chi difende i diritti umani (ibidem).
È questa la sfida che il CIPRA si pone: questo movimento umanistico emergente vuole diventare una realtà sentita nel territorio, sempre più adeguata alle trasformazioni non in maniera passiva, ma co-costruendo in maniera attiva un contesto auspicabile e incidendo su queste trasformazioni. Il CIPRA deve cogliere i cambiamenti che non solo vanno verso una polarizzazione delle posizioni, ma quelli che vanno nella direzione di un Paese sempre più multiculturale, di un Paese che sta trasformando il diritto di famiglia attorno a una visione sempre più pluralista, di un Paese che, se ha avuto il coraggio di andare verso l’inclusione e l’integrazione sia nell’ambito della salute mentale, sia in quello educativo, troverà i mezzi per celebrare l’individuo e la sua dignità e unicità, ma anche l’individuo con le sue appartenenze, e pure l’individuo come parte della specie umana, all’interno di un contesto relazionale (Edelstein, 2013); troverà la forza per rifiutare il principio di autorità dogmatica, per accogliere la laicità e valorizzare la ragione, non sconnessa dalle emozioni; troverà le risorse, non per ultimo, per supportare e far evolvere la ricerca in ambito umanistico.
La strada non è tracciata e mi auguro che il futuro prossimo ci serva per riflettere, insieme alle attività in programma, sul significato delle nostre azioni per continuare nella direzione auspicabile.
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