Giornalismo narrativo
Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia
M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015
DALILA E LA SUA VOGLIA DI GODERSI L’INTERVALLO: VITA E PENSIERI DI UNA GIOVANE CON MALATTIA RARA
Orazio Vecchio
oraziovecchio@gmail.com
Giornalista professionista. Responsabile Ufficio Stampa Azienda ospedaliera per l’emergenza Cannizzaro di Catania. Laureato in Scienze della comunicazione all'Università La Sapienza di Roma.
Le cure in ospedale, il rapporto con i familiari, le riflessioni sulla morte, la fede
«Nonostante la mia non sia una vita normale, né quella delle persone che vivono a stretto contatto con me, io ci metto tutti i mezzi perché essa lo sia davvero. A volte faccio finta».
«Spesso non ci penso e mi convinco di essere sana perché viva. L’aspetto positivo è che se sei malato vuoi vivere al meglio e circondarti, se possibile, solo delle persone che ti fanno stare bene. L’aspetto negativo è che pensi molto spesso alla morte, ma in fondo, ho sempre sperato, da egoista, di andare via per prima».
«Morire, come nascere, è indipendente dalla mia volontà; ma vivere bene dipende da me e dalle mie scelte».
«Accettare la propria condizione di sofferenza non è sempre facile e rassegnarsi non è sicuramente la soluzione. Ciò che chiedo non è la guarigione, ma la forza per affrontare questa prova».
Dalila è una bella ragazza originaria della provincia di Catania, da tempo trasferitasi nel capoluogo etneo. Laureata, ha un lavoro, un marito e spera di avere presto anche un bambino. Scherza e sorride con generosità, ma sa essere seria e diligente quando si richiede. A vederla, impeccabile in ufficio o rilassata il sabato sera, nessuno sospetterebbe che possa avere una malattia rara e degenerativa. Eppure, tra le preoccupazioni di ogni giorno e le speranze per il futuro, Dalila affronta un’importante patologia autoimmune. Per tanto tempo ha taciuto, quasi nascosto o rimosso, la sua sofferenza; oggi ne parla con le persone più vicine e ha accettato di aprirsi in questo dialogo, in cui racconta l’impatto con la diagnosi e le prime cure, il rapporto con i genitori e quello con il marito, le relazioni con gli amici e i problemi sul lavoro, le lunghe ore in ospedale e i pensieri sulla morte, la voglia di vivere al meglio e la fede in Dio. Dimensioni e aspetti riscoperti o valorizzati grazie alla malattia.
La premessa al suo racconto, che sviluppiamo con un nome diverso da quello reale, per proteggerla, parte però dall’infanzia: «Mia madre – comincia Dalila – ha sempre sostenuto che io fossi “diversa” dagli altri bambini; non me l’ha mai detto palesemente ma l’ho sempre percepito nelle sue parole, soprattutto nei suoi atteggiamenti eccessivamente premurosi nei miei confronti. Oggi penso che da bambina non fossi diversa dagli altri, ma semplicemente più “delicata”, più esposta rispetto agli altri miei coetanei e, quindi, vulnerabile».
Reparto ospedaliero |
Ma ancora non eri malata… Quando e come è stata diagnosticata la malattia? Quali sintomi avevi?
