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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (sous la direction de)

    M@gm@ vol.15 n.2 Mai-Août 2017





    LA PSICOLOGIA E LE PROFESSIONI DELLA RELAZIONE DI AIUTO: UNO SGUARDO SULL’ULTIMO TRENTENNIO ITALIANO

    Rolando Ciofi

    ciofi@mopi.it
    Psicologo. Fondatore e Segretario Generale MoPI - Movimento Psicologi Indipendenti. Si occupa di politica professionale e di questioni giuridiche inerenti la professione di Psicologo, di psicologia giuridica, di gestione di reti nazionali di psicologia professionale e progettazione di prodotti assicurativi inerenti la psicologia. Ha una formazione psicodinamica d’indirizzo Bioniano, ulteriormente arricchita da un training gestaltico finalizzato alla conduzione di gruppi.


    La congiunzione degli opposti 5 - Nicoletta Freti

    Introduzione

     

    Possiamo collocare le professioni di aiuto all’interno dell’ampia cornice del Welfare. La nascita del Welfare moderno viene comunemente fatta risalire all’immediato ultimo dopoguerra quando il Parlamento inglese (1946) approva il Rapporto Beveridge, dal nome del suo autore il politico ed economista liberale William Beveridge. L’economista inglese propone un piano per un servizio sanitario nazionale gratuito e un sistema pensionistico: è il primo passo di un ampio sistema di tutele che dovrà accompagnare i cittadini "dalla culla alla tomba"  (Beveridge W. 1942) e che da subito si diffonderà in tutta Europa.

     

    Nel quadro dello sviluppo del Welfare State tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, sotto l’ombrello della dominanza medica, si sviluppa un processo di proliferazione delle professioni sanitarie. Ma siamo ancora in una dimensione prettamente socio-sanitaria. Una fase nella quale la dimensione biopsicosociale della salute solennemente dichiarata dall’OMS nel 1948, ancora è radicata sul “bio” e muove i primi passi nel “sociale” mentre stenta ad affermarsi l’aspetto “psico”.

     

    Su questo versante domina il dibattito della psichiatria che negli anni Settanta-Ottanta attraversa il suo momento d’oro. “La psichiatria (nell’accezione antipsichiatrica) riteneva di avere strumenti migliori della psicologia, con la sua impostazione organicistica (e con l’uso degli psicofarmaci) da una parte, e con il tentativo di comprendere l’individuo sul piano sociale e spirituale, dall’altro. In questo senso, alla psicologia venivano mosse accuse di essere poco concreta, avulsa dai rapporti sociali, individualistica.” (Lombardo, 2003) 

     

    Il movimento antipsichiatrico mette in discussione nella seconda metà degli anni 70’ tutti i ruoli professionali dell’assistenza psichiatrica (inclusi gli psicologi) che avrebbe voluto veder confluire nel ruolo di "operatore sociale unico".

     

    A partire dagli anni 80’ e con sempre maggiore forza prende campo un paradigma diverso, quello della soggettività. L’idea-guida è la libertà di scelta dell’individuo-consumatore, che deve avere la possibilità di scegliere sul mercato quali servizi acquistare, in quale quantità e a che prezzo. Cambia la relazione tra individuo e società. Aumentano le possibilità di azione individuale e la capacità dell’attore sociale di autodeterminarsi.

     

    Il cambio di paradigma porta al tramonto dell’idea dell'"operatore sociale unico" (troppo collegato ad un’ottica di impronta collettivista). Rimane, invece, e si rafforza la consapevolezza che vi siano spazi "altri" rispetto a quello medico per approcciare il disagio psichico. Spazi presto ricoperti sul versante “psico” dall'istituzione dell'Ordine degli psicologi (1989) e su quello “socio” da quello degli Assistenti Sociali (1993).

     

    Venivano così formalizzati, secondo la cultura dell’epoca, i due filoni centrali della relazione di aiuto: quello più legato al paradigma della soggettività (gli psicologi) e quello più antico istituzionalmente, legato al welfare sociale (gli assistenti sociali).

     

    Quando si parla in generale di professioni della relazione di aiuto ci si riferisce ad entrambi questi filoni che spesso in modo diretto o indiretto si intersecano con l’attiguo mondo delle professioni sanitarie.

     

    Da fine secolo la società si globalizza a ritmo crescente, diventa sempre più "liquida". Il cittadino conosce, si informa, pretende soluzioni personalizzate. Traendo nuova linfa dalle sue antiche radici psicoanalitiche, filosofiche, fenomenologiche, il paradigma della soggettività conquista sempre maggiori spazi. Non può più essere l'organicismo, neppure se coniugato con le scienze sociali di impronta marxista, a dire tutto ciò che vi è da dire in tema di disagio psicosociale.

     

    Siamo nell’ultimo decennio del 900’, gli anni Novanta. E’ da quel momento che possiamo cominciare a parlare, all’interno delle professioni di aiuto che sino ad un decennio prima venivano definite come “professioni sanitarie ausiliarie”, di un vero e proprio nuovo settore. Quello che in più articoli ho definito come “la famiglia delle professioni di ambito psicologico”. (Adami Rook e Ciofi, 2003)

     

    Ricapitoliamo. All'origine c'è l'Welfare. Sanità, previdenza, assistenza sociale e istruzione, universalmente estese alla totalità dei cittadini.

     

    La Sanità diventa il dominus di un gran gruppo di professioni per molti anni definite "professioni sanitarie ausiliarie" che inglobano la dimensione "bio" e parzialmente anche quella "socio", l'istruzione domina la restante fetta. Ancora non è nata la "pianta" delle professioni di aiuto, ma questo descritto è il terreno comune. Gli psicologi non c'erano. Sì esisteva, come vedremo, la psicologia sperimentale e la psicoanalisi. La prima totalmente estranea al welfare, la seconda solo incidentalmente lo incrocerà, ma porterà l'attenzione sui processi intrapsichici, in linea con una cultura che nella seconda metà del 900’ muta e centra l'attenzione sulla soggettività.

     

    Nasce la "pianta". La psicologia prima e poi il resto. E nasce malata. Malata perché la psicoanalisi nata in ambito medico e che mai ha risolto il suo conflitto con tale ambito, porta in dote non solo la soggettività da innestare nel welfare, ma anche la sua non risolta collocazione perennemente in bilico tra scienze umane e scienze naturali. Così nella psicologia conviveranno il "curare" e il "prendersi cura" in equilibrio sempre precario. L'attenzione al soggetto, all'ascolto, all'empatia, alla relazione saranno comunque trainanti e origineranno nell'ultimo trentennio continuamente nuove professioni. Sullo stesso terreno del welfare, anche le antiche "professioni sanitarie ausiliarie" e quelle legate all'istruzione, complessivamente meno sensibili al fascino della soggettività, si evolvono e inevitabilmente, complice l'humus culturale di fondo, si apparentano. Per questo è bene differenziare tra "famiglia delle professioni di ambito psicologico" (la pianta di cui parlerò in questo articolo) e "professioni di aiuto" che certo la comprendono ma vanno oltre estendendo le loro radici nelle scienze sociali.

     

    A questo proposito, all'interno delle professioni di aiuto, quand'anche fosse risolta ed archiviata la questione sanitarizzazione, lasciando tale aspetto nelle mani di chi opta di riferirsi alle scienze naturali (e naturalmente di tali figure mediche e più in generale sanitarie la società ha bisogno), rimarrebbe aperta una dialettica tra scienze sociali e scienze umane. Ovvero tra chi ha maggiormente a cuore il benessere collettivo e chi invece quello individuale. 

     

    La psicologia sino al varo della legge di ordinamento della professione di psicologo

     

    Il 900’ non è un secolo facile per la psicologia nel nostro paese: idealismo prima e fascismo poi, forte influenza della cultura cattolica sia prima che poi, hanno ostacolato per molti decenni lo sviluppo della psicologia in ogni sua possibile declinazione.

     

    Motivi molto più specifici hanno inoltre contribuito a far sì che la psicologia si sviluppasse in modo estremamente disarticolato, quasi per “sette”.  Fino agli anni Sessanta, psicoanalisi e psicologia erano considerate sinonimi sul versante clinico. Mentre nel settore della psicologia sperimentale l’unica applicazione in qualche modo accettata era la testistica.

     

    Sin dagli albori, quindi, la psicologia si presenta scissa, forzatamente convivendo in essa l’approccio ermeneutico (con i suoi correlati fenomenologico esistenziali) e l’approccio scientifico (con i suoi correlati cognitivo comportamentali).

     

    L’istituzione nel 1972 dei primi corsi di laurea in psicologia finalmente concedeva a tutte le discipline psicologiche quella dignità per tanto tempo negata. La scissione si istituzionalizzava senza essere risolta. La psicologia scientifica (che adotta criteri di quantificazione e di sperimentazione) ha in quel momento circa cento anni di vita, la psicoanalisi poco meno.

     

    Nel mondo della psicologia convivono ancora studiosi di impostazione naturalistica con quelli di impostazione storico-ermeneutica; vi sono riduzionisti ed antiriduzionisti e ancora vi sono quantificazionisti ed antiquantificazionisti, impostazioni ad orientamento soggettivistico e impostazioni ad orientamento oggettivistico, etc.... Scarsissima è (e ciò vale anche oggi) l’ibridazione tra psicoanalisi e psicologia scientifica.

     

    Tutto ciò riverbera nel settore delle applicazioni della psicologia, prima tra tutte la psicoterapia.

     

    Negli anni Cinquanta, il nucleo più rappresentativo della psicologia italiana si trovava a Milano e si era costituito attorno a due poli di riferimento, interagenti da posizioni nettamente differenziate: quello costituito da Agostino Gemelli - il solo, con Mario Ponzo, a essere riuscito a conservare una cattedra universitaria di Psicologia negli anni antecedenti al 1945 - e quello formatosi attorno a Cesare Musatti.

     

    Gemelli era il sostenitore di una psicologia personalistica, fondata su quella base biologica che gli proveniva dalla sua formazione medica e aperto alla prospettiva sociale, che si concretizzava anche nello studio psicologico relativo ai problemi dello sviluppo umano (sia nell’età evolutiva che nell’età senile) del lavoro, della sanità, della giustizia. Musatti era invece orientato verso la psicologia della forma, introdotta in Italia dal suo maestro Benussi, e verso l’indagine dell’inconscio, osservato e interpretato secondo le linee della psicoanalisi freudiana.

     

    Differentemente da Gemelli, Musatti aveva dunque (in quanto psicoanalista) un fattuale interesse per la psicoterapia. Tuttavia, rimase per tutta la vita convinto di svolgere due specifiche e distinte professioni, quella di “percettologo” in ambito accademico e quella di psicoanalista in ambito privato, né fu mai sfiorato dal dubbio che tali due diverse professioni avessero qualcosa in comune (Musatti, 1982).

     

    Per avere un’idea di cosa fosse la psicoterapia italiana sino a circa fine anni Settanta, occorre dare qualche cenno relativo alla storia della psicoanalisi nel nostro paese.

     

    In Italia, come anche in Austria e in Germania, la diffusione della psicoanalisi è stata ostacolata dai regimi politici totalitari e antisemiti che questi Stati hanno avuto sino alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel nostro Paese hanno avuto una certa importanza anche altri fattori, quali l’idealismo e il cattolicesimo. Nel periodo fascista, con la promulgazione delle leggi razziali antisemite, la psicoanalisi fu di fatto eliminata dalla vita italiana, poiché la maggioranza dei pochi psicoanalisti italiani era ebrea. Espatriarono quasi tutti. In Italia uno dei maggiori rappresentanti dell’idealismo fu il ministro della Pubblica Istruzione (Giovanni Gentile) che nel 1923, nell’ambito della riforma della scuola, eliminò l’insegnamento della psicologia dal liceo e dalle scuole magistrali. La stessa revoca del permesso di pubblicazione della “Rivista Italiana di Psicoanalisi” nel 1934 sembra che sia stata richiesta dal Vaticano, dietro suggerimento dell’avversario viennese di Freud, padre Schmidt. L’opposizione alla psicoanalisi da parte dell’ambiente cattolico italiano si è protratta sino al 1953, quando il Papa Pio XII in un discorso tenuto al Congresso Internazionale di Psicoterapia e Psicologia Clinica, riconobbe la competenza dello psicoterapeuta sul piano pratico clinico, distinguendo nettamente tra questo piano e quello teorico morale (David, 1966).

