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  • Violenza maschile e femminicidio
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014

    FEMMINICIDIO E MOVIMENTO DELLE DONNE



    Stefania Cantatore

    stefania.cantatore@gmail.com
    Napoletana, è attivista dell’UDI di Napoli ed ha ricoperto più volte incarichi Nazionali nell’associazione.

    L’impianto istituzionale è fondato  sulla disuguaglianza e sull’asimmetria tra uomini e  donne in fatto di godimento delle libertà, pur mostrandosi flessibile e benevolo verso donne nelle dichiarazioni di principio tanto dei progressisti quanto dei conservatori. L’opposizione politica e sociale espressa dal movimento delle donne è l’unica capace di durare oltre il tempo di una rivoluzione, perché anche la disuguaglianza tra generi resiste, oltre le rivoluzioni.

    Il fatto che il termine “femminicidio” sia stato ufficializzato nelle sedi politiche ufficiali e neutre, ha comportato un nuovo occultamento della reale dimensione che la violenza acquista nella vita di tutte. Un occultamento del significato e della significanza della parola, inventata per rappresentare la fenomenologia dell’esclusione violenta delle donne dalla gestione del governo personale e politico del mondo. Un occultamento dei fatti, come sempre, manipolando le parole. Ma la parola, femminicidio, continua ad essere insostituibile rispetto ad una fenomenologia che altrimenti  definita la disperderebbe nella banalità di un linguaggio che da sempre normalizza, giustifica e ridicolizza la violenza sessuata.


    Dea Madre con logo (Stefania Di Lino) - Associazione "Movimento Artisti Arte per"

    Il femminicidio: pilastro dell’ordine dello stato

    La violenza espressa dagli uomini sulle donne è stata definita in più modi. Fino a tutt’ora, nel contesto dell’ufficialità,  ognuno di questi modi definisce non il fenomeno nella sua interezza, ma solo alcuni dei suoi aspetti. Quelli che in quel momento storico appare conveniente punire ed esecrare.

    In tutta la storia tramandata si ritrova la testimonianza e la documentazione della violenza esercitata dagli uomini sulle donne: di come veniva concepita nel contesto politico e sociale, di come veniva punita. L’evoluzione generale del diritto in occidente è anche la storia della percezione pubblica dell’identità femminile e dell’identità femminile di fronte alle violenze. Le definizioni del reato cambiano a seconda del livello di tutela che si intende dare alle vittime: la sostituzione della parola “ratto” con la parola “stupro” è sintomatica, dopo la rivoluzione francese, della volontà politica di considerare il danno subito dalle donne a causa del violento, in luogo del danno subito dall’uomo considerato suo proprietario. Fino a tutto l’800, l’ambito al quale il legislatore rivolge la sua attenzione è quello domestico, le donne all’interno di un nucleo familiare. Si trattava, nella transizione verso “la cittadinanza”, di preservare le custodi dei focolari perché potessero svolgere le loro mansioni legate al ruolo loro assegnato. Gli studi condotti sulle carte processuali italiane (L. Gioisis) dimostrano come le, pur blande, pene previste non venissero comminate, ed il processo si risolvesse in un’ammonizione, quando non con la stigmatizzazione della denunciante. In sostanza lo stato moderno fin dalle sue origini, attraverso le leggi comunica che la violenza maschile può essere esercitata in limiti tollerabili nel mantenimento dell’ordine familiare. Le evoluzioni successive, fino all’introduzione del concetto di molestie sessuali nel ’91 con la legge 125 sulle azioni positive che indica la punibilità delle molestie stesse in quanto offesa alla persona nei termini dell’art. 66° del codice penale (raccogliendo la raccomandazione comunitaria dello stesso anno, ma in pratica non introducendo la fattispecie di reato) ignorano i reati sessuati  commessi in ambito lavorativo, demandando la tutela della lavoratrice ad una ambito neutro, cioè misurato su uno standard maschile. Se una parte della violenza sessuata (degli uomini sulle donne) è stata ed è considerata fisiologica nella “disparità naturale” tra donne e uomini (se non addirittura perché esercitata direttamente dal potere), una parte è stata considerata destabilizzante per l’ordine pubblico e per il normale svolgimento delle funzioni sociali e quindi controllata.

    La preservazione della famiglia implica la tutela delle donne nel loro ruolo di servizio e di cura: un eccesso di violenza compromette anche l’ordine sociale. L’esigenza degli stati è quella di controllare, non di contrastare il femminicidio.

    La moderazione, culturale e fisica, dei comportamenti femminili è in qualche modo occultata nel contesto delle società democratiche, dove i diritti femminili sono enunciati e al contempo resi inesigibili, perché considerati non prioritari nel sistema delle emergenze costanti nelle quali opera la politica. Il clima di emergenzialità dei problemi è il contesto risultante da un sistema di governo nel quale la norma è il mantenimento del potere e la soddisfazione dei bisogni è intervento straordinario.

    Il sistema delle emergenze ha posto fuori dall’ordinario i bisogni femminili: i ritardi e la parzialità con le quali vengono affrontati hanno l’effetto di scoraggiare ed abbassare le pretese. L’esercizio  della violenza maschile in questo contesto è strutturata nella trasmissione capillare del controllo politico sulle strutture sociali.

