Giornalismo narrativo
Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia
M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015
IL SALENTO CHE ABBIAMO ATTRAVERSATO: RINA DURANTE E BRUNO BRANCHER, IL RACCONTO DI DUE VITE DIVERSE SULLE STRADE DI TERRA D’OTRANTO
Massimo Melillo
melillo@quotidianodipuglia.it
Giornalista professionista. Vice presidente Assostampa Puglia.
Dove è più forte la luce, l’ombra è più nera
Goethe
Rina Durante, biografia raccontata
Era il suo romanzo La malapianta, il primo e l’ultimo. Non potevano essercene degli altri perché la passione di Rina Durante per la scrittura si spostò verso altri orizzonti. È restato per quasi mezzo secolo un “unicum” della letteratura meridionale: un po’ mito, un po’ leggenda come le ombre dell’ultimo Salento magico e misterioso prima che venissero travolti i connotati di quella civiltà contadina a cui la scrittrice dedicò il suo impegno di intellettuale per dare pieno titolo di dignità alla cultura delle classi subalterne.
Un mondo arcaico che veniva meno, un universo di uomini e donne del profondo Sud, che doveva essere raccontato come in un “fermo immagine” testimone della fine di un’epoca. Altri erano, dunque, gli impegni che in quella stagione rivelarono l’urgenza di una più approfondita conoscenza di quella civiltà in via d’estinzione.
Un compito prevalente al quale Rina non si sottrasse e per il quale spese le sue migliori energie nella ricerca folklorica e demologica con tutta la passione di cui era capace quando più stringente si faceva la necessità di riscoprire le radici culturali e musicali delle genti di “Finibus terrae”, un popolo destinato a lasciare traccia di sé proprio dopo la rinascita di quegli studi antropologici fortemente voluta dalla scrittrice salentina sulla scorta delle intuizioni di Ernesto de Martino e del suo libro La terra del rimorso, testo fondamentale per chi voglia avvicinarsi al mito della taranta.
Con Rina avevamo sempre pensato ad una ripubblicazione de La malapianta e sollecitata a riprendere in mano la questione veniva però sopraffatta da altri innumerevoli impegni, che mettevano da parte l’ambito progetto editoriale che prevedeva, tra l’altro, la riedizione di altre sue importanti opere e saggi. Ora che senza di lei La malapianta rivede la luce sarà come averla ancora di più tra di noi, suscitando quella struggente commozione, che ci assale ogni qualvolta i pensieri ci riportano quotidianamente agli anni di una stagione indimenticabile della nostra vita.
Caterina Durante, detta Rina (Melendugno, 29 ottobre 1928 – Lecce, 26 dicembre 2004) - Nuovo Quotidiano di Puglia |
I libri fanno crescere, vivono di forza propria e fanno vivere, questo forse il mistero della scrittura che diventa narrazione. L’uno accanto all’altro, i libri a volte restano immobili, poi ripresi e riletti muovono uomini e donne, costruiscono pensieri e identità, che si fanno storia e conoscenza per tutti e di tutti. Rina era legata a La malapianta perché raccontava della sua antica terra, che da sempre è rimasta centrale nella sua ricerca dell’anima popolare salentina. Un ritratto vivido di un tessuto sociale scomparso, un lavoro di scavo incessante e mai interrotto per ricomporre, come in un intenso lessico, i valori collettivi di una produzione culturale consapevole della propria dignità, che incarna la storia di un luogo dell’anima chiamato Salento.
E non è un caso, infatti, che proprio nell’ultimo suo intervento, pubblicato dall’Almanacco salentino 2005, affrontava il tema dell’identità di questo lembo di terra, estremo confine oltre il quale leggende e miti diventano cultura, folklore, tradizioni da studiare e tutelare senza distrazioni per consegnarle più vive che mai al tempo che verrà.
Abbiamo scritto nel ricordo dedicatogli dall’Almanacco che senza Rina Durante, per dirla con Vittore Fiore in morte di suo padre Tommaso, la Puglia è triste e il Salento, aggiungiamo noi, non sarà più lo stesso. Rina se n’è andata sul finire del 2004 nella notte tra Natale e Santo Stefano lasciandoci soli più di quanto potessimo pensare. Un lungo anno di dolore che nulla ha concesso alla sua generosità ed alla sua forte fibra: aggredita e provata duramente dal male, lo ha sfidato guardandolo in volto con tutta la forza di vivere di cui è stata capace sino agli ultimi giorni della sua straordinaria esistenza.
Avevamo da poco festeggiato i suoi 76 anni ma guai a chiamarla anziana o, peggio ancora, vecchia: una volta domandò a mia moglie Giovanna che effetto le faceva ad avere un’amica dell’età di sua madre e, senza cadere nella provocazione, ripetemmo con Seneca: “Esiste una condizione per la quale i vecchi hanno il dovere di tornare ad essere giovani ed è quando i giovani sembrano essere divenuti vecchi”. Rina era una irriducibile coetanea di tutti, testimone senza età di una memoria vivente chevarcava il tempo. Ora, dopo una vita pienamente vissuta, riposa nella sua Melendugno dove era nata il 29 ottobre del 1928.
