Giornalismo narrativo
Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia
M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015
SANTI SENZA AUREOLE
Antonio Michele Paladino
antoniompaladino@virgilio.it
Giornalista pubblicista.
«Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione, e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità.» (Fabrizio De André – Smisurata Preghiera)
C’era un tempo in cui gli uomini vivevano felici, senza sapere cosa fossero vecchiaia e malattia. Poi, Pandora aprì il vaso donatole da Zeus e il genere umano conobbe fatica, dolore e morte. Solo la speranza rimase intrappolata in fondo al vaso, nascondendosi agli occhi e al cuore degli uomini. Proprio come la speranza, anche la storia dei “santi senza aureole” è rimasta celata troppo a lungo in fondo a un recipiente. Dei Giovani Mariani Vincenziani di certo non avrete ancora sentito parlare. Sono ragazzi e ragazze come tanti che, come pochi, hanno deciso di voler cambiare le cose. La loro battaglia silenziosa si svolge tra le strade di Catania, al servizio dei poveri e dei malati. Improvvisandosi assistenti sociali, medici, farmacisti, avvocati e insegnanti, questi giovani bussano alla porta di chi non ha più niente per donare speranza. Anna, Paolo, Francesca, Marco, Chiara, Carlo, e ancora altri, sono ventenni e trentenni che hanno intrecciato il loro destino con quello degli ultimi, di chi ha viaggiato in direzione ostinata e contraria.
Alessia chiama casa le panchine della stazione dei treni di Catania. Sembra una bambina, ma è già madre. Un frugoletto di appena un mese dorme tra le sue esili braccia. Due o tre metri più in là, il padre di quel bambino sta raccattando qualche spicciolo. È un tunisino di vent’anni senza permesso di soggiorno e con un passato burrascoso alle spalle. Pensa di riuscire a mantenere la sua famiglia con la carità dei passanti, troppo indaffarati a trascinare le loro ingombranti valigie per curarsi di quel così drammatico quadretto. Intanto il bimbo piange. Si è svegliato e ha fame. Alessia è stremata. Riesce appena a sfamarlo e si addormenta su fogli di giornale e scatole di cartone, sognando un futuro migliore per sé e per suo figlio. Passano i mesi, ma quel futuro non arriva. Anzi, diventa ancora più grigio. Il tunisino finisce in carcere e Alessia, insieme al suo bambino, in una casa famiglia. Lei odia quel posto, con tutta se stessa. Ha passato la sua infanzia in un istituto come quello. Quattro mura troppo simili a una prigione per non esserlo.
Alessia è solo una ragazza. Vorrebbe uscire, divertirsi, lavorare. Vorrebbe anche comprare al suo bambino una tutina nuova. Ma non può. La vita non le riserva nulla di buono. Il suo frugoletto è l’unica cosa che ha, e se lo stringe al petto. Sarà Roberta a riportare la speranza nella vita di Alessia. Dove lo Stato e gli assistenti sociali hanno fallito, una ragazza di ventuno anni ha successo. Anche Roberta sembra una bambina. Ma dietro il suo sorriso gentile, si nasconde una donna forte e determinata. Alessia per lei non è una ragazza madre da soccorrere, ma una sorella da aiutare. Le fa conoscere Casa della Carità, che diventa per Alessia una casa. Quella casa che aveva sempre cercato. La giovane mamma vive finalmente in un posto senza sbarre, dove poter crescere il suo bambino e ripensare alla sua vita. Roberta, intanto, le cammina affianco. Le porta i pannolini per il piccolo e un po’ di spesa. L’accompagna dal pediatra e l’aiuta nella ricerca di un lavoro. Insieme alle dolcissime suor Imma e suor Giulia, Roberta ha acceso la speranza nella vita di Alessia. E ora lei e il suo frugoletto sorridono di nuovo.
Giovani Mariani Vincenziani - Foto di Roberta Percolla |
Gihan ha gli occhi rossi e le tasche vuote. Il suo paese natale, lo Sri Lanka, è lontano e distante, irreale e bello come un sogno. Ma ormai Gihan non riesce nemmeno a sognare. La bottiglia è la sua sola amica. L’alcol è un rifugio sicuro dalla brutalità di un mondo che lo ha messo alle strette. Per inseguire un sogno, Gihan ha affrontato un viaggio lungo, costoso e pericoloso. Se chiude gli occhi, si rivede ancora su quella maledetta nave, quando l’Italia gli si spalancava davanti lasciando dietro di sé un mare di promesse. Aveva combattuto contro la fame e contro la sete, ed era sopravvissuto. Troppi dei suoi compagni non erano stati così fortunati. Gihan vuole lavorare, ma ad attenderlo a Catania ci sono soltanto le panchine di Piazza Cavour. Per la gente che lo guarda dormire, quell’uomo non vale più di una bolla di sapone. È trasparente e fragile. Solo Luigi si accorge di lui. Gli offre il panino che aveva comprato per sé e un tetto, quello del dormitorio vincenziano. Gihan lo ringrazia e lo segue.
Due pasti caldi al giorno e un letto su cui dormire sono un po’ come il paradiso per Gihan. Oltre a Luigi, anche Giuseppe, Maria, Noemi, Filippa e Claudia si prendono cura di lui. Gihan li chiama “santi senza aureole”. Sono stati loro a portarlo dall’oculista e dal dottore. E sempre loro lo hanno aiutato a sconfiggere i suoi demoni dal collo lungo. Gihan è un uomo buono. Sul volto ha un sorriso che regala a tutti. Se non lavora come giardiniere, dà una mano alle suore di Casa della Carità nell’assistenza ai poveri. E quando qualcuno gli chiede quanti anni abbia, lui risponde alzando due dita. Ha due anni. Non ha dimenticato le sofferenze del passato, ma si è lasciato quei ricordi alle spalle ed è rinato. Grazie anche a Luigi, che non lo ha lasciato morire sopra una panchina.
