Uno sguardo sistemico sull'interculturalità
Cecilia Edelstein (a cura di)
M@gm@ vol.11 n.3 Settembre-Dicembre 2013
FAMIGLIE E ANZIANI ASSISTITI DA BADANTI: L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Carlotta Monini
carlottamonini@gmail.com
Laureata in antropologia e sociologia medica, la sua formazione in counseling interculturale presso il centro Shinui ha integrato l’approccio pluridisciplinare di ricerca azione in scienze sociali. Attualmente dottoranda, i temi privilegiati nel corso degli studi e nelle attività di ricerca riguardano il lavoro di cura, l’esperienza migratoria e le forme emergenti di diseguaglianze sociali legate a specifiche configurazioni politico-istituzionali. In particolar modo, il fenomeno del badantato costituirà il suo principale oggetto d’analisi nel corso dei prossimi anni di ricerca presso l’Università di Evora in Portogallo e presso l’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi.
Introduzione
La condivisione degli spazi e momenti più intimi del proprio quotidiano (Zelizier, 2001; Edelstein, 2008) è l’aspetto che maggiormente caratterizza la vita comune tra persone anziane, assistite privatamente a domicilio, e un gran numero di donne migranti, collaboratrici domestiche sui generis: le “badanti”. Questa forma di assistenza domiciliare si svolge nell’universo chiuso e autoreferenziale dell’ambito domestico e presenta delle dinamiche relazionali complesse, costruite sulla base di un rapporto d’interdipendenza reciproca di natura economica, ma anche fisica e affettiva. In quest’ambito, sono ormai numerose le ricerche in scienze sociali volte ad approfondire e mettere in luce il punto di vista e i vissuti delle donne migranti, impiegate in Italia nel settore del badantato.
Più precisamente, ciò che emerge con molta evidenza, è “il mal da lavoro” e “da rapporti sociali” (Chiaretti, 2005), prodotto da questa attività di cura così totalizzante e, ugualmente, la centralità e l’impatto che le relazioni intrattenute con il proprio assistito/a hanno sul benessere psico-fisico di tante collaboratrici domestiche migranti (Edelstein, 2008). Seguendo questa prospettiva, l’analisi del contesto socio-relazionale, all’interno del quale un gran numero di donne migranti accudisce e si mette letteralmente al servizio della vita degli altri (Frigeni, 2009), ha permesso di chiarire i principali pattern che vanno a caratterizzare la relazione tra badante, persona assistita e i suoi familiari. Tale approccio di ricerca ha prodotto delle tipologie d’interazione che presentano un carattere quasi fotografico e ad altissima capacità illustrativa: dall’inclusione della badante in seno al nucleo domestico, ad esempi d’interazione fondate sulla separazione tra sfera professionale e privata, fino a spingersi verso nuove forme d’asservimento.
Tuttavia, poca attenzione è stata rivolta, sino a questo momento, ai vissuti specifici dell’anziano assistito oltre che al punto di vista del suo entourage familiare e, in particolar modo, dei figli caregiver. La scelta di soffermarsi su questi aspetti intende riflettere sulle molteplici modalità d’accoglienza delle collaboratrici domestiche in seno al nucleo familiare. I vissuti e le attese dei familiari e degli anziani sembrano, di fatto, giocare un ruolo cardine nella definizione dei significati attribuiti all’assistenza e ai tipi di pattern relazionali, suscettibili di svilupparsi in quest’ambito.
Proprio per questo, ho scelto di avviare una ricerca qualitativa, intervistando sei familiari coinvolti nella presa in carico del proprio parente anziano (un ex-coniuge e cinque figli caregiver), tre anziani assistiti e quindici donne migranti impiegate in Italia nel settore del badantato e originarie dell’Europa dell’Est (Moldavia, Romania, Ucraina). Nell’ambito di quest’articolo illustrerò tre casi di coabitazione e di presa in carico tra badante e anziano, soffermandomi sulla fase precedente l’inserimento lavorativo dell’assistente, sui moventi che portano alla decisione di avvalersi di questa figura e sulle aspettative dei familiari e figli caregiver, ma anche sulle forme di riorganizzazione interna al nucleo familiare che seguono l’inizio della delega.