Ma era anche Saseno l’altro luogo dell’anima, la piccola isola albanese della sua infanzia, un ricordo incancellabile che riaffiorava spesso, punteggiato dal giallo abbagliante delle ginestre e dai fiori che coloravano quel paesaggio aspro e selvaggio, dove il padre Francesco comandava una batteria della regia Marina militare. Fu lì che aprendo le porte all’immaginazione e alla fantasia decise di diventare scrittrice: nessuna scuola in quell’avamposto militare nell’Adriatico, solo le lezioni casalinghe di scrittura e lettura che sua madre, Lucia Mancarella, impartiva alla piccola Rina, ultima delle figlie dopo Italia, Pia e Marinella. Un apprendimento spontaneo, un insegnamento al di fuori della norma, che fa venire in mente il sarcasmo di George Bernard Shaw: “All’età di sette anni dovetti interrompere la mia formazione per andare a scuola”.
L’idillio con Saseno finisce con la guerra, che segna il ritorno nel Salento, nella grande casa di Melendugno, dove Rina nel pieno dell’adolescenza prosegue gli studi sino alla laurea in lettere conseguita all’Università di Bari alla scuola di Gabriele Pepe, Mario Sansone e Tommaso Fiore, da sempre considerati maestri di formazione civile e culturale: un rispetto sacrale per la loro lezione, che aveva contribuito a dare forza alle scelte politiche e culturali di quella che fu chiamata “la generazione degli anni difficili”. Era affascinata dall’arte del Pontormo, del Domenichino, dalla luce del Caravaggio, da Lorenzo Lotto e dai contemporanei, Van Gogh e Picasso prima di tutti, il cui Arlecchino e la sua compagna è riprodotto nella copertina del suo libro Gli amorosi sensi. Le piacevano i classici ma rifuggiva dall’arcadia: amava i “maledetti” francesi e il cinema di Bergman e Buñuel, lo struggente Rilke, l’impegno di Vittorini, le narrazioni di Celati e poi il Foscolo della “celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi”, ma non tralasciava di gettare lo sguardo critico e rigoroso anche sulle più azzardate produzioni letterarie. Una curiosità mai sopita, che dalla seconda metà del Novecento ha attraversato innumerevoli territori, arricchendo il patrimonio culturale del Salento e del Mezzogiorno. Pochi sanno che la sua prima prova fu la raccolta di poesie Il tempo non trascorre invano del 1951 con una prefazione di Eugène Bestaux, considerate da lei stessa poco importanti, ma che pure rivelano una scrittura già limpida.
È con la rivista “Il Critone” di Vittorio Pagano e Tommaso Santoro che Rina Durante, nominata segretaria di redazione, entra nel vivo della vita culturale, protagonista con altri intellettuali di una straordinaria e irripetibile stagione letteraria. Pubblica Tramontana in due puntate sul “Critone” e nel ’63 arriva il riconoscimento del Premio Teramo assegnato da una giuria di altissimo livello composta, tra gli altri, da Diego Valeri (presidente), Carlo Betocchi, Carlo Bo e Giacomo Debenedetti. Il racconto diventerà poi un film in bianco e nero diretto da Adriano Barbano, pioniere del cinema e della tv privata in Puglia tra i primi registi a valorizzare questa terra, tanto che nel ’65 Lino Miccichè, straordinario critico dell’Avanti! e direttore della Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, propone “Il Tramontana” per rappresentare l’Italia nella prima edizione dell’importante rassegna cinematografica.
È un’epoca di grande fervore i cui risultati lusinghieri aprono nuove prospettive: Rina cementa negli anni i rapporti con Luzi, Bigongiari, Caproni, Betocchi, Bodini, Fallacara, Gatto, Cassieri, Pierri; incontra con Girolamo Comi, il barone senza scettro di Lucugnano, “L’Albero” e l’Accademia salentina di Maria Corti, Oreste Macrì, Mario Marti, Luigi Corvaglia, Donato Valli; condivide passioni e ideali con Giovanni Bernardini, Nicola Carducci, Vittore Fiore, Enzo Panareo e Nicola Cavallo animatori con Michele Maddalo e Francesco Lala de “Il Campo”. Una minoranza eletta, un entourage culturale, che da Lecce si dipana tra Firenze, Roma, Milano in un’attività senza sosta.
Il grande momento arriva con La malapianta (Premio Salento 1965), pubblicato da Rizzoli nella collana “Lo zodiaco”, che ospita testi di Oriana Fallaci, Indro Montanelli, Luce d’Eramo, Ugo Ojetti, Orio Vergani. Un premio di grande valore con la giuria prestigiosa di Maria Bellonci (presidente), Sandro De Feo, Mario Sansone, Bonaventura Tecchi e Giampiero Dore, che negli anni precedenti era stato assegnato a Cesare Pavese, Carlo Bernari, Giuseppe Dessì, Domenico Rea, Elio Vittorini, Ignazio Silone, Carlo Cassola, Nino Palumbo, Giuseppe Cassieri, Dante Troisi e Italo Calvino. Di quel periodo Rina mi raccontò come si sentisse al centro di un turbine: interviste, viaggi, presentazioni, recensioni a non finire su giornali e riviste. Un caso letterario del quale si occuparono i maggiori critici italiani, rinvigorendo la tradizione letteraria meridionale.