    La delega ad esprimere il controllo sui comportamenti femminili è devoluta a gerarchie nelle quali sono incluse donne che  in cambio di privilegi, altrimenti non concessi, se non attraverso l’adesione al sistema dato. Infatti le sedi di accumulazione delle risorse, dei beni primari, si trovano non tanto nelle mani maschili in quanto tali, ma nelle costruzioni patriarcali. Le donne che accettano che altre donne, e loro prole, siano uccise, violentate, dominate e commerciate, si sentono spesso una specie a parte e giustificano l’evidenza della disuguaglianza imposta al genere femminile, adducendo l’argomento dell’ipotetica debolezza “naturale” delle loro simili contrapposta alla loro supposta personale eccezionalità.

    Parlando di violenza, l’intelligenza dei fatti viene quasi automaticamente rimandata ad un contesto di misfatti  in ambito criminale propriamente definito. Si tratta di una dissimulazione culturale che il femminismo ha denunciato e decostruito, creando una svolta decisiva. Il concetto di violenza elaborato nella cultura di genere ha mostrato che il danno subito dalle donne nel sistema politico tipico del patriarcato non è e non può essere  interamente previsto in un ambito legale classico.

    La violenza si dipana in tutti gli ambiti del contesto sociale e “serve” a prescrivere e conformare l’agire delle donne secondo le esigenze del momento storico. Nel clima attuale, dove la finanziarizzazione dell’economia ha causato il drastico ridimensionamento dello stato sociale, la drastica riduzione dell’occupazione femminile conduce la maggioranza delle donne ad un stato di povertà personale e di mancanza di autonomia, che significa esposizione alla violenza anche istituzionale, ovviamente non prevista tra i reati.

    Le pari opportunità e il femminicidio

    Le pari opportunità nascono nell’ipotesi che una maggiore partecipazione femminile ai contesti di potere ufficiali e nei luoghi così detti strategici, possa ridurre nel tempo lo svantaggio delle donne. Nascono anzi da una doppia ipotesi, la prima è appunto quella nominata, e la seconda consiste nell’assunto ideologico che le ingiustizie subite dalle donne siano dovute ad un ritardo nell’acquisizione degli strumenti di governo: ovvero che le donne siano semplicemente svantaggiate, per cause naturali ed indotte casualmente dalla storia. Tutto questo ha dato l’avvio ad una serie di complesse azioni “tecnicamente studiate”, a volte in modo assai poco comprensibile, che nel tempo si sono rivelate altre fonti di clientela politica. Non sempre, ma molto frequentemente.

    Negli stati, indipendentemente dal tasso di democrazia delle società, grazie alle pressioni di movimento internazionale delle donne, ai trattati e alle convenzioni (anche essi nati dalla pressione del femminismo) si è affermato il principio della necessità dell’inclusione femminile nel potere, inclusione che costituisce una vera e propria esigenza d’immagine dei governi. L’immagine del progresso ha bisogno delle donne. Pur tuttavia  i provvedimenti sono lenti, parziali e quasi sempre ambigui.

    La vicenda delle leggi elettorali in Italia, nel panorama mondiale dei paesi sviluppati, contiene alcune peculiarità che puniscono la democrazia nelle rappresentanze ed in qualche modo sfidano le legittime aspettative delle donne in quanto alla partecipazione nei luoghi decisionali. La pressione e le chiare indicazioni da parte del movimento delle donne (vedi legge d’iniziativa popolare “50E50”  presentata dall’UDI nel 2007) per una democrazia paritaria non hanno trovato alcuna rispondenza neanche presso i partiti che pure avevano partecipato alla raccolta delle firme. Perfino la bocciatura della Consulta che ha fatto decadere il così detto porcellum, la legge elettorale vigente fino al febbraio del 2014, per incostituzionalità non ha sortito effetti sui legislatori, che hanno riprodotto  (in sostanza è stata fatta una nuova legge solo l’oggettiva necessita dettata della vacatio legis) le stesse caratteristiche della legge dichiarata non conforme al dettato costituzionale. La nuova legge (Italicum) come la precedete prevede  che futuri eletti tali siano su designazione dei partiti nelle figure dei loro dirigenti. Le nuove (?) norme non prevedono alcuna misura correttiva per il così detto riequilibrio di genere degli eletti, per le donne questo avrà l’effetto di enfatizzare i meccanismi di concessione e dipendenza dai capi.

    Gli organismi di pari opportunità, consulte e commissioni, considerate luoghi marginali e sostanzialmente irrilevanti nell’amministrazione degli enti locali, essendo convocate e ratificate dai rappresentanti dell’amministrazione, spesso si rivelano sottoposte all’uguale logica vigente nelle assemblee elettive.

    Il meccanismo della nomina ha fatto si che gli organismi (consulte e commissioni)  troppo attivi in materia di diritti possano esser fatti  decadere e non più nominati o che addirittura alcune rappresentanti al loro interno possano essere rimosse d’autorità. Va considerato poi che le pari opportunità vengono estese a tutti i soggetti svantaggiati, come se di per sé l’appartenenza al genere femminile fosse di per se una diversa abilità da adeguare al contesto dato. 

