Un regard systémique sur l'interculturalité
Cecilia Edelstein (sous la direction de)
M@gm@ vol.11 n.3 Septembre-Décembre 2013
FAMIGLIE, TERRITORIO, INTE(G)RAZIONE: L’ESPERIENZA DI COLLABORAZIONE TRA SHINUI E I SERVIZI SOCIALI
Caterina Mattea
caterina.mattea@fastwebnet.it
Laureata in Filosofia e successivamente in Psicologia. Membro dell’équipe del Centro Shinui, in passato coordinatrice della supervisione dei tirocinanti esterni e dei progetti di Counseling sul territorio, ha arricchito la sua formazione sistemico pluralista in ambito interculturale con un’esperienza in etnopsichiatria presso il Centro Devereux.
Introduzione
Questo intervento si propone di illustrare un progetto storico di Shinui nella sua genesi e nella sua evoluzione: “Famiglie, territorio, Inte(g)razione”. Già nel titolo definitivo si può cogliere una certa ritrosia a usare la parola integrazione per intero, in quanto ambigua e carica di distorsioni, per cui è stato deciso di mettere la - g - tra parentesi per evidenziare soprattutto l’interazione, lo scambio, la relazione che devono entrare a fare parte del concetto.
Inizio questo lavoro riportando tre telefonate che non sono fittizie, ma vere; si tratta di tre telefonate che sono arrivate a Shinui e che segnalavano delle situazioni che stanno alla base del lavoro che il progetto ha sviluppato.
La prima telefonata è quella di un’assistente sociale che ci racconta: “noi qui abbiamo a che fare con una famiglia che seguiamo da moltissimo tempo e che ci dà molte preoccupazioni perché non sappiamo bene come intervenire. Si tratta una famiglia marocchina costituita da 6 membri: quattro bambini e i due genitori. E’ una famiglia che si è ricongiunta negli anni, difficilissima, di cui ci occupiamo da tempo perché sono sempre in conflitto con tutti; non vanno d’accordo con i vicini, che si lamentano perché i bambini fanno rumore; la scuola ci riporta delle preoccupazioni gravi che sono sfociate in segnalazioni sulle modalità educative e pedagogiche giudicate allarmanti. Il padre è stato segnalato per eccesso di severità, ci sono in corso delle indagini. Non riusciamo ad entrare in questa famiglia. Abbiamo provato a introdurre un’assistente domiciliare ed è stata cacciata via dopo poco. Insomma una situazione molto complicata. Noi dei Servizi sociali non sappiamo più che pesce pigliare. Ce ne occupiamo, ma francamente abbiamo bisogno di qualcosa di diverso, di qualcosa di più specifico.”
Seconda telefonata: “C’è una ragazza che è qui da qualche tempo, più di un anno, una ragazza Iraniana. E’ una giovane acculturata, che è scappata dal paese e attualmente ha uno statuto di profuga. In Iran ha preso parte alle manifestazioni in cui la polizia sparava e lei stessa è stata ferita alla testa. I genitori erano molto spaventati per la situazione del regime e l’hanno mandata a Bergamo perché qui avevano delle conoscenze che avrebbero potuto aiutarla. Questa ragazza ha fatto l’Università, ha studiato Economia, ha poi concluso un master, sempre in Economia; colta, con una grossa preparazione e in possesso di tutti gli strumenti culturali. Ha imparato la lingua molto rapidamente e parla bene italiano. Le abbiamo trovato un lavoro, lavora in un bar e in questo bar funziona così bene sul piano delle prestazioni che le hanno chiesto di rimanere lì. Questa ragazza è però estremamente depressa, piange, non vuole alzarsi, non riesce a relazionarsi con nessuno e come servizi, oltre a quello che abbiamo già fatto, non riusciamo ad aiutarla.”
Terza telefonata: “Ci stiamo occupando di un bambino che non si capisce bene che provenienza abbia, probabilmente jugoslavo. Non si sa che famiglia ci sia dietro; è una situazione non molto chiara. Il bambino fa parte di una famiglia già segnalata ai Servizi Sociali per inadempienza scolastica. Le sorelle maggiori non andavano a scuola, le abbiamo seguite, andavamo in casa ma non siamo riusciti ad ottenere niente. Questo bambino è pieno di talento, pieno di capacità, intelligente e con delle facoltà cognitive ottime, ma non si riesce a mandarlo a scuola. Dovrebbe entrare ormai in seconda media ed è ancora in quarta elementare perché non supera le classi. Viene fermato perché non ha il numero sufficiente di presenze e quindi le maestre sono molto rattristate del fatto di trattenere un ragazzino che dovrebbe stare con i suoi coetanei. Non sappiamo come fare e non riusciamo ad agganciare la famiglia. Anche qui la vera difficoltà è che non si riesce ad entrare in rapporto con la famiglia.”
Le origini del progetto
Questo è stato il contesto in cui il progetto “Famiglie, Territorio, Inte(g)razione” si è inserito.
