Uno sguardo sistemico sull'interculturalità
Cecilia Edelstein (a cura di)
M@gm@ vol.11 n.3 Settembre-Dicembre 2013
CORNICE EPISTEMOLOGICA E METODOLOGICA DEL MODELLO SISTEMICO PLURALISTA
Cecilia Edelstein
cecilia@shinui.it
Cecilia Edelstein, presidente Shinui, ha ideato e fondato il Centro con l’idea di creare sinergie tra professionisti sistemici nella relazione d’aiuto e tra mondo accademico e territorio. Psicologa, terapeuta familiare, social worker (MSW), supervisor counselor e trainer counselor, mediatrice familiare e didatta AIMS, si è formata in Israele e in Italia, anche se nata e cresciuta in Argentina. Responsabile scientifica del corso in Counseling, Mediazione e Terapie Interculturali, è Collaboratore Scientifico dell'Osservatorio dei Processi Comunicativi, collabora con il Comitato Scientifico della rivista elettronica m@gm@ e il Comitato Scientifico della Collana dei Quaderni di m@gm@, pubblicata da Aracne Editrice.
Introduzione
In questa sede illustrerò un’esperienza che nasce prima di Shinui. L’associazione, il centro e le attività che ruotano attorno, in realtà, sono state non solo un punto di partenza, ma anche un punto d’arrivo.
Ho iniziato a lavorare sul tema dell’intercultura durante la laurea specialistica in Israele, mentre facevo l’assistente al decano. Facevamo ricerca su ciò che definivamo lo “shock culturale” legato alla migrazione. Sono perciò trent’anni, anzi trentuno, che sto facendo ricerca, senza mai smettere. Ho iniziato anche presto a svolgere attività di formazione, che ritengo una splendida occasione di apprendimento. I progetti sul territorio riguardano i continui contatti con i servizi e si occupano di portare avanti un’incessante tessitura legata alle équipe interdisciplinari e alle reti professionali e non. Infine, ho da sempre svolto un lavoro clinico con famiglie, coppie, individui e gruppi, negli ambiti della terapia, del counseling e della mediazione. Prima da sola e dal 2000 con l’équipe di Shinui, non abbiamo mai smesso di lavorare su questi quattro livelli di intervento, strettamente legati fra loro (Fig.1).
Fig. 1: lo schema mostra l’esperienza di Cecilia Edelstein nell’approccio sistemico pluralista in ambito interculturale.
In questa sede, attraverso esempi di ricerche svolte che ritengo significative, illustrerò l’approccio Sistemico Pluralista in ambito interculturale, sviluppato negli ultimi vent’anni.
Aspetti psicologici dei processi migratori e differenze di gender
Partiamo quindi da un esempio di ricerca che ho iniziato nel mio primo periodo di permanenza in Italia. Nel 1992/93 abitavo ancora a Milano e lavoravo a Bergamo. Ho iniziato a lavorare con le donne migranti nella nostra città quando il Comune mi ha chiesto di far incontrare un gruppo di donne migranti con donne native per attivare una conoscenza. Ho così iniziato a gestire laboratori narrativi di gruppo fin dall’inizio del flusso migratorio al femminile.
Quest’attività mi ha fornito una quantità enorme di racconti di donne migranti perciò, nel 1994/95, ho cominciato una ricerca qualitativa, utilizzando i racconti dei laboratori narrativi che riguardavano il vissuto dei processi migratori, e i racconti raccolti in altre occasioni (anche di terapia e counseling); ho quindi svolto l’analisi della conversazione di 100 storie di migrazione al femminile.
In quel periodo, Shinui non era ancora nata e questi erano lavori che facevo come libero professionista. Sono state delle esperienze molto interessanti che dopo qualche tempo hanno aperto lo spazio per chiedersi se vi fossero delle differenze di genere. Per cui sono andata a cercare e a confrontare racconti e narrazioni di uomini e del loro vissuto, effettuati sia nuovamente in gruppo sia individualmente. Queste testimonianze erano tutte videoregistrate e, in alcuni casi, audioregistrate.
Nell’ascoltare le storie, la sensazione era che si avesse accesso a qualcosa in più rispetto a quanto si possa leggere nella letteratura professionale. E’ emerso per esempio che, se nella letteratura professionale si parla al massimo di un’unica fase precedente all’arrivo nel Paese di destinazione, quando si tratta di processi migratori, dal racconto dei migranti sorgono cinque fasi precedenti all’arrivo, tutte importanti, anche se con differenze sostanziali fra i generi (Edelstein, 2002; 2003a).
Attraverso uno schema, presento un elenco di tutte le fasi del processo migratorio, così come emerso dai racconti dei migranti stessi (Fig.2).
Fig. 2: lo schema rappresenta le fasi del processo migratorio all’interno del modello pluralista in ambito interculturale.
