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  • Journalisme narratif
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (sous la direction de)
    Numéro monographique publié avec le parrainage de l'Ordre des Journalistes de Sicile

    M@gm@ vol.13 n.1 Janvier-Avril 2015



    SPINELLI: UN ARTISTA RACCONTA IL POPOLO ROM

    Gian Mario Gillio

    gianmario.gillio@fcei.it
    Giornalista, responsabile comunicazione e relazioni esterne Federazione delle Chiese evangeliche, ex direttore della rivista Confronti.

    «La popolazione romanì rappresenta una nazione senza Stato e senza territorio ed è costituita da circa dodici milioni di individui, distribuiti nei cinque continenti - otto milioni circa in Europa e circa centoventimila in Italia, di cui l’80% di antico insediamento con cittadinanza italiana», racconta Santino Spinelli.

    Spinelli è un musicista affermato e con la sua fisarmonica ha girato il mondo. Quando ci incontriamo per l’intervista è appena rientrato da Bruxelles dove si è esibito davanti al presidente della Commissione Europea Martin Schulz: «un’altra emozione forte dopo il concerto al cospetto di papa Francesco», sorride soddisfatto Santino.

    L’entusiasmo di “Alexian” (il nome d’arte) è sempre vitale ed energico, sia quando racconta nei dettagli l’incontro con papa Francesco sia quando parla della piccola comunità metodista di Scicli (Rg) che, attraverso la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) con il progetto Mediterranean Hope (Mh), ha aperto nella piccola località siciliana una Casa delle culture - centro di accoglienza per migranti.


    Santino Spinelli in arte Alexian

    Di rientro da Bruxelles, l’artista ha fatto tappa in Sicilia dove ha suonato per la popolazione sciclitana e tenuto una lezione per i ragazzi del liceo locale. Spinelli è un volto noto e un professionista stimato in diversi ambiti. Spesso partecipa a programmi televisivi e radiofonici, scrive (sovente è intervistato) per quotidiani e riviste perché, oltre ad essere un musicista raffinato è anche docente universitario di lingua e cultura romanì presso due Università: Trieste e a Chieti.

    Con il “rom italiano” – nato a Pietrasanta (Lu) il 27 luglio del 1964 da Gennaro e Giulia Spinelli, ultimo di sei figli (cinque sorelle), laureato in lingue e letterature straniere e moderne e in musicologia, conseguite entrambe all’Università degli studi di Bologna - decidiamo di darci appuntamento in un luogo davvero particolare e non accessibile a tutti. La splendida cornice è la terrazza che si trova all’ultimo piano di un ministero, e dove, dall’alto, possiamo ammirare Piazza Colonna e Palazzo Chigi, sede del governo italiano ma anche Palazzo Montecitorio: la Camera dei Deputati. La nostra chiacchierata avviene sorseggiando un caffè.

    La bella giornata soleggiata invita i nostri occhi a guardare il mondo che ci circonda, il cielo azzurro, le persone piccole piccole che come formiche si muovono nelle piazze, autobus e auto che sembrano immobili da quella distanza, un piccolo plastico. Quel mondo, che solitamente frequentiamo e attraversiamo distrattamente e freneticamente ci appare nuovo: una prospettiva diversa forse dovuta all’altezza, certamente una posizione privilegiata. Nel passato in quei palazzi di potere è nata la nostra democrazia, la nostra Costituzione, ancora oggi si approvano e discutono le leggi.

    Con Spinelli abbiamo deciso di fare una chiacchierata informale, ma utile per far conoscere la “questione rom”, o meglio, parlare della popolazione romanì, delle sue origini. Poco di loro si conosce, molti sono invece i luoghi comuni: i rom rubano; portano via i bambini; vivono sulle nostre spalle … e così via.