La scelta di questi tre casi dipende in primis dalla completezza delle informazioni di cui ho potuto disporre (svariati colloqui con ciascun membro coinvolto nella presa in carico) e dalla possibilità d’accesso al domicilio della persona anziana (svolgendo a più riprese un lavoro d’osservazione partecipante nel corso dell’assistenza). Senza avere pretese di esaustività né di generalizzazione, l’analisi di questi tre studi di casi e alcuni riferimenti alle altre interviste raccolte nel corso della ricerca si propone di chiarire la persistenza di un modello domestico di presa in carico e di riflettere sui vissuti contraddittori che accompagnano la delega della cura da parte dei familiari alle collaboratrici domestiche migranti, assistenti agli anziani, comunemente conosciute come “badanti”.
Dati gli obiettivi, la ricerca qualitativa ha adottato un approccio a impianto sistemico, volto alla comprensione della pluralità dei punti di vista degli attori coinvolti in un tale setting residenziale.
Si tratterà in seguito, alla luce dei risultati di questa ricerca, di pensare a delle forme d’intervento e di controllo discreto, capaci di prevenire tensioni e inadempienze e di riflettere, inoltre, sul come avviare un efficace lavoro di supporto e, nelle situazioni a carattere particolarmente problematico o conflittuale, di mediazione.
La fase precedente all’arrivo della badante
La scelta di ricorrere a un aiuto esterno e, in particolar modo, all’assistenza residenziale di una badante, viene sovente presa in situazioni d’urgenza e di degradamento repentino delle condizioni di salute della persona anziana. Cadute, fratture, ricoveri all’ospedale sono tra i più frequenti episodi che motivano la ricerca di un’assistenza domiciliare di tipo residenziale. Frutto dell’iniziativa privata dell’entourage familiare della persona anziana, questa decisione è spesso condotta in solitudine, senza una sufficiente attivazione da parte dei servizi socio-sanitari (Quintavalla, 2005). Il processo decisionale, sebbene scaturisca da un evento particolarmente grave, è preceduto da un lungo percorso d’accompagnamento, elaborato e condiviso all’interno della rete familiare più prossima coinvolta - attivamente o suo malgrado - nella cura quotidiana del proprio parente anziano (in particolar modo i figli caregiver).
Le narrazioni raccolte nel corso della ricerca mostrano tutta la problematicità insita in una tale scelta; scelta che viene spesso presentata come “forzata”, scartando gran parte delle soluzioni medicalizzate e di ricovero in case di riposo e, alle volte, realizzata in situazioni limite di cura intrafamiliare ad alta conflittualità o vicine al burnout.
Nel corso di questo periodo, i familiari dell’anziano prendono atto della propria incapacità nel poter assicurare un tipo d’assistenza esclusivamente interno al nucleo familiare più ristretto e inizia a esplorare le soluzioni possibili d’assistenza presenti nel mercato della cura locale.
La scelta di ricorrere a una badante non è scontata e viene spesso negoziata e discussa con il proprio parente anziano.
Come vedremo, nei tre casi di studio che ho potuto approfondire maggiormente, ciascun membro della famiglia coinvolto in questo tipo di presa in carico occupa una posizione specifica e presenta vissuti ed esigenze diverse: per l’anziano, l’inizio della convivenza con la badante può innescare reazioni di rifiuto, oltre che un forte sentimento di solitudine e di mancanza nei confronti dei propri familiari; per i parenti più prossimi della persona assistita si tratta, al contrario, di definire i termini della delega, la suddivisione dei compiti e dei ruoli tra entourage familiare e collaboratrice domestica.