     

    Pur tra le enormi difficoltà accennate, che hanno reso a lungo problematica la diffusione delle teorie psicoanalitiche nel nostro paese, la psicoanalisi nostrana ha una sua storia che risale ai primi del 900’ e che è utile ricordare in pochi salienti passaggi.

     

    Il triestino Edoardo Weiss fu il primo psicoanalista freudiano che abbia lavorato in Italia. Laureatosi a Vienna in medicina, ebbe Paul Federn come maestro e seguì molte lezioni di Freud. Già nel 1913 era membro della Società psicoanalitica di Vienna. Nel 1918 tornò a Trieste, nel 1931 si trasferì a Roma e nel 1939 partì per gli Stati Uniti. Egli fu il rappresentante ufficiale della psicoanalisi italiana in molti congressi nazionali e internazionali. E’ autore tra l’altro di un’opera divulgativa (Weiss, 1931) e di un interessante studio dell’agorafobia (Weiss, 1936). Edoardo Weiss fu l’analista didatta di Cesare Musatti, Nicola Perrotti ed Emilio Servadio.

     

    La Società Psicoanalitica Italiana (S.P.I.) fu fondata nel 1925 e ristrutturata nel 1932 da coloro che hanno rappresentato il nucleo storico della tradizione analitica in Italia, primi tra tutti Weiss, Marco Levi Bianchini e altri medici simpatizzanti. Come è noto, questa società fu poi rifondata nel 1945 (dopo lo scioglimento imposto dal regime fascista nel 1938) ad opera di Perrotti, Servadio, Musatti, e tuttora essa si propone come la rappresentante “ortodossa” dell’originario pensiero freudiano nel nostro Paese.

     

    Ernst Bernhard fu invece il caposcuola della psicologia analitica in Italia. Nato a Berlino nel 1896, laureatosi in medicina, fece parte in un primo tempo della scuola freudiana, svolgendo un’analisi didattica con Fenichel e Radò. Successivamente divenne allievo di Jung e intorno agli anni Quaranta iniziò ad organizzare gli junghiani in Italia.

     

    Attualmente questa dottrina viene sostenuta da due associazioni “ortodosse”, l’AIPA (Associazione Italiana di psicologia Analitica) fondata nel 1961, ed il CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica), fondato nel 1966, uniche associazioni riconosciute in Italia dall’International Association for Analytical Psychology (IAAP), l’associazione internazionale che rappresenta gli analisti junghiani.

     

    Solo in tempi molto più recenti si organizza in Italia la psicoanalisi adleriana. La psicologia individuale viene propugnata nel nostro Paese quasi esclusivamente dalla Società Italiana di Psicologia Individuale SIPI, unica struttura italiana chiamata a far parte della International Association of Individual Psychology (IAIP).La SIPI è stata fondata nel 1969 a Milano e si occupa della divulgazione culturale della dottrina psicologica individuale, della formazione permanente degli analisti adleriani e della preparazione degli allievi.

     

    Di derivazione inizialmente psicoanalitica è la psicosintesi. Roberto Assagioli, il fondatore, fu uno dei pionieri della psicoanalisi in Italia, ma a partire dal 1911 iniziò a porsi in polemica con la concezione psicoanalitica ortodossa. La psicosintesi gode attualmente di ampia notorietà in molti Paesi del mondo, a seguito della diffusione che in essi fece lo stesso Assagioli, dopo l’opposizione che alla sua concezione venne fatta in Italia dalle autorità fasciste. Questo orientamento è rappresentato dalla SIPT - Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica - Istituto di Psicosintesi, fondata a Roma dallo stesso Assagioli nel 1926 e rifondata nella forma attuale di Ente Morale a Firenze, nel 1965.

     

    Dunque fino alla fine degli anni Sessanta la situazione della psicologia in Italia era la seguente: l’indirizzo psicoanalitico prevalente era quello freudiano ortodosso seguito da quello junghiano; la Società Italiana di Psicosintesi, pur fondata nel 1926, si era poi disciolta ma rifondata nel 1965 sotto l’attuale forma di Ente Morale; gli altri non erano praticamente rappresentati ad eccezione dell’ipnosi (preesistente alla psicoanalisi) e della già forte presenza della psicodiagnosi (vale la pena di ricordare che sia il test Rorschach sia la psicologia della scrittura nascono al di fuori della psicologia scientifica e, nel secondo caso, addirittura in aperto e polemico contrasto rispetto ad essa).

     

    L’incremento della psicoanalisi in senso lato è rappresentato da queste cifre: nel 1954 il numero degli psicoanalisti era valutato a 22 mentre dieci anni dopo era salito a 100 (60 freudiani e 40 junghiani). Negli anni Settanta queste cifre erano ancora molto basse: l’Italia, pur avendo una delle più alte densità di medici (uno ogni 814 abitanti) occupava uno degli ultimi posti in Occidente, se si considera il rapporto medici/psicoanalisti (negli U.S.A. uno psicoanalista ogni 76 medici; in Italia, uno ogni 2619) (Bazzi, 1970).

     

    L’ortodossia dei vari modelli analitici comincia già dagli anni Sessanta a venire meno in quanto molti dei suoi esponenti tentano via via di integrare l’originaria dottrina del maestro fondatore con teorie a volte da essa considerevolmente distanti. Si guardi per esempio alle teorie dei cosiddetti “neofreudiani” di impostazione generalmente culturalista, o degli psicologi dell’Io che si contrappongono all’originaria visione istintualistica della vita psichica data da Freud, o addirittura le interpretazioni strutturaliste a riguardo, di Lacan.

     

    A proposito dello sviluppo in Italia delle concezioni lacaniane non va dimenticato di accennare alla controversa figura del dott. A. Verdiglione e delle strutture e attività sorte intorno a lui, rimaste coinvolte nel noto caso giudiziario. In quell’occasione fu segnalato da alcuni ex membri della disciolta Ecole Freudienne de Paris come Verdiglione, pur traendo ispirazione dagli insegnamenti lacaniani e pur essendo dello stesso Lacan stato allievo, non fosse mai stato accolto dalla suddetta Scuola tra i propri membri. Ciò nonostante, le attività di Verdiglione e dei collaboratori che via via si sono uniti a lui hanno avuto molto seguito fino ad acquisire una forma strutturata nel 1982 con la nascita della Fondazione di Cultura Internazionale Armando Verdiglione.

     

    Il decennio a cavallo tra il 1960 ed il 1970 è portatore, in Italia come nel mondo, di grandi mutamenti sociopolitici nonché di profonde trasformazioni inerenti sia il mondo della cultura che quello dei valori collettivi. Per quanto qui ci riguarda, osserviamo che in Italia i rapporti tra psichiatria e psicoterapia si modificano profondamente. Accanto all’affermarsi preponderante di una psichiatria fortemente influenzata dalla sociologia, emerge, più silenziosamente ma in modo non meno rilevante per il futuro delle nostre discipline, la tendenza a ricercare nuove tecniche psicoterapeutiche. Sono gli anni delle specializzazioni negli Stati Uniti, della contestazione della psicoanalisi, ma anche dei grandi e sempre più divulgati dibattiti sulla stessa, della nascita e dell’importazione di una miriade di modelli psicoterapeutici.

     

    In precedenza, tranne qualche rarissima eccezione, gli psichiatri italiani, saldamente ancorati al dominante atteggiamento positivista e organicista della medicina, avevano rifiutato in blocco la psicoterapia in genere. Ma dopo la guerra, e in modo sempre più evidente dall’inizio degli anni Sessanta, l’atteggiamento degli psichiatri cambia in modo radicale. Lo testimoniano ad esempio il fatto che nel 1962 la Società Italiana di Psichiatria costituisce nel suo seno una Sezione di Psicoterapia Medica. La psicodinamica e la psicoterapia entrano a far parte delle materie di insegnamento delle scuole di specializzazione in neurologia e psichiatria, e presso alcune cliniche universitarie italiane funzionano reparti di psicoterapia.

     

    Il dibattito parallelo all’interno del mondo della psicologia scientifica, sempre più ansiosa di sistematizzare i propri campi applicativi esiterà poi, nel 1972, nell’apertura dei primi corsi di laurea in psicologia. La corsa alla formazione in psicoterapia era iniziata, ma parallelamente andavano ponendosi le basi per quella “doppia tutela” (dei medici e degli psicologi) certo molto legittimante ma altrettanto denegante ogni autonomia, con la quale la psicoterapia italiana pare a tutt’oggi dovere fare i conti.

     

    Il 1968, epoca di grandi rivoluzioni, è destinato a portare aria nuova anche nel mondo della psicoterapia entro il quale la critica radicale a un assetto troppo chiuso e “baronale” non manca di farsi sentire. E’, infatti, immediatamente dopo quegli anni che cominciano ad affermarsi le “nuove scuole”, quelle che nel volgere di poco più di un decennio riusciranno a relativizzare l’influenza degli psicoanalisti sulla cultura psicoterapeutica italiana.

     

    La psicoanalisi, e più in generale l’ambito analitico, subirà così un doppio attacco: da una parte il dissenso interno, che porta al moltiplicarsi delle scuole d’impostazione analitica non riconosciute né tollerate dai “santuari” Freudiani, Adleriani e Junghiani; dall’altra, le nuove impostazioni di provenienza prevalentemente statunitense che, proponendo percorsi psicoterapeutici meno costosi, più brevi e mirati, nonché formazioni più semplici, anch’esse meno costose e in grado di affascinare per l’accento dato alle “tecniche” più che alle epistemologie, hanno un immediato e convincente successo.

     

    Eclatante il caso della psicoterapia familiare che, anche grazie alla concomitante gestazione ed emanazione della legge 180 che rende indispensabile per i servizi di psichiatria un lavoro “centrato sul territorio”, nel breve volgere di un decennio diventerà riferimento pressoché obbligato per tutto il vasto settore dei servizi pubblici. Ma si affermerà anche la gestalt, lo psicodramma, il cognitivismo anch’esso destinato a dominare la scena dei successivi anni Novanta, nonché, facendosi largo tra mille difficoltà e pregiudizi, andrà sempre più affermandosi una visione eclettica e integrata della scienza psicoterapica. Dunque nei primi anni Settanta vengono poste le basi di tutti quelli che saranno i modelli psicoterapeutici dominanti nel successivo decennio.

     

    Ma è dopo il 1975 (ricordiamo che dal 1972 sono intanto sorti i primi corsi di laurea in psicologia) che in Italia esplode il fenomeno della formazione. I centri, le scuole e gli istituti si moltiplicano a dismisura e il “mercato” della psicoterapia pare promettere, a formatori e formati, enormi spazi di ricerca e di lavoro.

     

    Il termine “psicologo” era all’epoca usato nel senso di “professionista della psicologia” o di “operatore in campo psicologico” e non già in quello, poi protetto dalla legge 56/89, di laureati in psicologia che abbiano superato l’esame di Stato e che si siano poi iscritti all’Ordine. In quegli stessi anni gli psicologi si sindacalizzano in modo autonomo (svincolandosi dalle ipoteche dei sindacati confederali) e, in ambito pubblico, tendono con forza a far perno sulla competenza psicoterapeutica, per rivendicare migliori condizioni contrattuali. Tale politica alimenta ancor più la domanda di formazione e, non essendo quest’ultima regolamentata se non dalla legge della domanda e dell’offerta, l’intero settore si muove verso un vertiginoso sviluppo.