Noi operatori incontriamo il migrante al più presto nella fase dell’arrivo, altrimenti in quella che ho chiamato di sistemazione, adattamento e inserimento; quest’ultima a un certo punto ha un inizio ma, per la prima generazione, non finisce mai. Non viene contemplata da loro la fase di “integrazione” di cui le istituzioni e gli operatori parlano tanto. Dobbiamo invece aver sempre presente che prima della fase di adattamento e inserimento i migranti ne vivono molte altre, antecedenti all’incontro con noi. Ne dobbiamo tenere conto per tre motivi fondamentali (Edelstein, 2000a):
- le esperienze precedenti all’arrivo incidono fortemente nelle fasi successive e, per cogliere e capire aspettative, sogni spesso infranti, emozioni nel presente, è necessario entrare nella storia del processo migratorio;
- collegarsi con l’intero ciclo migratorio attraverso la costruzione di una narrazione consente al migrante di dare senso alla propria migrazione, spesso uno diverso da quello che aveva fin lì;
- gli operatori incontrano l’immigrato in un momento di difficoltà, in cui il suo sguardo è rivolto verso il passato, verso i cari, verso ciò che ha lasciato; d’altro canto, il professionista mira al futuro, parla di integrazione, di percorsi di riabilitazione, di inserimento. Questi sguardi opposti, uno rivolto al passato e uno al futuro, creano quello che io chiamo un “disincontro”, con i protagonisti che si volgono metaforicamente le spalle. E’ l’invito al racconto del processo migratorio che crea un incontro fra operatore e migrante, ne facilita la relazione e offre la possibilità di cominciare a guardare nella stessa direzione e rivolgersi piano piano verso il futuro (Fig.3).
Fig. 3: La vignetta mostra l’invito al racconto del processo migratorio all’interno della relazione tra operatore e migrante.
Per poter avviare un percorso di aiuto, è utile chiedere di raccontare il processo migratorio ed è opportuno soffermarsi sulla domanda «Come mai sei venuto/a qui?»
Questo studio ci ha consentito di entrare nel vissuto di ogni fase per capire come viene sperimentata e che cosa implica nel profondo sé dei migranti vivere il processo migratorio.
Rapidamente mi soffermo su alcune differenze tra uomini e donne.
Entrambi fanno cenno, più o meno approfondito, a un’esperienza antica, un evento lontano o un pattern familiare che, anche se spesso in maniera inconsapevole, hanno reso possibile la migrazione. E’ questo un elemento importante poiché determina aspettative sovente inconsce, che non sempre confliggono col progetto concreto.
Molto spesso la donna afferma che il progetto concreto è stato di qualcun altro, avverte come se il progetto di emigrare fosse stato inizialmente pensato da un familiare, dalla comunità o da un’amica/o. Successivamente, vive la fase della decisione, importantissima per adottare il progetto, in cui la stragrande maggioranza racconta di aver avuto il bisogno del consenso materno, della “benedizione materna”, come l’ho definita io. Diventa importantissimo capire se c’è stata questa benedizione o meno e, nel caso non sia stata, trovare un “reframing” che le dia luogo.
Dopo questa fase inizia un periodo luttuoso, compreso tra la decisione di partire e la partenza. È un periodo in cui la donna ha lo sguardo volto all’indietro, pensa a quello che sta per lasciare e riflette su come sarà stare via dalla terra natale. Vengono messi in atto rituali d’addio, si versano molte lacrime, l’emozione predominante è di tristezza e, la partenza, è per la donna l’apice del lutto. Tuttavia, la fase tra la decisione e la partenza consente di elaborare il lutto e di accettare quanto trova all’arrivo nel Paese di accoglienza.
L’uomo vive una fase precedente alla partenza molto diversa dalla donna. Egli percepisce il progetto migratorio sostanzialmente come proprio, con entusiasmo, con lo sguardo rivolto al futuro, verso il paese di migrazione, e porta con sé tante aspettative e nutre fantasie. Progetto e decisione sono un tutt’uno.
Il momento della partenza è il momento del trionfo: «Ce l’ho fatta!». E’ interessante rilevare che dai racconti degli uomini emerge che il viaggio, anche se breve, anche se non traumatico, diventa una fase significativa nella narrazione mentre per le donne non sembra ricoprire tale importanza ed è incluso nella fase della partenza. Parlando successivamente con gli uomini, ho ipotizzato che la fase del viaggio serva da cuscinetto per l’atterraggio, per evitare che l’arrivo diventi un evento traumatico insormontabile.
L’arrivo è vissuto sia dalle donne sia dagli uomini attraverso i sensi: le luci diverse, i paesaggi, gli odori, i gusti, tutto penetra in maniera sensitiva e non cognitiva. Può essere una fase più o meno prolungata e non passeggera né si conclude necessariamente con l’inizio di un impiego, della sistemazione logistica o dell’inserimento dei figli a scuola. E’ quando subentrano i meccanismi cognitivi e mentali, accompagnati da qualche abitudine e routine che inizia la fase di inserimento e adattamento. Nella prima generazione dei migranti, questa fase contiene diverse sotto fasi, ma non si conclude mai (Fig.4).
Fig. 4: lo schema illustra le differenze di gender inerenti alla fase di preparazione di partenza.
La fase del ritorno, presente sia fra le donne, sia fra gli uomini, chiude il cerchio e consente di mantenere lo stato esistenziale di immigrato: stare sempre «un po’ qua, un po’ là».
Il ritorno, soprattutto fra le donne, è più un pensiero evocativo, fa parte di un sogno, mentre per gli uomini spesso contiene qualche progetto concreto (Edelstein, 2002; 2003a; 2004; 2007a). Avere un’attenzione su queste fasi e tenerle in mente mentre incontriamo il migrante e co-costruiamo storie dando senso alla propria migrazione, può essere di aiuto non tanto per seguire questo schema in modo normativo, quanto per orientarci, porci in posizione empatica, confermare vissuti capendoli meglio, valorizzare differenze (Fig.5).