1) La badante come supporto alla figlia caregiver
L’assistenza domiciliare in questo caso si sviluppa in un contesto abitativo allargato, tipico della struttura familiare italiana la quale implica la co-presenza di due o tre generazioni alla volta (Andolfi, 1985). In questo caso, la persona anziana assistita e la famiglia della figlia caregiver vivono in due strutture abitative adiacenti e comunicanti. La figlia è la responsabile principale della presa in carico e decide di ricorrere a una badante in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute della madre, malata d’Alzheimer. Nonostante l’enorme carico di cura, l’aiuto dei fratelli e del marito sembra essere non solo poco presente ma anche non ricercato, per via d’una sostanziale attribuzione delle attività di cura ad una sfera pensata come esclusivamente “al femminile”. Nel corso dei primi colloqui svolti con la figlia caregiver, la badante - arrivata da sole tre settimane - viene descritta come una figura di supporto per se stessa più che per sua madre.
Natascia [1] , una donna ucraina di 54 anni, è arrivata in Italia da pochi mesi attraverso il contatto della nuora per aiutare economicamente la figlia. La sua presenza, inizialmente molto discreta, sembra non andare a modificare l’assetto familiare. Natascia si mostra molto servizievole, svolgendo compiti di pulizia e di cura che vanno ben oltre le sue competenze: “io qui come a casa mia”. Nonostante l’accoglienza sia positiva per entrambe le parti, la delega della cura si realizza a passi molto graduali ed è costellata da numerose incomprensioni tra le due donne rispetto alla suddivisione dei compiti di cura.
2) La badante come supporto all’autonomia dell’anziano
Da nove anni Alice, una donna ucraina di 41 anni, convive con un’anziana signora di 94 anni, la quale possiede ancora un alto livello d’autonomia, sia cognitiva che fisica. Nel corso delle visite presso il domicilio della signora Lina, le due donne si mostrano molto accoglienti e loquaci.
Sebbene l’inizio della presa in carico venga descritta come un periodo molto difficile per entrambe, segnata dal rifiuto d’aiuto da parte della donna anziana assistita, la coppia badante e anziana sembra essere autosufficiente e legata da un rapporto d’interdipendenza molto forte. La prima persona plurale “noi” appare a più riprese, così come la costruzione stessa delle narrazioni riguardanti la vita dell’una e dell’altra è fatta a più voci, dando prova di una grande conoscenza reciproca. Il racconto della propria quotidianità per entrambe le donne è sorprendentemente vivace, con attività diversificate come la lettura, la cucina, l’orto; giornate caratterizzate da un tempo “pieno”, che scorre velocemente, nel corso delle quali l’accudimento della signora assistita è fortemente caricato d’un registro familiare: “la tratto come se fosse mia madre”. Il termine “abbandono” è usato da Alice a due riprese: per parlare dell’esperienza di “abbandono” del figlio in seguito alla sua partenza per l’Italia, ma anche per parlare dell’impossibilità di lasciare il suo lavoro attuale, in virtù del legame e della riconoscenza nei confronti della signora Lina e della sua famiglia. Sebbene i colloqui con la badante non eludano le conflittualità proprie a questo tipo di percorso migratorio e alle condizioni esistenziali tipiche di un’esperienza lavorativa così totalizzante, tali aspetti problematici sembrano non essere subiti in prima persona, ma giocarsi piuttosto nelle relazioni concrete, sia con la persona assistita che con i propri familiari recentemente ricongiunti in Italia. È proprio in virtù di tale legame affettivo, ma anche di forte riconoscenza con l’anziana assistita, che Alice decide di continuare il suo lavoro di badante “perché non posso sputare nel piatto dove ho mangiato”.