     

    Sono anche gli anni delle polemiche e dei duri scontri tra scuole e modelli. Sin dalla nascita dei corsi di laurea in psicologia il Parlamento ha messo mano all’ipotesi di una legge che regolamenti la professione di psicologo, ma i disegni di legge si susseguono e ripetutamente naufragano col naufragare dei vari governi che si alternano nel decennio, fondamentalmente per un unico motivo: la questione psicoterapia.

     

    Gli psicoanalisti non vogliono essere considerati come psicoterapeuti, il sindacato preme per ottenere una legge che regolamenti la psicoterapia, molti affermati psicologi sostengono che non occorre affatto una legge, i medici premono perché ogni tipo di “terapia” venga loro riservata. Ogni volta che una soluzione pare essere a portata di mano, o cambia il Governo o qualche nuova polemica costringe a riconsiderare daccapo tutta la materia.

     

    Nel 1989, finalmente, dopo 17 anni di gestazione, il Parlamento approva la legge 56/89 relativa all’ordinamento della professione di psicologo. L’articolo 3 della legge così recita:

     

    «L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica».

     

    Si apre una nuova era per la psicologia e per la psicoterapia italiana e sugli ambigui passaggi dell’articolo citato esplode un intenso dibattito, ad oggi ancora assai lontano dall’essere concluso.

     

    La legge 56 del 18 febbraio 1989

     

    Il confronto operativo su una legge da interpretare e gestire mette da subito in luce nodi di grande rilievo.

     

    La legge era stata osteggiata su più fronti. Vale la pena sottolineare:

     

    1) L'opposizione politico istituzionale (o vetero marxista), sostanzialmente caratterizzata da una diffidenza nei confronti della psicologia «portatrice di valori antropologici imperniati sui concetti di individualità e soggettività»(Lombardo, 1994).

     

    2) L'opposizione militante (o della psichiatria democratica) «di derivazione marxista che vedeva come preminente la caratterizzazione economico sociale delle relazioni umane ed escludeva dalle stesse qualsiasi dimensione psicologica» posizione questa che portava a vedere lo psicologo come possibile operatore sociale, ma diffidava della sua specificità (ibidem).

     

    3) L'opposizione vetero accademica (o del fondamentalismo accademico) diffidente nei confronti di una legge che sempre più avrebbe messo in discussione «.... la dicotomizzazione tra clinica e ricerca, tanto preziosa da essere ipostatizzata addirittura in due luoghi fisici diversi, l'università e lo studio privato, in due metodi diversi, il clinico e lo sperimentale, e due diversi apparati tecnico concettuali» (ibidem).

     

    4) L'opposizione analitica e psicoterapeutica restia a concepire l'idea di un’identità professionale che non sia più basata sulla scuola psicoterapeutica (sostanzialmente contraria alla «laicità culturale di una proposta formativa non pregiudizialmente legata a un modello o a una scuola di pensiero prefissata» (ibidem).

     

    Se queste erano le opposizioni, alle quali va aggiunta l'opposizione "pragmatica", ma non meno influente, dell'Ordine dei Medici e della classe medica in generale sulla questione psicoterapia, (Calvi & Lombardo 1989), quali sono state le forze, i gruppi, i movimenti che hanno invece voluto la legge? A mio avviso sarebbero da chiamare in causa tre grandi raggruppamenti:

     

    1) La nuova accademia

     

    Uso questa definizione per riferirmi in senso lato all’acquisizione della consapevolezza, da parte di molti docenti universitari, di doversi adoperare per un collegamento tra ricerca e campi applicativi. Volendo datare il fenomeno, potremmo dire che già dal 1954, con l'istituzione a Palermo della Cattedra di psicologia "con l'appoggio e l'influenza degli americani e con finalità prevalentemente applicative" (Spaltro, 1992), tale consapevolezza cominciava ad acquisire consistenza nella comunità scientifica italiana. Per non generare confusioni vale la pena di chiarire che il dibattito cui in questo paragrafo si fa riferimento nasce dall’esigenza avvertita all'epoca di avvicinare la tradizionale ricerca accademica (psicologia sperimentale, psicologia generale) a possibili campi applicativi (psicoterapia in primis, ma anche psicodiagnostica, psicosociologia etc). Ciò non esclude affatto che la psicoterapia non implichi modelli di ricerca. Tuttavia, per la stragrande maggioranza degli accademici, ricerca e applicazione erano nettamente separate essendo l'una di pertinenza universitaria e l'altra completamente identificata con la clinica psicoanalitica. Quest’ultima non veniva molto considerata e, a lungo, è stata vista in termini spregiativi.

     

    Fino al 1961 i non accademici non erano ammessi a far parte della SIPs (unica società di psicologia nata nel 1910); ancora nel 1969 all'interno di tale organizzazione i professori universitari di ruolo avevano un privilegio assoluto; solo nel 1971 la stessa società rende paritetici gli accademici e i professionali (Luccio, 1990).

     

    Successivamente, all'interno dell'accademia hanno a lungo convissuto due anime (ancora nel 1982 Musatti riteneva inesistente il ruolo professionale di psicologo ed inutile l'Ordine) ma, con una brusca accelerazione dal 1972, anno di istituzione dei primi corsi di laurea in psicologia, molti accademici manifestano una crescente attenzione allo sviluppo dei filoni applicativi, se non altro per il fatto che bisognava offrire qualche sbocco di lavoro alla valanga di laureati in psicologia che si sarebbe riversata sul mercato di lì a pochi anni. Altrettanto ovvio che lo sbocco più ragionevole paresse quello già esistente e a portata di mano, la psicoterapia. Dunque gli accademici vedono nell'approvazione della legge di ordinamento sia un catalizzatore del processo sia un’ambita e legittima conseguenza del lavoro da essi intrapreso.

     

    Quello che i suddetti accademici non videro, o non videro abbastanza, è che non solo i medici avrebbero avuto da dire la loro sulla legittimità di certe ambizioni, ma anche quando si fosse riusciti a vincere su questi ultimi, ci si sarebbe imbattuti senza poter eliminarli facilmente, in tutti quelli che, pur non essendo medici e senza farsi coprire dall'accademia o dal sindacato e neppure dalle grandi scuole, avevano contribuito negli anni a rendere esistente e a portata di mano quel lavoro, e che alla legge guardavano per essere legittimati.

     

    Si proponeva insomma un problema politico professionale. Analogo a quello esistente oggi con il counseling e con le professioni di ambito psicologico. Esisteva già una realtà, nata fuori dai "pensatoi" dell'accademia del sindacato o delle istituzioni in genere. Realtà culturale, formativa, economica che non si sarebbe facilmente fatta da parte.

     

    La consapevolezza di dovere raccordare la ricerca ai campi applicativi, se da una parte conduce ad una "mobilitazione" di tali ambiti e dunque all'attivo contributo a favore della legge istitutiva dell'Ordine degli Psicologi, apre nuovi e articolati dibattiti centrati su emergenti tentazioni egemoniche nel campo della formazione professionale, e in particolar modo nel campo della psicoterapia, stante il fatto che tale settore, sin dalla nascita delle prime facoltà, pare essere il campo applicativo per eccellenza. D'altra parte, il fatto che a insegnare presso i primi corsi di laurea fossero stati chiamati: «psichiatri, psicoanalisti, terapisti sistemici, cognitivo-comportamentali etc, che fornirono una articolazione applicativa quasi esclusivamente in campo psicoterapeutico»(diretta Lombardo, Cavalieri, De Massis, 1994)non poteva rimanere senza conseguenza in quanto al diffondersi di una precisa immagine relativamente al ruolo dello psicologo.

     

    Accade così che, nel mentre vengono poste le basi per un pieno riconoscimento della professione psicologica, il dibattito sulla formazione in campo applicativo diviene sempre più vivace. Non è chiaro quale dovrà essere il destino delle poche scuole di formazione né è chiaro se la formazione in psicoterapia dovrà essere solo universitaria, continuare a rimanere privata, o entrambe le cose.

     

    Con il passare degli anni, l'idea del collegamento tra ricerca e applicazione si consolida e sempre più si consolidano quelle figure professionali che poi si chiameranno psicoterapeuti; gli accademici però non sembrano per nulla d'accordo su chi e su come si debbano formare tali psicoterapeuti.

     

    Vale qui la pena di inserire un inciso di natura semantica. Il termine psicoterapeuta era, prima della legge 56/89, per lo più inutilizzato dagli operatori del settore e dalla società in generale. Le persone più colte lo associavano a qualcosa che aveva a che fare con la psichiatria ma non prevedeva i farmaci. I medici si erano addirittura inventati la distinzione tra psicoterapeuta (titolo del quale rivendicavano l'esclusiva) e psicoterapista (titolo attribuibile a una figura sanitaria ausiliaria, ad esempio l'infermiere psichiatrico). Tutti conoscevano invece la figura dello psicoanalista, o dell'analista, figure che godevano, all'epoca, di visibilità e apprezzamento sociale.

     

    Quasi "inventati" dunque gli psicoterapeuti ci si pone il problema di come formarli. Una parte dell'accademia cerca di avvalorare l'idea della psicologia clinica come la via regia, come: «una prassi orientata all'attribuzione di senso e perciò stesso al cambiamento, quindi alla psicoterapia» (Carli, Grasso, 1991) tale da poter essere insegnata solo dall'università, con un suo modello, "L'analisi della domanda" (Carli, 1987) e con un suo naturale campo esperienziale che è quello dei servizi pubblici.

     

    La formazione fuori dall'accademia «autoreferente, asfittica e privata», secondo queste posizioni non avrebbe avuto ragione di esistere consistendo al massimo nell'insegnamento di «mere tecniche specifiche di intervento» (Pirri, 1995).  

     

    Ma altri accademici considerano di non potersi permettere:«di fare piazza pulita dell'esperienza storica di cinquant'anni» (Dazzi, 1995) e che le condizioni per un rapporto con le USL e i servizi pubblici non esistono (Dazzi, 1995). Dunque, la formazione privata, o meglio "certa" formazione privata, deve essere riconosciuta, con pari dignità di quella pubblica.

     

    2) Il Sindacato

     

    Nel 1977 nasce l'AUPI (Associazione Unitaria Psicologi Italiani) «con l'obiettivo di costruire un’organizzazione capace di rappresentare e tutelare gli interessi giuridici, normativi e culturali" degli psicologi» (Tummino, 1991). Sono gli anni in cui le università licenziano i primi laureati in psicologia, in cui si comincia a parlare di psicologia clinica....... e a discutere dei rapporti tra psicologia e psicoterapia. (Malagoli Togliatti, 1992). Sono anche gli anni della nascita del sindacalismo autonomo, del tramonto delle ideologie "sessantottine" più radicali, del cosiddetto "riflusso", del riemergere graduale in ogni campo del sociale, del valore autonomo della professionalità rispetto al metro onnipervasivo della politica. 

     

    Gli psicologi non si sentono più rappresentati "dagli infermieri" (Sardi, 1995), ovvero dalla CGIL, ed esigono che la psicologia sia gestita da "chi vive di psicologia... e non sugli psicologi” (Pierucci F. 1993). Essi rivendicano una specifica professionalità e la tutela della stessa in contrapposizione a chi ritiene l'Albo una possibile fonte di privilegi ed interessi corporativi  (Ammanniti M, Antonucci F, Baumgartner E, Ginzburg R, Iaccarino B, Mazzoncini B, Piperno F. 1975), ma anche di chi indulge troppo col sociologismo chiedendo che lo psicologo tenda alla modificazione della situazione globale.... cioè delle condizioni esterne oggettive di repressione (Tranchina, 1974).

