Psicoanalisi e laicità
Ivan Ottolini (a cura di)
M@gm@ vol.13 n.3 Settembre-Dicembre 2015
COMMENTO A CASSAZIONE PENALE (SEZ. VI 23/3/2011 H. 14408): MA LA PSICOANALISI NON È UNA PSICOTERAPIA
Roberto Cheloni
cheloni.r@gmail.com
Psicoanalista e Didatta dell'Istituto di Ricerca Scientifica “Sigmund Freud”, sede di Treviso. Ha conseguito nel corso degli anni quattro lauree, che gli permettono di lavorare su discipline molteplici, non escluso il versante giuridico. Le sue ricerche e i suoi studi, tra clinica e teoria, da oltre vent'anni sono indirizzati all'approfondimento ed alla diffusione del Transgenerazionale.
Pare “di spirito profetico dotata” -traguardata da una recente sentenza della Corte di Cassazione (sez. VI, n.14.408 del 23 marzo 2011)- l'affermazione di uno dei decani della Facoltà di Psicologia dell'Università di Padova (l'istituzione dei primi corsi di laurea in Psicologia -a Padova e a Roma- nel 1971, segnò l'ultimo atto del processo di istituzionalizzazione della psicologia nella società italiana): Gianni Tibaldi -che ricoprì l'insegnamento di Teoria della personalità, Psicologia applicata e -da ultimo- Psicologia della personalità a un anno di distanza dalla promulgazione della c.d. “legge Ossicini” (n. 56 del 1989) così affermava: «L'Art. 3 della legge n. 56 del 18.02.1989 (...) e i dibattiti che ne sono conseguiti, manifestano una sorta di "ostinazione", tanto più anacronistica quanto più la cultura psicologica internazionale sembra allontanare sullo sfondo la psicoterapia come disciplina e come problema (...). Dal punto di vista della legge (la cui logica è essenzialmente formale)per psicoterapia, in effetti, si può intendere soltanto quella forma di intervento che esplicitamente si definisce tale» (Tibaldi, 1990).
La più autorevole dottrina (Francesco Galgano, cfr. infra ad 1.1.) rileva immediatamente la caratura tautologica della “non definizione” della professione di psicologo (quella che si svolge “in ambito psicologico”) e la “non definita attività psicoterapeutica”, dal legislatore “impropriamente collocata” (...) «all'interno della neo professione di psicologo, nonché all'interno della professione medica» (Galgano, Parere pro veritate sull'applicazione della legge n. 56 del 1989 - Tribunale di Firenze 31ottobre 2003, in www. salusaccessibile.it).
Traslata nell'ambito della Giurisprudenza in tèma di Abusivo esercizio di una professione (art. 348 c. p.), la scotomizzazione di tali due rilievi costituirà l'"ossatura" (è evidentemente un ossimoro) della sentenza della Cassazione di cui ci occupiamo.
Ma l'intuizione di Tibaldi, traslata nell'ambito a noi più consono della dottrina, (Torre in Trattato Cadoppi: s.v. Abusivo esercizio di una professione) potrebbe così venir scritta e integrata: «Le sentenze qui riportate sembrano attribuire eccessiva rilevanza ad un atto formale, come l'iscrizione all'albo, che costituisce un requisito del tutto irrelato rispetto all'oggettività giuridica tutelata».
Gli è che -come è noto- secondo la dottrina maggioritaria l'art. 348 c. p. è da annoverarsi nel gruppo delle c. d. “norme in bianco”, all'interno delle quali già da tempo si è aperto l'annoso problema dell'errore: se alla legge extrapenale si demanda il compito di definire il comportamento vietato, l'errore sulla medesima si tradurrà sull'inescusabile errore sul precetto; laddove invece si interpreti la “norma in bianco” come comando, che rimette alla fonte extrapenale la determinazione di aspetti significativi della fattispecie astratta, in ipotesi di errore sulla legge extrapenale (risolvendosi l'errore in un errore sul fatto), la colpevolezza sarà esclusa ex art. 47 co. 3° c. p. (trascelgo in dottrina, ex multis, il contributo di Meini-Verdone, in Studium Iuris, 1, 2012, pp. 35-36).
Ecco perché non stupisce -nel ricorso alla Cassazione che esamineremo- sentire affermare la difesa che l'imputata poteva dirsi portatrice «della tranquilla convinzione di porre in essere un'attività lecita e di non esercitare abusivamente la professione di psicologo né l'attività di psicoterapeuta».
La dottoressa A.G., psicoanalista, faceva aggio su una tradizione consolidata nei tre continenti in cui la psicoanalisi si è diffusa, oltre che sull'esperienza generale di un'assenza di disciplina giuridica simile a quella delineata dalla “legge Ossicini” in Italia (cfr. infra), nata per stabilire «un assetto professionale dello psicologo», non per «dare uno statuto giuridico alla psicoterapia» (Viganò 1990).
Freud era stato ben chiaro: nel Poscritto (1927) e in Die Frage der Laienanalyse (1926, in Opere di Sigmund Freud, 10, 351-423) si legge: «Noi non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca col trovare posto nei trattati di psichiatria, al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti -come la suggestione ipnotica, l'autosuggestione e la persuasione- che nati dalla nostra ignoranza debbono la loro effimera efficacia soltanto all'inerzia o alla debolezza delle masse umane».
È proprio rinunciando all'azione diretta, al comando (c'è chi ha elencato puntigliosamente gli atti propri che connotano la terapia: seduzione, conversazione, intrattenimento, istruzione, consolazione, persuasione, dissuasione, pedagogizzazione, incoraggiamento, comando, etc.) che la psicoanalisi nasce; appunto, cioè, dall'abbandono della terapia (ipnosi, azione diretta e specifica, comando). Recentemente, nel dibattito dottrinale sulla questione dei rapporti tra Neuroscienze e Diritto, si è acutamente affermato che ciascuna esposizione dottrinale «persino la rassegna all'apparenza più neutra di risultati scientifici» è «carica di elementi di persuasione»; una «mossa argomentativa, tesa immotivatamente in una direzione» non obbligata, sussume -attraverso la recezione di ciò che negli U.S.A. viene denominato: “Sociotechnical Imaginaries”(come il rovesciamento storico-prospettico che pone la Psicoanalisi come species rispetto al genus psicoterapia)- come “provato”, ciò che non risulta neppure “probabile” (Lavazza-Sammicheli, 2012).