3) La badante e i rischi in casi d’elevata dipendenza
La presa in carico di un anziano signore di 88 anni malato di demenza senile viene organizzata per sua stessa volontà nel suo domicilio, dopo essere diventato incontinente. Il figlio caregiver, supportato dalla moglie e da una sorella residente all’estero, ricorre dunque a una badante d’origine moldava, responsabile per il mantenimento economico dei due figli rimasti nel paese d’origine. Dai colloqui svolti con i membri coinvolti nella presa in carico, emerge con molta chiarezza quanto sia importante la coordinazione tra datore di lavoro e assistente domiciliare qualora l’anziano assistito presenti un elevato grado di dipendenza fisica e psicologica. La questione del controllo, della responsabilità e le possibilità di costruire un rapporto di fiducia tra caregivers familiari e professionali sono centrali in quest’ambito. L’assistito gioca di fatti un ruolo molto passivo all’interno di tali dinamiche relazionali e la verifica dell’andamento della presa in carico non può di fatto essere mediata dall’anziano.
Dai colloqui svolti con il figlio caregiver emerge quanto la gestione del padre anziano sia accompagnata da molte difficoltà e incertezze. Tale problematicità sembra in parte insita all’evoluzione di un quadro patologico così complesso in cui la presa in carico domestica (improntata sulla “libera scelta del paziente”) necessiterebbe forse d’essere trasferita in un ambiente di cura maggiormente medicalizzato. In questo caso, le difficoltà d’accompagnamento appaiono però acuite dalle numerose incomprensioni tra datore di lavoro e badante. Nel proprio lavoro d’assistenza quotidiana, quest’ultima sembra di fatti avere un atteggiamento diametralmente opposto a quello del figlio caregiver, mostrandosi a più riprese particolarmente risoluta e decisa, e, in definitiva, poco incline all’ascolto. Oltre a non tenere conto del parere e delle richieste del figlio caregiver, l’assistente mostra ugualmente la tendenza a infantilizzare il proprio assistito. Tale processo d’infantilizzazione dell’anziano, se da un lato rivela le difficoltà e le lacune professionali di un’assistente domiciliare non sufficientemente preparata, è anche all’origine dell’ansia e dello stress provato dal figlio caregiver il quale dichiara: «Quello che non mi piace proprio è che tratta mio padre come un malato di quella malattia, proprio come un demente, e questo mi dà molto molto fastidio».
L’assistenza domiciliare, svolta nell’universo chiuso e privato della casa, presenta numerosi rischi di stress e di "burn out" tanto per la badante quanto per i familiari, nonché un discreto rischio di maltrattamento dell’anziano (Monini, 2012; Quintavalla 2005). In questo caso specifico, il rapporto tra i familiari dell’anziano e l’assistente domiciliare sembra deteriorarsi nel tempo, fino ad arrivare alla stesura di regolamenti scritti da parte del datore di lavoro e a telefonate e visite a sorpresa per verificare l’operato della badante.
L’entourage familiare: tra delega e sostituzione – differenze di genere
A partire dalla breve presentazione di questi tre studi di casi credo sia anzitutto importante porre una maggiore attenzione nei confronti delle dinamiche di tipo triadico che tendono a svilupparsi tra badante, anziano assistito e famigliari di quest’ultimo.
Se da un lato, infatti, l’inizio dell’assistenza domiciliare da parte della badante sancisce l’apertura di una nuova fase del ciclo familiare (incidendo profondamente sull’assetto delle dinamiche relazionali), non si può eludere il fatto che, per via dell’assenza di un mediatore istituzionale, è proprio la famiglia dell’anziano (specialmente i figli caregiver) a essere particolarmente responsabilizzata rispetto alla definizione dei compiti di ciascun membro facente parte dell’assistenza domiciliare (Bungener, 2004). Di conseguenza, i vissuti e i significati attribuiti da questi ultimi all’assistenza domiciliare, risultano essere particolarmente importanti per capire alcune dinamiche specifiche di questa prestazione di servizio privatizzata.