I tempi, però, erano cambiati e tra stridenti contraddizioni si faceva largo in Italia una tumultuosa e feconda volontà di cambiamento e rinnovamento della società e dello Stato. L’urgenza dell’impegno civile si era fatta già sentire: Rina era una militante del movimento operaio che, prima nel Psi poi nel Pci, rivendicava con l’orgoglio della propria autonomia intellettuale, spesso in conflitto con il ceto politico, il senso dell’appartenenza rimasta integra e fedele agli ideali di giustizia, libertà e uguaglianza. Proprio per questo, anche sull’onda della rivolta operaia e studentesca di fine anni Sessanta inizi Settanta, alla quale prese parte con atteggiamento critico senza mai cedere il passo alle facili scorciatoie dell’estremismo, la sua opera è stata contrassegnata dall’impronta che dal Gramsci dei Quaderni arriva al Gianni Bosio delle Edizioni Avanti!, dei Dischi del sole, del Nuovo canzoniere italiano. E non è un caso, infatti, che anche nella ricerca antropologica ed etno-musicale, Rina raccoglie l’eredità di Ernesto de Martino, già commissario politico della Federazione provinciale del Psi di Lecce e poi militante del Pci, riportando gli studi sul tarantismo de La terra del rimorso all’attenzione della politica culturale.
È di quella fase la formazione del Canzoniere grecanico salentino con Luigi Chiriatti, Bucci Caldarulo, Roberto Licci, Daniele Durante e Rossella Pinto, l’impegno nella riscoperta della dimensione folklorica e demologica delle classi subalterne e la successiva pubblicazione nel ‘77 per la Fonit Cetra del long playng Canti di Terra d’Otranto e della Grecìa salentina nella pregevole collana “Folk” diretta da Giancarlo Governi con in copertina una dolente tarantata realizzata con tratto originale da Beppe Madaudo, tra i maggiori artisti italiani, e che per certi versi ricorda il “Cristo morto” di Andrea Mantegna.
Gli anni romani dell’insegnamento consolidano la frequentazione di un milieu intellettuale e politico di alto livello, che favorisce nuovi e duraturi rapporti. L’incontro con Giovanna Marini e con altri studiosi di musica popolare rinvigorisce il lavoro culturale e, a quarant’anni di distanza, resta ancora attuale l’antologia sulla condizione meridionale, che insieme ai testi di Verga, Scotellaro, Tommaso Fiore, Vittorini, Balestrini e altri, pubblica canti popolari e l’esperienza degli alunni di una seconda classe elementare di Giurdignano (Le) e della loro insegnante, Alba “Bucci” Caldarulo, nella scrittura del libro di testo basato sulle proprie esperienze di vita reale. Bucci, l’amica di sempre, sarà poi l’impareggiabile interprete dei motivi folklorici, che hanno fatto grande il patrimonio della tradizione salentina. Rina si era battuta per dare voce e dignità alle genti dell’altro Salento e ci indignava profondamente che ne venisse accreditata un’immagine pauperista e popolaresca, del tutto avulsa dai necessari approfondimenti storici e completamente mondata con scellerata faciloneria del connotato politico originario.
Nei mille interessi c’è posto anche per il giornalismo con la collaborazione alla terza pagina de La Gazzetta del Mezzogiorno, Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto, dal quale fu malamente estromessa dopo il cambio di proprietà, l’Unità-Paese nuovo, Corriere canadese, Dove, Avvenimenti, Tandem, qui Salento, Almanacco salentino e per ultimo Corriere della Sera-Corriere del Mezzogiorno. Non mancarono le collaborazioni con la Rai per programmi televisivi e radiofonici come Il sacco di Otranto, Glossama e Misteri. Docente rispettata, da sempre è stata ricordata per il suo originale metodo didattico e pedagogico, che metteva a soqquadro gli schemi ammuffiti della scuola italiana: un insegnamento affascinante che accompagnava gli allievi nel percorso degli studi e della vita, mantenuto vivo nel tempo sino ai recenti corsi di sceneggiatura tenuti per la cattedra di Storia del teatro all’Università di Lecce.
Il teatro era un’altra sua passione e lo testimonia Tutto il teatro a Malandrino, edito da Bulzoni nella collana “Biblioteca teatrale” che, diretta da Ferruccio Marotti, pubblica numerosi testi tra cui quelli di Grotowski, Meldolesi, Taviani, Feroni, Cruciani e altri ancora. Ma era lei stessa teatrale, le piaceva andare in scena recitando tra amici pièce che solo la sua sagace ironia era capace di inventare al momento: battute salaci e fulminanti, mimica da istrione e una padronanza del linguaggio, unica nel suo genere, che coglieva il senso delle cose. Nei primi anni Ottanta scrive Ballata salentina su musica di Daniele Durante e sul finire di quel decennio è impegnata nel soggetto e nella sceneggiatura del film La sposa di San Paolo, che diretto da Gabriella Rosaleva e interpretato da Lou Castel e Francesca Prandi è in concorso per l’Italia al Festival di Locarno. Sul tema del tarantismo realizza anche Viaggio a Galatina per la regia di Gino Santoro, da sempre accanto alla scrittrice nelle tante iniziative che nel tempo li ha visti protagonisti.