Come l'affermazione di un pregiudizio «a favore di una prospettiva scientifica che mette fin dall'inizio il diritto in una posizione ancillare» (Ibidem.) Gli autori si riferiscono all'inopportuno ingresso del Neurodirittonelle aule dei tribunali, sul quale argomento mi permetto di rinviarea Cheloni 2013), così «tali affermazioni circa la Psicoanalisi vanno provate (...) e giustificate con argomenti validi», tenuto conto dell'incertezza dello statuto epistemologico della psicologia, ben rilevabile nel Parere sul Progetto (19 luglio 1988) -relativo al nuovo Codice di Procedura Penale (1989)- espresso dal Consiglio Superiore della Magistratura, nel quale Parere spicca la soddisfazione circa la «scelta di notevole rilievo», con la quale fu «esclusa la possibilità consentita dal progetto precedente di disporre una perizia sulla personalità dell'imputato (così detta Perizia Psicologica), forse per l'incertezza che regnava nel mondo culturale sullo statuto scientifico della psicologia» (Pannain, Albino e Pannain, 1989, p. 844).
Ben più feroce, nei riguardi delle “psicoterapie”, il giudizio della dottrina: Franco Cordero, nella sua Guida alla Procedura Penale, così sprezzantemente si esprimeva: «Qualcuno depreca i limiti di cui all' art. 314 imputandoli a fobie antiscientifiche nonché alla mitologia del giudice onnisciente, ma tutto sommato, risultano alquanto ragionevoli: più che di una gratuita avversione curialesca alla scienza, il pericolo sta nel baccanale dei soi-disant scienziati; pullulano psicoterapeuti, maghi dell'anima guru e simili; dio sa cosa capiterebbe quando fosse ammessa una expertise psico-criminologica» (Cordero, 1986, p. 349).
Se manteniamo salda l'abissale distanza tra Psicoanalisi e le psicoterapie (bioenergetica, terapia ipnotica, logoterapia, psicosintesi, psicoterapia breve, psicoterapia cognitiva, psicoterapia costruttivista, psicoterapia comportamentale, psicoterapia sessuale, Gestalterapia, training autogeno, terapia relazionale emotiva...e potrei continuare, elencando le 60-70 Scuole private che hanno ottenuto il “riconoscimento” ai fini della formazione su 700 scuole di Psicoterapia esistenti), Cordero non aveva torto: l'Enciclopedia Britannica non lascia dubbi circa la sostanziale funzione di comando, di influenzamento (cfr. supra), indicata come fondamento nella voce dedicata alla Psicoterapia: «Lo sforzo di una persona o di un gruppo di persone inteso ad attenuare deficienze o disagi influendo lo stato mentale, le azioni e il comportamento del sofferente» (voce: Psychoterapy).
Che si tratti di uno “sforzo” atto a “influenzare” ben poteva sapere Cordero, al quale (classe 1928), ai tempi del suo apprendistato presso il romanista Giuseppe Grosso, ben sarà stato noto l'allora eclatante arresto della Suprema Corte (Cass. Pen., III, 10 dicembre 1952) che ribadiva la liceità della condanna del c. d. “Mago di Napoli” per il reato ex 348 c. p., avendo costui trattato una paziente con “metodi psicoterapici” consistenti nell'“emissione di fluidi vitali”, anche “a distanza”; in un altro processo contro il medesimo soggetto (in Archivio Penale, 1955, II, p. 245) si discuteva se si potesse -nei confronti dell'imputato- ravvisarsi la perfezione del reato di abuso della professione sanitaria, giacché l'intervento psicoterapeutico del Mago era stato autorizzato da un medico. Alla luce dell'art. 3 della “Legge Ossicini”, non vi ha dubbio che (come notò Giorgio Pes in un simpatico pamphlet), non indicando espressamente il significato del termine, anche la magia va annoverata tra le pratiche di psicoterapia.
Secondo la studiosa più accreditata nell'ambito della psichiatria forense (di cui agli art. 220 -sgg. del c.p.p.): Maria Teresa Collica, nel futuro della perizia psichiatrica (Collica scrive nel 2007): «(...) un ruolo determinante dovrebbero avere gli orientamenti di tipo psicoanalitico e antropofenomenologico, oltre che la criminologia e la medicina legale» (Collica, 2003, p. 196).
Il fatto di reato per cui si procede
L'imprescindibile momento relazionale, che connota il rapporto di cura, ha consentito da tempo ai giudici di forgiare regole proprie (e singolari), valide per tutti i soggetti che svolgono attività professionali caratterizzate da una competenza “tecnica”, la quale costituisce l'armamentario dei c. d. “saperi esperti”, la cui precipua caratteristica è l'“obbiettività”, correlato questo necessario, rispetto all'affidamento che la comunità ripone in tali professioni. Con tali premesse esaminiamo la sentenza de qua (completamente omologata su quella d'appello, avverso la quale l'imputata propose ricorso).
Ch. P., attraverso un esposto (datato 12 maggio 2003, protocollato il 31 maggio), aveva dato avvio al procedimento riguardante l'accusa di esercizio abusivo di una professione (quella di psicoterapeuta) nei confronti della dottoressa A. G., laureata in Medicina, la cui attività (attraverso l'analisi di fatture, materiale pubblicitario, biglietti da visita) faceva esclusivo riferimento all'attività di “psicanalisi” (sic! Alla francese: in Italia si fa riferimento -Associazioni, Società, Centri di formazione- alla psicoanalisi). Dopo una rilettura della disciplina, di cui agli art. 1, 2 e 3 della l. n. 56/1989, il Tribunale di Ravenna assolveva l'imputata, pervenendo alla conclusione che la “psicanalisi” non era una “attività protetta”, non richiedeva -quindi- veruna iscrizione all'albo professionale degli psicologi (cosa impossibile per la A. G., laureata in Medicina) né a quello degli psicoterapeuti, (e qui -ribadisce la parte civile: Ordine degli Psicologi dell'Emilia-Romagna nella sentenza n. 4021 del 2009- si precisa che la “psicanalisi” richiede soltanto un “semplice” -vedremo quanto!- “periodo di formazione” presso “un” -altra madornale imprecisione!- altro analista).
Il P.G. ribadiva che l'imputata non possedeva «un'adeguata formazione psicologica e psicoterapeutica», come previsto, giacché «l'indagine nel profondo dell'inconscio, lungi dall'essere aliena da interventi non incisivi sul destinatario», è «finalizzata proprio all'attività di cura». La sentenza della Cassazione di cui ci occupiamo, dà atto «dell'apprezzabile impegno profuso dalle difese dell'imputata e della costituita parte civile» nel rappresentare -secondo i rispettivi interessi- i «termini del non agevole tracciato del problema del diritto», attinente alla configurabilità, nella specie, del contestato reato di cui all'art. 348 c. p. in relazione alla l. n. 56 del 1989 (Cass. Pen., sez. VI, 23 marzo 2011 n. 14.408).