Una porzione importante del carico di cura, in precedenza svolto dai familiari della persona assistita, viene di fatto delegato alla badante. Si tratta d’un processo di parziale sostituzione dell’aiuto familiare, nel corso del quale la suddivisione dei compiti sembra fortemente improntata su dinamiche relazionali precedenti all’arrivo della badante, ma ugualmente influenzata dall’innescarsi di nuove dinamiche d’esclusione e d’inclusione, d’implicazione o di rinuncia da parte dei familiari, di fronte all’aggravarsi delle condizioni di salute del proprio parente anziano (Parisi, 2007).
Nel primo caso presentato, l’inizio dell’assistenza sembra caratterizzato dalla difficoltà di delegare alla badante molti dei compiti di cura in precedenza svolti dalla figlia caregiver. Quest’ultima, pur dichiarando di volersi disimpegnare parzialmente dalla presa in carico della madre, mostra molte difficoltà nel separare la sfera d’azione propria da quella dell’assistente domiciliare. Nel corso dei primi mesi, infatti, la badante sarà concepita più come una figura di supporto alla figlia anziché alla madre, e sarà coadiuvata dalla costante supervisione della figlia stessa. Nonostante la buona accoglienza e la dinamica fortemente inclusiva mostrata dai propri datori di lavoro, la presa in carico in questo ambito fatica a trovare un equilibrio. In particolar modo, la badante sembra inserirsi con molta fatica all’interno di un’interazione triadica in cui la figlia è molto presente e la madre assistita manifesta un fortissimo attaccamento nei confronti dei propri familiari, così come molta difficoltà nell’adattamento alla nuova coabitazione con Natascia. Un secondo tentativo di separazione netta delle zone abitative non sarà ritenuto sufficiente dalla figlia, la quale, dopo sette mesi d’assistenza domiciliare, opterà per il ricovero in una struttura di riposo.
Il secondo e terzo studio di caso analizzati vedono invece coinvolti due figli caregiver, non conviventi con i propri genitori (rispettivamente madre e padre). La delega della presa in carico appare in questo caso fin dall’inizio molto chiara: l’assistente domiciliare viene pensata come una figura femminile di supporto al proprio parente anziano per la globalità delle attività quotidiane.
L’analisi dei colloqui svolti con i figli caregiver in questi tre casi (ma anche nel corso di altre cinque interviste) mostra come tale compito venga concepito in una maniera significativamente diversa a seconda dell’appartenenza di genere (Monini, 2012). I figli maschi della persona assistita tendono a esaltare le proprie funzioni di controllo e di protezione nei confronti di entrambe le parti. Per questi ultimi, non si tratta di entrare nel merito della relazione tra badante e anziano, ma piuttosto di supervisionare l’andamento della presa in carico e di stabilire in prima persona le mansioni da svolgere.
Tutt’altro comportamento sembra essere assunto, invece, dalle figlie della persona assistita, le quali, al contrario, tendono a sorvegliare l’andamento della presa in carico, continuando a svolgere tutta una serie di compiti di cura materiali nei confronti del proprio parente anziano e, di conseguenza, entrando maggiormente in relazione con la collaboratrice domestica. Nelle interviste emerge, inoltre, l’esigenza di continuare a fornire un supporto morale e affettivo, mantenendo un ruolo di guida a distanza nei confronti del proprio parente anziano.
Nel secondo caso,la presa in carico dell’anziana signora viene imposta dal figlio in seguito a una frattura complicata al femore “perché noi la notte vogliamo dormire tranquilli, quindi tu ti tieni Alice”. In seguito a questa netta divisione delle sfere, badante e anziana assistita negozieranno progressivamente le modalità e i tempi dell’accompagnamento quotidiano. La famiglia della signora Lina, e, in particolar modo, il suo figlio unico, pur restando presenti quotidianamente attraverso chiamate e visite di breve durata, sembrano assumere un ruolo marginale nella presa in carico. La coppia badante e anziana sembrano di fatti essere pervenute a costruire un rapporto simbiotico ma anche molto valorizzante per entrambe, ponendosi insieme come il vero fulcro di una quotidianità ancora ricca di stimoli e di una rete sociale.