«Prima della diagnosi di connettivite indifferenziata ad impronta sclerodermica, sono arrivati i sintomi della sindrome di Raynaud. Quando mi fu diagnosticata la malattia era il lontano 1999 e io mi ero da poco iscritta all’università. Ero felice, perché mi si stava prospettando un futuro ricco di novità e una nuova vita, lontano dal mio paesino di provincia. Il fenomeno o sindrome di Raynaud è una malattia rara che colpisce le arterie, cioè i vasi sanguigni che trasportano il sangue dal cuore al resto dell’organismo; è caratterizzata da brevi episodi di vasospasmo, cioè di restringimento dei vasi sanguigni, i quali fanno diminuire il flusso di sangue diretto verso le dita delle mani e dei piedi. La pelle delle mie mani e dei miei piedi, quindi, nel periodo invernale diventava biancastra o bluastra; quando la circolazione ritornava alla normalità, le zone colpite diventavano rosse, iniziavano a pulsare, a formicolare, a bruciare o a intorpidirsi. Io mi vergognavo moltissimo di mostrare le mie mani in pubblico e, a motivo di ciò, coprivo le ulcere provocate dalla malattia con grossi cerotti o con i guanti; fu allora che iniziai ad abbinarli ai vestiti. Nel frattempo, mi documentavo sulla mia malattia dal nome difficile e strano; ero consapevole di avere un Raynoud secondario, maggiormente rischioso rispetto al primario, e che la malattia potesse essere connessa con altri disturbi e patologie che danneggiano direttamente le arterie, quali ad esempio la sclerodermia e il Lupus. Ricordo di avere letto in qualche enciclopedia che il 90 per cento dei pazienti affetti da sclerodermia soffriva della sindrome di Raynaud. Nonostante la grave patologia mi costringesse a coprirmi eccessivamente nel periodo invernale e a fare i conti con le ulcere alle falangi e i dolori in tutto il corpo, io conducevo una vita normale, fatta eccezione per i controlli semestrali. Mi sono laureata e sposata, esattamente come molte ragazze della mia età».
A un certo punto le condizioni sono peggiorate…Cos’è successo? Come hai reagito?
«Il 2013 è l’anno che io definisco “della tempesta”. Dopo un controllo di routine presso il centro ematologico presso il quale ero in cura, mi viene proposto un ricovero d’urgenza perché, a detta dei medici, il Raynoud si sarebbe trasformato in una sospetta sclerodermia di tipo pattern early. La mia reazione: rispondo che ci penserò; saluto il medico; fuggo dall’ospedale; litigo ferocemente con i miei genitori e chiedo loro di rimanere da sola. Dopo, tanto silenzio, il buio, per molto tempo. Comincio a leggere e a documentarmi… Ancora una volta la vita mi costringe a fare i conti con una malattia complessa. Scopro cosa è la sclerodermia - il cui nome è già brutto solo da sentire - una patologia autoimmune multi-organo caratterizzata da fibrosi del tessuto connettivo e da un esteso danno vascolare che causa la riduzione del flusso sanguigno all’interno dei capillari. Comprendo immediatamente che il fenomeno di Raynaud è collegato con questa nuova presunta malattia; del resto, lo avevo sempre saputo, ma mai preso seriamente in considerazione. Il disordine colpisce le piccole arterie e la microcircolazione provocando l'obliterazione vascolare nella cute, nel tratto gastrointestinale, nei polmoni, nel cuore e nei reni con la conseguente progressiva degenerazione degli organi.
“Sono spacciata! Morirò”: questi gli unici pensieri. Leggo che durante le fasi avanzate della patologia lo svolgimento di semplici azioni quotidiane è limitato e, considerato il carattere progressivo e degenerativo della malattia, il grado di disabilità del paziente può aumentare notevolmente rendendolo non più auto-sufficiente. La patologia vascolare può infine coinvolgere vasi di dimensioni maggiori, causando l'ulcerazione cutanea superficiale ed anche la cancrena di ampie parti degli arti. Per la prima volta in vita mia penso seriamente alla disabilità, alla sofferenza; sta toccando me da vicino, mi sta travolgendo, non è più un concetto astratto. Dopo quasi due mesi dalla prima sospetta diagnosi, mi convinco che la strada giusta è sapere di più sulla patologia e curarsi. Il reumatologo, fin dal primo colloquio, mi spiega che non esiste una vera cura, che il trattamento della malattia è particolarmente difficile e che tutte le terapie sperimentate – agenti immunosoppressivi, farmaci putativi antifibrotici e terapie biologiche altamente specifiche – possono fallire nella remissione dei sintomi. Ma c’è ancora qualche speranza…
La mia non è una vera e propria sclerodermia, ma qualcosa che sta in mezzo tra il fenomeno di Raynaud e la sclerodermia stessa e che si chiama connettivite indifferenziata ad impronta sclerodermica. Per semplificare il concetto, vuol dire che nessuna indagine fino ad oggi condotta può darmi certezza sull’evolversi della malattia, io rientro in una percentuale molto bassa di casi fino ad oggi poco studiati. Mi viene in mente mia madre e il suo vedermi “diversa” dagli altri. Stavolta lo sono davvero».
