Violenza maschile e femminicidio
Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di)
M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014
VIOLENZA MASCHILE E FEMMINICIDIO: INTRODUZIONE
Vittoria Tola
vittoria_tola@virgilio.it
Laurea in Filosofia, bibliotecaria direttore, è impegnata sin dagli anni ’70 nel movimento delle donne. Ha lavorato in modo approfondito alla conoscenza delle fenomenologie e allo sviluppo del
dibattito e delle risposte culturali, istituzionali e sociali relative alle discriminazioni e alla violenza contro le donne e i minori in ambito intra ed extra familiare Ha pubblicato numerosi articoli e pubblicazioni sui temi succitati e ha collaborato a molte ricerche. Ha ricoperto numerosi incarichi
e attualmente è responsabile nazionale dell’UDI.
I contributi presentati un questo numero monografico della rivista scientifica “M@gm@” su violenza e femminicidio sono dovuti a donne che da anni si misurano per ragioni politiche e professionali con un tema duro e difficile e che hanno lavorato perché la violenza maschile uscisse dal cono d’ombra in cui è stata relegata da tempi immemorabili, ma anche per sfatare le giustificazioni e le minimizzazioni che questa ha trovato nel suo esistere informando di sé le strutture culturali, sociali e psicologiche che nei secoli si sono succedute fino ai nostri giorni.
Lungi dall’essere infatti, come spesso, è stata presentata da mass media e politica, soprattutto in relazione al femminicidio [1], atto estremo della violenza contro le donne, non si tratta né di un’emergenza né del risultato delle azioni di pochi uomini violenti e patologici o sconvolti da motivi passionali, ma di una struttura di potere di cui tutti - uomini, stati e istituzioni - beneficiano anche quando nessuno di loro apparentemente agirebbe comportamenti violenti nei confronti di una donna.
La tolleranza collettiva e politica nasce dal fatto di considerare gli uomini un genere privilegiato in base al loro sesso e, pertanto, per troppi di loro è facile minimizzare e tacere sul potere diseguale tra uomini e donne che produce la violenza e che si è strutturato nella storia e permane anche quando è stato messo in discussione. Succede nel mondo moderno dove, di fronte all’apparente comprensione e benevolenza verso le donne, si continua mantenere questa disparità e conservare tante regole di discriminazione e inferiorizzazione da cui le donne sono colpite ancora oggi, nonostante tante conquiste fatte.. In Italia come in America latina o negli Usa, in Africa come in Estremo oriente e nell’Europa. Variano le forme e la durezza con cui questa dimensione strutturale di potere si esplicita e, a leggere il saggio di Simona Lanzoni, molti tireranno un sospiro di sollievo paragonando i paesi che analizza all’Italia. Ma anche l’Italia appare ad altri paesi europei come l’India appare a noi e, se la qualità delle discriminazioni e il numero assoluto delle donne uccise per mano di familiari e di sconosciuti non è paragonabile visti i dati demografici dei due paesi, tuttavia il dato italiano appare eccessivo in un’Europa che, almeno nella sua parte più avanzata, dimostra negli stati una diligenza diversa, anche se non sufficiente, nel proteggere la vita e la salute delle sue cittadine e i diritti fondamentali che la Costituzione, la Carta dei diritti umani e le Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia pretendono e sembrerebbero dare come in diritto di cittadinanza acquisito.
In realtà non è cosi se ancora oggi, nonostante la battaglia politica e culturale contro la violenza alle donne esplosa in Italia da circa 40 anni, come problema politico, dopo la strage del Circeo per ottenere che lo stupro venisse definito nel codice come reato contro la persona e non contro la morale come era stato ereditato dal fascismo e dal codice Rocco arrivando così fino nel pieno della rivoluzione culturale degli anni ‘70 e dell’esplosione del neofemminismo, della violenza maschile o violenza sessuata, parliamo in termini di emergenza o di cronaca nera.
L’archeologia giuridica del Codice Rocco trascinava con sé ancora il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, lo ius corrigendum del capofamiglia e il diritto alla vis modica da usare contro la moglie per l’uomo solo da poco costretto a un trattamento paritario sul problema del tradimento rispetto alla donna, e cozzava violentemente con la nuova coscienza di sé che le donne avevano già espresso sulla richiesta del nuovo diritto di famiglia, sul divorzio, sull’aborto e il principio di autodeterminazione che emergeva con forza.