    Questo modello di partecipazione femminile nel potere spiega perché, nonostante la presenza sempre più importante di donne (presumibilmente consapevoli del fenomeno femminicidio nella sua interezza, se non altro perché dovrebbero esserlo) nelle sfere politiche ed economiche, gli schemi proposti a difesa delle cittadine seguano l’ideologia corrente dell’ineluttabilità della violenza sessuata. Concepire in modo parziale il processo di moderazione violenta del sistema patriarcale sulle donne, significa perpetuarlo con un andamento costante, come del resto messo in evidenza   anche dalle statistiche ufficiali. I dati del 2012 in Italia calcolano una drastica riduzione del numero degli omicidi, mentre il numero di donne uccise resta costante ed invariato.

    La sottovalutazione strumentale dei bisogni delle donne è resa visibile dalla ormai consolidata consuetudine di delegare tutta la materia all’ambito delle pari opportunità. Considerando che nelle pari opportunità vengono ormai inclusi problemi della disabilità, della povertà, dell’immigrazione, che evidentemente sono altra cosa dall’appartenenza al genere, è semplicemente inadeguata l’assegnazione al ministero e gli assessorati alle pari opportunità il compito del contrasto al femminicidio che, per dimensioni e merito, implica tanto la creazione di dicasteri ad hoc e tanto l’impegno dell’intero governo.

    Statistiche, femminicidio ed emergenze

    Le rilevazioni statistiche, pur nella crudezza dei dati, e forse proprio a causa dell’impatto emotivo della parte dei dati evidenziati, non danno conto dell’andamento complessivo del femminicidio e cioè la mole dei reati commessi contro le donne, di natura violenta e coattiva, in quanto si avvalgono di nomenclature e categorie attinte dalla cultura ufficiale.

    Le rilevazioni numeriche sono per così dire un’arma a doppio taglio: si riferiscono ai dati di cronaca e a quelli in possesso delle istituzioni e ben per questo rappresentano ciò che la cultura dominante “permette di vedere”. È così che il femminicidio da fenomeno strutturalmente consolidato nei sistemi di controllo dell’ordine costituito diviene, nel linguaggio comune “emergenza”, pur non essendo cambiato il suo andamento percentuale nei tempi.

    Le fonti alle quali attingere per la conoscenza scientifica del femminicidio, va detto, sono di recente o recentissima frequentazione da parte degli studiosi: psicologi, sociologi e politologi.

    È stato esemplare osservare il comportamento della stampa, paradigmatica della cultura in generale,nell’ultimo quarto del secolo passato: era avvenuta una sorta di archiviazione tombale su tutto il tema della violenza rivolta alle donne dagli uomini. Era stata relegata nella cronaca nera, nonostante fosse storicamente recente, 1980, in Italia, la presentazione  una proposta di legge contro la violenza sessuata o di genere (allora detta sessuale), per la quale proposta l’UDI e il movimento femminista avevano raccolto tutte le firme necessarie e sollevato un ampio dibattito nel paese.

    Quell’iniziativa fruttò l’abrogazione di alcune parti del codice Rocco, che prevedevano ad esempio il matrimonio riparatore in caso di stupro e “l’eccesso di mezzi di correzione”, vale a dire la possibilità di picchiare i figli, ma fino ad un certo punto. Ma solo nel ’96 furono prese in considerazione le parti propositive riguardanti la prevenzione, la denuncia e la reale punizione dei reati violenti contro le donne.

    Frattanto la cultura femminista aveva costruito la sua rete di centri antiviolenza autogestiti e di azioni di controllo nei tribunali, dove le vittime venivano trattate come complici nei reati subiti e spesso infamate. Si tratta della rete che tutt’ora costruisce l’opposizione alla violenza e ne rivela la vera essenza.

    Ma la stampa, rappresentativa della cultura ufficiale del paese, aveva fatto ritorno ai vecchi schemi, relegando la violenza nei trafiletti in cronaca nera, minimizzando gli stupri di guerra e tornò a parlare di “delitti passionali”, di donne vittime perché donne “dai comportamenti a rischio”.

    Fino al 2005 le fonti e le statistiche sul femminicidio, non sembravano allarmare né la coltura in senso generale né la politica.

    Queste  vicende servono a dire che una volta provocata una discussione e introdotti nuovi paradigmi, non si dà per scontato che la cultura della violenza venga scalfita, e non viene scalfita. Nel giro di qualche decina di anni il paese Italia è passato dal clima creato dal femminismo intorno alle violenze, ad una sorta di negazionismo della strage costante e immutata nei secoli nella quale era donne e bambini a morire, trattandole e trattandoli come ed incidenti particolari.

    Se il femminicidio serve 

    La violenza sessuata è un efficace supporto dell’ordine costituito, ma lo è altrettanto la sua esecrazione pubblica in alcuni momenti, quando appunto l’ordine costituito subisce sbilanciamenti sotto la pressione di eventi di natura emergenziale.