     

    Molto rapidamente l'AUPI monopolizza la rappresentanza della categoria nel settore pubblico e, unitamente alla SIPs, diviene uno dei protagonisti del dibattito che sfocia finalmente nella promulgazione della legge 56/89. La storia della SIPs, Società Italiana di Psicologia, è parallela, in larga parte, alla storia dello sviluppo della Psicologia in Italia, dove ha svolto fin dalla sua fondazione attività di raccordo tra i centri universitari di studio e di ricerca. In seguito, con l'affermazione progressiva della professione psicologica, la SIPs ha rappresentato per un periodo anche questa importante componente. Ciò sino circa a fine anni Novanta. 

     

    E' pur vero che ancora nel 1988 psichiatria democratica tuona contro la legge in arrivo e la "legittimazione di interessi mercantili" (Piro, 1988) che questa avrebbe comportato ma l'AUPI, ormai molto forte, tiene duro insieme alla SIPs sul tanto controverso art. 3. 

     

    Non che l'AUPI abbia particolare simpatia nei confronti degli istituti privati di formazione in psicoterapia ma, abbandonata ormai con decisione l'utopia dell'operatore unico, il sindacato ritiene gli articoli 3 e 35 della legge una conquista talmente importante, da far valere nelle contrattazioni contro le pretese dei medici, da essere ben disposto nei confronti dei necessari compromessi. E' interesse del Sindacato ottenere uno "status" professionale forte che deve essere perseguito mediante modelli rigidi (laurea specifica, tirocinio, esame di Stato), è interesse che la psicoterapia venga riconosciuta come attività specialistica e sanitaria, che la figura dello psicologo assomigli, sul piano politico professionale il più possibile a quella del medico perché solo così sarà possibile rivendicare uguali diritti, contrapporglisi a livelli paritetici, richiedere uguali retribuzioni, etc..

     

    Per comprendere appieno la rilevanza di tale impostazione occorrerà ricordare come negli anni Ottanta la cultura professionale degli psicologi operanti nei servizi si è andata sempre più caratterizzando in senso psicoterapeutico nella ricerca di un’identità sociale da contrapporre a quella medico psichiatrica dominante. Sono gli anni del "tecnicismo" (Angelini, 1995) nei quali la "mitica" identità di psicoterapeuta servirà ad affrancarsi dalla precedente e ormai non più appagante spersonalizzazione dell’équipe, del collettivo. La tecnica consentirà finalmente di uscire dall’identificazione totale con il paziente, con il lavoro, con l'istituzione in cui si opera (Lai G.P. 1974), ideali degli anni Settanta ormai irreparabilmente in crisi.

     

    E' alla luce di tale clima che si possono leggere le dichiarazioni in parte ironiche e in parte trionfali di Sardi (1989) nei confronti dei medici e degli accademici il giorno dopo l'approvazione della legge: «alla fine ci hanno aperto il loro più sicuro rifugio, cioè il dignitoso e serio titolo di specializzazione: forse avranno apprezzato la bravura della psicoterapia professionale nel resistere alle varie burrasche» (Sardi, 1989).

     

    L'AUPI ottiene dunque un grande successo, tende a minimizzare le ombre poiché «bisognava comunque avere una legge.... e siccome l'ottimo è nemico del bene...... l'abbiamo accettata così.... a noi interessava soprattutto l'art. 1 e l'art. 3» (Pierucci, 1995). In effetti, se l'accademia si sbarazza senza troppe difficoltà dell'opposizione vetero accademica, ma arriva all’approvazione della legge già nuovamente divisa al suo interno sul tema della formazione, per l'AUPI si tratta invece di un vero e proprio trionfo, le opposizioni vetero marxiste e sociologiste sono sbaragliate e le concessioni ai medici paiono o inevitabili (il fatto che la psicoterapia sia prerogativa di entrambi) o risibili «come il tautologico comma 2 dell'art. 3» (Pierucci, 1995).

     

    3) Le Scuole 

     

    Occorrerà premettere che le scuole di formazione in psicoterapia, così come oggi le conosciamo e con tutto il peso che esse hanno assunto nella comunità professionale, erano inesistenti sino agli anni Ottanta. Tradizionalmente la formazione, non essendo normata, avveniva in modo artigianale, nel rapporto tra maestro e allievo, al più sotto il controllo, nelle grandi società analitiche, della Associazione di riferimento (SPI, CIPA, AIPA, SIPI, SIPT etc..).

     

    La legge, pur ammettendo la formazione privata, ha imposto il riconoscimento pubblico e questo ha comportato una rivoluzione epocale nel mondo della formazione in psicoterapia. Oggi i docenti debbono essere scelti secondo criterio che il Ministero approvi, la direzione scientifica deve far capo ad un accademico, il numero di ore è predefinito, l'allievo che si senta leso nei suoi diritti può ricorrere al TAR avverso la sua scuola di formazione. Regole e procedure sensate che hanno la radice nel controllo pubblico, ma che certo non appartengono alla storia del nostro mondo professionale, men che meno a quello psicoanalitico dal quale questo mondo in buona parte deriva.

    Ciò premesso, per orientarsi un minimo nel complesso mondo delle scuole occorre fare, sia pure con la consapevolezza che si tratta di generalizzazioni, alcune distinzioni:

    a) Le grandi società analitiche

    b) Le grandi scuole non analitiche

    c) Le piccole (nel senso che di seguito vedremo) scuole analitiche e non.

     

    Mentre le prime si sono sostanzialmente opposte alla legge di ordinamento, ne hanno rallentato l'iter ed hanno ottenuto rilevanti concessioni (salvo poi, in un secondo momento, usufruire anche delle opportunità offerte dalla legge stessa) e le ultime hanno avuto nei confronti della legge il costante atteggiamento di odio/amore che tuttora le caratterizza, solo le grandi scuole non analitiche hanno decisamente voluto, e poi ottenuto, la legge così come essa è.

     

    a) Le grandi società analitiche.

     

    La grande ambiguità della SPI nei confronti della legge di Ordinamento è ben riassunta da Pier Francesco Galli:

     

    «Diventa Presidente della SPI Il Prof Glauco Carloni ... e dichiara che il termine psicoanalisi non deve entrare nella legge. La psicoanalisi doveva rimanere autonoma, in rapporto non a un principio generale di autonomia della psicoanalisi, bensì ad un principio molto più specifico di autonomia dallo Stato.... Ossicini rimase molto male... e ricordò di essere stato diversamente d'accordo con Fornari e Gaddini... Carloni rispose che loro erano ex presidenti mentre ora era presidente lui e sosteneva questa posizione».

     

    Si arrivò così ad una legge principalmente voluta da uno psicoanalista (Ossicini) con l'appoggio della SPI dalla quale, dopo pesanti dibattiti interni, la SPI stessa e la psicoanalisi si chiamavano fuori. Dice Mariella Gramaglia (2014), (all'epoca deputato PCI e membro della Commissione ristretta che varò la legge) che la Commissione accettò le richieste di Carloni e non incluse la psicoanalisi nella 56/89 «perché ritenevamo che le grandi associazioni di psicoanalisi si sarebbero organizzate autonomamente».

     

    Forte del grande prestigio di cui all'epoca godeva la psicoanalisi si giocò insomma la carta di essere e continuare ad essere altro e di più della psicologia. Ma presto considerò quella scelta un errore e così sia pure con ritardo rispetto ad altre realtà, anche le grandi società analitiche, tutte, hanno dato vita a scuole di formazione in psicoterapia riconosciute dal MIUR. Lo hanno fatto quando hanno realizzato, e ci è voluto qualche anno, che diversamente la psicoanalisi sarebbe scomparsa dal mercato. E' noto che sin dalla nascita della psicoanalisi l'atteggiamento di questa disciplina nei confronti della psicoterapia sia stato di grande ambiguità. Dopo aver premesso "di non essere mai stato un entusiasta della terapia" e di avere detto che "paragonata agli altri procedimenti psicoterapeutici, la psicoanalisi è senza alcun dubbio il più potente", Freud (1932) concludeva che, come terapia, si tratta "della prima inter pares" .

     

    Melanie Klein, invece, di fronte alla domanda "lei come farebbe la psicoterapia?" rispondeva seraficamente "non so cosa dirle, io non saprei farla" (Klein, 1958). In anni ancor più recenti Masud R. Khan (1989), che si dichiara psicoterapeuta e psicoanalista, scrive di avere appreso il metodo psicoanalitico dai suoi maestri e supervisori più o meno illustri, e la psicoterapia: «da mio padre (il Raja Fazaldad Khan) tra i nove e i diciannove anni: si prendeva cura, in modo davvero globale, dei nostri contadini».

     

    L'atteggiamento di fondo della psicoanalisi nei confronti della psicoterapia, al di là dei suoi feroci scontri interni, è stato e rimane quello un po' bonario e un po' sprezzante del suo fondatore convinto dell'impari confronto tra la sua disciplina, "l'oro",  e le altre, "il bronzo". (Freud, 1918).

     

    In perfetta sintonia con tale atteggiamento, la società italiana di psicoanalisi vedeva come disturbante il costituirsi di una categoria di psicoterapeuti con riconoscimenti tanto forti (la specializzazione) da adombrare in qualche modo il titolo di psicoanalista e comunque chiedeva e otteneva di non includere le attività analitiche tra quelle normate. 

     

    Questa decisione si sarebbe rivelata un autogol: primo perché tutti (o quasi) si sarebbero posti il problema di una psicoanalisi che non è terapia (dunque cos’altro è? a cosa serve?); secondo perché quel gran rifiuto avrebbe dato adito a tutti gli psicoterapeuti-non (non laureati, non ammessi etc..) di continuare a lavorare chiamandosi psicoanalisti (titolo non regolamentato dalla legge e quindi suscettibile d'essere utilizzato da chicchessia). Tema questo che infiniti contenziosi ha sollevato negli anni seguenti. Tema che a tutt’oggi occupa aule di Tribunale e sul quale la giurisprudenza fatica a trovare una linea universalmente accettata.

     

    b) Le grandi scuole non analitiche.

     

    Se le scuole psicoanalitiche, forti della loro storia e tradizione, vedevano con certa insofferenza il nascere dell'ordine professionale (soprattutto perché per quella via si pretendeva di regolamentare la psicoterapia), di tutt’altro orientamento, specularmente opposto, erano le nuove e "rampanti" scuole non analitiche o, se analitiche, non ortodosse. 

     

    La legge di ordinamento, con l'acclusa regolamentazione della psicoterapia, avrebbe sancito la loro piena affermazione e confermato quella legittimazione già esistente in conseguenza dell'aver conquistato posizioni nell'università e nei servizi pubblici.

     

    La nascita delle facoltà di psicologia aveva già immesso nelle università molti psicoterapeuti che avevano importato in Italia approcci statunitensi, quale la terapia familiare, il comportamentismo e il cognitivismo, l’approccio rogersiano, etc.

     

    L'operazione ha di fatto favorito l'identificazione di una parte del mondo delle scuole con un’altra dell'accademia e così, mentre Kanizsa (1980) prima e Canestrari (1986) poi sosterranno la necessità di una formazione pubblica in psicoterapia (a far data dalla seconda metà degli anni Ottanta ci sarà una tendenza di una parte dell'accademia ad accreditare la specializzazione in psicologia clinica come una sorta di "superpsicoterapia" e a sminuire le scuole private), non mancherà chi, come Cancrini (1995) argomenterà circa la necessità della formazione esperenziale che l'università non può e non sa dare.

     

    Università e Ordine venivano visti dagli psicoanalisti come luogo prestigioso, ma accessorio il primo ed impalcatura indesiderabile il secondo. Per le nuove scuole si tratta invece della possibilità di porre fine al predominio della cultura analitica che fino agli anni Settanta pareva avere il monopolio della psicoterapia.

     

    Le nuove tecniche sono più semplici, maneggevoli, economiche, hanno buone basi epistemologiche e si prestano ad una "presa" nei servizi pubblici. La parola d'ordine delle nuove scuole è "qualità della formazione e della psicoterapia" (Cionini, 1995) ma anche, per ciò che attiene la formazione, "doppio canale pubblico e privato motivato dalla tradizione italiana ed europea". (Cionini, 1995). 