Che reazioni hanno avuto gli altri? I tuoi genitori, tuo marito… Hanno accettato la malattia?
«All’inizio non ho parlato con nessuno della malattia, tranne che con la mia famiglia. Da quando ho deciso di combattere per fermare la patologia, non ho alcuna difficoltà a parlarne con gli altri. L’amore di Dio e delle persone che mi stanno accanto mi fa credere che la mia diversità rispetto a loro sia valore aggiunto alla mia vita. I miei genitori hanno sofferto molto e sono ancora molto provati dalla mia malattia; io credo che il loro senso di impotenza nei miei confronti sia una sorta di fallimento come genitori. In fondo anche io, quando gli esami non sono buoni o non sto bene, sento di avere fallito contro la malattia. All’inizio della terapia, essendo molto fragile, ho dato a mia madre la possibilità di accompagnarmi in ospedale; ma, con il passare dei mesi mentre la mia condizione fisica sembrava stazionaria, quella psicologica era peggiorata. Finita la terapia mi sentivo devastata dal farmaco e, tornata a casa, andavo a letto. Ero entrata nell’ottica che ero malata e che senza mamma e papà non avrei potuto sostenere la vita in ospedale e gli effetti del farmaco. A quel punto, la svolta … Da quasi quindici mesi ho deciso di recarmi in ospedale da sola, senza accompagnatori! Nonostante la mia non sia una vita normale, né quella delle persone che vivono a stretto contatto con me, io ci metto tutti i mezzi perché essa lo sia davvero. A volte faccio finta. Affrontare la terapia da sola mi fa sentire autonoma, indipendente; io, per natura, sono selvatica…
Mio marito ha sempre negato. Negato i sintomi, la diagnosi, le cure, sostenendo che i medici siciliani si stessero sbagliando. Dopo una visita presso il Policlinico di Milano, che ha confermato la diagnosi catanese, ha accettato la malattia e, quindi, il mio essere diversa dagli altri. La nostra vita è cambiata. Non deve essere semplice per lui… Da circa tre anni, a causa delle terapie e dei controlli, io trascorro una buona percentuale del mio tempo in ospedale e, quindi, nonostante lui non sia sempre presente, anche la qualità della sua vita è cambiata, perché condizionata dal mio stato d’animo.
Gli altri sostengono all’unanimità che io sia una persona forte e che sia stata brava ad affrontare questa brutta cosa che mi è capitata, come se fosse passata… quasi che io ce l’abbia alle spalle e che sia solo un ricordo».
E tu l’hai accettata?
«Io credo di non averla ancora completamente affrontata, la malattia dico, l’idea di convivere per sempre con il mostro che è dentro di me. Spesso non ci penso e mi convinco di essere sana perché viva. L’aspetto positivo è che se sei malato vuoi vivere al meglio e circondarti, se possibile, solo delle persone che ti fanno stare bene. L’aspetto negativo è che pensi molto spesso alla morte, ma in fondo, ho sempre sperato, da egoista, di andare via per prima».
Ci pensi ancora? Consideri la morte come possibilità vicina o la malattia te l'ha resa meno temibile? E cosa intendi per “vivere al meglio”? Spremere la vita fino al midollo, non lasciarsi scappare nessuna occasione oggi perché domani non si sa?
