Uno sguardo sistemico sull'interculturalità
Cecilia Edelstein (a cura di)
M@gm@ vol.11 n.3 Settembre-Dicembre 2013
GUARDARSI PER INCONTRARSI: LA COSTRUZIONE DELLA RELAZIONE DI CURA CON IL MIGRANTE
Ivo Lizzola
lizzola@unibg.it
Già Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bergamo. Docente di Pedagogia Sociale e Pedagogia della Marginalità e della Devianza. Dirige il Centro di Ricerca Interdisciplinare Scienze Umane, Salute e Malattia (CRISUSM). Promuove numerosi progetti sul territorio locale e a livello nazionale, attraverso attività di ricerca-intervento nel campo della bioetica e della promozione della salute in ambito sociale, sanitario ed educativo.
Un primo aspetto che vorrei sottolineare è che i processi migratori, che attraversano e trasformano la nostra terra e interessano tutte le comunità del mondo, chiedono di apprendere una nuova capacità di vivere, di rivisitare quella dimensione di esposizione che le donne e gli uomini vivono tutte le volte che si incontrano in condizioni di diversità asimmetrica: come accade ad esempio in ogni contesto di cura.
Ripensare l’identità (personale, culturale, sociale, professionale, generazionale…) da “esposti”, chiamati a confrontarsi e a mettersi in cammino verso nuovi inizi dagli incontri impegnativi con chi è altro e diverso, non è esperienza immediata e semplice. Pare, in prima istanza, che l’esposizione rappresenti un pericolo per le identità, che le possa indebolire.
Nella relazione di cura si prova sempre a realizzare una sorta di miracolo, possibile all’interno di una reciprocità asimmetrica. In essa non si realizza un incontro nel quale, come diceva Paul Ricoeur, si vive un dare e avere reciproco. Tale interazione si realizza pure nella radicale diversità delle condizioni e nella radicale esposizione del fragile al competente, scoprendo come competenza e capacità restano esposte alla complessità, all’unicità, alla irriducibilità d’ogni storia e condizione di fragilità. Una relazione di cura profonda è possibile solo se anche chi porta competenza e ruolo d’operatore della cura si espone, lascia “disfare” i propri paradigmi, accoglie l’altro e la propria fragilità.
La relazione di cura, nella sua dimensione sociale, si propone come ricerca di una convivenza accogliente e responsabile tra singoli, gruppi e istituzioni. Come nella relazione di cura, in ogni ambito multiculturale ci si deve confrontare con una resistenza all’incontro, con strategie di evitamento dell’esposizione.
Questa dinamica è particolarmente evidente in campo educativo, soprattutto nei contesti scolastici multiculturali, dove insegnanti ed educatori si devono concentrare sulle resistenze, le rappresentazioni reciproche. Devono saperle riconoscere e indebolire affinché avvenga un incontro. Lasciarsi guardare per lasciarsi incontrare non è cosa semplice: noi vorremmo guarire, vorremmo educare, vorremmo essere guariti, vorremmo essere aiutati.
Le malattie dell’identità di cui ci parla l’etnopsichiatria sono malattie che interessano anche ruoli professionali e saperi d’esperienza, competenze specialistiche e responsabilità organizzative.
Una seconda linea di riflessione riguarda la possibilità di vivere l’incontro dentro la frattura e nella distanza radicale tra le storie di vita che essa provoca. Emerge un forte contrasto: quello tra la storia di migrazione e la storia che si sta narrando nella realtà di immigrazione. Il tutto all’interno del faticoso rapporto con la tradizione locale nella quale l'operatore è immerso.
Da almeno dieci anni, l’Università di Bergamo sta lavorando sul tema del carcere, in particolare sulla giustizia riconciliativa e riparativa, alla ricerca – si potrebbe dire – del legame che precede il reato e la ferita. Riscoprendolo è possibile riuscire a lavorare sul senso di colpa, a spiegare il significato della pena e a costruire la dinamica del riscatto.
Quando il “legame che precede” non è evidente, o sembra non esistere, e le memorie si contrappongono, o addirittura si scagliano le une contro le altre in dure rivendicazioni dei diritti, com’è possibile costruire una convivenza e un incontro? È possibile costruire un “legame che precede” e viverlo al punto tale da aprire un orizzonte comune di responsabilità, nel quale le identità narrative possono intrecciarsi e allo stesso tempo essere salvaguardate?
Incontrarsi a partire da questa radicale diversità permette di attribuire un senso al “legame che precede” soltanto pensando alla consegna da dare a chi verrà dopo! Chi verrà dopo sono le seconde generazioni dei nativi, le seconde generazioni dei migranti quelle che abitano ormai le nostre scuole. Sono nuove “seconde” generazioni anche quelle dei figli e delle figlie della Val Seriana che abitano un mondo ben differente da quello che han vissuto i padri e le madri, una società che ormai è "grande come il mondo". Nelle loro classi, questi figli trovano compagni e compagne provenienti da altre parti della terra, che spesso appartengono a religioni diverse: imparano presto a visitare il mondo. I nostri figli sono una generazione altra, seconda rispetto a noi.
Queste seconde generazioni ci obbligano a pensare a una consegna, a pensare al nostro tempo adulto come a un tempo disegnato nel futuro anteriore. Se noi ci pensiamo nella consegna rispetto ai nostri figli, scopriamo che la cosa importante è pensare a come saremo stati significativi per loro.
Il futuro anteriore è un po’ strano, è un futuro che ricostruisce una memoria, in qualche modo un legame che precede. Forse allora si può scoprire, grazie ai figli, quel legame che precede, e sul quale noi possiamo operare: per tenere conciliazioni impegnative, faticose, leggere, fragili e, contemporaneamente, capaci di aprire un futuro condiviso, una convivialità fatta di differenze e allo stesso tempo di riconoscimenti.
Non è semplice disegnare la propria vita al tempo del futuro anteriore, perché è difficile lasciare andare, incontrare davvero, consegnare. Queste sono abilità profonde che, forse, negli ultimi decenni non sono state alimentate nel costruire le identità personali e le trame del legame sociale.
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