In sede di appello, nel suo atto di impugnazione, il P. G. faceva espresso riferimento (ed unico, come riferimento giurisprudenziale, aggiungiamo noi) a Cass. Pen., sez. III n. 2268 del 2008, in cui si affermava il principio di diritto secondo il quale la condotta dello psicoanalista non esclude la psicoterapia, caratterizzata non già dai “mezzi tecnici” adoperati, bensì dalla finalità della guarigione. La Suprema Corte (Cass. Pen., sez. II, n. 5838 del 1995) aveva a suo tempo affermato che «integra il reato previsto dall'art. 348 c. p. qualunque intervento curativo» (caratterizzato dal fine di guarire) «anche se si concreti nell'impiego di mezzi non tradizionali» (se ne ricava che la tradizione è la psicoterapia, che rappresenta il genus, di cui la Psicoanalisi -che opererebbe con “mezzi”, non “tradizionali” -sarebbe la species) da parte «di chi non sia abilitato all'esercizio».
Per qualunque “addetto ai lavori” in “campo psi”, risulta evidente che la sentenza di appello e quella di cassazione (suo clone, eccettuata la parte riguardante l'intervenuta prescrizione del reato), risultano “pilotate” (ispirate, colluse influenzate) dall'articolazione -in appello- degli argomenti proposti da parte civile (più che dal principio di diritto enucleato dal P. G., trascegliendo la giurisprudenza che collimava con gli argomenti prodotti dall'Ordine degli Psicologi). La “tranquilla convinzione” da parte della dottoressa A. G. di “porre in essere un'attività lecita” (cfr. supra a 1.0) era suffragata (si sosteneva nel processo di prime cure) da “autorevoli interpretazioni della materia in oggetto”, una delle quali -è lecito supporre (e la più autorevole, vista l'identità dell'estensore) - era il Parere pro veritate sull'applicazione della legge 56 del 1989, stilato da Francesco Galgano per il Tribunale di Firenze (cfr. supra a 1.0.), che conviene riassumere brevemente.
Il “Parere pro veritate” di Francesco Galgano
Il Parere (che si rivelerà -come si vedrà in prosieguo- dirimente) riguardava il caso di due imputati, Tizio, che effettuava «prestazioni di carattere psicoterapeutico e psicoanalitico, senza aver conseguito la laurea in psicologia e medicina, e senza essere iscritto all'Albo degli psicologi» e Caia, che, consentendo tale attività si svolgesse presso il proprio studio medico, «esercitavano abusivamente la professione di psicoanalista e psicoterapeuta senza l'abilitazione richiesta».
I quattro testimoni, citati quali “pazienti di Tizio”, erano concordi nell'affermare che le prestazioni effettuate dall'imputato si limitavano alla richiesta di raccontare i sogni e che mai Tizio effettuò una diagnosi o prescrisse medicine o esami o diede istruzioni o modelli comportamentali. Il teste indicato dalla difesa (lo psicologo dr. R. C.) accettava l'indiscussa opinione che la psicoanalisi nulla avesse da spartire con le “psicoterapie” (e che, pertanto, poteva essere svolta da Tizio quale professione “non protetta”, “libera”, non abbisognando del possesso di una laurea in Medicina o in Psicologia, né, tantomeno di un'iscrizione a un qualsivoglia “Albo”). A questo punto la difesa produceva in copia il Parere pro veritate del Prof. Galgano, sulle conclusionidel quale il Tribunale di Firenze pronunciava sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”; l'assoluzione “si impone anche per la coimputata” (R. G. N. R. 13571/97).
I punti nodali dell'argomentazione di Galgano sono i seguenti: in una prima parte storica si ricorda che la figura dello psicologo era stata prevista (per la prima volta) accanto a quella del medico psichiatra, dalla l. 18 marzo 1968 n. 431 (“Provvidenze per l'assistenza psichiatrica”) il cui art. 2 prevedeva la presenza di uno psicologo in ogni ospedale psichiatrico, mentre l'art. 3 ne contemplava l'assegnazione ai Centri (o Servizi) di Igiene Mentale istituiti dalle Province. Tre anni dopo, come è noto, venivano istituiti i primi corsi di Laurea in Psicologia (uno a Padova e uno a Roma). Per vedere compiutamente definita la funzione dello psicologo, bisognerà tuttavia attendere fino al 1984, anno in cui un D.P.R. (7 settembre 1984 n. 821) distingue tra “Psicologo dirigente” (art. 16), “Psicologo coadiutore” (art. 17) e “Psicologo collaboratore” (art. 18); resta di fatto che, sia la l. 431/1968 che la 5157/1971 (equiparante il trattamento economico dei dipendenti) hanno sempre ribadito la non equiparabilità (né la sovrapponibilità di funzioni) della professione di medico a quella di psicologo.
La stessa “legge Ossicini” (l. 18 febbraio 1989 n. 56), la quale -vale la pena di ricordarlo- introduce nel nostro ordinamento giuridico la figura professionale dello psicologo, ne tenta una definizione all'art. 1: «La professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità; comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito».
È evidente ictu oculi -nota Galgano- che si tratta «di una non-definizione, giacché la proposizione si risolve in un pleonasmo: la professione di psicologo è quella che si svolge in ambito psicologico».
In più, aggiungiamo noi all'illustre relatore, per ciò che riguarda la diagnosi(e la citata nonsovrapponibilità delle figure del medico psichiatra e dello psicologo -cfr. supra), come ricorda ancheCarbonara a proposito della definizione di “atto medico” (Carbonara 2011) è d'obbligo precisare che: lo psicoterapeuta «può iniziare a svolgere la propria attività solo nel momento in cui un medico abbia stabilito, sulla base, appunto, di una diagnosi differenziale se il paziente sia affetto da una patologia di carattere organico o funzionale, potendo solo quest'ultima venire curata attraverso un trattamento psicoterapeutico».
È pacifico in dottrina(Motta - Magliona - Benci - Norelli, etc.) che l'assoluta originalità dell'attoqualificabile comemedico, riposa sulla necessità che l'individuazione della cura sia preceduta da una formulazione diagnostica. E se la cura ben può essere affidata a una figura professionale diversa da quella del medico, soltanto la diagnosi è un atto medico; tutti gli altri atti andrebbero definiti “atti sanitari” (sul punto si veda almeno: Motta - Magliona, 2000).
Emerge prepotentemente, dai rilievi fin qui tracciati, l'estrema vaghezza (per non dire “fumosità”) delle formulazioni contenute nella c. d. “légge Ossicini”. Non dimentichiamo che la sentenza d'Appello del Tribunale di Bologna (che Cassazione 14408/ 2011 si limita a recepire nelle motivazioni, mai discusse sotto il profilo nomofilattico) ignora il lunghissimo iter che portò alla formazione della l. 56/1989, limitandosi a commentare la non menzione della psicoanalisi in questo modo: «Il fatto che non si citi la formazione dello psicoanalista e in genere la psicoanalisi non significa che, dopo averne dibattuto in sede di lavori parlamentari, si sia deciso di mettere da parte ogni regolamentazione e di lasciare lo svolgimento della psicoanalisi medesima completamente libero» (App. Bologna 12 maggio 2010).