«Più volte la mia condizione di malata, e quindi di persona che soffre, mi ha condotto al pensiero della morte, un pensiero prepotente e, a volte, dispettoso (io lo immagino come se mi facesse una linguaccia). All’inizio ero impreparata ad affrontarlo; la percezione che la malattia potesse prendere il sopravvento, oltre che sul mio corpo anche sulla mia mente, ha messo a dura prova il mio stato d’animo e la mia innata voglia di vivere. Ho pensato alla morte più volte al giorno per quasi due anni; la malattia ha reso questo pensiero concreto, percettibile, reale. Ho avuto paura.
Da qualche anno penso alla morte guardandola da un’altra prospettiva, come dico io, alla Schopenhauer: “Non v’è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l’intervallo”. Godersi l’intervallo vuol dire selezionare: le persone che ti circondano, i posti che frequenti, il cibo che mangi… e tanto altro ancora. Da tre anni, salvo che a lavoro, tutte le mie scelte sono “condizionate” dal pensiero della morte. Morire, come nascere, è indipendente dalla mia volontà; ma vivere bene dipende da me e dalle mie scelte. Avere scelto di vivere luogo accogliente che mi ricordi le mie radici (la terra, i fiori, il profumo di zagara), circondarmi di persone vere, che rispettino e accettino me e la mia condizione di malata: Dalila e i suoi tempi, le sue cure, i suoi scazzi, la connettivite indifferenziata, le mani gonfie, rosse, bianche… Avere cambiato prospettiva, rispetto alla possibilità di concepire e mettere al mondo un figlio; sono tutte decisioni prese per me stessa e che mi donano speranza e pace con me stessa.
Mi lascio sfuggire solo quelle occasioni di svago che ritengo non mi possano regalare godimento. Ho imparato ad affinare i miei sensi, soprattutto gusto e olfatto, concedendomi uno spazio per me e associando gusto o odori alle situazioni più disparate (lavoro, vacanza, durante un incontro importante, in chiesa…); è un gioco bellissimo. Ho allontanato da me tutto quello che potesse, in qualsiasi modo, influenzare negativamente la qualità della mia vita. L’importante non è quanto vivi, ma come vivi. Vivere al meglio vuol dire godere quotidianamente di piccoli piaceri; saper apprezzare le cose, saper assecondare i propri desideri. Questo l’ho imparato grazie alla mia malattia».
Trascorrere molto tempo in ospedale ti penalizza sul lavoro? Ti crea difficoltà difficoltà? I colleghi come la prendono?
«Trascorro circa 6-8 giorni al mese in ospedale. All’inizio è stato inaccettabile; urlavo (anche in silenzio) e ripetevo a me stessa di aver perso la mia vita. Lentamente ho costruito le nuove abitudini, in funzione della malattia, con un nuovo punto di vista: anche curarsi vuol dire prendersi cura di sé e volersi bene. A lavoro, apparentemente, pare ci sia rispetto della mia persona e della malattia. Nello sguardo dei colleghi a volte leggo pensieri tipo “poverina, da quando è malata”... Qualcuno all’inizio ha anche detto che ero depressa e che sarebbe stato opportuno un supporto psicologico; oggi, rivedendomi dopo qualche anno, credo fosse una giusta valutazione, ma sentirlo dalle “voci di corridoio” mi ha fatto male. Dal punto di vista della qualità del lavoro è cambiato poco. Sono precisa e prevedibile e, pertanto, è facile “spulciare” tra le mie carte; e poi, lavoro comunque dall’ospedale o da casa. Mi penalizza, piuttosto, l’assenza fisica dall’ufficio; mi perdo la vita dell’ufficio e dei colleghi e il contatto diretto con l’utenza, che è la parte più interessante del mio lavoro».
Quando sei in ospedale, cosa vedi? Cosa vivi? E come funziona?
«Quando sono in ospedale guardo la malattia in faccia, è come guardarsi allo specchio. Osservo chi sta peggio di me, la loro pelle devastata e ispessita, le loro facce ormai senza tratti definiti; gli sclerodermici sono tutti uguali e tutti brutti. Inevitabilmente penso a me tra qualche anno e a come sarò… mi viene una leggera tristezza.
