Uno sguardo sistemico sull'interculturalità
Cecilia Edelstein (a cura di)
M@gm@ vol.11 n.3 Settembre-Dicembre 2013
TRE VIGNETTE: DAL CAMBIAMENTO DELL’ALTRO AL CAMBIAMENTO DEL SÉ DELL’OPERATORE.
Orietta Sponchiado
orietta.sponchiado@email.it
Psicologa, psicoterapeuta ad orientamento sistemico-relazionale, mediatore familiare, perfezionamento annuale in terapie interculturali presso Shinui. Svolge attività di psicoterapia individuale, di coppia e familiare nel suo studio privato. Collabora come consulente psicologa presso la Provincia di Treviso nel settore delle politiche formative occupandosi del C.I.C. all’interno del servizio psico-pedagogico della formazione professionale e per i progetti di educazione affettiva, sostegno della genitorialità e corsi di preparazione alla nascita presso U.O.Consultoriale Materno Infantile- Età Evolutiva e Famiglia, A.S.S.L. N.10 Veneto Orientale.
Immagine 1: La vignetta riguarda un caso clinico di una donna di origine brasiliana in trattamento psicoterapico presso il mio studio privato, in cui si mostreranno come gli elementi della relazione interculturale hanno determinato dei passaggi di crescita cruciali.
La vignetta che vi riporto è relativa al lavoro clinico con una paziente di origine brasiliana, il cui nome Marta è, per correttezza, fittizio. Lavoro come psicoterapeuta nel mio studio e ho delle collaborazioni con scuole del territorio, oltre che con il Consultorio Familiare.
Conosco Marta, una donna di 46 anni, presso l’asilo nido in cui conduco degli incontri di gruppo, inerenti la genitorialità. Alla fine di un incontro specifico sulla maternità, Marta, sostenuta dalla direttrice della scuola, si avvicina per chiedermi una consulenza.
Il problema riportato da Marta riguarda una difficoltà alimentare del suo primogenito di 5 anni. Per questo motivo, al primo colloquio di consulenza chiedo a Marta di essere accompagnata dal marito; da subito noto che questa è una tematica vissuta in maniera assai differente tra i due coniugi.
Marta si irrigidisce molto rispetto alla selettività dei cibi che il bambino mangia, si preoccupa a dismisura perché il piccolo si nutra all’italiana, imponendo la sequenza del primo piatto, seguito dal secondo e senza accorgersi che suo figlio preferisce mangiare in un altro modo. Il marito, d’altro canto, non sembra affatto preoccupato da questa faccenda alimentare. Durante la prima consulenza, anche attraverso il sostegno del marito, Marta porta la sua vera richiesta d’aiuto, rappresentata da questa frase: «Perché io sto male dentro me stessa, mi sono persa e vorrei sparire». Proprio da questo punto, decidiamo insieme di continuare con un lavoro individuale.
Ci sono due tempi del processo terapeutico. Un primo tempo dove io curo la costruzione della relazione: Marta si pone nei miei confronti in posizione provocatoria, esternando tutto il suo vissuto di grande sofferenza e dolore verso chi è italiano. Sarà proprio l’accoglienza, il reggere, il contenerla e l’esplicitarsi i reciproci pregiudizi ad aiutarci a sviluppare quelli che sono i temi che provocano l’intensa sofferenza in Marta. Tutto il primo tempo è dedicato, infatti, a raccogliere le sue narrazioni così come le porta, avendo cura di approfondire le sue preoccupazioni per il sintomo del bambino e la gravità che lei vi pone, cercando poi di addentrarsi gradualmente in tutto il suo percorso di vita e di storia.
Il secondo tempo terapeutico è suddiviso in cicli, seguendo la metodologia di lavoro dell’approccio sistemico pluralista (Edelstein, 2007). Abbiamo lavorato su tre cicli, con degli incontri prefissati, in cui insieme si cerca di sviluppare determinati obiettivi verificandone poi i cambiamenti percepiti.
Portando tutta la problematica di come lei vive con angoscia la difficoltà del bambino nell’alimentazione, Marta, soprattutto nel primo tempo, comincia ad esternare la sua difficoltà ad accettare la realtà italiana, esprimendo le sue criticità nello stare in Italia come mamma, come donna e come moglie. Ciò mi ha permesso di entrare in quella che è la storia migratoria della signora che parte già dall’adolescenza. In un primo tempo non riesco ad entrare nella sua storia familiare; Marta inizia il racconto dall’adolescenza, riferendo come da Montana lascia questo paese nativo, per andare a Vittoria, dove, con grande orgoglio, effettua gli studi in biologia e attiva tutte le risorse per poter, con borse di studio, raggiungere il dottorato. All’università in Brasile conosce, all’interno di un progetto di ricerca internazionale, quello che sarà il suo futuro marito, biologo italiano lì appunto per il medesimo lavoro. Marta, all’età di 35 anni, racconta la sua decisione di emigrare verso l’Italia per poter realizzare il suo sogno: quello di costruire una famiglia con questo uomo. Alla luce di ciò, il futuro suocero le promette di inserirla all’interno di progetti di ricerca nell’Università Italiana, ove operava.