Fig. 5: lo schema descrive le differenze di gender all’interno delle fasi di arrivo e di ritorno.
Il modello di lavoro di gruppo in contesti migratori
1) I gruppi con donne migranti
Nel tempo abbiamo fatto anche delle ricerche-azione (o ricerca-intervento). Questo significa che quando iniziamo un lavoro in diverse condizioni, proponiamo un intervento che può essere modificato o ampliato a seconda delle esigenze del momento. Il nostro intento è di monitorare quello che stiamo facendo per evitare un intervento fine a se stesso e per fare un’analisi del processo, che ci consenta di capire, di documentare e di fare meglio successivamente fino a, eventualmente, creare un modello.
Un esempio di ricerca azione a me molto caro è legato al lavoro di gruppo. In quel periodo della prima metà degli anni Novanta, l’inizio della migrazione al femminile aveva reso possibile, come già detto, un lavoro di gruppo tra native e migranti. Nel 1995, ho lavorato a un progetto simile, grazie a un finanziamento dell’Unione Europea. In quell’occasione, la Provincia e alcune realtà del terzo settore ottennero un finanziamento per avviare un percorso di 450 ore di formazione per mediatrici interculturali donne, al quale mi chiesero di partecipare sia nella programmazione, sia come formatrice.
In quel periodo, in Italia, la figura della mediatrice o del mediatore interculturale non era ancora sviluppata e in Europa non c’erano degli esempi: ciò che accadeva altrove con questa figura era molto diverso. Ad esempio, in quegli anni era in auge la figura del mediatore clinico interculturale all’interno del dispositivo etnopsichiatrico. Il mediatore interculturale che dovevamo formare, invece, era una figura professionale pensata più per l’ambito sociale, educativo e sanitario, con il preciso compito di costruire ponti fra le parti eventualmente in conflitto. Abbiamo così pensato di avviare un percorso propedeutico per capire i bisogni delle donne migranti e i bisogni degli operatori ed essere in grado quindi di progettare un corso che rispondesse alla richiesta e alle vere problematiche. Poiché il budget ci consentiva di portare avanti questo lavoro, abbiamo organizzato, insieme ai Servizi sociali con cui già collaboravamo, un gruppo di donne di diversa provenienza che sarebbe stato condotto da me. Tale eterogeneità mi avrebbe consentito di soffermarmi sul loro vissuto relativo al processo migratorio al fine di capire i bisogni e di configurare e collocare al meglio la nuova figura di mediatore interculturale.
Questa e le successive esperienze hanno cominciato a farmi pensare che un modello di gruppo avrebbe potuto funzionare su più fronti (Edelstein, 2000b).
Inizialmente c’era da parte degli operatori diffidenza sulla possibilità di avviare percorsi di gruppo con donne straniere, apparentemente sempre impegnate tra lavoro e famiglia oppure rinchiuse a casa e poco disponibili ad attività comunitarie esterne.
Invece, la programmazione e la condivisione di un percorso di sei incontri con un inizio e una fine predefiniti, con un giorno e un orario specifico, con un contratto, cioè con un’idea condivisa della tematica da trattare, con la conduzione di un esperto che mette insieme le fila e le ridefinisce quando necessario, ha reso possibile la costituzione di questi gruppi con una richiesta numerosa che esigeva una selezione, ha portato queste donne non solo a partecipare in modo assiduo ma sempre puntuali. Queste donne, che in molti casi erano isolate e soffrivano la solitudine, con impossibilità di muoversi anche all’interno di ambiti lavorativi, erano donne che dopo il percorso trovavano lavoro, socializzavano, creavano amicizie e si incontravano in occasioni varie. Tutto ciò conferiva loro maggior autonomia sul territorio anche se l’obiettivo del gruppo non era stato quello. Da conseguenze positive informali, a situazioni formali (come la costituzione di associazioni di donne immigrate), gli effetti di questi gruppi erano effettivi. Inoltre, dopo un’attenta analisi, mi sono accorta che essi rispondevano ai bisogni iniziali della fase di sistemazione/adattamento, bisogni rilevati dall’analisi della conversazione dei racconti delle donne stesse.
Le donne parlano del bisogno esistenziale di poter essere nei confronti dell’«Altro/a», di socializzare per combattere la solitudine, di utilizzare il linguaggio proprio e di imparare quello locale, di raggiungere un certo livello di autonomia, di avere informazioni: per ottenere informazioni bisogna sapere cosa chiedere; quando non si sa, non si ha idea nemmeno di cosa chiedere e a chi rivolgersi. L’eterogeneità ha permesso alle componenti del gruppo di far circolare informazioni che noi operatori non avremmo potuto fornire e nemmeno pensato di poterlo fare. Infine, l’italiano, che era la lingua condivisa per comunicare all’interno del gruppo, consentiva l’apprendimento con modalità fluide e molto più efficaci che i gruppi di studio. Affiorava e appariva una danza di calore umano, di relazioni e di scambio che creava un maggior benessere a tutto tondo.
Questa ricerca è finita e si è conclusa con un vero e proprio «Modello di gruppo» che rappresenta un intervento preventivo nella migrazione al femminile e, laddove necessario, un percorso di cambiamento vero e proprio (Edelstein, 2000b) (Fig.6).
Fig. 6: l’immagine riassume il concetto di modello di gruppo emerso dalla ricerca con le donne migranti.