    Uno di queste eventualità, è stata determinata dall’incapacità delle istituzioni italiane di adeguarsi al nuovo clima delle grandi migrazioni. Stupri di strada, l’imposizione di regole tribali all’interno dei nuclei familiari immigrati, per un certo periodo a datare dalla fine degli anni ’90 fino a tutto il primo segmento degli anni 2000, divennero motivo di grande allarme pilotato alla demonizzazione “del migrante/diverso/criminale/incivile”. Ben tre campagne elettorali della Lega Nord furono condotte sulla centralità di questo tema (1996, 2001, 2006).

    Anche la famiglia, consacrata nello stato Italiano secondo un’iconografia modificata solo negli aspetti più marginali, nei suoi profondi mutamenti  rappresenta un terreno sul quale le istituzioni centrali non trovano conveniente recepire nuovi comportamenti. La violenza esercitata dagli uomini sulle donne, pur prevista tra i reati punibili dal codice, viene discussa e dibattuta come un sintomo di un malessere dovuto alla caduta del ruolo tradizionale delle donne. La violenza viene mostrata ed anche enfatizzata nella rappresentazione mediatica del fallimento della relazione donna/uomo. In questa rappresentazione le donne sono considerate le principali responsabili della caduta dei valori,  per la loro  troppa libertà: di lavorare, di essere autonome, di avere un ruolo sociale riconosciuto.

    L’uomo che picchia o anche uccide è un uomo rappresentato nella sua disperazione, vittima della sua vittima.

    La violenza serve. A preservare l’ordine costituito, ma serve anche condannarla, ad esempio, se a commetterla sono gli uomini degli “Stati canaglia”, dove le leggi, quelle sì arretrate e costruite sul pregiudizio misogino, la permettono. Serve la violenza, come pretesto per confermare l’odio verso popoli aggrediti, per motivi inconfessabili come lo sfruttamento della terra. Una volta messe in campo le armi, stupri e violenze ritornano ad essere sussurrati, perché a commetterli sono gli stessi eserciti dei “popoli civili”.

    Il femminicidio e la crisi della politica

    La crisi della politica è una locuzione che descrive in modo abbastanza generico le frizioni sempre più stridenti tra un elettorato divenuto consapevole dei propri diritti e del ruolo che dovrebbe svolgere la sfera del governo e dell’amministrazione.

    Nello stile del potere politico fin qui conosciuto, i segni distintivi di un buon governo riguardavano l’erogazione dei servizi e la gestione delle infrastrutture. I cittadini di fronte ad uno Stato che sembrava restituire in servizi ciò che sottraeva per altri versi esprimevano un certo livello di tolleranza verso il dispendio di risorse profuse nel mantenimento della casta politica. A un certo momento, però, non è più bastata la costruzione di una scuola o il cosiddetto welfare, i cittadini hanno cominciato a chiedere trasparenza, progresso etico e soprattutto uno scatto di civiltà che restituisse dignità e sovranità ai cittadini (libertà dalle mafie e rispetto dei diritti). La stagione del femminismo dirompente degli anni 70 del 900 è il segmento più spiazzante di un movimento generalizzato che guardava ai diritti, alle relazioni economiche e culturali con la consapevolezza del diritto e dei diritti. Le rivendicazioni non riguardavano più soltanto la politica interna. I nuovi attori politici emergenti dalla contestazione sapevano che un battito d’ali di farfalla in un certo luogo poteva generare un tifone dall’altra parte del mondo. Il principio ispiratore era il vivere sapendo di  non poter essere libero se anche l’altro, lontano fisicamente e culturalmente, non lo è. Le donne dentro, e oltre, il movimento giovanile crearono l’enorme scompiglio  derivante dal voler vivere fino in fondo le facoltà femminili, libere dal condizionamento dei ruoli imposti e guardano alle altre lontane e vicine come autrici di una storia tutta nuova.

    Per la politica irreggimentata nei cosi detti luoghi deputati, spiazzata, incapace di cambiare se stessa, incapace di ritrovare un ruolo positivo, gli attentati  terroristici degli anni 70 e 80 del 900 rappresentano un’occasione (in più occasioni costruita) più che mai opportuna per reprimere i movimenti e mostrare la libertà come dimensione di insicurezza ed arbitrio. È la strategia della tensione.

    La fine di una stagione di rinascita, vissuta in modo asimmetrico dai generi, in gran parte si consuma sul tavolo dell’ordine pubblico vanificando in concreto la possibilità di rinegoziare la politica e stipulare un nuovo patto sociale.

    Ma i cittadini, soprattutto le donne, non corrispondono più agli stereotipi congeniali al potere  “con le mani libere dal controllo popolare”, chiedono di più e più giustizia trovandosi di fronte un apparato statale immobile ed incapace di cambiare, in quanto gli uomini che lo gestiscono sono incapaci di cambiare.

    Il potenziale scontro tra la casta politica, “depositaria dell’ordine di fronte al caos”, e i cittadini si stempera in una tensione continua, nella quale il patriarcato per autoconservarsi si sposta dal governo diretto delle risorse al governo dei sentimenti. Se i cittadini sono scontenti è la loro scontentezza che va governata.