Difatti, rifacendosi (puntualmente) alle argomentazioni di parte civile, così si conclude su tale punto nodale: «L'argomento storico è affascinante, ma prova troppo» (ibidem). All'opposto, come persuasivamente argomenta Francesco Galgano (ma vi è chi, puntualmente, ha notato che un'inserzione della Psicoanalisi nelle “psicoterapie” opererebbe «il miracolo della risoluzione ope legis di una discussione né sopita, né sopibile» -Contri 1999): (La Psicoanalisi) «si colloca in un ambito culturale affatto diverso da quello della psicoterapia presa in considerazione dalla légge Ossicini: è una scienza e un metodo che hanno anche applicazioni terapeutiche, ma che non si esauriscono in esse».
Così la tesi che la Psicoanalisi, essendo una forma di psicoterapia, non possa essere esercitata da persone sprovviste dei requisiti richiesti dalla legge Ossicini, «risulta destituita di fondamento giuridico. Si può anzi asserire che la psicoterapia in senso stretto (tecnico e) più ristretto si differenzia dalla psicoanalisi».
L'argomento storico non “prova troppo”: il legislatore, prosegue Galgano «consapevole della specificità della psicoanalisi, dopo un approfondito dibattito parlamentare, ha correttamente eliminato dal testo definitivo il richiamo alle psicoterapie ad orientamento analitico contenuto nel progetto di legge: la psicoanalisi non viene neppure menzionata nella legge 18 febbraio 1989, n. 56. Ciò significa che, gli psicoanalisti e le loro associazioni e scuole fuoriescono dall'ambito di applicazione della legge Ossicini».
Una puntualissima ricostruzione delle proposte legislative di Ossicini (che qui ritengo pleonastico riassumere, per l'esaustività con cui viene altrove trattato l'argomento) si rinviene alle pp. 51-71 di Viviani 2008. D'altronde, come rilevava Germano Bellussi (in Rivista Amministrativa della Regione Lombardia, passim, ma soprattutto a p. 1185), basta «riflettere sulla eccezionale rilevanza universalmente attribuita alla formazione clinica (e, nel proseguimento della professione, alla supervisione) in sede di percorso psicoanalitico, per rendersi conto della opportunità di regolare in modo differenziale le terapie analitiche e non».
Che l'Ordine degli Psicologi dell'Emilia Romagna fosse all'oscuro (ma è lecito dubitarne) della rilevante questione sollevata dall'affermazione, trapela da due passi (a uno dei quali abbiamo già fatto riferimento), della sentenza d'Appello, dove viene aggiunto l'aggettivo “semplice” all'espressione periodo di formazione presso un altro analista (ma anche questo è inesatto) che compariva nella sentenza assolutoria di primo grado; il P. G., su questa scia, richiamando Cass. Pen. III, n. 22268/2008, ribadisce che l'imputata «non aveva un'adeguata formazione psicologica e psicoterapeutica come richiesti».
È noto invece (ma vedi, più puntualmente e con tabelle e percentuali allegate, il lavoro di Maria Antonietta Trasforini 1990) che il training formativo, che si compone di molteplici tappe (e segmenti formativi correlati a ciascuna tappa): analisi personale/didattica, seminari, corsi, supervisioni, «ha consolidato un iter temporale che nella maggioranza dei casi va da 6 a 12 anni».
Questo aspetto non è ignorato da Galgano che -correttamente- aggiunge: «Infine, non si può tacere che la differenza fra psicoanalisi e psicoterapia si fonda soprattutto sotto l'aspetto della formazione professionale (...). Infatti la specifica formazione professionale richiesta dalla legge Ossicini ai fini dell'abilitazione all'esercizio dell'attività psicoterapeutica è del tutto diversa dalla specifica formazione professionale storicamente richiesta per l'esercizio dell'attività psicoanalitica».
L'argomento si evince dall'argomentazione e contrario che conclude il ragionamento dell'illustre studioso: «Il punto è che le conoscenze tecniche e pratiche e le informazioni teoriche e culturali necessarie per lo svolgimento dell'attività psicoterapeutica ai sensi della legge n. 56/1989, non sono affatto idonee ai fini dell'attività psicoanalitica. Risulta di palmare evidenza, dunque, che la legge n. 56/1989 ha esclusivamente disciplinato l'attività psicoterapeutica degli psicologi e dei medici e non anche l'attività psicoanalitica, che pertanto continua ad essere sottoposta al regime precedente all'entrata in vigore della legge Ossicini».
Il che significa, quindi, che per gli psicoanalisti valgono i principi generali enunciati nel codice civile e disciplinati dagli artt. 2229-2238. È proprio l'“argomento storico” (“affascinante” -come si esprime la sentenza- per ciò che riguarda la Storia della Psicoanalisi, sulla quale la Bibliografia è sterminata, ma usato con poca competenza dalla difesa) relativo ai lavori parlamentari che esitarono nella travagliata legge de qua, che ci permette di far luce sulla volontà del legislatore, il quale, a parere della maggioranza della dottrina, “minus dixit quam voluit”. Di questa “contrattazione” infinita poco parleremo (cfr. supra), ma valga almeno, per far luce sulle intenzioni del legislatore, l'opposizione sistematica -in sede parlamentare- di chi tentò a tutti i costi di scongiurare il pericolo di una istituzionalizzazione della professione di psicologo. In Parlamento l'opposizione si trovò -obtorto collo- a sposare le ragioni dell'Ordine dei Medici (dalla stessa opposizione tacciato di “corporativismo”), a quei tempi seriamente minacciato di soppressione; in campo specialistico vi fu chi così si era, a suo tempo, pronunciato: «Va capita ma anche rigorosamente rifiutata la proposta di istituire un Ordine, con relativo albo professionale (si intende: degli Psicologi), proprio nel momento in cui l'ordine più consolidato, quello dei Medici, è minacciato nella sua stessa esistenza dalla giusta insofferenza per il suo ordinamento e la sua indifferenza alle problematiche sociali» (Bagnara et alii, citato in Mecacci, 1998, pp. 84-85).