Il modello prevede elementi specifici elencati poc’anzi, come la conduzione, la scelta di un tema specifico, il percorso limitato nel tempo, ma anche una festa finale e un feedback a distanza di tempo che fa sentire le donne ancor più protagoniste. Quest’ultimo punto è emerso per caso, come spesso succede nelle ricerche intervento: siccome i percorsi erano commissionati, io dovevo redigere e fornire al committente un documento conclusivo. Prima di consegnare la relazione finale, questa veniva letta insieme al gruppo delle donne, che modificava il contenuto del testo qualora lo ritenesse necessario e che, al contempo, riceveva così un feedback mio su ciò che avevamo fatto. Si trattava di una vera e propria «co-costruzione», così come ne parliamo nell’approccio sistemico post moderno.
Negli anni, il modello è stato applicato in numerose città italiane, attraverso iniziative promosse dalle amministrazione comunali e provinciali (come in diversi posti dell’Emilia Romagna) o realtà del terzo settore.
E’ stato possibile applicare il modello in contesti diversi (nativi e migranti come azione che voleva facilitare processi di integrazione, con donne vittime della tratta, con le “badanti”), con modifiche e specificità che illustrerò a seguito.
Nell’immagine successiva si può vedere la sequenza dei tempi così come emerge negli incontri con le donne migranti (Fig.7).
Fig. 7: lo schema illustra la strutturazione degli incontri del gruppo realizzato con donne migranti.
2) I gruppi con vittime della tratta
Un’altra ricerca-azione che ho svolto è nata dopo anni di supervisione a operatori in case di accoglienza protette per donne che escono dalla prostituzione. Con le operatrici (educatrici professionali e suore) emergeva che, pur avendone bisogno, le ragazze si negavano di essere coinvolte in percorsi di aiuto terapeutico di qualsiasi tipo (individuale o di gruppo). Al contempo, notavo che per l’équipe il lavoro era logorante e, soprattutto per le suore che abitavano nella comunità, totalizzante.
Pensando alla complessità della situazione, ho deciso di iniziare una ricerca-intervento con questo gruppo, in qualità di professionista volontaria, per testare il modello di lavoro di gruppo sviluppato negli anni precedenti con donne migranti (anche le ragazze uscite dalla prostituzione provenivano tutte da Paesi esteri). Alle suore ho detto: «Consentitemi di fare un percorso di gruppo permettendo alle ragazze - dico “ragazze” perché erano veramente giovani - di uscire dalla comunità di sera una volta alla settimana, per venire da me in studio per quattro o cinque settimane per passare del tempo piacevole insieme in un luogo diverso dalla comunità. E voi, quella sera – ho continuato – uscite, andate al cinema, prendetevi del tempo libero!». Questo è un tipico esempio di lavoro sistemico in cui si lavora non solo pensando a un elemento, ma a tutto l’insieme.
Ho così iniziato a fare dei cicli di incontri con gruppi che, oltre ad alcuni elementi in comune con i percorsi precedenti, ne presentava altri molto diversi: erano gruppi composti da 5 o 6 ragazze, non di più; l’obiettivo principale, inoltre, era di passare un bel momento insieme e non c’erano tematiche prescelte. Infine, un elemento ben distinto è stato nell’utilizzo dei tempi: ho imparato che quando il dolore è forte e contiene uno o più traumi, curare non implica aprire ferite né lavorare sul dolore. La cura consiste, fondamentalmente, nell’accarezzare, nel chiudere, nella costruzione di risorse, nel condividere bei momenti assieme.
Nel modello di lavoro di gruppo con donne vittime della tratta, quindi, per via dei traumi subiti in passato, si parte da un tempo presente (come il vissuto in comunità), per lavorare poi su un futuro di sogni e speranze e, soltanto dopo, addentrarsi nel passato, recente e lontano, impregnato di dolore. L’elaborazione di questo passato consente, infine, una ridefinizione della propria identità e una progettualità concreta.
I primi incontri sono il più possibile attorno a vissuti positivi; sull’esperienza in comunità, per esempio, faccio due domande chiave: «cosa piace di più?» e «con quale aspetto della convivenza fate più fatica?». Il secondo incontro è incentrato sui sogni. Dare vita ai sogni futuri, anche attraverso tecniche espressive non verbali come il collage, crea un clima caldo che consente di avviarsi lentamente verso il passato; tuttavia, anche il passato recente viene ancora connotato positivamente: io lavoro con loro su come si sono salvate, come sono riuscite a scappare, e non sull’esperienza della prostituzione. A un certo punto, i racconti emergono lo stesso, ma nessun incontro è focalizzato su questa tematica. Soltanto nel quarto incontro mi focalizzo sul passato, chiedendo loro di raccontare riguardo a un tradimento. Inizialmente pensavo che chi le avesse tradite sarebbero stati gli uomini che le hanno vendute o sfruttati. Invece, puntualmente, le donne raccontano dei tradimenti subiti in famiglia d’origine, spesso in tenera età. A questo tema vengono dedicati due incontri poiché si tratta di ferite primarie e profonde. La condivisione in gruppo, la comprensione e l’empatia dell’intero gruppo, alcune possibili connotazioni positive aiutano queste donne a voltarsi verso un futuro possibile e a progettare una vita migliore (Fig.8).
Fig. 8: lo schema illustra la strutturazione degli incontri del gruppo realizzato con donne vittime della tratta.