    Una complicata strategia, estremamente articolata, fondata sulla manipolazione mediatica e la corruzione dei desideri spingendoli verso obiettivi sempre più identificabili con oggetti di consumo. I cosiddetti tagli alla scuola pubblica sono il luogo simboli della nuova strategia di governo. L’effetto di questa politica ha un costo incalcolabile dal punto di vista umano e ambientale che sono i  cittadini a pagare, mentre lo stato può contare su un ammortizzatore sociale sempre disponibile costituito da donne, sotto il controllo degli uomini più vicini.

    La meta cui aspirano i nuovi soggetti politici  è la redistribuzione delle risorse tra cittadine e cittadini, fino al livello dei vertici , l’allargamento del  territorio dei diritti, è la svolta attesa per la costruzione di una democrazia più avanzata. Questo comporta un livello di discussione che il potere non intende affrontare: la politica vuole mantenere i suoi privilegi.

    La crisi della politica, nella sua sostanza, è la frattura manifesta e latente tra due opposti complessi di interessi, ovvero quelli meglio rappresentati dal femminismo: autodeterminazione, rispetto dei diritti umani, giustizia ambientale da una parte e dall’altra quelli del potere costituito.

    Lo scenario attuale è che lo stato ha smesso ad un certo punto di fare Welfare e infrastrutture, delegando questi compiti ad un’imprenditoria privata  che si sostituisce ai cittadini nel godimento del denaro destinato alla progettazione sociale. Il deterioramento qualitativo delle azioni di governo coincide con la nascita di sovrastruttura comunicativa, preferibilmente televisiva, che trasmette modelli e stili di vita e che perfeziona progressivamente  il già detto “governo dei sentimenti”. Il gruppo politico rappresentativo di questo modello di governo in Italia è senz’altro quello berlusconiano, sia per essere nato in un contesto mediatico, sia per aver raccolto in pieno l’eredità politica di quell’irrigidimento autoritario, divenuto poi liquido ed invisibile, seguito alla rivoluzione degli anni 70.  

    Quello che ancora vediamo, e si vede in Italia, è un vero e proprio spiazzamento dei luoghi della politica: da fisici a virtuali, il che comporta un uso  indiscriminato di tutti i canali comunicativi da parte dei poteri forti.

    La pervicacia dei governi nel perpetuare la disuguaglianza nel godimento di risorse e libertà tra uomini e donne è il puntello essenziale del mantenimento della logica verticistica indispensabile allo stile “moderno” nell’amministrare. Per tutto questo possiamo ben dire che la consapevolezza femminile è veramente pericolosa per lo stato non solo perché è una componente significativa di ogni contestazione, ma perché è un corpo estraneo e non previsto tra gli attori in gioco nella negoziazione politica. Estraneo e per questo non democraticamente controllabile. L’uccisione della singola è l’extrema ratio del controllo su ogni  donna, il femminicidio è il volto della cultura politica che lo sostiene.

    Il femminicidio: una teoria fondate del pensiero femminista moderno  

    L’adattamento istituzionale ai diritti delle donne, oltre ad essere lento, genera spesso reazioni violente nei soggetti più marcatamente conservatori,  fondate sul pretesto che le donne generano disordine e un cattivo funzionamento di tutti i segmenti dell’organizzazione sociale, anche in quelli che le riguardano nel senso del beneficio. Si tratta di reazioni ideologiche, che però rappresentato un pensiero latente in tutta la politica istituzionale. Il disagio istituzionale nei confronti delle donne è profondamente motivato, perché le donne sono radicalmente e naturalmente opposte ai sistemi che le ospitano. Lo scompiglio (vedi Doris Lessing), irrimediabilmente, porta dentro di sé la memoria della disumanità del potere nel suo divenire storico.

    Nel momento in cui anche singolarmente le donne si presentano come soggetti attivi nella pratica dei diritti, generano errori nella trasmissione del comando.

    Il movimento delle donne ha fatto dello scompiglio  pratica politica nello spiazzare continuamente l’interlocutore. Quando l’interlocutore è politico e istituzionale si palesa la profonda differenza di acquisizioni culturali: le istituzioni sono attestate su livelli minimi di salvaguardia e riconoscimento delle donne, il movimento preme per l’altrove politico, per la propria utopia della convivenza, lì dove è escluso il trasformismo e l’accomodamento opportunistico del potere.

    Questa qualità progettuale femminista accende  una conflittualità permanente, in presenza di una costruzione statale incapace di esistere oltre gli schemi dati all’interno di uno schema patriarcale. È questa qualità che ha determinato nelle istituzioni quei cambiamenti che normalmente vengono chiamati “conquiste femminili”. Il coinvolgimento sui temi della libertà sessuale, della salute, dei diritti politici di donne militanti nei partiti, ed anche di uomini che vedevano in queste conquiste una parte della loro libertà, ha avuto il risultato di cambiare l’impianto legislativo Italiano, introducendo dei principi che, lungi dall’essere automaticamente concretizzati, hanno acceso nuove contese per la loro applicazione.