La “contrattazione”, difatti, si protrasse dal 1973 al 1989, e portò con sé dubbi e proposte della Commissione a suo tempo istituita per stilare il curriculum formativo del futuro laureato in Psicologia (i primi a ottenere il Diploma di Laurea discussero la loro tesi nel 1975), commissione all'interno della quale spiccano i due storici rappresentanti della psicologia: Gaetano Kanizsa e della Psicoanalisi: Cesare Ludovico Musatti; l'inversione dell'ordine di presentazione dei due illustri studiosi è un po' voluta: Kanizsa (1913-1993) esponente di spicco in campo internazionale della “psicologia della Gelstat”, fu infatti allievo di Musatti (1897-1989), il più noto psicoanalista italiano, laureato in Filosofia (!!) a Padova nel 1922 e, dal 1976, curatore dell'Opera Omnia di Sigmund Freud. Proprio a Musatti fanno costante riferimento i dibattiti svolti in Parlamento fino al varo, nel medesimo anno della morte del Maestro, della “legge Ossicini” (il quale, su “La Stampa” del 19/5/1989, mostra tutto il proprio rispetto per l'autonomia della Psicoanalisi, scrivendo -tra l'altro-: “Perché non cogliamo l'occasione di abolire tutti gli albi di categoria?”).
Nel luglio 1987 (a inizio della nuova legislatura) Ossicini, con Rosa Russo Iervolino e Bompiani, avevano presentato un d.d.l. in cui l'espressione che seguiva l'indicazione della attività psicoterapeutiche: “quelle analitiche”, viene cassata; e di essa, fino al varo della légge di Psicoanalisi, coerentemente, non si parlerà più. Dopo l'approvazione della légge 56/1989 Giovanni Hautmann (allora presidente della Società Psicoanalitica Italiana, affiliata alla società internazionale I.P.A.) aveva ben inquadrato la ratio di tale “silenzio” da parte del legislatore: «Ecco perché il legislatore non ha legiferato sulla Psicoanalisi, non essendo essa compatibile con la formazione universitaria. Egli ha implicitamente operato una distinzione tra Psicoanalisi, come scienza unitaria, e gli altri tipi (...) derivati da modelli psicologici, psichiatrici, filosofici (...) acquisibili con una specializzazione universitaria; ha così di fatto riconosciuto una specifica autonomia alla Psicoanalisi nel nostro Paese» (Hautmann, 1989).
È per tale motivo che Galgano concludeva che: «La legge Ossicini non detta norme sulla psicoterapia in genere e non fa di essa una professione protetta ai sensi dell'art. 2229 del codice civile, ma si riferisce solo alla psicoterapia praticata da psicologi o medici (...) -gli- psicoanalisti (...) restano sottoposti ai principi generali del codice civile; la pratica analitica può perciò essere legittimamente condotta anche da soggetti non in possesso di una laurea in medicina o in psicologia; gli psicoanalisti non iscritti negli elenchi contenuti negli albi degli psicologi e dei medici e degli odontoiatri, non incorrono in esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta, in quanto la psicoanalisi è una professione diversa dalla psicoterapia disciplinata dalla legge n. 56/1989».
L'art. 348 c.p.: tra dottrina e giurisprudenza
Il Parere pro veritate non si origina ex nihilo: la giurisprudenza di merito si era ampiamente occupata di casi consimili: la sentenza del Giudice di Pace di Fidenza (7 dicembre 2000), in cui uno psicoanalista presentava opposizione all'ordinanza del prefetto di Parma, che gli ingiungeva di pagare la somma di l. 300.000 a titolo di sanzione amministrativa, in quanto aveva violato l'art. 498 c.p. (così come modificato dall'art. 43 D.L. 30.12.1999 n. 507) arrogandosi il titolo di psicoanalista senza possedere i titoli accademici o la necessaria abilitazione, così portava in epigrafe: «Nella legge 18.2.1989 n. 56 non è menzionata la psicoanalisi (...) e che la psicoanalisi sia una forma di psicoterapia non è detto in alcuna legge in vigore. Occorrono norme giuridiche che qualifichino un'attività professionale (...) la psicoanalisi non è tra queste (...) Ritenendo il provvedimento preso contro l'opponente non sufficientemente documentato e motivato, questo giudicante ritenne di accogliere l'opposizione».
Un'altra sentenza del Tribunale di Brescia assolve l'imputata (18.1.2001. R.G.N.R. 190 S 2/S/97) “Perché il fatto non sussiste”. Nell'accertamento della Guardia di Finanza l'emissione di regolari fatture portava l'iscrizione: “Sedute di Psicoanalisi”, la sentenza andrebbe letta integralmente, poiché correttamente il giudice affermava: «l'analista, infatti, non prescrive nessun comportamento al paziente rispetto alla molteplicità di situazioni da affrontare, limitandosi ad ascoltarlo (...) esplicando si quindi l'attività in una sorta di sostegno passivo per un soggetto che richiede semplicemente di approfondire la conoscenza di se stesso».
In epigrafe, il giudice si esprime sulla consolidata linea ermeneutica riguardo la “legge Ossicini”: «Nulla è previsto per l'esercizio dell'attività di psicoanalista e non si vede, alla stregua delle considerazioni sopraesposte, come questo possa essere identificata con quella dello psicologo».
A ridosso cronologico del processo per il quale fu richiesto a Galgano un parere pro veritate, sta un decreto di archiviazione del Tribunale di Pordenone, datata 14 luglio 2003 (R.G.N.R. 2681/00): l'indagata svolgeva attività di psicoanalisi «senza prescrivere medicine o comportamenti da tenere da parte dei clienti». Nel decreto si percorre puntigliosamente l'iter legislativo che ha condotto alla l.56/1989 (interessante la riproposizione del dibattito relativa all'inclusione -o meno- delle psicoterapie analitiche, che condusse alla decisione di escluderle dal testo;cfr. supra a 2.1). E così se ne deduce che «il legislatore abbia ritenuto di escludere la psicoanalisi dalla regolamentazione delle professioni di psicologo e di psicoterapeuta».
Questo punto è dirimente e fa «venir meno il richiesto elemento psicologico in capo all'imputata, sicché il procedimento deve essere archiviato (...) per difetto di dolo». Prende senso l'ammonizione di Galgano: se la legge andrà riformata, la novella dovrà basarsi «su una effettiva ricognizione della realtà e non sulla contrattazione con i consigli nazionali degli ordini professionali», la cui legittimazione rappresentativa (lo vedremo più avanti) è limitata e non emblematica di «ciò che di nuovo matura all'interno delle libere professioni, soprattutto nella configurazione che (...) stanno assumendo in ambito europeo».
Trascelgo dalla giurisprudenza di merito posteriore al Parere una sentenza assolutoria del Tribunale di Trieste (1 dicembre 2006 -R.G.N.R. 1104/04) perché, similmente alla sentenza d'appello di Bologna “massimata” (cfr. supra a 1.0) dalla Cassazione, promana da una denuncia dell'Ordine degli Psicologi della Regione Friuli-Venezia Giulia e riguarda un laureato in Filosofia che praticava la Daseinanalyse (disciplina illustre, sulla quale non vale la pena di soffermarsi). Il Giudice sentenzia: «Non un solo elemento è stato acquisito in ordine all'effettiva prestazione, da parte dell'imputato di attività professionale riservata dalla legge alle competenze di medici o di psicologi».