Per ottenere un risultato che appariva di buon senso ci sono voluti 18 anni e innumerevoli voti parlamentari perché le resistenze a punire gli stupratori e riconoscere lo stupro in famiglia furono feroci. Nonostante i codici, appannaggio fino a quel momento, soprattutto di uomini in cui le donne magistrato, arrivate dopo una lunga battaglia, cominciavano ad incrinare la diffidenza che da sempre intercorre tra donne e diritto come ben ricordato da Elisabetta Rosi e in altra forma da Delia la Rocca. Questo dimostra che, nonostante i molti passi avanti fatti, rimane una zona d’ombra che trova nell’uso del diritto senza e contro le donne da parte del legislatore e dei tribunali, una visione che è di comprensione e giustificazione dei colpevoli o nel migliore dei casi ancora di tutela delle donne considerate come creature deboli e bisognose di protezione, cosa per altro, che da decenni nessuna chiede, come ben dimostra il saggio di Milli Virgilio. Per questo di solito per chi denuncia la violenza, sia essa sessuale, fisica o psicologica, il percorso intrapreso è un calvario che produce vittimizzazione secondaria perché le strutture a cui le donne si rivolgono non sono in genere preparate e organizzate in modo da accoglierle in modo competente e rispettoso. Per una donna maltrattata, violentata o sopravvissuta a uno stalcker o a un femminicidio affrontare ancora oggi la denuncia e il processo è un grande atto di coraggio perché nelle aule dei tribunali sono ancora poco credute e a volte colpevolizzate come se la violenza subita sia stata provocata da loro. Come, per esempio, nel caso dell’abbigliamento o della bellezza quando si tratta di stupri o per la colpa di non capire le difficoltà e lo stress dell’uomo o la sua gelosia nel caso di violenze familiari. Spesso l’uomo violento viene rappresentato come una persona inconsapevole di quello che fa perché in preda a un raptus: per rabbia, per gelosia, per ragioni di vario genere ma in ogni caso è un individuo incapace di capire cosa sta facendo. Si tratta di una forma di minimizzazione della gravità della violenza e la base della giustificazione che fanno i mass media, ma anche parenti e conoscenti. Per questo i violenti ottengono pene miti nei tribunali. Spesso sentiamo la frase assurda detta da qualche uomo violento che per giustificarsi dice che l’ha uccisa perché l’amava più della sua vita. (La vita della ragazza - s’intende -non la sua). Spesso i violenti sono rappresentati come persone con problemi psichiatrici, o di dipendenza da alcool e droga o con gravi problemi sociali o di lavoro. In generale, salvo eccezioni, si tratta di uomini e giovani “normali” ma assolutamente incapaci di accettare un rifiuto o una contestazione da parte della donna con cui vivono o da cui si sono separati. Sono uomini arroganti, incapaci di pensare alle donne come individui con una loro personalità e capacità di decidere anche nei rapporti personali e sentimentali. Le considerano cose di loro proprietà che devono adeguarsi e ubbidire. Un’altra frase che spesso ritorna è “se non sarai mia non sarai di nessuno”. Questa frase dice con chiarezza il senso di possesso che anima molti uomini che sono incapaci di pensare all’amore come capacità di volere il bene dell’altra e misurarsi con se stessi nelle relazioni affettive in modo rispettoso di chi dicono di amare.
Bisogna considerare che questa mentalità viene da molto lontano e che la storia della violenza contro le donne in realtà è uno dei pilastri portanti della nostra cultura. Nella mitologia, nei miti fondanti, nella letteratura nella storia, nell’arte nella filosofia, nelle scienze sociali e psicologiche. Basti pensare ai miti greci e al ratto di Europa da parte di Giove, al mito di Dafne che si trasforma in alloro per sfuggire ad Apollo o al Ratto delle Sabine che segna la nascita di Roma. Si potrebbe continuare perché anche ai giorni nostri film e canzoni giustificano con l’amore e la gelosia i “raptus” incontrollabili dei violenti. Mass media e la cultura sono responsabili di non ricordare che il senso di possesso di una donna è all’origine di questo dramma. E questo non è “normale” come vorrebbero farlo apparire. In una società moderna, soprattutto in una democrazia occidentale, ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e all’integrità personale perché appartiene solo a se stesso, come aveva già detto Olimpia de Gouges con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina durante la rivoluzione Francese, o J. Stuart Mill con la sua opera sulla “Sottomissione delle donne” nel 1864. Nonostante siano passati secoli, e tante cose in Italia come nel mondo siano profondamente cambiate, la condizione delle donne sembra, nel terzo millennio, ancora prigioniera della tradizioni e del potere maschile. Del “Dominio maschile” per dirla come Pierre Bourdieu.