    L’abolizione del matrimonio riparatore (la punizione dello stupro si estingueva qualora alla vittima venisse offerta la prospettiva di sposare il suo violentatore), l’abolizione della differenziazione per generi nella “punizione” dell’adulterio, l’introduzione dell’aborto, la caduta del divieto di accedere alle carriere da parte delle donne, più che essere l’affermazione di nuovi diritti hanno costituito i terreni di lotta per il lancio di obiettivi più avanzati. Questo ha motivato la scelta dei soggetti femministi di gettare nuovo scompiglio raggiungendo una nuova visibilità: sono i momenti nei quali si ottengono quei cambiamenti che rimangono poi nella storia come “conquiste”. Sono i momenti nei quali anche le donne delle istituzioni riescono a liberare il loro pensiero femminile.

    Il movimento delle donne ha accompagnato la storia umana proprio per la sua qualità non violenta, per la tendenza e riservarsi momenti di alto antagonismo ideale alternandoli a momenti di assordante silenzio.

    Le critiche all’aver creato luoghi chiusi di elaborazione separati dalla “politica generale”, sono più spesso dettate dal desiderio di nullificare la soggettività politica femminista, tranne poi plaudire alla sua capacità di esprimersi “quando serve”. Ci si aspetta di solito che il femminismo faccia irruzione sui temi che si pensano di sua competenza, di solito i temi che sono congeniali a una sinistra che ha perso la sua capacità di proporre orizzonti e che pensa ai movimenti come cinghie di trasmissione, o serbatoi collaterali. Questo perché ogni rivoluzione ha bisogno del movimento delle donne, comunque si esprima, ma il movimento delle donne non ha bisogno di altre rivoluzioni, per fare la sua.

    Il femminicidio è, comunque fosse nominato, la vicenda politica femminile più indagata, è sede virtuale di ogni elaborazione sulla storia dell’umanità scritta dalle donne e perché no sulle donne. La violenza sessuale, si è nominata così per molto tempo, è perpetrata sul corpo delle donne anche solo strappando l’immagine femminile dal suo contesto umano per celare o mostrare il desiderio maschile fuori dalla reciprocità della relazione umana. Partire dal femminicidio è partire dal corpo.

    Partire dal corpo, sede di ogni facoltà femminile, per elaborare politica e saperi, è un’intuizione rivoluzionaria nel pensiero filosofico e nella narrazione storica, ma è anche l’incontro potenzialmente universale tra donne. Partire dal corpo, inoltre è la misura nelle relazioni con l’altra e l’altro, è nel corpo la misura di ciò che accade intorno, nel bene e nel male. Il corpo femminile è stato a lungo, nella cultura dominante, un oggetto disponibile, teatro  di contese maschili, di guerra, anche quando la guerra non è nel contesto fisico vissuto dalla singola. La riappropriazione politica del corpo è un processo permanente che ha contaminato e contamina, è la scintilla che accende ogni svolta decisiva, quando una svolta si cerca, nella vita delle donne. La scoperta che la violenza non è incidentale, bensì l’anello di una catena chiamata femminicidio è rivoluzionaria.

    Il valore rivoluzionario della lotta al femminicidio sta proprio nell’aver individuato e svelato  nell’atto estremo della violenza maschile non soltanto un crimine ma l’affermazione del potere patriarcale. Il femminicidio indica, in tutte le sue forme, dalla minaccia allo stupro e all’uccisione, il limite invalicabile delle libertà femminili.  Il femminicidio, la violenza sessuata, sono stati sempre mostrati e paventati  come rischi insiti e naturalmente prevedibili nella naturale condizione delle donne, in qualche modo provocati dalle donne. La lotta al femminicidio indica alla politica la precisa responsabilità pubblica del governi nel determinare e favorire tanto i delitti quanto la clemenza verso i colpevoli, in quanto esecutori “dell’ordine naturale delle cose”, incrinando così l’immagine benevola e la pretesa giustizia dell’egualitarismo moderno.

    Le costruzioni politiche conosciute fino ad oggi hanno modulato, trasformato, celato o esibito il femminicidio, chiamandolo ora in un modo ora in un altro, ma sempre secondo una filologia precisa che lo rendesse misconosciuto per dimensioni e qualità.

    Sta qui il valore dello scompiglio che ad un certo punto, con straordinarie analogie contemporanee di eventi e lessico in molte parti del mondo, le femministe hanno generato definendo l’ambito politico e sociale della violenza sessuata “Femminicidio”. Non strage, non emergenza, non contingenza storica, bensì un processo fondativo strutturato e consolidato nelle costruzioni statali e nelle relazioni tra stati.

    Femminicidio: la forza violenta che ha moderato nei secoli la libertà e i comportamenti femminili denunciata come crimine contro l’umanità: non importa se legittimata o meno dalle legislazioni locali, dagli usi, dai sentimenti dei singoli uomini.

    Ad un certo punto della storia, alle soglie del terzo millennio, quando la terra sembra più in pericolo, e quando le guerre si combattono nei piatti sulle tavole e nelle case, nelle banche e nei giacimenti  minerari contesi a inconsapevoli futuri migranti, inducendo dipendenze inimmaginabili solo un secolo prima, “perché ognuno sia armato per difendere il proprio stile di vita”, le donne  pronunciano la pretesa di cambiare il mondo, semplicemente collocando il ripudio femminicidio come principio fondate della democrazia.