Rina ha rappresentato il meglio della cultura meridionale, ne ha raccolto l’eredità e ne è stata tra le interpreti più acute. Abbiamo avuto l’onore della sua amicizia fraterna e solidale, conosciuto l’azzardo e la radicalità delle sue scelte di vita, la sua dolce timidezza e l’ardita padronanza e consapevolezza del suo ruolo: anni di discussioni, di confronto, di legame cementato da infuocati innamoramenti intellettuali per uno scrittore, un poeta, un regista, di accese ironie sui nostri caratteri, di scontri politici e furibondi litigi finiti in un abbraccio. Un’intesa culturale, civile e politica, che pur nelle asprezze del presente, accentuate dalla foga distruttrice dei principi condivisi, ci portava a volte verso il disincanto, subito sopraffatto dal richiamo di dom Helder Càmara: “Se do da mangiare ai poveri mi chiamano santo; se chiedo le cause della loro povertà mi chiamano comunista”.
Rina è stata una comunista, aggiungo italiana perché è un tratto distintivo di una grande tradizione politico-culturale: non aveva un buon rapporto con il Pci e alcuni fili si erano spezzati, ma non rinunziò mai all’azione, soprattutto come dirigente del Sindacato scrittori con De Jaco, Buttitta, Joyce Lussu, Miccichè, Toti, Pedullà e tanti altri che la stimavano. C’è un passo del poemetto di Vittore Fiore Qualcosa di nuovo intorno, che pubblicammo su Quotidiano il 20 gennaio del 1990 in occasione dei settant’anni del poeta meridionalista e che vale la pena riproporre come segno incancellabile di quella aspra e densa temperie al centro dei nostri aggrovigliati tormenti: Galoppate grandi cieli di Puglia, / olivi accesi da soli splendenti, / una sola volta vibrate, lontani suoni / e gli immensi silenzi, / regni della nostra giovinezza, / avanzino come delirio di ideali, / di ironiche orgogliose eresie. / I tempi sono più rapidi / e non sono nemmeno triste / e insoddisfatto. C’è qualcosa / di nuovo intorno, se ha un legame / col passato non so né saprò mai. / E allora prendo le distanze, / nell’atto di ricomporre l’edificio / di un tempo che è stato distrutto.
Mi disse di essere stata molto contenta quando i Comunisti Italiani del Pdci salentino, riconoscendo da sempre il suo indiscusso prestigio, le offrirono la candidatura in occasione di una consultazione elettorale, ma l’agone politico non era più nelle sue corde anche se sentiva quel partito erede del Pci da sempre vicino ai suoi ideali, tradizionalmente legati alla difesa dei lavoratori e dei più deboli. Non le era mancata una fugace esperienza amministrativa con il Partito socialista nella sua Melendugno e la partecipazione in prima persona ad alcune campagne elettorali del Partito comunista, a dire il vero molto sui generis e diventate argomento di divertentissime discussioni.
C’è un altro aspetto, anch’esso legato alla valorizzazione culturale del territorio che, su sollecitazione di Sergio Spina, raffinato e innovativo regista della Rai sin dalle sue prime trasmissioni, ci portò a percorrere in lungo e in largo la Puglia e la Basilicata in occasione della collaborazione di Rina con la Guida dell’Espresso ai ristoranti d’Italia, allora diretta da Federico D’Amato, un bon vivant nascosto dietro il celebre e temuto pseudonimo “Gault & Milleau” del settimanale, terrore dei ristoratori per le sue critiche e responsabile degli Affari riservati del Ministero dell’Interno, immancabile oggetto delle nostre discussioni su segreti di Stato e misteri d’Italia, fantapolitica e anni bui della Repubblica spesso rivelatisi veritieri. Durante una di quelle scorribande enogastronomiche mi disse che gli ricordavo Vittorio Pagano: “Ma io non sono un poeta”, risposi alquanto interdetto, “e non l’ho mai conosciuto se non attraverso le sue introvabili poesie e i tuoi mirabolanti racconti”.
“Non sarai un poeta”, replicò, “ma le buone forchette si riconoscono dall’amore per la poesia e la letteratura”. E aggiunse ridendo: “Insieme saremmo stati un terzetto formidabile capace di infiammare questo Salento agonizzante”. Tornati a casa mi regalò I quaderni di Malte Laurids Brigge, in traduzione Utet del 1946, e Del poeta di Rilke, primo volume della nuova serie dell’Universale Einaudi, che l’editore torinese stampò esattamente sessant’anni fa, insieme ad una mini edizione in carta di riso delle opere del Foscolo pubblicata da Hoepli nel 1957. “Ti consiglio di rileggere soprattutto i Sonetti e i Sepolcri, perché domani sarai interrogato da Pagano”, si raccomandò ridendo. Conservo i tre libri gelosamente come fossero reliquie. Sui due volumi di Rilke solo Del poeta porta la firma Rina Durante con la dedica del curatore Nello Sàito alla memoria di Giaime Pintor, su quello del Foscolo c’erano scritte queste poche righe di Pagano: O Rina – Caterina / o Rana – Canterina…/ (pardon! è un lapsus, / tanto vero che ti offro / auguralmente il mio / autore prediletto). Santa Caterina 1958. Vittorio. Un regalo di un amico donato ad un altro amico, un gesto di affetto e di fiducia, che dà la misura di quanto il comune sentire culturale ci tenesse uniti.