Anche nel terzo caso, il figlio caregiver intende delegare gran parte delle attività quotidiane alla badante, ma la patologia di cui è affetto il padre (demenza senile) complica enormemente non solo il carico di lavoro della badante, ma l’impegno di verifica sull’andamento dell’assistenza domiciliare. Il problema del controllo sembra accrescersi di fronte all’intraprendenza con la quale la badante gestisce la presa in carico dell’anziano assistito, senza rispettare alle volte le indicazioni date dal figlio rispetto ai permessi d’uscita e i tempi di riposo per il padre. Questi comportamenti giustificheranno, agli occhi del figlio, l’invasione dello spazio privato della badante e la ricerca d’indizi che possano inficiare o alimentare le paure di maltrattamento e di negligenza nei confronti del padre. La mancanza di fiducia e le forti paure d’incuria nutrite dal datore di lavoro porteranno infine al termine del contratto lavorativo.
Dall’analisi di questi tre casi, emerge con molta chiarezza il ruolo cardine che può essere svolto dai familiari della persona assistita. La rottura con un modello familiare di presa in carico e il ruolo di supervisore svolto nell’ambito domestico - in uno spazio che per definizione è difficilmente percepito come uno spazio di lavoro (Molinier, 2009) – possono dar luogo a diverse forme di delega, le quali sembrano sempre caratterizzarsi da una certa ambivalenza. Da un lato, infatti, l’entourage familiare si trova a dover svolgere una funzione di controllo che può essere vissuta con molta difficoltà e non elaborata sufficientemente, portando a comportamenti invasivi (caso 3), alla mancanza di rispetto dei termini contrattuali o all’incapacità nel suddividere con chiarezza i compiti da svolgere (caso 1 e 3). Dall’altro, i colloqui svolti fanno emergere una difficoltà concreta nella condivisione quotidiana con la badante di un carico emotivo pesante. Ciò implica spesso l’alternanza di un registro affettivo solitamente associato alla sfera intima e familiare («fai come se fossi a casa tua», «l’abbiamo sempre trattata come una di noi», «è proprio una cara ragazza») e di un registro fortemente critico (alle volte anche razzista o paternalista), dato dal confronto delle pratiche e competenze, da un sostanziale conflitto d’interessi tra datore di lavoro e collaboratrice domestica, ma anche dalle incertezze e dubbi che emergono quotidianamente nell’assistenza quotidiana agli anziani dipendenti.
Anziani assistiti: la badante come figura di supporto o come sostituto degli assenti
L’analisi dei vissuti specifici delle persone assistite da badanti permette di rilevare anzitutto una prima fase critica d’inserimento in seno al nucleo domestico. Questo periodo, particolarmente delicato, richiede un lavoro d’elaborazione e d’adattamento reciproco non scevro di fraintendimenti e di reazioni di rifiuto. Solitamente è proprio di fronte all’ammissione dei limiti dell’aiuto dei propri familiari che l’anziano accetta, suo malgrado, questo tipo di presa in carico. Sembrerebbe che per la persona assistita, l’inizio della convivenza con la badante rappresenti una fase doppiamente critica d’adattamento, dovuta, in primis, alla presenza costante d’una persona sconosciuta – percepita come esterna ed estranea alle più tradizionali forme d’accudimento proprie all’ambito domestico e familiare – ma, allo stesso tempo, a una nuova fase della vita in cui l’assistenza offerta 24h su 24h materializza il cambiamento intercorso, aprendo la strada verso una maggiore dipendenza quotidiana dall’accudimento altrui (Caradec, 2007).
Dai colloqui svolti nel corso della ricerca, emerge che molti degli anziani assistiti manifestano, in un primo momento, un forte sentimento d’invasione del proprio spazio personale e instaurano dei comportamenti difensivi nei confronti della badante. Tali reazioni, in apparenza molto simili tra loro, possono però assumere significati molteplici a seconda del percorso di vita, dello stato di salute, così come del tipo di relazione intrattenuta con i propri familiari.