    Semplicemente femminicidio

    Il grado di democrazia di un paese ha una sua misura: il grado di tolleranza verso il femminicidio. Tra le tante accuse lanciate contro la definizione e il mondo femminista che l’ha elaborata, non c’è mai stata quella di essere appannaggio di ambienti borghesi radicali: la parola è inequivocabile per quanto riguarda il suo riferimento politico e umano. Non poteva e non può essere liquidata in poche discussioni accademiche.

    Sfruttamento della prostituzione, privazione dei beni primari, la disuguaglianza nel trattamento economico, la ridicolizzazione della creatività femminile, la privazione degli strumenti economici, la tolleranza verso le pratiche tribali che impongono la regalizzazione dei padri (identificandola con la tolleranza interculturale), sono alcuni degli elementi “normali” di un panorama politico nel quale il femminicidio è prevedibile e, in quanto non contrastato direttamente e nelle premesse, tollerato.

    Il tentativo dei poteri forti di aggirare, prima di tutto teoricamente, la questione nella sua dimensione mostruosa, si esplica in termini di appropriazione e reinterpretazione della parola femminicidio,  usandola come definizione della, per lungo tempo occultata, violenza domestica. La strategia è quella di smembrare la fenomenologia del femminicidio, riducendolo ai singoli fenomeni. Uno alla volta, per carità!

    Per il resto la politica “ufficiale” continua a stornare i finanziamenti da quel, pochissimo, che sarebbe destinato ai centri antiviolenza autogestiti, per elargirlo a luoghi religiosi di ricovero, continua comunicare che “le vittime infondo se lo vogliono”, continua a lasciare incerti i contorni della punibilità giudiziaria dei crimini commessi sulle donne ad espellerle dai luoghi di lavoro e su questi renderle ricattabili attraverso la sottrazione dei servizi e tollerando le pratiche illegali in materia di maternità.

    In seguito alla grande manifestazione contro la violenza del 2007 a Roma, ci fu l’espressione formale di una presa in carico del problema da parte della sinistra. I provvedimenti ad hoc, le leggi finanziarie, nonostante  i governi di ogni colore avessero le loro campagne “contro la violenza” (generalmente di incerto realismo e basate sullo stereotipo della vittima consenziente), testimoniano che la “mole dei finanziamenti” non ha subito alcuna variazione. Anche i finanziamenti europei destinati all’Italia,  in materia di contrasto alla violenza, vengono impiegati in modo improprio,  con l’apertura  e il coinvolgimento di sportelli che in realtà non si occupano affatto affrancare le vittime dalla violenza, bensì di mediazione familiare (adattando le vittime al contesto in cui avvengono i reati) se non di mera assistenza (come se le donne uscite dalla prigionia della violenza dovessero entrare nel circuito degli incapienti).

    Occultare e perpetuare restano il principale esito di un attivismo più che altro verbale, inedito in Italia come in Europa, che ha per oggetto la condanna delle violenze perpetrate dagli uomini sulle donne. Tutti i soggetti che hanno, o avrebbero, il compito istituzionale di combattere il femminicidio, di fronte alla prospettiva di un impegno concreto e coerente al problema, invocano il cambiamento culturale come se dovesse avvenire in altri luoghi che non quelli della politica. Una prospettiva non nuova quella della “soluzione culturale”, nominata, per non andare troppo lontano, dalle mazziniane. Una prospettiva i cui sostenitori sono evidentemente disposti ad attendere secoli per la liberazione del genere femminile.

    Semplicemente il femminicidio non può essere combattuto sul piano culturale e soprattutto  non dagli agenti che quel piano predispongono, perché la cultura parla di ciò che è, e ciò che è sarà cambiato solo se a nessun uomo le verrà data delega di elargire alle donne protezione e benevolenza in luogo della salvaguardia pubblica, e se a nessun uomo verrà delegata la moderazione della libertà femminile. E se coloro che li favoriscono le violenze sessuate e le commettono sono dentro lo stato essendo depositari  della cultura ufficiale, il sistema delle regole deve essere cambiato, a partire da quelle che stabiliscono i privilegi che li pongono al di sopra delle leggi. Una rivoluzione, non una mediazione. Una rivoluzione culturale.

    Il berlusconismo, la solita storia e una nuova strategia  

    La resistenza ad affrontare il problema, locuzione impropria che rappresenta poco la dimensione della complicità e della responsabilità pubbliche, nella fase storica comunemente detta “berlusconismo”, si è palesata sotto forma di negazionismo da una parte (la violenza sulle donne è dovuta ad un’emergenza dovuta all’immigrazione, la violenza è gradita alle donne), e sotto forma di sfida (l’esibizione di un virilismo sfrenato, il “consumo di prostitute” come attività diplomatica su scala internazionale). La parte più interessante, dal punto di vista politologico, è proprio quella che è apparsa come una intenzionale sfida al femminismo, è infatti quella parte che ha esibito in modo inequivocabile la qualità femminicida insita nel potere.