Rina non temeva il giudizio morale sulle sue scelte di vita, libera com’era dai pregiudizi e dagli odiosi discrimini che imbavagliano qualsiasi tipo di diversità. Era una donna fiera degli obiettivi raggiunti e della considerazione di cui era circondata, così da ricordare insieme ogni tanto quella stupenda frase di Sant’Agostino: “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per le cose che non vanno e il coraggio per cambiarle”. Aveva coraggio Rina, soprattutto negli ultimi mesi della sua vita, assistita con dedizione amorevole da Bibi, Rita e Francesca e dal conforto degli amici più cari. Tre donne esemplari, verso le quali bisogna essere riconoscenti, per aver saputo affrontare il gravoso compito di accudire ed essere vicine alla nostra cara Rina sino al soffio finale della sua esistenza.
Sul letto di morte aveva un sorriso beffardo e mentre la guardavo a lungo per l’ultima volta, arrivarono gli amici di Calimera, legati a Rina da un singolare affetto. Un momento commovente che mi fece sorridere ripensando a quando dissi, scherzando, che i calimeresi erano un po’ megalomani, tanto da chiamare Parioli, quartiere della ricchissima borghesia romana, una parte del paese. “È vero”, mi rispose, “perché loro si considerano capitale della Grecìa”. L’amata Grecìa salentina che chiamammo l’Isola rossa, i canti in griko, le incursioni gastronomiche, le feste popolari, il 1° Maggio a Kurumuny in quel di Martano, la “leggendaria” gita nel caldo primaverile a bordo della mia vecchia moto Guzzi V7 dai paesi grecanici alla costa di Otranto fino a Roca, con sosta finale e ristoratrice a San Foca nella casa-rifugio di Gino Santoro e Beatrice. E poi il Carnevale grecanico, durante il quale, quasi trent’anni fa, lanciammo da Sternatia l’idea di un consorzio tra i paesi dell’area ellenofona. In uno degli ultimi incontri a casa sua, pensando alla nostra esperienza, mi venne da dire che eravamo andati talmente avanti che se ci fossimo girati indietro avremmo visto il futuro.
Rina navigava con la sua barca che ribattezzammo “Hotel Alalonga”, attraversava il Canale d’Otranto e, come un capitano di lungo corso, faceva rotta verso la Grecia: salutava da lontano la sua Saseno, immaginandola inondata dal giallo delle ginestre, e approdava a Sivota, Itaca, Fiskardo, Parga. Vacanze indimenticabili, raccontate in reportage esilaranti sui diportisti salentini con uno stile giornalistico tutto da imparare. Era una critica letteraria rigorosa e, pur non sentendosi bene, fece di tutto per partecipare come giurata alla riunione romana degli “Amici della domenica”, sodalizio fondato dalla scomparsa Maria Bellonci, per l’assegnazione del Premio Strega 2004. Chiamata a far parte della giuria del “Premio Salento” voleva riportarlo agli antichi splendori con una formula, che come nel passato vedesse il coinvolgimento degli editori e degli autori.
Fino a quando le forze glielo hanno consentito ha continuato a lavorare meticolosamente alla scrittura di una serie di racconti e alla ristampa dei suoi testi, molti dei quali non più disponibili, ma negli ultimi tempi era stanca e sempre più stremata dalla malattia. Pensavamo di riproporre un “corpus” dei suoi scritti che comprendesse i lavori più significativi nei diversi generi da lei trattati, affidando l’apparato critico a studiosi capaci di ricostruirne non solo il percorso letterario ma, soprattutto, la valenza culturale e politica lungo mezzo secolo di impegno civile. Vigile con un’intelligenza vivida e attenta, il male non è riuscito a devastare il suo acume, si è solo portato via giorno dopo giorno un po’ della sua corporeità.
Ma Rina, comunque, era bellissima come in quella foto che la ritrae ventenne nel pieno della giovinezza: lineamenti fini, lunghi capelli che incorniciano un volto accattivante, occhi che scrutano la vita magari alla guida della sua storica Lambretta con la quale lei e Pagano, lungo le allora polverose strade del Salento, raggiunsero un giorno Lucugnano per far visita a Comi. Era una donna moderna e combattiva, elegante anche quando l’etichetta non glielo imponeva, e non le sfuggiva quanto sia stato faticoso affermare la sua autonomia da benpensanti e moralisti, dall’inettitudine e dalla pigrizia.
Non sopportava gli incolti, aveva pochissime e selezionate amicizie cui dedicava il suo tempo, moltissimi erano i suoi conoscenti e, spigolosa com’era, non si concedeva facilmente, ma superato un possibile iniziale momento di diffidenza, entrava subito in sintonia con l’interlocutore, assicurando attenzioni e consigli benevoli. Nel suo grande e premuroso cuore c’era un posto particolare per Camillo, amatissimo pronipote e figlio di Rita e Toni Robertini, quest’ultimo valente musicista e promettente intellettuale, troppo presto strappato alla vita.
Ospitale e accogliente, Rina non dava molto peso al danaro ma esigeva il giusto riconoscimento del duro lavoro intellettuale, era soddisfatta di quello che aveva fatto e altrettanto avrebbe voluto fare ancora, anche se non poche erano le difficoltà e le incomprensioni da affrontare per riconfermare e rivendicare un primato culturale che le spettava, conquistato giorno dopo giorno con impegno e sacrificio, senza mai sottrarsi al suo compito. Mi confessò che stava vivendo una seconda giovinezza, di sentirsi leggera, di essere innamorata della vita e incantata dai suoi risvolti inaspettati.