     

    Veramente la tradizione italiana ed europea sarebbe stata di formazione solo (o quasi) privata ma se per altri (del pubblico e del privato) il "doppio canale" appare come un compromesso, per queste scuole, con i loro solidi agganci nel mondo accademico, la soluzione è ottimale, poiché la loro sopravvivenza, nell'uno o nell'altro versante e meglio se in tutti e due, appare comunque tutelata.

     

    c) Le piccole scuole di orientamento analitico e non.

     

    L'aggettivo piccolo è usato in senso molto ampio. Si riferisce sia a quelle realtà formative oggettivamente piccole (per struttura, per numero di allievi e di docenti) sia a realtà anche grandi e storicamente affermate, ma che per qualche motivo, o legato alla figura del fondatore, o all'area culturale da alcuni ritenuta di confine rispetto alla psicoterapia (si pensi alle aree ipnologiche o alla sessuologia), o ancora per complesse vicende politico culturali e professionali, sono rimaste "piccole" nella loro influenza e relegate ai margini della categoria non tanto nei fatti, quanto nell'immagine (Stampa, 1993).  

     

    Il tentativo di questo complesso, variegato e numericamente maggioritario mondo sganciato dalle istituzioni pubbliche, accademiche o sanitarie di darsi peso e forma è molto faticoso e, prima dell'approvazione della legge, solo le scuole di orientamento analitico riescono a sviluppare, nella CNP, “Consulta Nazionale Permanente Istituti di Formazione in Psicoterapia ad orientamento analitico” presieduta da Giancarlo Ceccarelli, una seria organizzazione che, verso la fine degli anni Novanta confluirà nella SIPAP (Società Italiana Psicologi Area Professionale).

     

    Le difficoltà sono grandissime. Mentre la psicoanalisi aveva un’identità e un’autorevolezza tale da potersi consentire di imporre propri punti di vista al legislatore e di correre il rischio che alcuni "laici" (non medici) potessero essere denunciati per abuso della professione medica o psicologica. Per ironia della sorte, sostiene Lombardo (1994) che proprio Cesare Musatti ed Emilio Servadio non laureati in medicina e fondatori della società psicoanalitica italiana avrebbero potuto incorrere, con la loro attività privata, in disavventure di tipo giuridico e le grandi scuole non analitiche potevano contare sul solido anche se recente appoggio dell'accademia e della classe medica. Mentre i pubblici dipendenti avevano problemi di identità ma non di legittimazione, derivata direttamente dallo Stato, la piccola scuola e il libero professionista privato, pur avendo identità professionale ben definita, dovevano vivere in penombra mancando loro la piena e ufficiale legittimazione.

     

    La nostra categoria ha sempre avuto bisogno dei suoi "selvaggi" e nell'area delle piccole scuole facilmente liquidabili come «..una miriade di aziendine, spesso improvvisate e commerciali, che abbindolano i giovani psicologi, e spesso sbandati di ogni tipo....» (Lo Verso, 1986) si potevano individuare i suddetti "selvaggi" rispetto ai quali tutti uniti erano pronti a lanciare i loro strali.

     

    Ed è in parte da questo mondo, costituito da colleghi che non avevano saputo o potuto utilizzare le norme transitorie per entrare nell'Ordine, o che erano entrati ma malvisti perché non laureati in psicologia e talvolta non laureati affatto, che emergeranno con il tempo e si struttureranno le nuove professioni di ambito psicologico. Negli anni Novanta la comunità professionale degli psicologi, appena nata, ignorando e spesso disprezzando quel mondo, perderà una grande opportunità, quella di articolarsi in professione organizzata ed autorevole, capace di differenziarsi nel rispetto della propria storia (e delle proprie storie) in molti segmenti, ognuno con specifiche funzioni e competenze, tenuti insieme da un unico contenitore.

     

    Spazio Zero

     

    Il Movimento per una psicoanalisi laica è nato nel 1995, a seguito della giornata di lavoro sul La psicoanalisi e la legge italiana sulla psicoterapia, svoltasi a Padova il 22 Aprile.  

     

    In realtà il nome originario fu suggerito da Pier Francesco Galli ed era, come ricorda Ettore Perrella (2014), SpazioO ("O" rappresenta, nel linguaggio bioniano, l'ignoto, l'inconoscibile, ciò che non si è ancora evoluto). 

     

    Il Movimento si costituisce a partire da un reticolo di persone appartenenti a varie scuole e tendenze, che si propongono d'insistere, coerentemente con le premesse stabilite da Freud fin dal 1924 sul carattere laico, vale a dire né medico né psicologico, della pratica analitica.

     

    Nessun Legislatore, questa la tesi di Spazio Zero, può normare specificamente, vale a dire oltre la legislazione ordinaria, nessun campo, se farlo comporta un disconoscimento della tradizione che in esso si è espressa.

     

    A tale proposito il Movimento fa notare che:

     

    1. Da una lettura degli Atti parlamentari relativi alle discussioni della Commissione legislativa, si desume chiaramente che la psicoanalisi, in quanto tale, non rientra in alcun modo nei criteri di formazione professionale dello psicoterapeuta, stabiliti dalla Legge 56 del 1989.

    2. L' esclusione della psicanalisi dal testo di legge è motivata dalla intera tradizione psicoanalitica fin dal tempo di Freud. A tale proposito

    a. gli insegnamenti impartiti dalle facoltà di Medicina e Psicologia non sono né necessari né sufficienti per coprire tutto il ventaglio delle materie di studio poste da Freud alla base della formazione dello psicoanalista;

    b. l' analisi personale è considerata da tutte le componenti del movimento psicoanalitico come un aspetto indispensabile di tale formazione;

    c. molti dei massimi protagonisti nella storia della psicoanalisi non provenivano affatto da una formazione medica o psicologica, ed alcuni di loro non avevano mai conseguito alcuna laurea;

    d. il tipo di relazione che si deve instaurare tra analista e paziente richiede che la funzione simbolica tra i due non sia fissata in partenza né tanto meno incarnata da un'istanza estranea alla relazione stessa, come sarebbe quella fondata su presupposti di tipo giuridico, per esempio legali, professionali o associativi.

    3.  La sola via giuridicamente percorribile per normare la pratica analitica, senza tradirne i presupposti etico-scientifici, è quella dell'autoregolamentazione, adeguatamente resa pubblica. Solo così la formazione di ciascun analista può avvenire fuori da meccanismi di cooptazione istituzionale e ogni sua tappa essere resa nota senza mistificazioni.

     

    Spazio Zero non ebbe, come movimento, lunga vita. Ma i principi affermati in quell’occasione ebbero grande eco e favorirono importanti dibattiti sul rapporto psicoanalisi-psicologia. In particolare Spazio Zero commissionò ed ottenne nel 2000 dal Prof. Francesco Galgano, Professore Ordinario di Diritto Civile all’Università di Bologna, il parere pro veritate sull'applicazione della legge 56 del 1989. Tale preziosa consulenza, unitamente al lavoro di assistenza legale svolto dal MoPI, associazione da me presieduta, portarono, tra fine anni 90' ed il 2011 ad ottenere una serie di sentenze che andavano nella direzione di differenziare l'attività psicoterapeutica, riservata a medici e psicologi, da altre attività affini, tra le quali la psicoanalisi laica, che andavano lette come professioni non regolamentate. Nel 2011 arriva però la pessima sentenza della Corte di Cassazione n. 14408 che così testualmente si esprime :

     

    «Né può ritenersi che il metodo "del colloquio" non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v'è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un'attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l'anoressia) il che la inquadra nella professione medica.»

     

    Sentenza che segna una battuta d'arresto in campo giurisprudenziale e che solo recentemente, nell'agosto 2017, pare poter essere superata da una nuova sentenza di Cassazione (n. 39339/2017) che afferma:

    «Vale, quindi, una nozione di attività psicoterapeutica teleologicamente orientata, che prescinde dalle modalità (che possono essere scientificamente collaudate o meno) con cui l'attività si esplica e richiede che essa abbia come presupposto la diagnosi e come obiettivo la cura di disturbi psichici. Questa interpretazione è in armonia con la ratio dell'art. 348 cod. pen., che mira ad evitare che sia messa a repentaglio la salute psichica del paziente: non è necessario che il soggetto non qualificato si avvalga di una delle metodologie proprie della professione psicoterapeutica, ma è sufficiente che la sua azione incida nella sfera psichica del paziente con lo scopo di indurne una modificazione, che potrebbe risultare dannosa».

     

    Ci sarebbe molto da dire. E certo il testo non è un granché. Tuttavia malgrado la debolezza del testo, (tutte le azioni di chiunque incidono sulla sfera psichica di qualcun altro e spesso, come nel caso dell'insegnamento, o dell'allenamento o della formazione, tali azioni si prefiggono di indurre modificazioni e, inoltre, tanto per evidenziare un'altra ambiguità, non esiste giuridicamente la professione di psicoterapeuta),  se vogliamo essere ottimisti e vedere positivo possiamo certamente dire che questa Sentenza è, in meglio, un’evoluzione della precedente citata. In meglio perché oggi viene fissato in maniera chiara un "paletto" che può godere di ampio consenso e che, per il fatto di essere sufficientemente chiaro, diventerà a mio avviso il nuovo "faro" giurisprudenziale.

     

    Il paletto è il seguente:

    «Vale, quindi, una nozione di attività psicoterapeutica teleologicamente orientata, che prescinde dalle modalità (che possono essere scientificamente collaudate o meno) con cui l'attività si esplica e richiede che essa abbia come presupposto la diagnosi e come obiettivo la cura di disturbi psichici».

    Per l'esperienza che personalmente possiedo quanto ad aule di Tribunale e processi per esercizio abusivo della professione di psicologo, ciò significherà che, da oggi in avanti, l'attenzione dei Tribunali si sposterà dall'indagare i "metodi" (se più o meno simili a quelli adottati dagli psicologi) all'indagare i presupposti ed i fini (se riassumibili o meno nella combinazione diagnosi/cura). Ove realmente ciò accadesse, potremmo dire che con questa Sentenza la Cassazione ha compiuto un significativo, sia pur timido, passo nella direzione della chiarezza.

     

    L’eredità di Spazio Zero, dopo varie vicissitudini, verrà raccolta dal Coopi - Coordinamento degli Psicoanalisti Italiani, nato nel 2012. Il Coopi è un'associazione di categoria professionale che rappresenta la professione dello psicoanalista. L'organizzazione è costituita da molte associazioni psicoanalitiche e da singoli professionisti, per tutelare i loro diritti e promuovere i rapporti con le istituzioni e la società. Sono appartenenti al Coopi i singoli professionisti (non necessariamente psicologi o medici) che ne siglano gli standard e ne rispettano l'autoregolamentazione interna.

     

    Una lucida metafora del disagio della professione: La dicotomia di Musatti

     

    Come già detto, sino al giorno della sua morte, Cesare Musatti non fu mai sfiorato dal dubbio che quelle che considerava due professioni nelle quali eccelleva (percettologo e psicoanalista) avessero qualcosa in comune. Forse aveva ragione. Certo che quella sua “cocciutaggine” ben può essere emblematica del nodo ancora irrisolto che agita le acque delle nostre discipline. Non voglio qui avventurarmi in disquisizioni teoretiche che potrebbero apparire fuori contesto. Pongo la questione in termini politico professionali ovvero all’interno dell’ambito nel quale meglio mi muovo.