Nel primo studio di caso presentato, la rottura con un modello di presa in carico familiare e l’allentamento del rapporto esclusivo intrattenuto con la figlia caregiver sembrano porsi all’origine delle difficoltà sperimentate dall’anziana assistita e delle incomprensioni con la badante. Ciò che visibilmente alimenta le reazioni di rifiuto e d’insofferenza nei confronti dell’assistenza offerta dalla badante è il vissuto d’abbandono e il sentimento di mancanza sperimentato dall’anziana signora nei confronti dei propri familiari più prossimi. In questo caso, infatti, i tentativi d’allontanamento della badante si accompagnano alla ricerca d’attenzione e a numerosi richiami rivolti alla figlia caregiver nel tentativo di ricollocarla al centro della presa in carico.
Nel secondo caso analizzato, l’inizio della convivenza tra badante e anziana assistita sembra comportare tutt’altre difficoltà. In particolar modo, per l’anziana signora la presenza della badante sembra più che altro rimettere in discussione la sua autonomia. Il sentimento d’invasione del proprio spazio personale e la mancanza di momenti “per sé” fuori dal controllo della badante sono i vissuti di gran lunga prevalenti per l’anziana, la quale, diversamente dal primo caso, manifesta delle attese molto ridotte nei confronti dell’intervento familiare.
Infatti, mentre nel primo caso la presenza della badante viene a simbolizzare il sostituto per difetto (e inaccettabile) della figlia, nel secondo caso il confronto con l’aiuto familiare è meno presente. In questo senso, il significato attribuito all’assistenza domiciliare sembra poter più facilmente restare “aperto” ad ulteriori rielaborazioni e alla costruzione di una relazione significativa e personalizzata con la propria badante.
L’ultimo studio di caso presenta una situazione d’assistenza domiciliare in cui la condizione d’altissima dipendenza dell’anziano assistito (sia fisica che cognitiva) riduce nettamente il grado di conflittualità nella convivenza quotidiana con la badante. Ciò non significa che un alto grado di dipendenza dell’assistito semplifichi le dinamiche relazionali della presa in carico. Al contrario, l’aspetto che sembra maggiormente interessante in quest’ambito riguarda il trasferimento di molte tensioni dalla coppia assistito/badante al rapporto tra datore di lavoro (il figlio caregiver responsabile della presa in carico) e badante. Il livello di coordinazione e di collaborazione tra i responsabili della presa in carico, familiari e professionisti, appare, infatti, fondamentale in questo tipo di situazione. Ci si può tuttavia ugualmente interrogare sui rischi e sulla sostenibilità di un tale setting residenziale, qualora la persona assistita sia così dipendente (Quintavalla, 2005). In quest’ambito il bisogno di sorveglianza aumenta, di fatto, per tutti i membri della presa in carico, rischiando di occultare il gravosissimo carico di cura quotidiano richiesto alla badante, oltre che indurre a fenomeni di "burnout" e di negligenza nei confronti della persona assistita.
Conclusioni
L’analisi delle attese e i vissuti presentati dalla persona anziana assistita, oltre che dai suoi familiari, ha permesso di mettere in luce alcune delle dinamiche relazionali più problematiche suscettibili di compromettere il buon inserimento di questa figura professionale nel nucleo domestico. I tre casi di studio presentati permettono di rilevare come, in situazioni d’assistenza domiciliare privatizzata, il rapporto tra i vari membri coinvolti nella presa in carico sia spesso improntato su di un registro fortemente informale, personalizzato e familiare. Molto chiaramente in quest’ambito d’intervento specifico, è difficile operare distinzioni nette tra lavoro di cura qualificato e familiare per via di un sostanziale annullamento delle più basilari frontiere tra vita privata e professionale. Da un punto di vista relazionale, ciò può costituire una risorsa, ma anche essere all’origine di numerose incomprensioni e conflittualità.