Ci vorrà ancora del tempo per trovare le parole capaci di raccontare questa parte della sua esistenza, ma una cosa è certa: la lunga storia di Rina Durante sarà una lezione difficile da archiviare perché non permetteremo alla dannazione della memoria di avere la meglio. Una promessa che non si ferma alla tristezza dell’oggi ma resta un impegno per il domani, quando sarà più arduo essere custodi fedeli della sua eredità.
Bruno Brancher, il fuggitivo
Anche per Bruno Brancher, milanese di tutti e di nessuno, il ricordo si fa memoria per le sue mille improvvise e imprevedibili incursioni in terra salentina: Forse sono un’apparizione. / Appaio e scompaio nel giorno e nella notte. / Sono un ectoplasma o un uomo vivo? / Oppure, chissà, forse sono solo un’ombra. / Ma spero che di me rimanga almeno il ricordo. (da Tango con sinuose movenze, 1997).
Brancher, “il fuggitivo” scomparso il 27 novembre 2009 nella casa di riposo “Residenza serena” di Alice Castello nel Vercellese, non era un uomo facile, anche se aveva dalla sua parte il puntiglio dell’innocenza tipica del ladro gentiluomo. Portava leggero il fardello di due vite in una: la prima segnata da una marginalità, fattasi a volte precariamente lussuosa con i proventi di furti e disarmanti rapine; l’altra con la faccia del redento, che con la scoperta della scrittura diventa cosciente di sé.
Non è poco ma nemmeno tutto per chi come Bruno, milanese delle “Cinque Vie” dove era nato il 5 dicembre 1931, ha vissuto gli anni della “ligera” - la mala romantica dei Navigli, bonacciona e spesso maldestra e arruffona, che al confronto con l’oggi fa quasi tenerezza - ha scontato più pene in molte carceri italiane, ha partecipato alle rivolte dei detenuti negli anni Settanta, ha rincorso nella cella la morte con scioperi della fame dopo aver tentato vanamente, almeno così diceva, di uccidere per amore la sua donna, colpevole solo di amare un’altra donna. Una storia antica di sangue e di coltello, orribile ai nostri occhi, per un tradimento insopportabile secondo la sua scala di valori. Eppure la raccontava come Una bellissima storia d’amore caduta nel vuoto dell’eterno ritorno di un destino slabbrato dai fantasmi di un passato, forse mai compiutamente passato. Lo testimonia quella Ballata randagia in cui scrive: E poi ti sdraierai e così terminerai la tua giornata / di uomo eternamente scacciato / di uomo comunque spensierato. / Spensierato come me / che anche ora mi sento un po’ randagio.
Bruno Brancher - Da un'intervista di Tonia Cartolano e Omar Schillaci |
Fu il suo ’89, uno spartiacque, un muro tra un prima e un dopo, iniziato nei riformatori, passato nei penitenziari, nelle miniere di carbone di Charleroi e Mons in Belgio, nelle evasioni, nella Francia parigina di Montparnasse e di Lilla tra diamanti, ballerine di Pigalle e donne avvenenti, e nella fuga scapestrata verso la Legione straniera.
Quel prima iniziò al Ticinese, dove per lui la vita scorreva grama: figlio di Rosa ragazza madre del bellunese, che per tirare avanti fu anche costretta a “fare la vita”, Bruno si era subito ingegnato in opere leste e maramalde portando a casa, così raccontava, la bicicletta di Fausto Coppi, primo trofeo di una lunga attività tra assalti con “spaccate” in gioiellerie e improbabili rapine da sopravvivenza nel periodo di Luciano Lutring “solista del mitra”. Nel gioco vero di guardie e ladri sono sempre quest’ultimi a rimetterci ed è stato così che anche per Bruno si sono aperte le porte degli istituti di correzione e di pena e con esse quelle delle rivolte per chiedere più dignità per i detenuti. Bruno finisce sui giornali, subisce pestaggi e “Soccorso rosso” si occupa di lui, Dario Fo e Franca Rame vogliono conoscerlo e in tanti iniziano a scrivergli. È in quelle sue lettere di risposta che comincia a raccontare la sua vita finita poi in “Disamori” con copertina di Andrea Pazienza e in tanti altri volumi come “Il potente a pezzi” sotto l’occhio attento di Oreste del Buono, il mitico “Odibì” con cui spesso entrava in conflitto come con Alda Merini, altra figura a noi cara, alla quale in un fine agosto del ’99 fu assegnato il premio “L’olio della poesia” nella Serrano di Peppino Conte.
Tutte cose che “l'ultimo picaro” ha raccontato nei suoi libri, nelle sue ballate e poesie senza contare le centinaia di articoli, interviste e interventi, che nonostante la balbuzie erano sempre intriganti. Tutto scritto nero su bianco per narrare quella lunga stagione, che lo ha visto protagonista della scena engagè milanese tra editori e giornalisti, scrittori e poeti che lo accolsero e lo adottarono nell’avventura di cambiare il mondo. Quegli anni Settanta di grandi e travolgenti passioni e disinteressato impegno hanno avuto molti volti e Bruno era uno di questi, in prima fila in assemblee infuocate, incontri, reading poetici, irruzioni in case editrici e nelle redazioni giornalistiche per far valere quella sua scrittura, che lo aveva strappato al passato. In tanti ricordano che fu proprio lui a scardinare la serratura di un’ex fabbrica chimica dismessa nella zona di Lambrate, dove nell’ottobre ’75 si accasò il Leoncavallo, storico luogo di aggregazione giovanile, così come il Macondo di Mauro Rostagno, nato nel ’76 dopo lo scioglimento di Lotta continua, che vide Brancher tra i fondatori.