     

    La psicoterapia, che in molti paesi del mondo è professione di minor pregio rispetto a quella di psicologo, per motivi meramente politico sindacali si è configurata nel nostro paese come specializzazione (dei medici e degli psicologi). Ciò ha costretto a non poche forzature nel tentativo di dimostrarne la scientificità, assumendo come modello di scientificità quello delle scienze naturali (perché solo su questo livello è possibile competere con la medicina). Ha costretto cioè a vere acrobazie necessarie per dire che, come per la medicina, la clinica è rigidamente collegata alla ricerca scientifica, è l’applicazione dei risultati che la ricerca scientifica produce.

     

    Ora, posto che personalmente ho molti dubbi circa questo collegamento che considero ardito, posso anche accettare che collegamento in alcuni casi vi sia. Posso anche accettare il fatto che comunque, anche quando come più frequentemente accade il collegamento sia non con le scienze naturali bensì con le scienze umane, il tentativo di riallacciarsi alle prime possa essere nobile. 

     

    Ma il vero disastro è maturato altrove. Mutuando la forzatura operata sulla psicoterapia e autoconvincendosi che quella che è nata come esigenza politico sindacale fosse una evidenza scientifica, la comunità degli psicologi è andata oltre pretendendo di “clinicizzare” ogni competenza che lo psicologo possieda. Siccome accade che lo psicologo abbia davvero molte competenze professionali, ecco che emerge la brillante idea di “sanitarizzare” ogni forma di relazione di aiuto che dunque, una volta “sanitarizzata” diventa “saggio” attribuire alla esclusiva competenza dello psicologo.

     

    Nasce così una cultura professionale distorta e spesso lo psicologo, che a buon titolo avrebbe potuto essere il naturale referente di un mondo professionale assai vasto, si trasforma invece in un “arrabbiato” e bilioso concorrente di tutti coloro che osino utilizzare competenze psicologiche (quelle competenze che lui avrebbe il compito di diffondere e che invece ritiene di doversi tenere per sé). 

     

    Risultato: gli psicologi sono soli e sempre meno influenti nel contesto sociale. Si può affermare, in altri termini, che la comunità professionale ha sbagliato l'analisi della domanda: mentre la società chiedeva competenze psicologiche, gli psicologi offrivano “terapia”, definendo così ogni loro singolo atto professionale e potendo in questo modo, illusoriamente, rivendicare riserve.

     

    E’ anche così che, come vedremo, nascono le nuove professioni di ambito psicologico, occupando spazi che gli psicologi hanno prima ignorato, poi, nello scoprire che vi era mercato, rivendicato.

     

    Il contesto in cui nascono le professioni affini alla psicologia

     

    Assistiamo dunque, in modo sempre più pronunciato, a due fenomeni contrapposti: da un lato l'idea di una sanitarizzazione della psicologia parallela al tentativo di questa disciplina di porsi come "esclusivista" dell'intero mondo delle relazioni di aiuto; dall'altra, la nascita, "motu proprio" o per impulsi provenienti da altri angoli del mondo, di una serie di nuove professioni con le proprie logiche, le proprie regole e alla fine un sempre più ampio riconoscimento attraverso la legge 4/2013.

     

    Occorre ricordare che la psicologia ha dimostrato negli ultimi cento anni di essere l’unica tra le scienze umane a dotarsi di una strumentazione professionale altamente qualificata. Sotto la bandiera della psicologia si sono oggi affermati molti professionisti ovvero persone capaci di trasformare la disciplina in servizio e vivere con i proventi di tale servizio. Difficile poi contestare il fatto che siamo nell’epoca dell’emergere (o del riemergere?) del paradigma della soggettività. In questo contesto la psicologia (e la psicoterapia), per essere a tale paradigma legata sin dalla sua nascita, può essere il collante che lega e collega molte professionalità diverse nell’ambito delle scienze umane.

     

    Ancora c’è da dire che la società, intesa nel senso delle sue istituzioni e del suo ordinamento, è più capace di informare che di formare. Le strutture educative di ogni livello (se si escludono forse scuola dell’infanzia e asili nido che assolvono il compito formativo primario della socializzazione) sono, università compresa, agenzie di informazione piuttosto che enti di formazione, lontane dalla gestione degli affetti e delle relazioni.

     

    Ecco allora che si fa strada l’ipotesi di una formazione di base sulla gestione delle relazioni umane, in cui concepire in modo diverso e maggiormente integrato le strutture educative. Ipotesi che coinvolge, a vario titolo e con vari ruoli numerose e diverse figure professionali. Oltre ai filosofi o sociologi, che talvolta si “inventano” figure professionali, si aprono corsi di laurea per educatori professionali o infermieri e altri corsi di scienze della formazione o della comunicazione, che dovranno trovare uno sbocco lavorativo. Di tutto ciò l’Università (non le facoltà di psicologia, ma l’accademia nel suo complesso) è oltre che sostenitrice, stimolatrice. In altri termini, tali discipline stanno (legittimamente) cercando nuovi spazi professionali, molto spesso invidiando gli psicologi che tale spazio hanno ottenuto (almeno più di loro). 

     

    Tutto ciò non solo non pare minimamente interessare gli psicologi ma talvolta addirittura attira la loro furia e i loro strali. Ma se tutti gli operatori che si occupano di tutto ciò avessero un buon rapporto con il mondo della psicologia, la società non ne trarrebbe vantaggio? Non ne trarrebbero vantaggio anche gli psicologi?

     

    Una volta ottenuta una legge che riconosceva e regolamentava le loro attività, ottenuta la facoltà di gestirsi in grande autonomia tale legge, anziché difendere i loro poliedrici valori nei confronti dell'esterno sostenendo le proprie specificità, gli psicologi si preoccuparono anzitutto di liberarsi di colleghi ritenuti “selvaggi”.

     

    Se ripercorriamo la Storia della psicologia, ma soprattutto quella mai scritta della psicoterapia italiana, ci imbattiamo, sin dalle origini, in un mito, quello del "selvaggio" (psicoanalisi selvaggia prima, psicoterapia selvaggia poi). Un mito che non ha riscontro in altre professioni (non esistono medici selvaggi, avvocati selvaggi, ingegneri selvaggi) e che è stato per vari motivi alimentato sia dall'interno della categoria stessa sia dall'esterno.

     

    Nella neonata comunità degli psicologi fu subito scontro durato una quindicina di anni fino a diventare oggi sempre più una scissione. La principale attività del nuovo Ordine pareva essere quella di tentare di erigere solidi steccati a tutela degli interessi, o presunti tali, di coloro che ebbero la ventura di trovarsi “dentro” a scapito di coloro che rimasero “fuori”.  Come se “l’essere dentro” e l’essere dentro in minore numero possibile, costituisse di per sé garanzia di qualità per gli utenti e di lavoro per i professionisti.

     

    Inoltre, fuori dall’Ordine degli psicologi, e quasi sempre alimentate da psicologi a qualche titolo “insoddisfatti” della gestione della loro comunità, si introducono in Itallia in queste circostanze nuove professioni importate: counseling, mediazione familiare, coaching, etc…, professioni di aiuto a pieno titolo, appartenenti all’ambito psicologico.

     

    Ci si sarebbe potuti aspettare che, rappresentando la legge 56/89 una conquista dell'intera professione e la sua pubblica legittimazione, finalmente si sarebbe preso atto di una realtà comune, cogliendo la categoria con le sue molteplici articolazioni e contraddizioni. Era il punto di partenza per promuoverla, rafforzarla e farla evolvere. Invece da subito l’approccio fu fortemente corporativo.

     

    Il corporativismo è la tendenza di un settore professionale all'affermazione esclusivistica di propri interessi o privilegi. (Cofrancesco & Borasi, 2010)

     

    Tralascio gli aspetti dottrinali, quelli storici e di organizzazione dello Stato che qui poco interessano. Ciò che a me preme è indagare sull’opportunità politico professionale di abbracciare tale tendenza. Il pensiero ingenuo che sta dietro il corporativismo è più o meno il seguente: "meno siamo meglio è". Articolandolo un poco potremmo anche descriverlo così: "Se il mercato offre uno spazio, esprime una domanda, e a dare risposta a quella domanda siamo in pochi qualificati, ne trarranno beneficio sia gli utenti sia i pochi professionisti qualificati coinvolti."

     

    Pensiero ingenuo ed illusorio e, per quanto riguarda gli psicologi, fuorviante per almeno tre motivi:

    1. Non siamo in pochi. Gli psicologi in Italia sono 100.000 e il loro numero è in continuo aumento. Per me è un bene. Ma osservo che ciò significa che le politiche corporative condotte da chi ci dirige negli ultimi trent’anni non hanno, dal punto di vista di chi le ha attuate, funzionato.

    2. L'attuazione di una politica corporativa richiede l'intervento attivo dello Stato, della legge che riservi il mercato ad una determinata comunità professionale. E sia lo Stato Italiano sia l'Unione Europea non sono propensi ad andare in questa direzione (è questo il motivo legislativo e giurisdizionale per cui i nostri dirigenti non sono riusciti, come avrebbero voluto, a limitare il numero dei laureati, a limitare il numero degli iscritti all'Ordine, a limitare il numero delle scuole di specializzazione in psicoterapia, ad impedire lo sviluppo del counseling nel nostro paese).

    3. Il pensiero corporativo appare rabbioso, rivendicativo, rancoroso. Chiede che intervengano lo Stato e la Magistratura, chiede tutela e protezione senza così risultare attrattivo nella società odierna.

     

    Il pensiero corporativo ha danneggiato la psicologia in due modi:

    1. Non raggiungendo gli obiettivi che si era prefisso e dunque facendo decadere l'immagine e il ruolo della psicologia nella società.

    2. Rendendo la psicologia professionale ancella succube delle professioni sanitarie.

     

    Sul piano pratico. Le politiche sin qui condotte da chi ha avuto nella psicologia posizioni di potere e di governo (AUPI e la più giovane, ma forse più accanita Altrapsicologia) non hanno raggiunto gli obiettivi

    - di dare un autorevole ruolo sociale alla psicologia professionale

    - di assicurare ai colleghi né un dignitoso reddito né una dignitosa pensione

    - di costruire una comunità partecipe e orgogliosa della propria missione sociale

     

    Professioni affini non regolamentate

     

    Esporrò qui la nascita ed evoluzione di due principali attività professionali affini alla psicologia: la mediazione familiare e il counseling.

     

    1) La Mediazione familiare

     

    Nel 1994 la Regione Toscana, accogliendo un progetto da me presentato, approva il profilo professionale di mediatore familiare. E’ un atto di grande rilievo, che verrà poi replicato da molte altre Regioni italiane. Non mancano da subito le polemiche centrate sul fatto che questa specializzazione dovesse essere riservata agli psicologi. 

     

    Sul numero 2/97 del giornale dell’Ordine Nazionale degli psicologi compare l’articolo di V. Camerada e M.L. Ferraro dal titolo “Sino a che punto mediare?” Tale articolo, che faceva seguito ad un altro “A proposito di Mediazione Familiare...“ a firma di D. Cavanna apparso sul numero 1/97 dello stesso giornale, intendeva orientare il dibattito sulla Mediazione Familiare nella direzione di una presunta o auspicabile riserva di legge, a favore degli Psicologi, di questo nuovo settore professionale.

     

    L'attacco era motivato dal fatto che le lauree di accesso ai corsi di formazione fossero di norma psicologia, sociologia, filosofia, giurisprudenza, scienze dell'educazione, pedagogia. E che trattandosi di professione non regolamentata potessero essere possibili molte eccezioni, molte formazioni centrate soprattutto sull'esperienza. E naturalmente l'attacco finì nel nulla. Se è sacrosanto pretendere che chi fa Mediazione familiare abbia anche una formazione psicologica e che di tale specifica formazione debbano farsi carico gli psicologi, non si vede perché gli psicologi, soli e solo per il loro titolo, possano pretendere di improvvisarsi mediatori familiari. 