E ribadisce, se ancora ve ne fosse bisogno: «Nella legge 18.2.89 n. 56 non è rinvenibile alcuna norma che riservi alle competenze dello psicologo lo svolgimento delle attività professionali che l'imputato ha effettuato».
Ma in epigrafe è sciolto il nesso tra le (eventuali) richieste dell'analizzando e la perfezione del reato di cui all'art. 348 c. p.: «Né rileva il fatto che la prestazione in esame possa venir somministrata ad un soggetto che sia (o che ritiene di essere) portatore di un determinato disagio, allo scopo di rimuoverlo, purché non si avvalga di metodi e strumenti tipici ed esclusivi di una determinata professione protetta e che comporti la somministrazione di farmaci, riservata ai medici».
Si diceva delle azioni giudiziarie promosse dagli Ordini professionali e delle sentenze che aderiscono alle loro pretese di “tutela degli interessi della categoria”. Qui la dottrina è pressoché unanime, in riferimento al reato di cui all'art. 348 c.p. Nella sentenza d'Appello si fece rilevare che “Il Tribunale respinse all'udienza del 13.3.08 la richiesta di esclusione delle parti civili”; ma sul punto la dottrina è pacificamente allineata, sia pur declinando variamente le proprie posizioni con la disposizione contenuta nell'art. 348 c.p. Il legislatore ha inteso tutelare gli interessi della collettività al regolare svolgimento della professione per cui viene richiesta una speciale abilitazione e iscrizione all'albo: l'interesse tutelato ha, peraltro, carattere generale e non professionale (Trattato Cadoppi); essendo dettata nell'interesse generale dello Stato, discende il fatto che «non sono immediatamente protetti né l'interesse degli ordini professionali abilitati ad impedire il discredito che l'esercizio abusivo arreca alla categoria o al prestigio della professione, né l'interesse dei professionisti abilitati a eludere la concorrenza di coloro che non hanno i requisiti» (Cass. Pen., SS. UU., 30.11.1966 n. 2809, in Giustizia civile, 1967, I, 206); ancora più incisivamente (a mio avviso), nel Commentario sistematico (Romano - I delitti contro la Pubblica Amministrazione) si esprime Mario Romano; dopo aver ribadito che soggetto passivo dell'art. 348 è soltanto la P.A., quale titolare dell'interesse offeso dal reato, indica nella tendenza giurisprudenziale (isolata) ad ammettere la costituzione di parte civile di ordini o associazioni professionale, la presenza di un preciso limite, costituito da “un concretodanno” (di natura patrimoniale o non patrimoniale) «ulteriore e diversificato rispetto al pregiudizio di un mero interesse ideologico, o genericamente -morale- di categoria»; hanno da essere (Ordini e Associazioni professionali) soggetti concretamente danneggiati, non persone offese dal reato, qualità unicamente spettante allo Stato.
Romano è esplicito nel far propria la raccomandazione “a suo tempo rivolta al giudice”, «di guardarsi dagli evidenti interessi economici e dalle interessate aspirazioni monopolistiche di singoli professionisti o di ordini professionali» (Romano, Commentario sistematico, terza edizione, Giuffrè, Milano, 2008, p. 150; il grassetto è dell'autore).
La “raccomandazione” (che è agile far risalire al Manzini, V, 615) non è fuori luogo, perché le motivazioni che sorreggono l'accoglimento delle imputazioni, sono modulate dalle ragioni esposte dalla parte civile (a mio avviso erroneamente ammessa nel giudizio di appello). Riguardo alla formazione professionale (sulla conoscenza della quale certamente il P.G. non poteva fare aggio, senza appoggiarsi all'esemplificazione offerta da parte civile) si sostiene addirittura che nella formazione psicoterapeutica «è prevista una più impegnativa frequenza a precipui corsi formativi di laurea quadriennale» (cfr. supra a 2.1.).
Ancora più “pilotata” una movenza ulteriore, relativa alla validità della psicoanalisi come scienza della psiche; utile, in seconda battuta, a pervenire al nucleo della sofferenza psichica: «Semmai il dibattito scientifico che si è andato maggiormente sviluppando in tempi recenti è quello dell'effettiva utilità terapeutica di una pratica, oltre tutto molto impegnativa per lunghezza negli anni, frequenza e costi, come la psicoanalisi».
Mi pare integrata totalmente l'“aspirazione monopolistica” dalla quale Romano ammoniva di “guardarsi”. Vero è -all'opposto- che le più recenti scoperte scientifiche -basti pensare a quella dei “neuroni specchio”- non fanno che validare le scoperte freudiane e che premi Nobel nel campo delle Neuroscienze hanno individuato i correlati neurali degli effetti della cura psicoanalitica (e, sorprendentemente, nel campo della biologia molecolare, Clark e Ameiesen, scopritori del suicidio cellulare hanno ribadito il fondamento scientifico del Todestrieb di Sigmund Freud - Clark 1996; Ameiesen, 1999). Basti -per ciò che riguarda le Neuroscienze- in questa sede il richiamo a Eric Kandel, il quale sistematizza l'apporto della Psicoanalisi in cinque principi.
1. I processi mentali traggono ordine da operazioni del cervello.
2. Le combinazioni di geni sono determinanti per il funzionamento cerebrale.
3. L'apprendimento produce mutamenti nell'espressione genica.
4. L'individualità si costituisce sul presupposto di una plasticità biologica.
5. La psicoanalisi e le teorie ambientali possono determinare modificazioni anatomiche e funzioni del cervello (Kandel, 1998; Kandel, 2006; per un approfondimento su tale posizione: Cheloni 2009).
Di pari peso le affermazioni contenute nell'opera: Il cervello emotivo, di Joseph LeDoux, il più importante studioso di neurobiologia: «Con la psicoanalisi, che mette l'accento sulla valutazione e sull'introspezione (...) la conoscenza esplicita potrebbe controllare l'amigdala attraverso il sistema della memoria nel lobo temporale e le altre aree corticali legate alla coscienza (...) Il successo duraturo della psicoanalisi potrebbe essere dovuto all'asimmetria delle connessioni tra la corteccia e l'amigdala» (LeDoux, 1996; si cita dalla tr. it., p. 276).
Resta da rivedere la (non discussa) tesi d'esordio: è l'art. 348 una norma penale “in bianco” o meno? Il Commentario Crespi-Forte-Zuccalà (edizione 2011) si limita ad affermare: «(...) data la natura di norma penale in bianco riconosciuta all'art. 348 c.p., costituisce ignoranza inevitabile della legge penale la mancata conoscenza dei limiti di attività autorizzati dalla disciplina normativa del titolo professionale non conseguito».