Nel Salento arrivò al tramonto di quel decennio tanto infiammato quanto indimenticabile e subito, nei primissimi anni Ottanta, si presentò nella redazione di “Quotidiano” accompagnato dal sociologo Piero Fumarola, amico comune che come sempre non si lasciava sfuggire l’occasione di far conoscere e apprezzare i suoi amici “border line”. Scattò subito la simpatia per quest’uomo di mezza età in gilet, cravattino da anarchico, capelli arruffati, occhi chiari dietro lenti alla moda, battuta pronta e fulminante anche quando la parola inciampava nella balbuzie con la quale sapeva giocare suscitando ilarità gioiosa e leggera. Offrì la sua collaborazione e, come responsabile delle pagine culturali e degli spettacoli, non me la feci scappare. Iniziò così quella solida amicizia, che in un turbinio di iniziative consolidò la presenza di Bruno in questo nostro Salento. Tra i suoi scritti più belli ricordo Cullato dal vento che “Quotidiano” pubblicò nell’edizione del 28-29 luglio 1991.
A unirci erano anche le sigarette Camel senza filtro, le scarpe di buona fattura inglese e le penne stilografiche con l’unica variante dell’inchiostro, per lui il blu per me il verde brillante Pelikan. Una volta mi regalò la sua Shaffer dorata, che resta un pezzo unico della mia collezione, come unica fu quella notte leccese che passeggiando per ore con Giovanni Pellegrino, gli feci riassaporare il gusto delle Camel in una desolata piazza Mazzini, occupata solo dalla nostra discussione su Gobetti e Gramsci, Chandler e Calvino. Erano quelli i tempi dei ristretti incontri per l’organizzazione di “Salentopoesia” nella casa accogliente di Antonio Toma, che da Lequile ne segnavano il percorso con Antonio Verri, catalizzatore di talenti e gran cerimoniere dell'evento inventato da Bruno. Fu un ’86 bellissimo e il suo ricordo si fa struggente al pensiero che anche nella “Finibus terrae” salentina era possibile mutuare, pur con proprie specifiche identità, le grandi manifestazioni di Castelporziano o di Milanopoesia, animata a partire dall’83 da quel genio di Gianni Sassi, straordinario organizzatore culturale e padre di “Alfabeta”, che su nostro consiglio accolse scritti di Toni Robertini, musicista eclettico con il suo amato sax e studioso attento di filosofia.
Da Lequile spesso ci spostavano nel piccolo locale del vecchio Mocambo di Sternatia, che Vito Maniglio gestiva nel centro del paese grecanico prima di trasferirsi nell’attuale struttura, dove pure negli anni seguenti ci ritrovammo attovagliati innumerevoli volte. Bruno era goloso di salumi e formaggi, grana soprattutto, accompagnati esclusivamente da vino rosso, che entrambi giudicavamo l’unico degno di essere bevuto: “Il vino o è rosso o non è” dicevamo all’unisono e spesso portava con sé il Chianti di un suo amico senese da offrire ai suoi amici salentini in cambio di Primitivo o Salice. Quella prima edizione di Salentopoesia “Dioniso o della vita” fu una magia irripetibile, come lo fu il “Quotidiano dei poeti”, che solo la lucida follia di Antonio Verri poteva realizzare e distribuire nelle principali città italiane attraverso una rete amicale, che ancora oggi resta una inspiegabile impresa durata per più giorni. Un sistema puntuale di distribuzione attraverso sinergiche relazioni, si direbbe oggi, tra gli amici di Verri e quelli di Brancher, che come spesso dicevo ricordava la diffusione della stampa clandestina durante il fascismo.
A “Salentopoesia” c’era di tutto: avanguardia e tradizione, richiami al Gruppo 63 o ai Novissimi, ermetici e simbolisti, nostalgici del Village e della beat generation di Ferlinghetti, Ginsberg, Corso, tutti però immersi in quel grande spazio di libertà che da sempre ci riserva la poesia. Fu proprio in quell’agire poetico, che si andò formando una nuova generazione di poeti alla cui crescita contribuì non poco la strana coppia Verri-Brancher. Citarne nome per nome si potrebbe correre il rischio di fare qualche torto, ma sono tuttora in piena attività, con qualche forzata assenza come quelle di Salvatore Toma e Claudia Ruggeri troppo presto strappati alla vita.
Bruno tornava spesso nel Salento per partecipare ad iniziative letterarie, messe a punto con febbrile attività da Antonio Verri. Ospite di Antonio Toma anche nel bosco sulla strada per Arnesano, era considerato uno di noi, un nostro amico a cui volevamo bene. Ricambiati dal suo affetto, è stato compagno di mille avventure, non escluse quelle un po’ azzardate come quando di ritorno da Maglie, dove avevamo assistito ad una Messa in ricordo di Totò Toma, ci infilammo in un noto locale di leccornie leccesi e riuscì a comperare un whisky riserva Lagavulin da 120.000 lire per sole 12.000 lire coprendo con il pollice l’ultimo zero. Disse ridendo che era un esproprio proletario e rivendicando tra le risate il suo passato di simpatica canaglia, propose di terminare la serata con una cena a casa mia, immortalata come in altre occasioni dalle foto di Fernando Bevilacqua, ancora oggi archivio visivo di memorabili giornate. Con Brancher e Antonio Toma dire “terminare la serata” era un tempo alquanto vacuo perché Bruno, ricordando il suo passato tra night club, belle donne e luccicanti fuori serie, pronunziava a Milano come a Lecce, a Roma come a Firenze il fatidico e consueto invito: “Andiamo in vita”, accolto con timida ritrosia da Antonio Verri “l’uomo dei curli”.