L’ospedale è quasi totalmente privo di regole. L’unica regola che esiste e viene rispettata è la somministrazione del farmaco solo in presenza di un medico in reparto. Il primario non fornisce le norme ai medici e agli infermieri e, pertanto, ognuno agisce come meglio crede. Può capitare che arrivando alle 8 del mattino in reparto, a causa della mancanza di aghi, cannule o pompe a disposizione, la terapia venga avviata alle 11. Questo influisce negativamente sia sull’umore del paziente che sulla qualità della vita in ospedale; inoltre, si è costretti a rimanere in reparto fino alle 18. Il clima tra colleghi infermieri, poi, non è buono. Noi pazienti conosciamo l’umore di ognuno e, pertanto, se sentiamo le urla nella stanza accanto sappiamo che non sarà una buona giornata. Infine, gli infermieri portano i loro problemi a lavoro, raccontando episodi della loro vita privata a noi pazienti; ad esempio, la morte dell’uccellino con conseguente seppellimento in spiaggia; il disagio del figlio autistico, etc. I medici sono molto impegnati e, per parlare con loro le attese potrebbero durare anche sei ore.
L’ambiente è un surrogato della nostra casa; è dotato di coperte, tv, frigo, forno microonde, caffettiera elettrica e cuscini; alcuni di questi beni sono stati donati dalle diverse Associazioni di Volontariato presenti in reparto, altri sono stati acquistati dai noi pazienti. Condividere la stanza e il bagno con altri tre estranei non è sempre semplice; gli odori, le abitudini, le emozioni, il carattere di ognuno sono, in alcuni casi, difficili da conciliare e, al malessere provocato dal farmaco, si aggiunge anche un problema oggettivo di convivenza. Con pochissime persone ho instaurato un rapporto che va oltre la malattia e la vita in ospedale; non si tratta di amicizia ma di conoscenza. Si tratta di donne e uomini caparbi, pronti a lottare, di persone “normali”, con un problema anormale».
Quali storie portano gli altri pazienti? Qualche episodio ti ha colpito in particolare?
«In questi due anni frequentazioni ospedaliere ho conosciuto tante persone, tutte diverse tra loro dal punto di vista anagrafico, di genere e culturale ma quasi tutte accomunate dall’irrefrenabile desiderio di parlare soprattutto della loro malattia. Per questo motivo, la convivenza in ospedale in alcune settimane è a dir poco insostenibile, soprattutto per chi come me e pochi altri la malattia fa parte della vita, come tante altre cose… Considerato che il farmaco deve essere somministrato per infusione venosa, sotto stretto controllo medico e presso strutture ospedaliere attrezzate, la tappa in ospedale è, però, obbligatoria (anche se inaccettabile).
Il reparto è dotato di un’equipe di giovani medici, psicologi ed educatori-animatori con contratto a progetto e tanta voglia di imparare. La loro presenza è una ventata di aria fresca. Letteralmente, ci costringono a prendere parte in maniera attiva della vita dell’ospedale; pertanto, solo chi sta male o non ha il completo uso delle mani può esimersi dal frequentare i laboratori o i gruppi di auto-mutuo-aiuto. All’inizio guardavo con scetticismo questo tipo di attività; il gruppo mi sembrava molto simile a quello degli alcolisti anonimi che si vedono nei film; poi ho capito che era un modo per confrontarsi in modo semplice con gli altri, rispettando le differenze e le sensazioni di ognuno. Il gruppo ti aiuta a liberarti dalle brutte sensazioni. Inoltre, ascoltare le emozioni e le paure degli altri ti fa bene: ti fa capire che non sei solo. Inoltre, durante i laboratori emergono le differenze di ogni paziente. E così vedi il depresso che non vuole chiacchierare con gli altri; l’ipocondriaco che teme di peggiorare la propria condizione solo bagnandosi le mani con la colla; il leader che ha sempre ragione; la prima donna il cui lavoretto è il più bello. E poi ci sono io che sorrido alla vita e che, a volte, con il mio ottimismo urto le sensibilità altrui. La regola tra malati è che se tu stai meglio degli altri sei più fortunato e quindi attiri, forse inconsciamente, la loro antipatia.