3) Gruppi fra nativi e migranti – un’integrazione possibile
Vi parlo ora di un’altra ricerca svolta da Shinui sul territorio bergamasco con il coinvolgimento di servizi, associazioni e cooperative costituiti in rete.
Mentre dallo studio sul vissuto del migrante attorno ai processi migratori emerge che la fase di integrazione non viene contemplata, i servizi parlano molto di questo tema. Io per molto tempo mi sono trovata d’accordo con alcuni sociologi italiani e svizzeri che sostengono di non parlare di integrazione per non cadere nella trappola di una visione lineare e assimilazionista (Musillo, 1998). Alla fine, attorno al 2004, ho scelto di studiare possibilità di integrazione non unilaterali per non cadere nella trappola di una simmetria in cui tutti i servizi ne parlano e io mi rifiuto di farlo: la scuola parla dell’integrazione dei bambini stranieri, la sanità ne parla, i servizi sociali pure. Al contempo, analizzando modelli di integrazione nelle società attuali, abbiamo constatato che nessuno funziona in modo adeguato, oltre al fatto che abbiamo visto che questa fase non è contemplata nella prima generazione d’immigrati (Fig.9).
Fig. 9: l’immagine sottolinea le principali differenze tra il concetto di Assimilazione e Integrazione.
Sfruttando il privilegio di poter guardare l'Italia e gli italiani anche da esterna, ho osservato, nel tempo, una risorsa sul piano interpersonale: l’italiano ha un punto di forza che non trovo ovunque; nell’incontro e nella conoscenza personale esprime quella umanità, apertura e accoglienza non giudicante rispetto all’altro. Nel macrosistema legato alle politiche sociali, le dinamiche sembrano capovolgersi, ma questo è un discorso diverso che non è mio interesse analizzare in questa sede poiché noi, professionisti della relazione di aiuto, ci occupiamo di microsistemi e lavoriamo con le persone, con i singoli e con le comunità.
Ho quindi ipotizzato che se si potesse facilitare situazioni di incontro fra persone diverse, fra nativi e migranti, con un vero e proprio scambio, si potrebbe avviare un qualcosa che si avvicini a un’idea di integrazione reciproca, circolare, in cui le parti si vengono incontro, creando qualcosa di nuovo e, al contempo, salvaguardando le differenze (Edelstein, 2006).
La rete organizzata da Shinui, che comprendeva servizi e associazioni che lavorano con e per l’immigrato, ha così organizzato degli incontri pubblici con inviti mirati, facendo ricorso alle proprie mailing list.
Inizialmente hanno aderito tutti gli «addetti ai lavori»; poi, piano piano, altre persone sono venute, sempre più distanti dalla realtà migratoria. Nel corso dei nostri incontri pubblici abbiamo dato vita a dei laboratori di “nativi e migranti” distinti per genere (Fig.10).
Fig. 10: l’immagine rappresenta una modalità di integrazione funzionale e reciproca nella relazione fra persone native e migranti: i laboratori narrativi.
In questo lavoro, iniziato nel 2004 e terminato nel 2009, sono state coinvolte più di 300 persone tra le quali sono nate delle amicizie. Questa esperienza, a differenza di quanto sostengono i sociologi che si occupano di macroprocessi, ci ha dimostrato che nel micro processo relazionale l’incontro è possibile, che l’amicizia improbabile può crearsi.
I percorsi seguivano sempre alcuni aspetti del modello di lavoro di gruppo, non solo per via dell’approccio narrativo e della conduzione, ma anche perché a ogni incontro veniva proposta una tematica diversa da sviscerare e sviluppare: «il mio vissuto nei confronti dell’Altro/a», «la casa», «il lavoro», «il tempo libero»; «la socializzazione» e così via.
Questo percorso è finito perché ormai la partecipazione è scemata piano piano, ma anche perché la rete ha iniziato a dare segni di stanchezza. Da ciò ho evinto che anche qui i percorsi devono essere limitati nel tempo e avere una calendarizzazione con un inizio e una fine precisi, proprio come nei percorsi di counseling (Edelstein, 2007b).
In altre occasioni abbiamo svolto interventi con donne native e migranti, tutte mamme di bambini che frequentavano i nidi, la scuola dell’infanzia o le scuole primarie: percorsi sempre a ciclo con un inizio e una fine, che seguivano il modello di lavoro di gruppo con donne migranti, spesso attorno a temi legati alla maternità o all’educazione dei figli; percorsi che hanno permesso conoscenze, avvicinamento, condivisione di temi universali. Come risultato, le mamme straniere si sono avvicinate alla scuola, hanno legato con mamme italiane, ci sono state iniziative ricreative (organizzazione merenda al parco del quartiere) e un’auto organizzazione di sostegno e solidarietà dove le mamme immigrate, che spesso non lavoravano, aiutavano le mamme italiane lavoratrici prendendo i loro figli dopo scuola e tenendoli a casa durante il pomeriggio.
Concetti di base del modello sistemico pluralista in ambito interculturale
Durante tutti questi anni abbiamo svolto anche ricerca in ambito clinico, con il prezioso aiuto dei nostri tirocinanti post lauream che consegnano sbobinature di conversazioni terapeutiche o trascrizioni e verbali di sedute, attraverso la presenza dietro lo specchio unidirezionale e la visione delle videoregistrazioni. Al centro lavoriamo in équipe, soprattutto quando si tratta di coppie o famiglie, seguendo il modello di Milano, e svolgiamo ogni 15 giorni riunioni di staff per un’intera mattina.