     

    Il cittadino sta cominciando a farsi carico dei propri conflitti e sempre meno intende affidarsi passivamente a terzi. Il mediatore né decide né cura, non esautora la coppia né un singolo componente di essa. In quanto terzo imparziale o biparziale (capace di identificarsi, di comprendere sia l’uno che l’altro coniuge al momento diventati incapaci di comprendersi tra loro), il mediatore familiare lavora con la coppia e la famiglia per sciogliere conflitti e per arrivare a un accordo soddisfacente a entrambe le parti e per il benessere dei figli.

     

    La professione si introduce in Italia a vent’anni dal referendum che affermò la volontà della maggioranza di mantenere la legge 898 del dicembre 1970 che introduceva nell'Ordinamento il divorzio. Occorre vedere tale figura nell’ottica dei cambiamenti che sono avvenuti nella cultura e nei costumi di fine millennio. Oggi separazione e divorzio sono configurati come possibili percorsi di vita, certamente né facili né felici, ma socialmente accettati. Percorsi che possono, alla fine, risultare più validi di un’unione forzata, anche e soprattutto per i minori coinvolti. Separazione e divorzio non sono più interpretate come “malattia” ergo l’intervento su di esse non potrà più essere meramente “curativo”. 

     

    A fine anni 90’ si introduce la Mediazione familiare nei Centri per le Famiglie della Regione Emilia Romagna; né prettamente educativi, né sanitari, né assistenziali, questi centri si propongono nell’intero territorio regionale come realtà che promuove la salute delle famiglie, in quanto nucleo fondante della società. Inizialmente offrono servizi di “agio” e passano, con l’introduzione dei servizi di Mediazione familiare, a occuparsi anche di “disagio”.

     

    Attraverso le associazioni di categoria, questa professione conquisterà sempre più consenso ed entrerà nei servizi pubblici di molte regioni italiane. A differenza della regione pioniera, altre inseriranno la figura del mediatore nei servizi sanitari e gestiti da psicologi – mediatori familiari (pur rimanendo professione non sanitaria). 

     

    2) Il Counseling

     

    Il 2 maggio 2000 la S.I.Co. - Società Italiana di Counseling, prima associazione professionale per questa categoria, nata nel 1993, è stata chiamata dal CNEL a far parte della Consulta delle professioni non regolamentate. Si tratta di un fatto assai più rilevante di quanto a prima vista possa apparire, destinato a creare discussioni e prese di posizione all’interno delle professioni regolamentate e in particolare all’interno del mondo degli psicologi.

     

    Per comprenderne appieno la portata sarà utile ricorrere ad un autorevole precedente, forse poco noto al grande pubblico degli operatori in ambito psicologico. Si tratta del Provvedimento n. 7410 / 99 dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

     

    Questa la storia:

     

    In data 4 gennaio 1999 l’allora Ordine Nazionale degli Psicologi segnalava all’Antitrust la presunta ingannevolezza di messaggi pubblicitari inerenti la pedagogia clinica: Osservava l’Ordine che le competenze vantate dai pedagogisti clinici erano in sostanza esclusive degli psicologi e che non esisteva alcun albo professionale di pedagogisti clinici.

     

    Il 16/7/99 l’Autorità garante della concorrenza e del Mercato, con il provvedimento citato, rispondeva che con riguardo a tale disciplina: «l’istruttoria ha messo in evidenza l’esistenza di una professionalità specifica in materia. Risulta infatti che il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro ha censito la professione di pedagogista clinico come ‘nuova professione’». 

     

    L’istruttoria ha evidenziato che l’esercizio dell’attività di pedagogista clinico non risultava condizionato al possesso di un titolo ufficiale o comunque pubblico abilitante e che l’adesione (ad associazioni che rappresentino la pedagogia clinica ndr) è volontaria e non obbligatoria per chi intenda svolgere la suddetta attività. Eventuali albi hanno dunque carattere privatistico.

     

    Si tratta di un pronunciamento esemplare poiché stabilisce due principi di grande importanza:

    1. Il CNEL censisce le nuove professioni e il fatto che un’associazione che rappresenta una nuova professione sia chiamata a far parte della Consulta delle professioni non regolamentate significa che tale professione esiste autonomamente rispetto a quelle ordinate.

    2. Per esercitare tale nuova professione non è necessario essere iscritti all’associazione accreditata dal CNEL.

     

    Molti anni dopo, come avremo più oltre modo di vedere, con la legge 4/2013 il Parlamento Italiano ricalcherà tale linea di fondo.

     

    Non vi è contraddizione fra i due principi. Anzi essi, sommati, rappresentano la logica che ispirerà la riforma delle professioni intellettuali nel nostro paese. 

     

    Da una parte si afferma che, affinché una professione esista giuridicamente, lo Stato deve conoscerne le caratteristiche. In questo senso la S.I.Co., per essere accreditata, ha dovuto dimostrare di avere delle procedure di accesso, un codice deontologico, dei criteri codificati per la formazione etc.. Dall’altra parte si ammette il dato ovvio che se una professione non è regolamentata, chiunque la può svolgere. Sarà però interesse delle società che rappresentano tale professione (che possono essere anche più di una) garantire il cittadino utente indirizzandolo verso quei professionisti che, associandosi, si autoimpongono codici di comportamento professionale pubblici e ostensibili.

     

    Già dal 2000 tutto ciò ha cominciato a valere per il counseling che da allora è divenuto in Italia una professione libera e autonoma svincolata da ogni pretesa di riserva degli Ordini professionali costituiti. 

     

    Ciò non è stato mai pacifico e negli anni i processi per abuso di professione intentati dagli psicologi contro i counselor si sono susseguiti. Veniva però, già da allora delineata una "griglia" successivamente rafforzata dalla impalcatura della legge 4/2013.

     

    Per esercitare tale professione non occorreva, come non occorre oggi, essere iscritti ad alcuna associazione. Tuttavia, avendo ottenuto la S.I.Co. l'importante accreditamento del CNEL ed essendosi data questa associazione regole codificate a tutela dell’utenza (esami di ammissione per i soci, codice deontologico, accreditamento di enti per la formazione etc..) molti counselor si iscrissero a tale società mentre altri scelsero la strada di dare vita a Società analoghe mirando ad ottenere lo stesso tipo di accreditamento.

     

    E la psicologia? Se esaminiamo il problema da un’ottica protezionistica (per gli psicologi) dobbiamo concludere che la psicologia subisce un brutto colpo in quanto il confine di questa professione sfuma irrimediabilmente (qualche ambiguità sorge anche sul versante della psicoterapia).

     

    Ma proviamo ad analizzare la cosa da un’ottica differente. Nessuna disciplina è in grado di affermarsi se non dà vita ad una seria rete di sviluppo inter ed intraprofessionale. Perché la psicologia non dovrebbe pilotare professionalità contigue verso la sua orbita? Perché non dovrebbe favorire la nascita di professionalità nuove quali counselor, mediatori familiari, musicoterapisti, animatori di comunità e tanti altri ancora, e porsi nei confronti di queste nuove professioni come fornitrice di competenze psicologiche?

     

    Ecco dunque che si delineava il progetto di una professione tutt’altro che debole o rinunciataria, tutt’altro che sminuita o esautorata. Il riconoscimento ottenuto dalla S.I.Co. non rappresenta allora un brutto colpo per la psicologia bensì l’iniziale affermarsi di una logica che potrebbe portare, come in effetti porterà, importanti e duraturi benefici al versante professionale delle discipline psicologiche. Sul piano del rapporto tra professioni lo psicologo dovrà abituarsi al fatto che egli non potrà rivendicare alcuna esclusiva professionale nel contesto della relazione di aiuto. In sostanza dovrà abbandonare più che privilegi concreti, privilegi fantasticati, poiché è ad ogni professionista noto che in questo settore non vi è mai stata alcuna reale esclusiva. 

     

    Dunque il passaggio sarà quello di dover considerare legittimo il professionista di nome Counselor colui che, fino a poco tempo addietro, veniva visto come “abusivo”. Superato il trauma, gli psicologi scopriranno poi anche i benefici di tale trasformazione. Infatti, in un mercato più libero, non solo si apriranno nuovi spazi per la formazione ma, cosa più importante, sarà possibile costruire un forte mandato sociale per gli psicologi che potranno, se agiranno una intelligente politica culturale, essere visti al vertice di una serie articolata di professionalità diverse. 

     

    Nel 2009 nasce un’altra associazione di categoria professionale: AssoCounseling. Si tratta di un’evoluzione importante poiché il mondo del Counseling (per la prima volta diretto da counselor e non da psicologi) si avvia con questa associazione, che presto diventerà leader nel settore, a costruire le proprie Istituzioni. 

     

    Pochi anni dopo, nel 2013 su impulso di AssoCounseling si costituirà Federcounseling, associazione che riesce a raggruppare, tramite le varie sigle aderenti il 70% dei counselor italiani, circa 8000 professionisti.

     

    La legge 4 /2013 sulle professioni non regolamentate

     

    Il 19 dicembre 2012 è stato un giorno importante per il mondo delle professioni nel nostro paese. Viene approvata quel giorno quella che diventerà la legge 4/2013 sulle professioni non regolamentate. Nella sostanza la legge ricalca fedelmente quella impalcatura che già abbiamo analizzato e che aveva preso forma nel 2000 attraverso il lavoro del CNEL e dell’Antitrust.

     

    La legge si riferisce a tutte le professioni che non sono organizzate in Ordini o Collegi professionali. Che vengono definite come attività economiche esercitate mediante il lavoro intellettuale. Un unico obbligo: tutti i professionisti che esercitano una professione non organizzata, sono obbligati, in ogni documento scritto, a far riferimento alla legge 4/2013.

     

    Viene introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il riferimento alle associazioni professionali: associazioni di natura privatistica, senza vincolo di rappresentanza esclusiva per la professione e su base volontaria. Quindi da una parte si ribadisce che l’esercizio delle professioni non regolamentate è libero e non vincolato, dall’altra si riconosce che più professionisti possano aggregarsi in forme rappresentative. Attraverso questa legge, viene introdotto nel nostro Ordinamento (sia pure a metà perché tutto ciò non riguarda le professioni ordinistiche), il sistema accreditatorio in contrapposizione al sistema autorizzatorio che caratterizza le professioni regolamentate (vedi articolo di Fani L. e Valleri T. in questo volume). 

     

    Con la nascita di Assocounseling prima e di Federcounseling poi e con l'iscrizione nell'elenco MISE dell' AIMEF (Associazione Italiana Mediatori Familiari) avvenuta nel maggio 2013, prende il via una nuova fase, che potremmo definire "istituzionale" dei rapporti tra la psicologia professionale e le nuove professioni non regolamentate appartenenti all'ambito psicologico.

     

    La legge n. 4/2013 può essere considerata una tappa decisiva verso la nascita, anche in Italia, di un moderno sistema duale, dove, in accordo con il modello prefigurato a livello comunitario, le professioni libere e le loro associazioni coesistono con un numero ben definito di professioni che continuano a essere strettamente regolate dalla legge, perché ritenute di particolare interesse pubblico o attinenti a interessi costituzionalmente garantiti. Fino alla emanazione della legge n. 4/2013, lo status di professionista intellettuale era limitato, nel nostro paese, soltanto a questa seconda categoria e comprovato dall'iscrizione a un albo, ordine o collegio. 

     

    La situazione di stallo, che vedeva naufragare ogni disegno di legge di riforma delle professioni, determinata soprattutto dai veti delle rappresentanze degli ordini, si è sbloccata soltanto quando alla Camera, constatata la difficoltà di emanare un provvedimento unico sulle professioni, il 9 giugno 2010 si è deciso di scorporare la riforma in due tronconi, affidando alla Commissione giustizia quella degli ordini e alla Commissione attività produttive quella delle associazioni. 

     

    Dopo il varo della legge il Presidente dell'Ordine Nazionale degli Psicologi dell’epoca, l'amico Luigi Palma, commenta l’evento con un articolo il cui titolo da solo riassume con chiarezza la posizione della dirigenza ordinistica «La legge sulle “professioni” non regolamentate: il nostro 11 settembre.»