L’episodio che ricordo tra i più divertenti è quello di una paziente, proveniente da un quartiere popolare di Catania, che ha voluto condividere con me le foto dei festeggiamenti organizzati in occasione del 18° anno della figlia. Per dirla in poche parole, secondo me, una sorta di un matrimonio di cattivo gusto. In ospedale, oltre alle notizie del paziente di turno, che magari conoscevi, venuto a mancare, si condividono anche le cose belle della vita di ogni giorno… i matrimoni dei figli, l’acquisto della casa, la nascita di un figlio, le ricette di cucina e molto altro ancora».
Intanto, in questo "intervallo" che si chiama vita e che vuoi goderti, scegli con cura cosa fare e con chi stare. Ma come fai con le persone? Le sottoponi a un colloquio? E se, dopo la prima valutazione positiva, si rivelano inadeguate, come ti comporti: le allontani, le eviti? Le "licenzi"?
«Con i luoghi sicuramente è più semplice; le persone, invece hanno i sentimenti e, spesso, si rischia di ferirle. Frequento solo coloro con i quali sono me stessa, senza filtri né condizionamenti di sorta. Se mi capita di conoscere nuove persone non mi soffermo mai alle apparenze, anche perché sono curiosa e per carattere tendo a guardare oltre; ciò mi permette di conoscere a fondo chi ho davanti. La mia “selezione” è semplice; niente colloqui, né test. Dai conoscenti e dagli estranei non mi aspetto nulla. Da coloro che definisco amici pretendo uno scambio alla pari, tenendo sempre conto delle differenze e delle peculiarità di ognuno; l’amico deve arricchirmi, deve essere linfa da cui attingere. Un amico può deluderti, ma se è un vero amico difficilmente ti ferisce con consapevolezza; chi persevera, invece, è perfido e, pertanto, me ne libero per tempo».
Rispetto ai tuoi genitori, è cambiato qualcosa? Magari il loro comportamento nei tuoi confronti… Sono più premurosi? Più affettuosi?
«Io dico spesso che, da quando mi sono ammalata, i miei genitori “hanno perso 10 anni di vita”; di contro, non hanno mai perso la loro fede e la voglia di vivere. Nonostante si sentano sconfitti e impotenti, sono loro che mi donano la forza per andare avanti. Affrontano la malattia con me, da lontano. Come quando da bambina iniziai a camminare, stanno dietro di me, pronti a sorreggermi tutte le volte – e non sono poche – che sto per vacillare. All’inizio la loro premura è stata stressante, eccessiva. Dopo aver discusso e affrontato più volte il discorso, abbiamo trovato un compromesso: se ho bisogno, lo chiedo. Credo si sentano “violentati” dalla mia decisione; il non avermi sotto controllo, non essere fisicamente con me in ospedale li fa soffrire; ma rispettano la mia decisione».
Di Dio hai citato l’amore... ma non te la sei mai presa con Lui?
«Nell’anno “della tempesta”, il 2013, ho più volte “litigato” con Dio, chiedendogli perché sia capitato a me e il motivo di tanta sofferenza. Dio mi ha “parlato” più volte, in particolare, con questi versi di Giobbe, al capitolo 5:17-18: “Felice l'uomo che è corretto da Dio. Perciò tu non sdegnare la correzione dell'Onnipotente, perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana”. La strada è ancora lunga. Accettare la propria condizione di sofferenza non è sempre facile e rassegnarsi non è sicuramente la soluzione. Ciò che chiedo non è la guarigione, ma la forza per affrontare questa prova».
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