Dai colloqui e osservazioni che ho potuto svolgere, emerge che l’incontro tra badante e anziano sembra sorreggersi tramite dei meccanismi d’identificazione reciproci, afferenti alla propria esperienza personale di cura e familiare. In alcuni casi, tali meccanismi d’identificazione assumono una funzione fondamentale contribuendo alla costruzione di una dinamica circolare nella presa in carico. Talvolta è proprio il riferimento alle figure femminili più vicine e l’uso della propria storia di vita personale che permette non solo un graduale adattamento reciproco ma, contemporaneamente, la costruzione di un legame valorizzante per entrambe le parti.
In altre situazioni, invece, l’entrata di una seconda figura femminile di supporto in seno al nucleo domestico viene percepita negativamente. Se da un lato la badante, per svolgere il proprio lavoro quotidiano, attinge in gran parte alla sua esperienza di cura personale («io qui faccio come a casa mia»), per l’anziana assistita è proprio la sovrapposizione tra sfera lavorativa e privata che sembra porre problema, identificando nella badante una concorrente (inaccettabile) all’aiuto della figlia caregiver.
Ci sono contesti di presa in carico in cui la relazione triadica tra figlio caregiver, anziano e badante presenta molteplici aspetti problematici e diventa decisamente disfunzionale. Il terzo caso riportato nell’attuale lavoro ne è un esempio dove, da un lato, la badante appare sprovvista della formazione necessaria per interagire con un quadro così complesso e difficile, che comprende una malattia in stato avanzato: l’infantilizzazione del proprio assistito e l’incapacità nel saper leggere i bisogni dell’anziano sono all’origine delle tensioni con il proprio datore di lavoro, ma anche sintomo delle difficoltà nel gestire un gravosissimo carico di cura. D’altro canto, anche il figlio caregiver sembra non interrogarsi sufficientemente sulla sostenibilità di una presa in carico in ambito domiciliare e sulle pesanti ricadute, sia emotive sia fisiche, che possono incombere sull’assistente domiciliare.
Le implicazioni pratiche di questa ricerca invitano dunque a curare, in particolar modo, la fase d’inserimento della badante in seno al nucleo domestico. Con i figli caregiver l’intervento dovrebbe consistere nell’attivazione di un processo che possa favorire una maggiore presa di coscienza rispetto alle aspettative sulla figura della badante e una maggior consapevolezza e chiarezza rispetto al loro ruolo nella presa in carico della persona assistita. La ridefinizione del significato attribuito all’entrata della badante in seno al nucleo domestico può permettere di favorire lo sviluppo di una relazione fondata sulla complementarietà tra assistenza domiciliare da un lato e familiare dall’altro.
Anche il lavoro sulla coppia badante e anziano sembra debba seguire quest’ottica, prendendo in considerazione i vissuti di entrambe le parti, soprattutto nei casi in cui la presenza della collaboratrice domestica è accompagnata da un vissuto d’abbandono molto forte da parte dell’anziano. È proprio nei casi in cui la badante è identificata come una figura sostitutiva del supporto familiare che l’intervento di counseling sistemico può aiutare a distinguere i piani di relazione.
Ogni forma d’intervento in questo ambito non può in ogni caso allontanarsi da un approccio relazionale, finalizzato a comprendere e a modificare alcune dinamiche dal carattere particolarmente ambivalente.
Questo lavoro non intende in nessun modo restituire una visione esaustiva delle dinamiche relazionali che si sviluppano tra la badante, l’anziano e la sua famiglia. Vorrebbe iniziare a porre l’attenzione sull’anziano e sulla famiglia, senza escludere lo studio già svolto sulle badanti, bensì mettendolo in relazione. E’ questa visione sistemica, circolare, pluralista e inclusiva che potrebbe aiutarci ad affrontare in futuro un fenomeno così in espansione. Un fenomeno fortemente vincolato anche dalle condizioni di lavoro presenti oggi in Italia e dalle attuali politiche sociali, familiari e migratorie.
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Note
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