    La terrazza del ministero delle Pari opportunità (dove ha sede l’Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale, Unar, che ha appena promosso un dibattito al quale Spinelli è intervenuto come relatore) è dunque il luogo adatto per far partire la nostra ricerca storica. Un popolo di pace, ricorda fiero Spinelli: «che non ha mai fatto la guerra a nessuno». Gli chiedo immediatamente se è rom o sinto?

    «Rom, sinti, manouches, kalé e romanichals sono etnonimi e/o autonimi, ovvero il modo in cui un popolo definisce se stesso; fra loro sono anche sinonimi poiché sottintendono il termine di “uomo, appartenente alla popolazione romanì”. È un errore presentare o considerare i rom e i sinti come due popoli diversi, essendo della comunità della stessa popolazione, in pratica sarebbe come dire milanese o napoletano, sottintendendo “italiano”. L’eteronimo “zingari” - ovvero il nome che i gagé (i non rom) hanno attribuito alle comunità romanès senza alcuna distinzione - li ha sempre caratterizzati con una forte accezione negativa che nel tempo ha cristallizzato anche un sentimento avverso nei loro confronti. “Zingari” è un termine che deriva dal nome di una setta eretica, gli athingani, detti anche atsinganos o atsinkanos, di origine orientale, che a partire dal VIII secolo si introdusse nell’Impero Bizantino. Le comunità romanès furono confuse con gli athingani, da cui derivarono in seguito il nome e la cattiva fama, essendo gli athingani accusati di praticare la magia. Il medioevo - dice Spinelli - ben ci ricorda cosa avveniva a chi praticava la magia. Un altro eteronimo - prosegue - è quello di “nomadi”, termine che viene attribuito anche quando le comunità romanès sono stanziali. E lo sono ormai da secoli. La continua mobilità che ha caratterizzato la popolazione romanì in Europa e nel mondo non è stata una scelta culturale, ma la conseguenza di politiche repressive, un girovagare coatto, dunque non un vero nomadismo».

    Ricordo a Spinelli che in Italia emerge con regolarità la questione dei campi rom. Parole come nomadi e zingari sono all’ordine del giorno e vengono accostate al tema della sicurezza. Come infrangere questi automatismi?

    «La creazione dei campi, che definirei pattumiere sociali o “lager moderni” - mi dice stizzito - come presunto mezzo per “tutelare la cultura e la libertà di chi vuol essere nomade”, ha in realtà creato una vera e propria situazione di segregazione razziale, di apartheid; una ghettizzazione socio-politica e un degrado culturale davvero preoccupante. Quella declamata (non dai rom) e presunta attitudine al nomadismo impedisce, di fatto, di poter ricevere solidarietà da parte dell’opinione pubblica italiana è persuasa che siano gli stessi rom a voler vivere in questo modo, senza sapere che le comunità romanès non possono in alcuna maniera decidere del proprio presente, tantomeno poterne determinare il futuro. Questo è stato il risultato vincente anche di organizzazioni “pro-zingari” che attraverso uno pseudo “volontariato”, hanno ricevuto e tutt’ora ricevono finanziamenti economici; un fenomeno che denuncio da tempo e che ho sempre definito “Ziganopoli”. Questi affari sono emersi con forza con l’inchiesta: “Mafia capitale”. Lo stupore per quanto avveniva in molte cooperative sociali, grazie alle collusioni politiche è finalmente emerso con forza. Ma prima che scoppiasse lo scandalo, sembrava che fosse una mia fissazione, un mio problema personale».