Marta conosce la solitudine. È un’amica invadente che non va più via. Non l’ha invitata lei nella sua vita: è arrivata e basta. Proprio come quella passione clandestina per il suo vicino di casa. Baci rubati tra una cameriera e un maresciallo dei carabinieri con la fede al dito. Una storia d’amore dal mancato finale, che ha fatto sprofondare Marta nel nero pozzo di chi sente il peso dell’abbandono. Eppure Marta non è sempre stata sola. Per dodici anni si è presa cura di Giovanni, il fratello disabile che le stava accanto con la sua presenza discreta e silenziosa. Ma un giorno la malattia ha preteso da Giovanni il prezzo più alto che si possa chiedere a un uomo: la vita.
Giovani Mariani Vincenziani - Foto di Roberta Percolla |
Marta oggi mangia poco e abita in una casa sudicia e maleodorante. Perché mangiare e fare le pulizie quando al mondo non ha più niente da chiedere? Letizia e Maria Elisa le dicono di non abbattersi e chiacchierano con lei. Di più non possono fare. Marta le ringrazia della compagnia, che per lei vale più di uno scrigno pieno di monete d’oro. Per sdebitarsi, vorrebbe presentarle al fratello Giovanni. Allora lo chiama, aspettando che la sua fragile figura appaia sull’uscio della porta di casa. Maria Elisa e Letizia intanto rimangono in silenzio. Sanno che Giovanni è morto, ma non possono spezzare quell’ultima e innocua illusione. Così aspettano, finché Marta si ricorda che Giovanni non c’è. «È uscito a fare una commissione» dice.
Il cuore rallenta e i passi affondano. C’è una barriera invisibile che separa il campo rom di Zia Lisa dal resto di Catania. Così vicini, ma così lontani. La casa dei gitani è una discarica di fango sferzata dal vento, che disperde nell’aria il fumo dei tanti bracieri accesi. Le donne hanno mani consunte con cui sciacquano i panni e appendono la biancheria. Gli uomini sono andati via, a cercare ferri vecchi da rivendere. Così, ad accogliere Antonio e Agata sono i bambini. Un esercito di visi sporchi e sorridenti, che li abbraccia e li tocca. Non chiedono balocchi e cibo, ma qualcuno che giochi con loro.
Antonio chiude gli occhi e conta, mentre i bimbi si disperdono tra le baracche fatiscenti e l’immondizia. Agata invece traccia per terra un percorso di gesso, e guarda le bimbe saltarvi dentro. Presto saranno piccole spose e giovani mamme, destinate a una vita di carità e scarpe rotte. Ma per il momento si divertono. Antonio e Agata però non si arrendono a quel misero destino. Desiderano un futuro diverso per quell’esercito di visi sporchi e sorridenti. Sono venuti con libri, penne, quaderni e moduli d’iscrizione alle scuole pubbliche. I piccoli gitani studieranno nelle stesse classi dei piccoli italiani. Perché dovrebbe essere diversamente?
Giovani Mariani Vincenziani - Foto di Roberta Percolla |
Imparare l’ABC però non è tutto, e i “santi senza aurole” aiutano i bimbi rom fornendo loro anche cure pediatriche e prenatali. Gesti d’amore che non passano inosservati alle donne e agli uomini del campo, che li ringraziano chiedendo di pregare insieme a loro. Allora cattolici e ortodossi si uniscono in un sol canto, che trasportato dal vento, si alza al cielo per raggiungere il Dio che è lo stesso per tutti.
Maddalena ha cinquant’anni. La persona che più amava l’ha ferita, le ha squarciato l’anima. Come può una ragazza amare il corpo del suo stesso padre? Quella domanda la tormenta da decenni. Non sa rispondervi né scacciarla. Può soltanto conviverci. La vita è un deserto senza colori agli occhi di Maddalena, che sono azzurri e tristi. Dietro al suo sguardo si nasconde un mondo intero. Un universo semplice ma profondo, proprio come lei. Maddalena non ha istruzione e nemmeno librerie piene di buoni consigli, ma è saggia e le sue parole toccano il cuore di chi sa ascoltare.
A volte il fato sembra accanirsi sempre sugli stessi. E questo è il caso di Maddalena, che ha condiviso il suo dolore più grande con una delle figlie. Eppure lei non si abbatte. A Daniele, che viene a farle compagnia e a mettere ordine nella sua casa piena di inutili cianfrusaglie, Maddalena regala angeli disegnati a matita e la sua saggezza, un dono che solo i misteri della fede riescono a spiegare.
Giovani Mariani Vincenziani - Foto di Roberta Percolla |
Cambiare tutto per non cambiare nulla: un grande siciliano ha spiegato così la ricetta dei potenti. Da una parte c’è chi mangia, dall’altra chi resta a guardare. Ogni tanto qualcuno invoca un miracolo, sperando d’invertire la rotta del mondo. Ma i timonieri che guidano la nave sopra ponti di cristallo non ascoltano, e continuano per la loro strada, che è ingiusta, sporca e macchiata di sangue. Eppure basta aprire meglio gli occhi e cercare in fondo al vaso, ed ecco che appare la speranza.
I “santi senza aureole” credono nei miracoli ma si rimboccano le maniche, perché sanno che qualche volta pure i miracoli hanno bisogno di una spinta. C’è chi dice che il più piccolo gesto di bontà possa davvero trasformare il mondo. Questi ragazzi sono sulla buona strada.
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