L’arrivo per Marta è doloroso: si aprono tutta una serie di delusioni, si sente di vivere in un ambiente pieno di pregiudizi e di fatiche nella fase di inserimento (fase che, come dimostrano gli studi, è molto lunga nella prima generazione e forse non finisce mai, ragione per cui non parlo di integrazione) (Edelstein, 2003a). Comincia ad avere delle difficoltà, si sente osservata, guardata e minacciata dall’Altro; inoltre, emerge un vissuto penoso rispetto alla problematicità di poter esercitare la sua professione che, in questo primo tempo, non viene spiegato in terapia. Sento infine una grandissima rabbia rispetto al fatto di essere diventata madre sentendosi in qualche modo «incastrata».
L’aspetto che mi piace evidenziare di questo primo tempo di interazione tra me e Marta, è la forte ambivalenza verso il mio essere italiana nella sua dinamica di affidamento. Questa ambivalenza viene gradualmente elaborata insieme, a partire dalle nostre differenze culturali. Marta è molto colpita da me in quanto, durante l’incontro presso l’asilo, avevo trattato l’aspetto interculturale della maternità: questo è diventato il motivo di aggancio nel chiedermi la consulenza. E’ stato importante quindi esplicitare quelli che sono i nostri pregiudizi rispetto a quello che rappresenta il mondo brasiliano piuttosto che il mondo italiano per ciascuna. Gradualmente, Marta mi riporta l’incongruenza dei suoi pregiudizi e mi sottolinea il mio essere brasiliana nell’indossare vestiti colorati e il suo essere italiana con vestiti grigi, neri e pantaloni. È come se cogliesse in me degli aspetti che in qualche modo le ribaltano la sua visione della donna italiana.
Diventa importante accogliere Marta in questi aspetti valorizzando la sua risorsa e capacità nel costruire un legame significativo con me straniera; infatti, Marta, via via che percorre il primo tempo della terapia, comincia a legarsi, diventando gelosa di altri clienti in sala d’attesa, chiedendomi un’ora e mezza piuttosto che un’ora sola e dandomi del Tu. Utile è il mio atteggiamento di curiosità (Cecchin, 1988) nel farle delle domande rispetto alla cornice interculturale, giocando sugli aspetti buffi, talvolta stravaganti che mi racconta della cultura brasiliana.
Nel secondo tempo della terapia intervengo con degli strumenti che sono più tecnici, per aiutare Marta a raggiungere degli obiettivi. Il primo è sicuramente quello di riuscire a riconciliarsi con la sua storia familiare e, per farlo, uso il genogramma fotografico (De Bernart, 1989), attraverso cui emerge immediatamente la difficoltà di Marta a raccontare e ad avere accesso alle immagini della sua storia familiare.
Il genogramma fotografico e successivamente la scultura umana (Andolfi, 1977), mi permettono di accedere a quella che è la sua infanzia e la prima adolescenza. Marta proviene da una situazione di separazione fortemente conflittuale tra i suoi genitori: una mamma molto più giovane del papà che si sposa in seconde nozze e una situazione in cui vi sono eventi a tal punto traumatici da dover vivere in un orfanotrofio, dove è vittima di violenze da parte del direttore dell’istituto. Ci sono tutta una serie di elementi che Marta, solo qui, attraverso il genogramma fotografico, riesce a riportare e, successivamente, tramite la scultura umana, diventa possibile lavorare sul passaggio da una situazione di grande disagio rispetto agli eventi traumatici a delle posizioni di maggiore agio. L’aspetto che colpisce me in questo lavoro, sia nel genogramma sia nella scultura, è l’intensificarsi del legame terapeutico e dunque della relazione fra noi a tal punto che Marta dice in terapia: «mai avrei pensato di raccontare la mia storia ad una straniera e di sentirmi capita così bene. Non riesco a vedere l’italiana, per me sei una persona a cui mi sono profondamente affidata». Quindi questa relazione si configura come un legame attraverso cui Marta sente la possibilità di tornare indietro e di riappacificarsi con il suo passato e con se stessa, raccontando anche degli eventi indicibili.