La tutela è la strada certamente più facile da percorrere per chi considera la violenza un’emergenza da normalizzare al più presto o un fatto accidentale di uomini fuori delle regole piuttosto che un dato strutturale da affrontare a partire dalle radici che affondano nel potere maschile storicamente definito e da cui derivano tutte le complicità e minimizzazioni di cui godono i violenti - come dimostra Stefania Cantatore - ma un potere che si pone in modo sempre cangiante per rimanere persistente. Violenza come fatto non casuale quindi e lo Stato deve intervenire solo se si violano le regole, definite non a misura di donna. Questo che porta a capire perché sia assolutamente necessario scavare nella nostra cultura e affrontare la violenza di cui non si parla e che del femminicidio costituisce la base e la fenomenologia culturale e politica - come dimostra Rosangela Pesenti - e che non si può affrontare con un atto di illuminismo culturale, spesso invocato ma che rimanda la soluzione alle calende greche, ma con una scelta politica di lunga durata. Violenza come norma sottesa a tutto, anche a quell’epifenomeno che invade le nostre case e le nostre strade come la pubblicità sessista e che, nella rappresentazione reificata delle donne e del loro corpo, crea un’altra norma che non solo i giovani interiorizzano ma che costruisce una nuova e moderna oggettivazione/inferiorizzazione delle donne contro cui è normale e lecito infierire - come racconta Laura Corradi - e la cui critica viene contrabbandata come una nuova forma di moralismo. Mentre Luisa Betti ricostruisce il contesto e la cultura con cui i mass media affrontano la violenza e il femminicidio e la giustificano contro ogni evidenza logica per mancanza di preparazione adeguata e per l’uso di stereotipi di facile sensazionalismo.
D’altra parte trattare il femminicidio con sorpresa, come se fossimo all’anno zero, è sintomatico proprio di un paese che della cittadinanza debole delle donne ha fatto un suo tratto distintivo. L’Istat ci dice che negli ultimi dieci anni, mentre sono sistematicamente diminuiti gli omicidi di uomini uccisi da altri uomini, non diminuisce il numero delle donne uccise da uomini che rimane costante nei decenni. Un dato di cui nessuno trae le conseguenze. Infatti i Governi che si sono succeduti hanno fatto la scelta di non rilevare dati sul fenomeno della violenza in modo sistematico e integrato.
Anche per questo mancano politiche nazionali organiche e strutturate di conoscenza e permane stabile un occultamento della dimensione strategica del fenomeno, avvalendosi solo occasionalmente di quanto le donne hanno costruito nel discorso politico e nelle metodologie dell’accoglienza già dalla fine degli anni ‘80 con i centri e un lavoro quotidiano e certosino che produce pratiche trasformative del territorio e senso sociale come dimostrato,in questo numero, dalle due storie diverse e simili di M.R. Lotti e P. Castagnotto in due realtà profondamente diverse come Palermo e Ferrara. I loro saggi raccontano la sedimentazione storica, politica, metodologica e operativa delle donne nell’aiuto alle altre donne ed è una storia che appare come una miniera sconosciuta e inesplorata di saperi che il decreto sicurezza dell’agosto 2013, cosiddetto sul femminicidio, del governo, non a caso ha ignorato affrontando il fenomeno in modo sbagliato e imboccando una strada con prospettive ridotte come dimostrano in modo esaustivo i saggi di Delia La Rocca, di Elisabetta Rosi, di Milli Virgilio e di Luisa Betti.
Questo tentativo dura da molto tempo e molti/e speravano che avesse finalmente trovato un punto di svolta con la ratifica all’unanimità del Parlamento italiano della Convenzione di Istanbul. Quanto ne è seguito, al contrario, sottolinea quanto ancora ci sia da conquistare in termini di coscienza personale e collettiva, di conoscenza e analisi della fenomenologia della violenza maschile e di riflessione politica oltre che culturale sul discorso di senso che le donne fanno sulla violenza sessuata e che comincia ad essere condivisa anche da una parte di uomini.
La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne chiede leggi e politiche concrete contro la violenza. Ma questo non basta come non basta la legge 119 di settembre 2013, cosiddetta sul femminicidio, in contraddizione con la Convenzione di Istanbul e prevalentemente repressiva nonostante si parli di Piano straordinario contro la violenza alle donne.
Per cambiare davvero è necessario che la violenza maschile contro le donne sia considerata da tutti non come un problema privato ma politico, non emergenziale ma strutturale e che trova la sua origine nei rapporti di potere diseguali tra i sessi, nella struttura del sistema patriarcale, nella presenza marginale delle donne nel potere politico e sociale, nel permanere di discriminazioni e di stereotipi sessisti nella società, nella cultura e nei mass media. Quello che ci serve quindi è una forte volontà politica e politiche concrete per promuovere una cultura che educhi al rispetto tra i generi e produca parità di condizioni tra uomini e donne nel lavoro, nella rappresentanza nella rappresentazione mediatica, nella famiglia.