    In effetti, da molto tempo Spinelli denuncia il malaffare che gira intorno ad alcune Associazioni che si occupano di rom e in modo particolare l’esistenza dei campi rom, un’anomalia tutta italiana. Anche il giornalismo, la letteratura, la cinematografia, hanno spesso favorito un’immagine fuorviante, stereotipata e ricorrente del rom come un reietto della società: «La cultura romanì è “forzatamente” confusa con gli aspetti più deleteri della sua comunità, aspetti che ci sono ovviamente - ci tiene a ribadire Spinelli -, ma il messaggio che passa è che solo le comunità romanès possiedono dei difetti. Quando si affronta invece il tema “rom” con le buone intenzioni, si finisce con l’accostarsi a questa cultura associandola a questioni socio-assistenziali o pietistiche. L’opinione pubblica, la società civile, il comune cittadino, in questo modo, sono esclusi dall’informazione e dal diritto ad essere informati. Cosa conosciamo della lingua, della letteratura, della scultura, della pittura e della musica romanì? La risposta è facile, nulla! Le comunità romanès, nonostante la segregazione, le discriminazioni e gli eccidi (oltre cinquecento mila rom e sinti massacrati dai nazi-fascisti, ma dimenticati dalla storia, ndr) hanno contribuito a costruire l’Europa; la cultura romanì ha ispirato alcuni tra i più importanti compositori mondiali: da Brahms a Listz, da Bizet a De Falla, da Shubert a Debussy, sino ai contemporanei».

    Certo, rispondo. Ma parlare solamente di arte e musica non rischia di proiettare verso l’esterno l’immagine folkloristca di una realtà che è molto più complessa?

    «La cultura romanì, intesa in senso antropologico, è costituita da un insieme complesso che include la conoscenza, la credenza, l’arte, la morale, le leggi, i racconti, le fiabe e i proverbi, ma anche i detti, i motti di spirito e ogni altra capacità e abitudine acquisita dall’individuo come membro della comunità. L’uomo apprende e accetta la sua cultura, come apprende e accetta la lingua materna. La cultura romanì - prosegue - è transnazionale, multiforme e paradigmatica con infinite sfaccettature e sfumature, essendo distribuita in ogni continente e in tantissimi paesi. Si è tramandata oralmente di generazione in generazione, per almeno quindici secoli, esponendosi all’influenza delle culture dei paesi attraversati nel corso del lungo viaggio dall’India verso l’occidente. Le vicende storiche, economiche e sociali, hanno condizionato la diaspora romanì tanto che le diverse comunità romanès che sono venute via via delineandosi sono portatrici di diverse tradizioni culturali, affini e diversificate, allo stesso tempo».

    Sembra molto difficile poter fare una capillare ricerca genealogica, antropologica della popolazione romanì.

    «Certamente, io ho voluto cercare le mie origini famigliari ma non è stato facile. C'è un documento del XVI secolo in cui si parla di rom insediati stabilmente a Napoli. È probabile che siano i miei antenati visto che a Vairano Patenora (oggi Vairano Scalo), che dista circa 40 Km da Napoli, nacque un mio avo, Angelo Spinelli intorno alla metà del XIX secolo. È difficile tuttavia poter fare una ricostruzione genealogica perché i Rom non registravano i propri figli e si sposavano alla maniera romanì (la convivenza è considerata al pari del matrimonio, ndr). Un modo per proteggersi e per non esporsi verso il mondo esterno. In questo modo era più facile potersi scambiare le generalità e sfuggire ad eventuali catture».

    L’integrazione nella società e nella cultura italiana sembrano essere messe in discussione dalla cultura romanì. Si percepisce una sorta di diffidenza verso il mondo esterno, da quel che lei dice.

    «In verità si dovrebbe parlare di culture romanès, perché tante e diverse sono le tradizioni. Ogni comunità romanì rappresenta una cultura, un mondo, una realtà e sé stante. I concetti basilari riscontrabili a diversi livelli e con diversa intensità, modalità, tra le comunità si basano costantemente su una percezione dualistica del mondo: il concetto di onore e vergogna; il concetto di puro e impuro e il concetto di fortuna e sfortuna legati alla sfera religiosa, per fare degli esempi. Questi concetti esercitano un forte condizionamento su ogni aspetto della vita, sia individuale che collettiva, e rappresentano criteri di orientamento dei valori essenziali della comunità. La natura dualistica della percezione del mondo è sempre ben presente nella cultura romanì; questa dicotomia è costantemente sottesa in ogni aspetto della vita. Per la popolazione romanì il mondo è diviso in rom (o sinti o kale o manouches o romanichals) e gagè (non rom). La visione dualistica dell’universo si estende all’area dell’igiene personale, del corpo umano, della preparazione dei cibi, della malattia, della salute, dell’erboristeria e della magia».