La sua casa al Corvetto era per noi sempre aperta e non mancava mai di portarci in giro nella Milano più nascosta e imprevedibile. L’ex ladro era diventato famoso e nel ’94 con “Una bellissima storia d’amore” fu finalista al premio Pen club, la prestigiosa associazione internazionale che riunisce scrittori e letterati di tutto il mondo. Nel 2000 arrivò anche l’Ambrogino d’oro, massimo riconoscimento alle persone che hanno dato lustro alla città, con questa motivazione: “Una vita difficile, un passato turbolento, il riscatto di un uomo che non si è mai arreso. Figlio di una modestissima famiglia, entra presto a far parte della “ligera” e trascorre più di vent’anni nelle carceri italiane. Combatte l’apatia e l’isolamento della detenzione dedicandosi allo studio, alla lettura e alla scrittura. Un talento nato quasi per caso lo afferma apprezzato poeta e scrittore in tutta Italia. I suoi scritti vengono pubblicati da importanti case editrici tra cui Scheiwiller e Feltrinelli”. Arrivò anche in tv, ospite in più occasioni di Maurizio Costanzo e la prima volta nel ’95 fui proprio io, trovandomi a Roma, ad accompagnarlo al teatro Parioli, dove venivano registrate le puntate. Per niente intimorito da riflettori e telecamere, fece la sua bella figura raccontando della sua vita e dei suoi libri e, come al solito, la serata finì in una tipica trattoria romana di Campo de’ Fiori, un luogo a me caro dove fu bella giovinezza. Tra i tanti discorsi ricordo che parlammo di quel suo parente famoso dal quale Bruno fu sempre distante, Aldo Brancher, ex prete paolino in carriera nella Fininvest, caduto nella rete di Tangentopoli con qualche mese a San Vittore, diventato poi onorevole, sottosegretario e ministro nel governo Berlusconi per soli 17 giorni, restato impigliato nel caso della banca Antonveneta e dimessosi nel luglio 2010.
Bruno “il fuggitivo” ha continuato a scrivere e a mantenere contatti con giornalisti ed editori, sino a quando la vita gli ha intimato di tirare i remi in barca. Gli incontri si erano diradati, soprattutto dopo la scomparsa prematura prima di Antonio Verri poi di Antonio Toma, e al telefono spesso faceva fatica a riconoscerti. La casa di via dei Cinquecento al numero 8 diventava sempre più povera e immersa nel disordine di una nobile miseria. Fu come se la vita che passa fosse stata investita da un corto circuito mentale e consegnata al silenzio. Il cuore troppo malandato e la tristezza presero il sopravvento mentre la memoria segnava il passo e, mortificata dall’Alzheimer, si perdeva nell’amarezza del nulla.
Tempo dopo seppi che “l’uomo delle biclette gialle” era stato ricoverato in una casa di riposo in Piemonte, dove ha trascorso gli ultimi anni di un’esistenza avvolta nella nebbia senza più storie da raccontare. Il fuggitivo è uno senza storia ma con tante / storie (ancora) da raccontare e abitualmente tenta / di rivendicare l’esigenza di non avere esigenze. / Il fuggitivo ha il viso privo di espressione perché / ormai (dice lui) nulla più lo sorprende ma io / so che la vista di tre rose rosse lo fa (ancora) sorridere. / Al fuggitivo nella corsa i sentori e gli odori / gli giungono pungenti sì che il suo volto (a volte) / viene rigato da lacrime che il vento (comunque) subito asciuga. (da Luoghi di frontiera, nella collana “I Mascheroni” diretta da Antonio Verri, Erreci edizioni, Maglie, 1991).
Questo è solo in parte ciò che resta del mio Bruno, l’altro continua a vivere nelle centinaia di articoli pubblicati da giornali e riviste tra cui “Quotidiano” di Lecce, “l’Unità”, “L’Europeo”, “la Repubblica”, “Corriere della sera”, “ControInformazione”, “Lotta Continua”, “Il male”, “Alteralter”, “Linus”, “Max”, “Cuore”, e nei suoi numerosi libri “Disamori” (Squi-libri, 1977), “Il potente a pezzi (Linus Rizzoli, 1979), “Lezioni di ballo (Corpo 10, 1986), “Eh?” (Pensionante de’ Saraceni, 1989 a cura di F.S.Dodaro e A.Verri), “L’ultimo picaro. L'uomo delle biciclette gialle”, con uno scritto di Stefano Jesurum, (All'insegna del Pesce d’oro, Scheiwiller, 1991), “Cuore di Bruno” (Enaip Lombardia, 1992; ripubblicato con prefazione di Michele Serra da La Vita Felice nel 1996), “Tre monete d’oro” (Feltrinelli, 1992 con prefazione di Oreste del Buono), “Una bellissima storia d’amore” (La Vita felice, 1994), “Disamori vecchi e nuovi” (Feltrinelli, 1995) e “Tango con sinuose movenze” (La Vita Felice, 1997).
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