In ambito interculturale, negli ultimi quindici anni abbiamo lavorato sempre più con coppie miste, con famiglie migranti, con famiglie adottive, affidatarie e altre ancora in contesti internazionali.
Quest’utenza spesso arriva inviata dai servizi pubblici poiché, sul territorio, siamo considerati un centro specializzato in ambito interculturale. Alcuni di questi casi vengono finanziati dai servizi stessi, altri da progetti (come uno della 328, altri con la Legge regionale 23), altri ancora fanno parte del volontariato che io faccio da sempre, un po’ per ideologia, un po’ per non perdere il contatto col territorio e, al contempo, per poter continuare a fare ricerca clinica su una popolazione che non potrebbe fare percorsi in ambito privato. Ad ogni modo, abbiamo sempre più persone e famiglie straniere o miste che si rivolgono volontariamente e direttamente a noi.
1) La prospettiva pluralista (versus quella normativa)
Viviamo in una società dominante rispetto ai gruppi minoritari e ci inseriamo in una prospettiva normativa in cui un certo tipo di modello occidentale è considerato «ideale». In questa prospettiva inseriamo, tra i tanti, anche i modelli familiari o i percorsi di studio: la famiglia mononucleare, ad esempio, costituita da una coppia eterosessuale coniugata con due figli (e meglio se un maschio e una femmina) è considerata il modello ideale di famiglia, anche se oggi la maggioranza delle strutture familiari è costituita diversamente. Quando si prevede un modello ideale, il problema è che tutti quelli diversi rischiano di essere visti o vissuti quanto meno come deficitari e, se non, devianti o addirittura patologici (Fruggeri, 2001).
E’ perciò difficile, ma per noi necessario, proporre una prospettiva pluralista dove un modello ideale non ci sia, dove invece si mettano a confronto i diversi modelli e se ne analizzino le caratteristiche e funzionalità. In questo modo si crea, anziché la cultura della devianza, quella delle differenze; emergono nuovi modelli familiari e nuovi tipi di famiglia, sempre più diffusi. Un esempio riguarda le cosiddette famiglie patchwork, cioè quella tipologia di famiglie chiamate spesso dagli addetti ai lavori «famiglie ricomposte» o «ricostituite», andando a supporre la ricomposizione di qualcosa che si è rotto. Per questa ragione, Fruggeri (ibidem) suggerisce il concetto di «plurinuclearità»; a me piace il termine «patchwork», composizione che mette insieme vecchi ritagli di tutti i colori che inizialmente non c’entrano niente gli uni con gli altri, ma che alla fine del lavoro possono creare un insieme armonioso e formare una coperta con storia, che protegge, che cura e dà calore.
Un altro esempio possono essere quelle che io chiamo le «famiglie network»: mi riferisco alle famiglie adottive pluricomposte che creano, attorno a un nucleo sanguineo, una rete di legami familiari con persone che non hanno rapporti di sangue né avevano relazioni precedentemente. Infatti, si presentano sempre più casi in cui fratelli da paesi stranieri vengono accolti in adozione da famiglie diverse. In questi casi, due o più coppie di genitori adottivi, che non avevano alcun tipo di legame prima, si trovano a condividere la fratellanza dei propri figli. Presso Shinui lavoriamo per creare e stabilire dei legami tra queste famiglie: l’incontro tra i fratelli offre loro la possibilità di vivere e di coniugare il passato con il presente e, fra genitori, si crea un legame nuovo e indissolubile. Quest’azione è particolarmente importante poiché i contesti adottivi sono contesti in cui il mondo passato - tanto fisico quanto emotivo - viene spezzato in modo traumatico. Anche nei contesti affidatari ci sono sempre più famiglie network che devono fare i conti con la condivisione della genitorialità degli stessi fratelli. Per i figli, questa condivisione è una risorsa enorme e fonte di benessere, tanto quanto per la famiglia di origine, quella biologica, che solo condividendo la genitorialità può diventare attiva e sempre più coinvolta (Fig.11).
Fig. 11: l’immagine sottolinea l’importanza di abbandonare una visione normativa e di accogliere una prospettiva pluralista nel lavoro con le nuove strutture familiari.
2) Identità mista e pluriappartenenza
Spesso, per valorizzare il passato dei bambini immigrati e delle seconde generazioni e, al contempo, per riconoscere l’appartenenza al Paese di accoglienza, si parla di«doppia identità». Presso Shinui, sia in contesti migratori, sia in quelli adottivi e affidatari, abbiamo imparato a non parlare di doppia identità poiché il concetto doppio produce dicotomie (Edelstein, 2010a; Edelstein e Consiglio, 2007) e, come Gregory Bateson ci insegna, le dicotomie sono «mostri»: non consentono una visione d’insieme, creano dualismi, paragoni, competizione, valutazioni. Parlando di doppia appartenenza, infatti, si cade facilmente nella trappola dei paragoni fra una e l’altra parte, con la conseguenza di dover preferire o sceglierne una.
Viviamo tutti molteplici appartenenze: cultura non è sinonimo di nazionalità né di religione; l’appartenenza nazionale e quella di genere sono altrettanto importanti e così via.
Parlare di identità mista non solo aiuta a mettere insieme pezzi spezzati, a includere e a valorizzare le diverse parti di ciascuno/a, ma è un’azione che si inserisce nel contesto dell’integrazione: non sono più i bambini immigrati o figli di immigrati che godono di un’identità mista, ma tutti i bambini e gli adulti pure. Si esce dal mito che sia meglio «essere tutti di un pezzo».