    Il potere berlusconiano, dai suoi esordi aziendali, si qualifica in modo originale nel panorama politico, l’intento più evidente è quello di riportare la destra a fare il suo mestiere: restaurare la sudditanza e restituire al potere la sua sacralità, corredata dall’idolatria per il capo. Rinegoziare con il parlamento le così dette conquiste femminili è il primo obiettivo. Il fervore religioso di marca cattolica intorno a Forza Italia, la catalizzazione di una galassia conservatrice ispirata all’affermazione della legalità borghese e poliziesca, apparentemente in  contraddizione con la valorizzazione del libertinaggio esibita dal Berlusconi leader, evidentemente mostrano l’adesione agli intenti impliciti e da subito avviati di quella rinegoziazione parlamentare dei diritti delle donne. Il femminismo è il nemico non più pronunciato a mezza bocca.

    Alcune delle tappe: la legge sulla fecondazione assistita, la legge sull’affido condiviso, la cancellazione del divieto delle “dimissioni in bianco” nei posti di lavoro.

    Dall’opposto punto di vista questa esibizione muscolare della misoginia è stata un’opportunità golosa per mettere sotto accusa una sola parte politica in quanto alla responsabilità nel femminicidio, facendola coincidere con il conservatorismo berlusconiano. L’opposizione al governo dell’epoca in realtà non aveva ostacolato in  nessun modo lo sfruttamento della prostituzione come corollario del potere, né preso le distanze da una serie di comportamenti apologetici dello stupro e della violenza domestica. Il governo Berlusconi, comunque, era vistosamente offensivo, intenzionale nell’essere lesivo della dignità femminile (memorabile l’arruolamento temporaneo di precarie giovani e belle per predisporre nella capitale un piacevole uditorio al dittatore Gheddafi, col pretesto di una “lezione di Corano”),  questo fornì l’occasione alla sinistra istituzionale di mostrarsi come possibile alleata del movimento delle donne nella manifestazione di protesta organizzata da “se non ora quando” nel 2011. Naturalmente le molte considerazioni possibili su “se non ora quando” e sulla reale volontà della sinistra di sposare una causa che avesse al centro la dignità femminile, sono da farsi a parte riguardando solo marginalmente l’impegno contro il femminicidio. Basti dire che non ci fu né la caduta del governo, né alcun impegno della sinistra sulle molte possibili azioni nel rimediare ai guasti recati al sistema dei servizi strategici voluti, costruiti e pagati dalle donne, né è stato avviato alcun processo di revisione dell’impianto legislativo in tema di violenza e autodeterminazione  (nonostante i richiami in sede Europea e nonostante le sentenze in  cassazione, per esempio, che sanciscono l’incostituzionalità delle norme sulla fecondazione assistita).

    Le enormità  del berlusconismo si sono dipanate in un paese profondamente misogino e timoroso delle differenze.   

    Le responsabilità oggettive del governo di centro destra negli stupri nei centri di accoglienza per gli immigrati “delle carrette del mare”, non furono e non sono aliene alla legge Turco - Napolitano (centro sinistra) sull’immigrazione clandestina, ed in molte altre occasioni si palesa una sostanziale convergenza di intenti tra centro-destra e centro-sinistra nel perpetuare l’inerzia dello stato nel riconosce la centralità, se non l’urgenza, del contrasto al femminicidio.

    La cronologia delle vicende seguite alla denuncia avanzata dalle femministe, in Italia, sul femminicidio come crimine contro l’umanità, mette in evidenza che, a partire dal 2005, anche la sinistra “scopre”, o riscopre la violenza contro le donne, solo nel 2012 nomina il femminicidio. Quando diciamo di avere l’impressione, nel rapporto con istituzioni, di partire dall’anno zero, se si nomina la violenza come problema politico, parliamo dell’incontrovertibile constatazione della totale assenza di consapevolezza e volontà politica.    

    Il femminismo e il femminicidio

    Anche per le militanti e per le donne emancipate, non si parla  evidentemente del piano umano, il femminicidio  fu la scoperta di un terreno politico molto differente da quello sul quale avevano posto la violenza, fino ad allora considerandola come uno dei tanti mali che accompagnano “lo svantaggio” femminile: veniva concepito come un male e non ancora riconosciuto come  il pilastro dello stile di governo e dei governi.

    Il vero e sofferto riconoscimento che ogni uomo, anche l’amato compagno, possiede il potere delegato di moderare e dominare la donna che ha vicino e quelle con cui entra in relazione, per quanto non lo eserciti o finora non lo abbia esercitato, è stato segnato da una forte diffidenza iniziale.

    Le femministe, in merito al femminicidio, sono state accusate di aver propugnato una teoria all’interno della quale ognuna era ridotta a vittima, prigioniera della debolezza ancestrale attribuita alle donne. Una posizione questa, che definita in questo modo non restituisce il valore del gesto politico e culturale che ha finalmente messo in evidenza la responsabilità pubblica nazionale e internazionale e che attribuisce alla soggettività femminile il protagonismo nella rinegoziazione del sistema politico.

     



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