     

    Titolo davvero infelice. Nessun cittadino, psicologo o meno, che abbia un minimo di sensibilità può consentirsi di paragonare un attacco terroristico che ha causato la morte di migliaia di persone a una legge di uno stato democratico. Quando poi questo cittadino ricopre un ruolo istituzionale (gli Ordini sono ancora, purtroppo, istituzioni) la cosa pare davvero grave.

     

    Ma, polemiche a parte, è su questa linea liberale sancita dalla Legge 4/2013 che nasce, nello stesso anno, il CIPRA - Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione d'Aiuto, movimento professionale culturale e politico con una prospettiva pluralista, cosmopolita e non etnocentrica, che mira a sostenere la libera integrazione tra le professioni, la circolazione dei saperi e il loro insegnamento, oltre che la scelta consapevole da parte dei cittadini (vedi a riguardo l’introduzione a questo volume dell’attuale presidente, C. Edelstein).

     

    Nel mondo della psicologia professionale si apre una nuova era. Piaccia o non piaccia va rafforzandosi dal 2013 l'idea di una "famiglia delle professioni di ambito psicologico" che affianca le tradizionali professioni di psicologo, di psicoterapeuta, di psichiatra. 

     

    Non cessano però le lotte: mentre AssoCounseling in un primo tempo ottiene l’inserimento nell’elenco MISE, il Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi (CNOP) ricorre al TAR avverso tale inserimento e, apparentemente il TAR Lazio, con la Sentenza 13020/15, abbraccia pienamente le tesi del CNOP sino a disporre l'immediata cancellazione di AssoCounseling dall'elenco MISE. La questione verrà discussa, nel febbraio del 2018, nell'appello proposto sia dal MISE che da AssoCounseling di fronte al Consiglio di Stato.

     

    Nell'attesa qualche riflessione. A ben leggere la sentenza è sorprendente perché fissa due principi in certo senso "esplosivi". Principi che, se confermati dal Consiglio di Stato, non mancherebbero di trasformare una presunta vittoria del CNOP in uno stato di "guerriglia professionale permanente", non solo nei confronti dei counselor ma del mondo intero.

     

    Principio n. 1: il disagio psichico, anche fuori da contesti clinici, rientra nelle competenze della professione sanitaria dello psicologo.

     

    Ora disagio psichico fuori dal contesto clinico è quello che può provare un lavoratore che perde il posto di lavoro, un amante che litiga con l'amata o una coppia che affronta una separazione, un atleta insoddisfatto del suo rendimento, un qualunque cittadino che si sia rotto una gamba, un insegnante che abbia una momentanea difficoltà a gestire una classe, un credente che sente di perdere la fede, un lavoratore precario che non riesce a programmare il proprio futuro, chiunque sia costretto dalla vita ad affrontare un normale lutto, per non parlare di questi tempi, di un comune cittadino che viva ad esempio nella città di Roma e che sia preoccupato (comprensibilmente) dai continui proclami dell'ISIS... e l'elenco potrebbe continuare all'infinito.
    Immaginare di sanitarizzare tutto ciò ed affidarlo all'esclusiva e "riservata" competenza di psicologi e psichiatri è a mio avviso, oltre che inquietante, concettualmente sbagliato e politicamente ottuso, semplicemente non attuabile. E dunque anziché a fare chiarezza nelle competenze professionali il principio introdurrebbe ulteriori confusioni.

     

    Principio n. 2: Purché non si faccia riferimento al disagio psichico il counseling può esistere.

     

    Il CNOP ha vinto la prima partita. Ma siamo ben lontani dall'avere fatto una qualche chiarezza. La questione mi ricorda molto da vicino, per esserne stato protagonista, quanto accadde con l'applicazione delle norme transitorie della legge 56/89.

     

    Ma, differentemente da allora i rapporti sono oggi istituzionalizzati tanto che, a contenzioso ancora aperto presso il Consiglio di Stato, l'Ordine Nazionale degli psicologi decide, a mio avviso con lungimiranza, di dar vita ad una Consensus Conference (CC) sul Counseling prevedendo la partecipazione di tutte le parti portatrici di interessi. Al di là dei risultati che tale iniziativa, ancora in corso, produrrà, si tratta di un cambio di rotta di grande rilievo. Ormai, quali che siano i pronunciamenti della Magistratura, è chiaro che la questione Counseling, e con essa quella di tutte le professioni di aiuto di ambito psicologico, è questione ufficiale alla quale vanno date risposte ufficiali.

     

    Questi gli obiettivi preliminari dichiarati della CC:

    - condividere tra la pluralità degli stakeholder la complessità della problematica del counseling nel contesto delle professionalità direttamente coinvolte;

    - identificare i “nodi critici” che caratterizzano l’impostazione teorica, metodologica ed applicativa in tema di counseling;

    - costruire un consenso tra gli stakeholder interessati sui temi caratterizzanti la funzione di counseling nelle sue diverse declinazione.

     

    Conclusioni

     

    La psicologia italiana nasce scissa. Psicologia sperimentale da una parte e psicologia applicata dall’altra corrono su binari paralleli senza mai incontrarsi per molti decenni. 

    Tale frattura pare ricomporsi, mai completamente, con la nascita delle prime facoltà di psicologia nel 1972 e, successivamente, con il varo della legge 56/89 di ordinamento della professione di psicologo. 

     

    Tuttavia, è proprio la legge di ordinamento, che porta in dote agli psicologi la riserva sulla psicoterapia, ad aprire nuove e ancor più profonde scissioni. L’impianto corporativo della legge, ma ancor più la miopia nella sua applicazione, portano da subito enormi contenziosi (vedi ad esempio l’applicazione delle norme transitorie) che ben presto si risolvono con la nascita di professioni “altre”. Certo di ambito psicologico ma che si muovono fuori dalle logiche istituzionali.

     

    Ma il disastro più grande arriva solo negli anni recenti. Quando la psicologia sempre più si orienta verso la sanitarizzazione. Ricordiamo il fatto che il dilemma se la psicologia sia professione sanitaria o meno non è un dilemma di natura scientifica. E' di natura politico professionale e origina dalla spartizione della psicoterapia tra medici e psicologi avvenuta negli anni 80' come compromesso tra le due corporazioni (con la benedizione dell'accademia).

     

    Nessun problema naturalmente quando la psicologia rivendica a sé stessa il ruolo di professione sanitaria. Io non condivido la scelta ma la trovo legittima. Diverso invece è quando la psicologia pretende di sanitarizzare non solo sé stessa bensì l’intero mondo della relazione di aiuto. Sanitarizzare la relazione di aiuto significa costruire il titolo per rivendicare a sé l’esclusiva sul campo. La società non può accettare una siffatta mostruosità. Così la psicologia trasloca. Lascia gli psicologi al loro destino e si delocalizza. 

     

    La psicoanalisi, dall'alto della sua tradizione, ha abbandonato gli psicologi ancor prima del varo della legge Ossicini. Subito dopo si è trasferita altrove la psicologia del lavoro: piuttosto che il titolo di studio del professionista, in azienda si apprezzano più i risultati conseguiti. Nel mondo della formazione essere psicologo è più un handicap che una carta di pregio. Sta migrando altrove anche la psicologia giuridica, sempre più insidiata dal fascino interdisciplinare della criminologia. Nella psicologia dello sport, dove il trasloco è ormai completato, è assai più adeguato qualificarsi come coach e non come psicologo.

     

    La psicologia umanistica resiste alla tentazione, ma siamo agli sgoccioli: là fuori ad attenderla il sempre più robusto mondo del counseling. Quando la psicologia non trasloca viene sfrattata. Gli educatori stanno tentando di liberarsi degli psicologi che "abusivamente" esercitano la professione di educatore...

     

    La psicologia, dal mio punto di vista, è disciplina "orizzontale" necessaria in ogni dove; compito primario dello psicologo è trasmettere competenze psicologiche. Trasmettiamo competenze psicologiche all'individuo quando facciamo terapia (ciò ci differenzia profondamente dai medici che per "curare" solo molto marginalmente trasmettono competenze mediche, prevalentemente "tagliano", "cuciono", "aggiustano"). Persino in fase diagnostica la trasmissione di competenza è centrale tanto che assai spesso il percorso diagnostico in psicologia diventa esso stesso terapia. Trasmettiamo competenze psicologiche agli individui o ai gruppi quando ci occupiamo di psicologia giuridica o di psicologia dello sport o di psicologia del lavoro. Lo stesso quando ci occupiamo di rapporti di coppia o di organizzazioni o di formazione.

     

    Assumendo questo punto di vista, la nostra disciplina sarà tanto più ricca quanto più ibridata. La competenza psicologica non è una tecnica, è una "maturazione" tesa verso l'equilibrio tra l'ambiente proprio e quello "altro". Tra l'interno e l'esterno. Equilibrio per perseguire il quale non una ma infinite tecniche sono plausibili e mai una sola è decisiva. Il sapere multidisciplinare, quello della filosofia, della medicina, dell'antropologia, della fisica, dell'etologia, della sociologia e della letteratura e altro ancora, sta all'origine della psicologia. Noi abbiamo dal mio punto di vista il dovere professionale ed etico di rimanere collegati a tali saperi.

     

    Il mio impegno, e quello dei colleghi che mi onoro di rappresentare, è quello di cambiare le regole e non quello che erroneamente ci viene attribuito, di abolire ogni regola. Anzi, seguendo il modello accreditatorio che ispira il nostro lavoro, la selezione sarebbe certamente più rigida (ma anche più sensata) rispetto a quanto attualmente avviene.

     

    L'organizzazione professionale di questo nostro articolato mondo dovrebbe a mio avviso essere impostata su politiche accreditatorie che consentano:

     

    a) Di fornire al cliente/utente/paziente una informazione chiara e corretta circa le competenze professionali ed i titoli formativi del professionista cui si rivolge.

    b) Di differenziare tra loro le varie professioni attraverso associazioni professionali (reti) specifiche che garantiscano il cittadino circa le competenze e le specificità di ogni singola professione.

    c) Di differenziare tra loro le professioni attraverso il convenzionamento con stazioni appaltanti che richiedano specifiche competenze professionali (esempio la convenzione MoPI- Unisalute aperta a soli psicoterapeuti o l'analoga convenzione sulla psicologia dell'emergenza e psicotraumatologia).

    d) Di differenziare tra loro, all'interno di una stessa professione, i professionisti tenendo conto

    - della fattività dell'esercizio professionale (da verificare periodicamente)

    - del loro costante aggiornamento (da verificare periodicamente)

    - delle loro specializzazioni possedute ed effettivamente praticate (da dimostrare periodicamente)

    - della anzianità di esercizio professionale realmente maturata.

    Per ogni singola professione dovrebbero essere individuati almeno tre livelli verticali nei quali collocare il professionista (basic, senior, supervisor) e un numero più ampio possibile di livelli orizzontali (le specializzazioni)

    e) Di differenziare tra loro i professionisti prevedendo una mobilità di carriera (chi perde nel tempo dei requisiti scende di livello, al contrario chi è più meritevole sale rapidamente di livello)

    f) Di tenere unite le tante differenze descritte attraverso politiche che favoriscano il lavoro interdisciplinare, la creazione di studi associati, il passaggio da una professione ad altra limitrofa in modo fluido, con la semplice acquisizione delle competenze mancanti.

     

    Io sono psicologo. Mi fa piacere che la psicologia possa vivere anche al di fuori delle proprie istituzioni. Mi intristisce però questa situazione e, come sempre, continuerò a lavorare per far sì che queste nuove scissioni vengano superate, per far sì che nella casa della psicologia ci sia posto per le differenze, per la pluralità, per il benessere e per tutte le infinite professioni che il nostro sapere ci consente di costruire in collaborazione con i tanti altri saperi che abitano il mondo.

     

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