L’uso del corpo è importante per fare i passaggi e segnare i cambiamenti, ma anche per poi elaborare quello che per lei era inesprimibile. Altrettanto importante è il lavoro sul sé sociale (Edelstein, 2003b; 2006): Marta comincia a parlare delle sue appartenenze politiche e religiose. Inizia a vivere dentro di lei l’essere brasiliana, l’avere una propria filosofia di vita e un certo tipo di appartenenza come una risorsa, e via via crea un collegamento tra questo suo sé sociale e il suo sé individuale. Mi sembra importante riportare una sua riflessione: «e io che ho sempre pensato: ‘o si è italiani o non si è nessuno…’». La dicotomia basata sulla nazionalità di origine e/o sull’appartenenza culturale granitica inizia a sfumare dentro Marta.
Successivamente, sempre all’interno del secondo ciclo, lavoriamo anche su un altro obiettivo particolarmente importante, ovvero sulle aspettative inconsapevoli della sua migrazione. Tramite le narrazioni e il lavoro terapeutico, Marta capisce che, così com’è scappata dalla pesante situazione familiare per potersi salvare, per liberarsi e raggiungere le proprie autonomie, nello stesso modo fugge dal Brasile ed emigra in Italia con la speranza di rilanciarsi anche dal punto di vista lavorativo. Solo a questo punto si riesce, nel lavoro terapeutico, a capire perché non lo fa: Marta riporta di aver rivissuto l’evento traumatico del direttore dell’orfanotrofio all’interno della famiglia di origine del marito con l’attuale suocero, padre del marito, e quindi si chiude in sé stessa. Presto rimane incinta e da li si sviluppa una sorta di isolamento: si chiude in casa, non esce più con le sue connazionali e questo ritiro sembra quasi trasformarsi in una depressione.
Fin qui il lavoro terapeutico si fonda sulla premessa di Edelstein che constata che quando l’immigrato è in difficoltà, il suo sguardo è rivolto indietro, mentre spesso gli operatori guardano avanti pensando a percorsi di integrazione o riabilitazione, ma in questo modo le parti si volgono metaforicamente le spalle (Edelstein, 1997; 2003b). Il lavoro con i nostri sguardi orientati all’indietro ci ha permesso di non volgere le spalle l’una all’altra, ma di entrare nella stessa prospettiva e ha aiutato Marta a elaborare la sua storia migratoria. Via via che si dipanava la nebbia del dolore delle ferite familiari e di queste difficoltà di integrazione all’interno dell’Italia, lo sguardo ha potuto virare verso il presente e aprire orizzonti possibili. Insieme abbiamo cercato poi di lavorare su come la coppia e la sua attuale famiglia ora le apparivano, per infine concentrarci sulla relazione con suo figlio.
Apro infatti in un terzo ciclo di incontri una serie di colloqui di counseling con il marito per coinvolgerlo sul lavoro svolto insieme e anche per svelare i segreti che ci sono tra loro.
Successivamente faccio un lavoro con il bimbo, soltanto un paio di incontri. Riporto due suoi commenti che mi appaiono illuminanti: uno riferito all’inizio, l’altro con il saluto: «finalmente ti conosco Orietta! Hai fatto stare molto male la mamma, fumava tanto, ero preoccupato. Ma poi hai fatto cambiare molte cose a casa, noi stiamo più insieme, giochiamo, ridiamo, mi prende in braccio e mi racconta le storie e mi prepara tanti buoni piatti. E, sai? Ho scoperto di essere brasiliano nel mangiare!». Le problematiche che la mamma ravvedeva nel bambino, amplificate, si erano progressivamente sciolte durante la terapia ed è stato utile confermarlo con il figlio. Alla fine, simpatica è stata la sua frase: «Ciao, mi sono divertito, grazie! Hai fatto un dolce buono oggi per noi (avevo infatti preparato un dolce per accoglierlo) e sono contento che la mamma venga da te, anche se adesso mi rimprovera in portoghese». Mi è sembrato questo un passaggio importante, di cui sono venuta a conoscenza tramite il figlio: Marta non parlava mai in famiglia nella sua lingua e non aveva mai cucinato alcun piatto brasiliano. La terapia le servì non solo per guardare il presente e aprirsi futuri possibili, ma anche per ricollegarsi con le sue origini e poterle trasmettere al figlio.
Marta ha deciso di fare un viaggio in terra d’origine. Mi disse: «sai Orietta, ho deciso di partire per il Brasile da sola. Desidero rivedere il mio paese e mia madre ora».
La donna ora lavora come biologa part time nel suo studio associato costruito con il marito a Venezia. Con una connazionale ha un’attività che si occupa di organizzare feste brasiliane di compleanno per tutti i bambini del mondo in Italia, con la proficua collaborazione del figlio. Coopera poi in un’associazione culturale per i diritti delle donne sudamericane.