In dottrina, all'opposto, si discute sulla condivisibilità di tale “comune e tralatizia” affermazione (Romano). Valeria Torre (in Trattato Cadoppi s.v. art.348) sostiene che su di essa «debbono formularsi le più ampie riserve»: «L'art. 348 c.p. (...) delinea esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali. Il fatto costitutivo del reato, infatti, assume i connotati della antigiuridicità attraverso la realizzazione dell'atto o degli atti mediante i quali "abusivamente" viene esercitata una determinata professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione».
Il provvedimento abilitativo rappresenta perciò il presupposto che condiziona "in negativo" la capacità giuridica del soggetto in ordine all'esercizio di quella specifica riflessione, qualificando la condotta di costui come illecita. Più decisa e -se possibile- ancora più convincente la posizione di Romano (Commentario sistematico), che qualifica l'art. 348 come “norma conclusa e perfetta”, fornita cioè di precetto in sé compiutamente significativo e con relativa sanzione; la mancanza di speciale abilitazione richiesta risulta essere, pertanto, uno dei suoi elementi essenziali: elemento del fatto costruito "negativamente" (cfr. supra).
La disciplina amministrativa della professione di “psicoterapeuta”, quindi, funge unicamente da criterio utile a determinare il concreto (si vedano le argomentazioni da noi svolte supra) abuso: non contribuisce, cioè, a “forgiare” -Romano- il tipo di reato. Più esattamente la Consulta definì a suo tempo la norma come: “fattispecie incriminatrice con autosufficienza precettiva” (Corte cost. 1993/199).
Se accettiamo questa soluzione dottrinale, dobbiamo far nostri -ovviamente- i correlati della medesima. È difatti lo stesso Mario Romano ad avvertire che i criteri attraverso i quali va individuato il concreto esercizio abusivo di singole professioni, non sono totalmente esplicitati, tanto che: «non sarebbero da sottovalutare come puramente teorici i dubbi relativi alla illegittimità dell'art. 348 in esame per violazione del principio di determinatezza e dunque per un contrasto sotto tale profilo con l'art. 25 co. 2 Cost.».
La verifica del carattere abusivo di singole professioni può risultare, pertanto, “aperta e difficile” (Romano), soprattutto laddove: «la normativa che, richiedendo la speciale abilitazione, fissa i confini delle competenze professionali, non abbia ad indicare con la necessaria sufficiente certezza gli specifici atti e/o le specifiche attività che possano dirsi autenticamente tipici, propri della professione di volta in volta in causa».
È utile rammentare, sulla scia delle argomentazioni fin qui prodotte, che proprio da atti tipici, esclusivi di una determinata professione, si configura l'esercizio abusivo della medesima; e proprio sul riscontro della tipicità che le più gravi incertezze (come si spera di aver sin qui dimostrato) sorgono; è lo stesso Romano a ricordarlo: «a fronte di professioni dai confini relativamente certi (consolidati a volte da prassi e consuetudini da non trascurare), ve ne sono invece altre, risalenti o recenti, che, pur rientrando tra le professioni protette, hanno limiti non chiaramente definiti rispetto ad altre» (non in grassetto nel t. orig.).
Mario Romano (e, con lui, la dottrina più accorta) auspica un intervento del legislatore, teso a individuare i criteri che permettano di circoscrivere il concreto esercizio abusivo di singole professioni.
Una soluzione de iure condendo: l'esperienza europea come modello
Come spesso accade (non solamente in Italia), è la carenza di indicazioni normative che provoca l'inevitabile (ma necessario, si badi bene!) escrescere del diritto pretorio. Non a caso, per quanto riguarda uno snodo ermeneutico definitivo (che tenga conto dei rilievi fin qui proposti) Galgano si augurava una ricognizione (cfr. supra) della realtà di ciò che in Europa matura all'interno delle libere professioni.
Se escludiamo uno sguardo onnicomprensivo allo stato giuridico della professione di psicoanalista (sarebbe troppo lungo ripercorrere la legislazione nei tre continenti ove la Psicoanalisi è capillarmente diffusa) e ci limitiamo all'Europa (per una esaustiva rassegna della -pressoché inesistente- legislazione sulla psicoterapia nel vecchio continente si veda il numero monografico della “Rivista di Psicoanalisi”, XLV, I, Gennaio-Marzo 1999) non possiamo che ri-affermare come la lettura offerta dalla Suprema Corte (della Psicoanalisi come genus della species psicoterapia) sia inaccettabile anche da una prospettiva comparatistica. Del continente americano diamo un accenno relativo soltanto agli Stati Uniti, dove non esiste legislazione alcuna che riguardi specificatamente la “psicoterapia”; gli unici Stati in cui la questione si pone, richiedono attestati di training (ricordiamo che la Psicoanalisi, pur nata in Europa, per vicende storiche ben note si è enormemente diffusa negli U.S.A., con conseguenze a volte paradossali). Se compulsiamo, presso il Servizio Studi del Senato della Repubblica (Settore socioculturale): “La Formazione e l'attività professionale dello psicologo in alcune esperienze straniere”, curavit Filippo Luzi, troviamo (alle pp. 469 -sgg.) l'unico esempio di legislazione al quale la “legge Ossicini” possa essere ispirata: il Regolamento del Canton Ticino è stato emanato il 4 settembre 1979, ma innanzitutto, la “psicoterapia” viene puntigliosamente definita (art. 2), l'autorizzazione è concessa dal Dipartimento dei Servizi Sociali del Canton Ticino da una Commissione Consultiva, che valuta il Tirocinio Pratico dei richiedenti «considerate le esigenze relative alla formazione corrispondente al loro particolare orientamento» (art. 11); si evita così di forzare nei limiti angusti di una formazione teorica, impartita da uno (o due) corsi di laurea, quello che è uno spazio dai limiti non facilmente tracciabili. Last but not least (e qui la legislazione del Canton Ticino si adegua non solo a quella dell'intera Confederazione Elvetica, ma a quella vigente in Europa e fuori d'Europa), il Regolamento del Canton Ticino non si applica a professionisti che esercitano attività che nulla hanno da spartire con la Psicoterapia, cioè gli Psicoanalisti (la cui attività è logicamente controllata dalle Scuole di Psicoanalisi presenti sul territorio).