    La musica, considerata messaggio universale, è capace di mettere in comunicazione culture e popoli. Lei e la sua famiglia di musicisti state facendo molto per far conoscere la cultura e le tradizioni del vostro popolo.

    «La musica è uno dei mezzi più importanti con i quali il musicista romanò esprime e trasmette la romanipè (l’identità e la cultura). Ciascuna comunità romanì ha una propria tradizione e una propria variante della lingua che la rendono unica. La lingua, in particolar modo, condiziona i testi e il modo di cantare e le esecuzioni si basano essenzialmente su due scale, ereditate dalla musica orientale. I canti sono contraddistinti da timbri acuti, sforzati e nasalizzati e da melismi e vibrati. Di solito al canto i rom associano sentimenti di grande emotività, perché spesso il canto narra o ricorda un’esperienza vissuta o una persona cara».

    Quando ci siamo salutati all’inizio del nostro incontro lei lo ha fatto con queste parole “but baxt ta satipè”: «letteralmente vuol dire “che voi possiate essere sani e fortunati” e in modo amichevole “buona fortuna e salute a te”. È il saluto che porto sempre a coloro che incontro. La lingua romanì, detta anche romanì chib o romanès o romanò non ha nulla che vedere con la lingua rumena, né con le lingue romanze, né tantomeno con il romanesco - ride Spinelli - ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane, come l’hindi, il punjabi, il kasmiri, e il rajastani, e deriva dal sànscrito. La romani chib non è altro che il risultato dell’evoluzione, al pari delle lingue citate, di forme popolari e mai scritte di idiomi indiani, mentre il sànscrito è il risultato di una lingua scritta da eruditi in forma colta e artificiale. Il romanès non è un dialetto delle lingue neo-indiane menzionate ma una lingua a sé stante, viva e vitale; come tutte le lingue ha tante varianti dialettali. Essendosi tramandata oralmente per oltre dieci secoli è stata “contaminata” e si è arricchita dalle tradizioni orali con cui è venuta a contatto. Dei tratti indiani la lingua romanì conserva soprattutto la similitudine del sistema fonologico sia sul piano della struttura che su quello della frequenza dei fonemi; circa ottocento vocaboli e affissi; la quasi identità morfologica del gruppo nominale romanì con quello delle lingue neo-indiane».

    In Italia vivono rom con cittadinanza italiana che sono i discendenti dei primissimi gruppi rom arrivati nella penisola tra il XIV e il XV secolo e distribuiti prevalentemente nelle regioni meridionali.

    «Nonostante sei secoli di presenza in Italia rom e sinti sono paradossalmente fra i meno conosciuti poiché si tende a credere che i “veri rom” siano quelli che provengono dai Balcani e che vivono nei campi rom. Così un enorme patrimonio artistico, linguistico e culturale che appartiene all’umanità tutta, resta sconosciuto».

    Il progresso tecnologico, il boom economico, lo sviluppo delle attività industriali hanno soppiantato le attività tradizionali e la maggioranza dei rom ha dovuto operare una riconversione economica, ma il modo di porsi di fronte alla vita e di interiorizzarla e soprattutto la struttura sociale dei rom sono rimaste pressoché immutate. «Oggi molti rom e sinti vivono tra voi, sono i vostri colleghi di ufficio o compagni di banco a scuola, con altri giocate a calcetto insieme; alcuni sono volti famosi della televisione e dello sport nazionale, eppure nessuno lo sa; essi lo nascondono. Nascondono la loro origine di appartenenza per paura di essere discriminati».

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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