L’obiettivo, quindi, è di accogliere le molteplici appartenenze e di lavorarci con l’intera popolazione (Edelstein, 2007c).
3) L’inclusione degli universalismi, dell’etnicità e dell’individualità nella cornice relazionale
Il pluralismo include dei livelli che spesso si autoescludono.
I costruttivisti sostengono che la realtà è soggettiva e che ogni individuo costruisce la propria realtà attribuendo significati specifici agli eventi, agli oggetti, alle cose e alle relazioni. Essi vedono la cultura a un micro livello, cioè per loro è importante cogliere i significati personali e la cultura diventa l’insieme di questi significati. Loro avvertono: «Guai nel considerare la cultura un sinonimo di nazionalità» (von Foerster & Glasersfeld, 2001).
Gli etnopsichiatri, invece, vedono la cultura come una struttura specifica di origine esterna ed è proprio questa che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico (Nathan, 1996). Per loro, quindi, cultura e nazionalità o religione sono strettamente collegati.
Tuttavia, entrambi gli approcci dichiarano di essere contro gli universalismi.
Nell’approccio sistemico pluralista, oltre a considerare l’unicità della persona e ad esaminare il livello sociale e l’aspetto culturale che accomunano gruppi specifici, si include la visione etologica in cui tutti gli esseri umani, appartenenti alla stessa specie, hanno qualità e tratti in comune in quanto esseri socievoli, comunicativi, portatori di pensieri ed emozioni, indipendentemente dalla cultura di appartenenza o dal colore della pelle (Eibl-Eibesfeldt, 1975).
I tre livelli – individuale, socioculturale e universale – sono su uno stesso piano e nessuno fa da metasistema all’altro. Un quarto livello, invece, è trasversale e meta: quello relazionale. Nell’incontro con il diverso, attraverso l’utilizzo del sé (Gergen, 1994), creiamo dialoghi, conversazioni che alimentano un mutuo ascolto, cioè un vero e proprio scambio. Non avviamo indagini unidirezionali, dove l’altro/a deve raccontarsi e spiegarsi («Come è da voi o per te?»), ma ci confrontiamo («Da noi si fa in questo modo e si attribuisce questo significato; come è da voi?» Oppure: «A me questa faccenda fa molta impressione, perché sono cresciuta in un ambiente in cui...») creando un «Noi» (Edelstein, 2013).
Le persone con cui ho lavorato negli anni mi hanno sempre riportato che facendo in questo modo riescono ad aprirsi o addirittura desiderano raccontarsi: non si sentono «nello zoo». Poter narrare com’è da noi consente di inserirsi in un contesto socio-costruzionista di scambio paritario. Così facendo, passa il messaggio che non c’è una cultura predominante, non ci sono dei giudizi (perché se raccontiamo com’è da noi non lo stiamo portando come una verità o un buon esempio), si esprimono i pregiudizi (di cui non possiamo farne a meno [Cecchin, 1988]), la relazione è circolare e le culture vengono messe a confronto. In questo modo possiamo conoscere le altre culture in modo diretto attraverso la relazione e accrescere la consapevolezza e la conoscenza della nostra cultura (Edelstein, 2003b) (Fig.12).
Fig. 12: l’immagine rappresenta i tre livelli del self quello individuale, socio-culturale e universale trasversalmente coinvolti dal livello relazionale.
Aspetti metodologici dell’approccio sistemico pluralista
Finisco questa presentazione con l’illustrazione di alcuni aspetti metodologici specifici del modello sistemico pluralista che vengono utilizzati nelle psicoterapie, nel counseling o nei contesti di mediazione con individui, coppie, famiglie e gruppi. Alcuni di questi aspetti sono stati sviluppati e vengono utilizzati con tutti i clienti, a seconda delle situazioni, ma risultano particolarmente efficaci in ambito interculturale e migratorio.
1) La narrazione nelle tecniche espressive non verbali
Questo modo di lavorare intreccia una prospettiva socio costruzionista con tecniche provenienti dai terapeuti sistemici della sponda Est. Mi riferisco a tecniche come il collage, il disegno congiunto, la scultura familiare (successivamente chiamata scultura umana poiché applicata in altri contesti come quello di formazione) che, inizialmente, venivano utilizzate fondamentalmente a scopo diagnostico. Abbiamo adottato queste tecniche in un’ottica costruzionista, come strumenti che facilitano la co-costruzione di narrazioni; consideriamo il cliente l’esperto del suo elaborato e non vengono agite interpretazioni da parte del professionista. Sono tecniche molto utili per chi non ha una buona conoscenza della lingua italiana (Edelstein, 2007a) (Fig.13).
Fig. 13: lo schema illustra l’importanza delle tecniche espressive non verbali nell’approccio sistemico pluralista.
2) La pluralità dei luoghi d’incontro
Un altro aspetto del pluralismo sta nel saper e poter incontrare le persone in posti fuori dalle mura di una stanza di terapia o counseling. Nel modello sistemico pluralista valorizziamo le visite domiciliari, incontriamo le persone al parco, al bar, in un ristorante. Ogni scelta va soppesata. Talvolta sarà per venire incontro alla persona e non aspettarsi che sia solo lei a venire da noi in studio, altre potrà essere per conoscere l’ambiente familiare e poter respirare odori e profumi (non per un controllo, come farebbe l’assistente sociale, ma come condivisione di spazi e vissuti), altre ancora per creare situazioni che facilitino il cambiamento o abbiano un impatto maggiore (Edelstein, 2007b) (Fig.14).