Dal cambiamento di Marta al mio cambiamento
Penso molto al lavoro terapeutico con Marta, il mio primo lavoro con uno straniero, e la devo ringraziare: questa signora ora mi affida persone straniere in studio, e ogni incontro per me è una partenza per un viaggio nuovo, in terre diverse.
Questo percorso, così significativo, ha creato delle perturbazioni fino a incidere su cambiamenti significativi anche in me. Ho anche scelto di fare l’esperienza di madre affidataria di un giovane marocchino. Vi porto alcune delle nostre riflessioni, trascritte da un momento in cui abbiamo ricordato quanto vissuto insieme.
Immagine 2: questa seconda vignetta riporta le parole donatemi da un giovane adolescente proveniente dal Marocco attraverso l’esperienza di affido familiare, che ho personalmente intrapreso, che evidenziano l’importanza della cura delle differenze interculturali nella relazione, e che hanno permesso il ripristinarsi del processo di crescita.
«La trasformazione da Mahmoud di strada a Mahmoud con un obiettivo per sé da seguire non è avvenuta con i miei genitori o con una persona marocchina…ma semplicemente insieme tra noi due.» M.M (Mahmoud)
«La trasformazione di Orietta che matura la convinzione di poter generare da Sé una madre buona…è avvenuta insieme.» O.S.
«Una cosa che ho imparato tra di noi è che si può essere padroni di sé stessi in modo autonomo, senza autodistruggersi lasciandosi andare per la solitudine.» M.M.
«Una cosa che ho imparato tra di noi è di apprezzare la leggerezza dell’essere giorno per giorno…» O.S.
«…a volte mi sembra che litighiamo di più per le differenze di percezione tra il tuo essere femmina e il mio essere maschio piuttosto che per le differenze interculturali. » M.M.
«…Sono stata molto arrabbiata, delusa e ferita perché ho vissuto in prima persona il razzismo dei miei connazionali verso di noi…quando cercavamo solo di raggiungere i nostri obiettivi.» O.S.
«…e poi far capire al mio papà, che non volevi farmi cambiare religione… non eri una persona che mi aiutava per questo secondo fine». M.M.
«… e poi far capire ai miei parenti che tu non avresti trasformato la mia casa in un nascondiglio per la droga». O.S.
«…Mi sono arrabbiato e infastidito nel sentire e cedere che i miei connazionali, anche più grandi di me, non ci credevano che non approfittassi di avere una “relazione intima” con te…mi facevano schifo in questi loro pensieri! » M.M
«Per finire non avrei mai detto che mi sarei sentito a casa più con te che con i miei famigliari». M.M.
«Posso solo ringraziarti…ma il momento in cui sono stata felice per te è quando finalmente hai cucinato marocchino alle tue due parti di famiglie congiunte…è stata una giornata nutriente per tutti!»
Nei miei viaggi, che da sempre faccio nelle tribù dei Masai in Africa, finalmente capisco perché prima mi dicevano che partivo con le «croste»; ora mi sento con un po’ meno croste addosso.
Ringrazio Marta perché mi ha offerto la possibilità di imparare da lei e con lei a lavorare sui miei pregiudizi ed esplorare con autentica curiosità la dimensione dell’Altro straniero.
Mi piace molto e riporto, concludendo, questa frase di Cecilia che riassume in poche parole quello che è stato il mio processo di cambiamento: «un’azione di aiuto in ambito interculturale, diventa tale quando si crea un cambiamento non solo nel cliente, ma anche nell’operatore».
Immagine 3: terza e ultima vignetta riporta una citazione tratta dall’articolo “Quando l'operatore appartiene a una cultura altra” del 1997 nella rivista Connessioni, scritto da Cecilia Edelstein che grazie al suo corso di counseling interculturale mi ha aiutata nella mia formazione.
Bibliografia
Andolfi, M. 1977, La terapia con la famiglia, Astrolabio, Roma.
Cecchin, G. 1988, Revisione dei concetti di ipotizzazione, circolarità e neutralità. Un invito alla curiosità, «Ecologia della mente», 5.
de Bernart, R. 1989, Tecniche Relazionali con la Famiglia e l' Individuo, «Terapia familiare», 31.
Edelstein, C. 1997, Quando l'operatore appartiene a una cultura altra, «Connessioni», 2.
Edelstein, C. 2003a, Aspetti psicologici della migrazione al maschile e differenze di gender, «M@gm@ - Rivista elettronica di scienze umane e sociali» , 1.
Edelstein, C. 2003b, La costruzione dei sè nella comunicazione interculturale, «Studi Zancan», 6.
Edelstein, C. 2006, L'integrazione, un approccio dal basso, «M@gm@ - Rivista elettronica di scienze umane e sociali» , 4.
Edelstein, C. 2007, Il counseling sistemico pluralista: dalla teoria alla pratica, Erickson, Trento.
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