La prevenzione della cultura della violenza sessuata deve partire dalla necessità, oggi prioritaria, di proteggere le donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile e ricostruire la loro vita e poi procedere cambiando la cultura di tutti. È fondamentale formare tutti gli operatori coinvolti ed è necessario far partire processi di cambiamento nella scuola, nell’università e nei mass media, nei tribunali. È necessario che gli uomini pensino a se stessi in altro modo e che ragazzi e ragazze vengano educati a rispettarsi e a comprendersi, a condividere idee e valori comuni. Gli adulti devono essere di esempio come lo deve essere la politica. Nella sostanza lo Stato e le sue strutture devono fare il loro dovere di garantire alle donne il diritto alla vita, all’integrità psicofisica e alla libertà. Devono far rispettare la differenza sessuale e i diritti di cui le donne sono portatrici. Ma ognuno si deve sentire coinvolto e non giustificare in alcun modo i comportamenti violenti o lesivi della libertà delle donne. Perché la loro libertà e la loro condizione è la misura della civiltà di una nazione e della civiltà tra uomini e donne. Naturalmente se la civiltà ci sta a cuore! A tutti.
Note
[1] Per questo oggi si parla di femminicidio. Femminicidio è un neologismo politico, una parola che esisteva da molto tempo ma che solo nell’ultimo anno è entrata con forza nel linguaggio giornalistico e quotidiano, nei dibattiti politici. Un neologismo voluto e affermato da anni da studiose femministe in particolare Diana Russel (1992) e Marcela Lagarde ( 1993) e dalle lotte delle donne per svelare questa violenza in tutto il mondo a partire dal Messico in cui le donne sono state protagoniste del suo riconoscimento giuridico nei tribunali internazionali dopo l’uccisione di migliaia di donne a Ciudad Juarez senza che lo stato facesse niente. Il termine femminicidio è stata adottato dall’Onu. In Italia fino a quest’anno molti non usavano la parola perché era ritenuta brutta e non esisteva nella lingua italiana. Nell’ultimo anno , con fatica, si sta facendo largo, anche se con molte contraddizioni e oppositori, la convinzione che a essere brutta non sia la parola ma il fenomeno che rappresenta e che mette in luce obbligando tutti a superare silenzi, complicità e giustificazione dei violenti. Non sono solo omicidi come di soliti li intendiamo e sono definiti dal codice penale ma femminicidi. Femminicidio infatti, come riconosce anche il Vocabolario della Crusca, indica l’omicidio di donne in quanto donne, mette allo scoperto la radice di genere di questi assassini e li definisce come tali non in modo neutro ma in base al genere. È il risultato drammatico di tante forme di discriminazione e di violenza rivolta alle donne in ogni forma in quanto donne. Nasce dal potere che da sempre viene esercitato su di esse affinché il loro comportamento corrisponda alle aspettative maschili e della società. Una forma di controllo che punta ad annientare l’identità e la libertà della donna e la cui disobbedienza è punita con violenza e sempre più spesso con la morte. Un potere culturale profondo che attraversa il tempo e lo spazio e si rappresenta in forme proprie in ogni società violando i diritti fondamentali spesso con la complicità e connivenza delle istituzioni, ma anche della società. O fidando del loro silenzio. I diritti umani delle donne che sono prima di tutto il diritto alla vita ,alla libertà e all’integrità psicofisica non sono rispettati.
In Italia , anche quest’anno come in quelli precedenti, la cronaca ci informa che sono 125 le donne uccise da uomini nel 2012 e 126 le donne uccise nel 2013. Donne di tutte le età, ceti sociali, abitanti in diverse parti del paese. Le loro morti differiscono solo per le modalità crudeli e assurde della loro uccisione. Tutte queste vittime hanno in comune, salvo una minoranza, il fatto che sono uccise da uomini che hanno con loro relazioni affettive, sentimentali, matrimoniali o parentali a cui si sono ribellate. Prima di essere uccise 7 volte su 10 hanno chiesto aiuto per le violenza fisiche, sessuali, psicologiche ed economiche, per le molestie persistenti che subivano denunciando i fatti alla polizia. Invano! Il femminicidio è infatti la dimensione estrema di una violenza che si esercita prima di tutto tra le mura domestiche all’interno della famiglia e, in numero minore, da molestatori permanenti, gli stalcker, o negli stupri contro donne sole da parte di singoli o di gruppi maschili. Li chiamano “reati predatori” e sono considerati poco importanti ma sono atti che distruggono le vite delle persone coinvolte lasciando devastazione e disastri personali, umani, sociali ed economici di lunga durata.
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