Fig. 14: l’immagine sottolinea come il lavoro clinico non si svolga solo all’interno di determinati spazi ristretti ma ammetta la pluralità dei luoghi.
Un esempio potrebbe essere una situazione che ho seguito non da molto, relativa ad un incontro con i genitori affidatari e quelli biologici di una ragazzina, in un ristorante scelto con cura, che richiamava le origini della famiglia naturale, debole e poco presente nella vita della bambina. Attorno a un tavolo, le mamme hanno potuto abbracciare insieme la bambina, seduta fra loro, farle sentire che si possono avere più mamme e più papà, che questi possono essere in sintonia e lavorare per lei. In una stanza di mediazione questo gesto sarebbe stato meno probabile o quantomeno costruito e indotto. Le tensioni si sarebbero sentite di più; invece, la situazione piacevole attorno al tavolo, senza connotazione terapeutica, la conversazione fluida e gradevole, i gusti della tenera infanzia della bambina, hanno concesso ai 4 genitori di avvicinarsi e agevolato l’emergere di emozioni che curano l’anima.
3) L’operatore interculturale come mediatore
Presso Shinui generalmente non chiediamo l’aiuto del mediatore clinico interculturale in ambito clinico. Crediamo che con competenze, abilità specifiche e gli strumenti necessari possiamo e dobbiamo entrare in una relazione diretta con le persone immigrate, anche se appartengono a culture che sembrano molto diverse e lontane da noi. Principalmente quest’azione è legata al fatto che crediamo nella costruzione di un «Noi» e di un’intimità nella relazione terapeutica che, insieme a un terzo, si fatica a co-costruire (Edelstein, 2013), ma è proprio nell’ambito interculturali che questi aspetti si riempiono di ancor più significato e peso.
I rischi dell’utilizzo del mediatore interculturale, parte integrale del dispositivo etnopsichiatrico, sono numerosi e proverò a elencarli brevemente.
- La presenza del mediatore rischia di creare distanza nella relazione fra operatore e cliente e diventare un ostacolo per la costruzione del «Noi».
- Un mediatore, pur essendo molto competente della propria cultura, rischia di non considerare aspetti specifici della stessa, proprio perché ci appartiene; noi, operatori, rischiamo di non individuare conflitti interni a diversi gruppi sociali o fra connazionali.
- Presentandosi come figura che fa conoscere all’operatore e all’Istituzione la cultura di provenienza dell’immigrato, la presenza del mediatore rischia di essere proprio chi toglie la parola e il protagonismo al cliente stesso, rendendolo passivo e inducendo un’azione tutt’altro che di empowerment. In questo modo, rinunciamo al livello del sé individuale, che pone in evidenzia e valorizza l’unicità delle persone, indipendentemente delle loro appartenenze.
- Spesso è la cultura minoritaria che deve essere raccontata e spiegata, dimenticando che anche quella dominante lo necessita all’interno di una relazione interculturale; di conseguenza, la presenza del mediatore rischia di apparire come un intervento etnocentrico in cui soltanto la cultura del gruppo più debole viene studiata ed esplorata.
Senza aver la presunzione di enunciare una verità, il modello sistemico pluralista ci fa sentire partecipi di una relazione, ci aiuta a entrare nel mondo nostro e degli altri, per insieme lavorare verso il cambiamento desiderato. Anche quando la lingua non è padroneggiata e il cliente fatica a esprimersi, attraverso i concetti, le metodologie, gli strumenti e le tecniche qui riportati, insieme all’aiuto del linguaggio non verbale, così dominante e presente nella comunicazione umana, possiamo condividere un cammino.
4) L’équipe interdisciplinare e la rete
Nella pianificazione e messa in atto sul territorio dei nostri numerosi progetti in ambito interculturale, un elemento basilare è l’attenzione «all’équipe interdisciplinare», diversa da un’équipe multidisciplinare. L’équipe multidisciplinare significa avere al proprio interno delle professioni diverse. L’équipe interdisciplinare è un’équipe che entra in dialogo, che ha uno scambio, che costruisce un linguaggio comune, che si pone questioni etiche - come ad esempio le appartenenze di questi bambini oppure cosa implica la cura materna - che basa il proprio lavoro sulla condivisione e sul creare qualcosa insieme.
L’équipe interdisciplinare apre lo spazio per la costruzione della rete; la rete professionale è importantissima nella nostra esperienza e ha delle funzioni non solo formali: nell`équipe viene curata la relazione tra i membri al fine di stare bene e di divertirci (perché no?), per essere in grado e anche sereni nell`occuparci della cura dell`Altro. Durante gli incontri della rete professionale spesso sono invitati anche i nostri clienti per non parlare di loro, ma per parlare con loro. Creiamo quindi reti, nessi, legami (Edelstein, 2010b) (Fig.15).
Fig. 15: lo schema illustra come il pluralismo stia nell’includere e non nell’escludere dai luoghi, dalle appartenenze, dalle identità, dalle professioni.
«Il pluralismo sta nell’includere e non nell’escludere dai luoghi, dalle appartenenze, dalle identità, dalle professioni, per poter noi insieme - oggi e da oggi - continuare a costruire ancor più insieme maggior sapere».
Bibliografia
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