Nel Regno Unito, dove l'esercizio della Psicoanalisi è regolamentato dalla famosa Tavistok Clinic (Psicoanalisi infantile) e dalla BPS (British Psychoanalytic Society), al cui interno si svolgono training diversi, a seconda delle teorie scientifiche abbracciate (esiste anche un c.d. “Middle Group”), nulla da stupirsi che la promulgazione della “legge Ossicini”, e, soprattutto, la lettura che certa dottrina ne ha data, abbiano suscitato indignazione e scandalo. Val la pena citare (in parte) l'opinione di uno dei più famosi psicoanalisti del Regno Unito: Adam Phillips, e del suo intervistatore (l'intervista data: 6 gennaio 1996): Anthony Molino (AA.VV.1999): «Sorprende che, in cambio di una licenza di gruppo elargita in base a una clausola di non retroattività (visto che pochissimi analisti erano laureati in Psicologia -una facoltà universitaria di recente creazione in Italia- e non molto numerosi erano tra loro i medici), l'intero establishment psicoanalitico -ma Molino, che pone la domanda, allude alla sola S.P.I.- abbia acconsentito alla richiesta di accettare nelle sue scuole di formazione solo i candidati laureati in psicologia e in medicina» -questo dopo la disciplina provvisoria a seguito della promulgazione della “legge Ossicini”, ma la maggior parte degli psicoanalisti formati prima del 1989 -si vedano le indagini statistiche della Trasforini- era laureata in Filosofia o Medicina.
«Una vicenda deprimente davvero!», commenta Phillips, mentre a intervistatore e intervistato è palese ciò che nella sentenza d'Appello viene (pretestuosamente) negato: «L'episodio è reso ancora più sconcertante dal fatto che la legge in oggetto non fa alcun riferimento specifico alla pratica della psicoanalisi!».
In Germania, la giurisprudenza penale intorno ad un reato simile a quello configurato dal nostro art. 348 c.p. (si prenda, per una più estesa casistica, come punto di riferimento il più autorevole commentario, quello di Schönke e Schröder), non annovera alcun riferimento analogabile alla casistica da noi presentata (sarebbe paradossale che in un Paese di lingua tedesca la psicoanalisi fosse trattata come genus di una species che la regolamentasse!); i problemi si creano nella formazione, in cui l'equivalente della nostra Previdenza Sociale interviene con richieste e verifiche (giacché è previsto un rimborso statale per i trattamenti -“lunghi” e “costosi”, come ricordava l'Ordine degli Psicologi dell'Emilia Romagna- psicoanalitici) presso le Società Psicoanalitiche (rette in prevalenza, è d'obbligo ricordare, da Presidenti in possesso di una laurea in Filosofia) (Cremerius, 1996).
In Francia, dove la professione libera non è un concetto giuridico vuoto, le varie Società presenti (Società Psicoanalitica di Francia, Quarto Gruppo, Società psicoanalitica di Parigi, etc.) rispondono -ma non tutte!- soltanto all'I.P.A. (International Psychoanalytic Association). La rassegna potrebbe proseguire con la Spagna; vale per tale Stato quanto noi detto riguardo allo Strafgesetzbuch sul reato che più si avvicina al nostro art. 348 c.p., ma qui il riferimento va al classico Trattato di Francisco Muñoz Conde (Muñoz Conde, 2002, e successivi); lo spazio limitato concesso pare però bastevole a mostrare la necessità di un pronunciamento a Sezioni Unite della Suprema Corte, o -ancor meglio- di una rigorosa ricognizione delle legislazioni nazionali effettuata da un organismo sovranazionale, alle cui Direttive gli stati membri d'Europa possano conformarsi (e sembra che le sollecitazioni, provenienti soprattutto dal nostro Paese - per le ragioni su esposte- renderanno presto possibile il tanto auspicato pronunciamento).
A mio avviso l'erronea interpretazione dell'art. 348, sogguardato dall'angolatura discutibile della legge 56/1989, si può evitare -per intanto- negando all'art. citato la qualificazione di “norma in bianco”. Come ho altrove argomentato (Cheloni, 2010, pp. 283 sgg.) l'obiettivo del diritto penale è quello di individuare il discrimine tra fatto di rilievo penale e fatto di mero rilievo amministrativo. Ciò -a parere della dottrina più attenta- va compiuto «attraverso il richiamo ad elementi immediatamente percepibili” (Piras, in Cocco - Ambrosetti, 2007, p. 237). Un codice penale, come tale, non dovrebbe contenere definizioni; le c.d. “norme esplicative” (art. 8 co. 3°, 43 co. 1°; 85 co. 2°, 94 co. 2°, 101 della parte generale, 266 co. 4° et alii della Parte speciale) andrebbero cassate e riformulate. Il principio di tassatività garantisce (avverso gli arbitri di applicazione da parte del potere giudiziario), la certezza della formulazione della norma, contenendo una precisa determinazione del fatto punibile (Cheloni 2010, pp. 284-85). Si evita così non solo il divieto di analogia, ma anche -e sovra tutto- il ricorso a fonti extra-legali (la riserva assoluta di legge, d'altronde, implica un divieto di normazione di tipo regolamentare).
La “norma in bianco” non dovrebbe trovar ricetto in un Codice Penale; essa non è priva di precetto, la sanzione in essa contenuta è determinata, tuttavia il precetto medesimo conserva la massima genericità, occorrendo un atto amministrativo (fonte di rango inferiore alla legge) che lo specifichi. La libertà non è “consentita”; Vincenzo Manzini sosteneva ai suoi tempi (Manzini, vol. VIII op. cit.) che essa andasse “disciplinata”, condizione necessaria “affinché gli individui siano uniti allo Stato e a se stessi” (Ibidem, p. 528). Questo se -come in tutti i totalitarismi si sosteneva- libertà equivale ad anarchia; ma -come si è cercato di dimostrare- non è detto che le professioni “non protette” ossia “libere”, infliggano un vulnus alle aspettative della collettività; l'accoglimento delle richieste della parte civile e l'ammissione come tale dell'Ordine degli psicologi al Processo, implicitamente sottendono un'offesa a un bene “trascendente”: al “pubblico interesse” (che cioè, solo psicologi, medici e odontoiatri tutelino la vita psichica dei consociati); tale offesa si colora di “pericolosità sociale” e -dietro di essa- fanno capolino «Le aspettative della collettività (non dissimili da quelle "gesunde Volkempfinden" che connotavano i regimi marxisti dell'Europa dell'Est» (Cheloni, 2010, p. 288).
In attesa, pertanto, di un auspicato allineamento del legislatore italiano (in subiecta materia) alla concreta situazione legislativa che regola le libere professioni in Europa, ci si può per lo meno augurare che a certuni Ordini Professionali, che entrano in qualità di parte civile in procedimenti dai quali deriva un'evidente sproporzione tra il beneficio conseguito e il sacrificio della controparte, giudici attenti rammentino il monito di Accursio: “Quod alii nocet et sibi non prodest, non licet”.
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