L’attività è nata con l’intento di dare delle risposte alle situazioni di disagio segnalate dai Servizi e a cui le Assistenti Sociali riuscivano a fare fronte in modo efficace. Nel tempo i Servizi hanno sviluppato la fiducia necessaria per chiedere aiuto a Shinui, grazie alla competenza che questa ha costruito negli anni nel lavoro interculturale e alla capacità di promuovere in particolare l’intervento psicologico. E’ nata così una collaborazione, sempre più stretta e sempre più strutturata, su alcuni casi di disagio in cui i Servizi non avevano le risposte per affrontare le problematiche che si presentavano.
Il progetto ha avuto una genesi lenta, in forte relazione con le condizioni del contesto. E’nato agli inizi del 2003/2004 con il nome di “Non solo compiti”. Allora il tentativo è stato quello di inserire dei tirocinanti, che operavano all’interno di Shinui, in un lavoro di appoggio alle famiglie straniere: l’idea di base era che, aiutando i bambini a fare i compiti, si apriva anche la possibilità di intervenire nel contesto familiare con lo scopo di non limitare l’azione del doposcuola al solo passaggio di cognizioni e di contenuti, ma di favorire dei cambiamenti all’interno di famiglie disfunzionali. Il progetto ha ottenuto un finanziamento per due anni grazie alle Legge 23.
L’invio è stato fatto soprattutto dalla scuola, ma alcuni bambini e famiglie sono state inviate dai Servizi Sociali. Tuttavia, le famiglie hanno vissuto l’ingresso di Shinui come un supporto e un aiuto molto orientato al “aiutateci a fare i compiti con i bambini perché è un settore in cui ci sentiamo fragili, non abbiamo strumenti, quindi deleghiamo a voi questo compito”.
Già in questa prima esperienza è stato possibile rintracciare alcuni elementi forti che hanno poi caratterizzato il progetto “Famiglie, territorio, Inte(g)razione”:
1) l’utilizzo dei tirocinanti in formazione a Shinui. Si trattava di giovani, provenienti dall’Università o da Scuole di Psicoterapia, che erano sul punto di diventare professionisti e che potevano offrire delle competenze nella relazione di aiuto, oltre che sperimentare loro stessi un percorso interessante;
2) l’idea di coinvolgere le famiglie nel lavoro con i bambini, quindi muoversi in una prospettiva sistemica;
3) la convinzione che occorresse lavorare alla costruzione di una rete;
4) la scelta di operare al domicilio degli utenti come scelta pratica ma anche metodologica, come approfondiremo meglio in seguito.
Si è arrivati così a una fase successiva, cioè alla formulazione di un nuovo progetto, questa volta interamente finanziato da Shinui, che è stato chiamato “Costruire Ponti” e che ha sviluppato in modo più consapevole queste idee forti. Il pensiero è stato di non lasciar cadere, con il venir meno del finanziamento, il lavoro impostato con i Servizi, ma di portarlo a un maggior livello di consapevolezza.
Shinui ha deciso allora di assumersi il carico di finanziare il lavoro dei collaboratori e di avvalersi in modo più sistematico dell’apporto dei tirocinanti, dando vita a un progetto a basso costo, ma ad alta professionalità. Il rapporto con i Servizi Sociali è diventato più strutturato: l’idea è stata non renderli solo la fonte principale di invii, ma coinvolgerli sempre più nel processo di cambiamento. La costruzione dei progetti personalizzati è stata fatta in équipe, ma anche con l’aiuto e la partecipazione degli invianti.
Con “Costruire Ponti” si sono incrementate le convenzioni con le Università, come l’Università Cattolica di Milano, il Master di Mediazione Familiare, l’Università di Verona e quella di Bergamo o con Scuole di Psicoterapia, che avevano individuato in Shinui una realtà formativa, interessante nell’ambito dell’intercultura. Dapprima, ormai con una collaborazione di lunga data, c’era soltanto l’Università di Padova. Un aspetto stimolante è stato l’eterogeneità dei tirocinanti che chiedevano di partecipare all’esperienza: alcuni di loro venivano dalla Scuola di Counseling Sistemico Pluralista di Shinui, ma la maggior parte proveniva anche da orientamenti teorici completamente diversi. C’erano per esempio, come presenza costante, gli allievi della Scuola di psicoterapia transculturale Cecchini – Pace che si erano formati con un’impostazione analitica, psicodinamica. Le formazioni personali differenti hanno obbligato approcci e formazioni diverse a dialogare, in un contesto eminentemente pratico, e questo ha costituito una grossa ricchezza.
I tirocinanti hanno preso in carico una o due situazioni a testa delle molte che i Servizi proponevano e hanno portato avanti, nelle famiglie segnalate, un lavoro di intervento a domicilio, anche bisettimanale.
Il lavoro ha avuto poi un momento importante nelle sedute collettive di supervisione, che avvenivano due volte al mese; in questi incontri tutto l’intervento di appoggio e di sostegno sui casi veniva ridiscusso collettivamente. Prima di queste supervisioni tutti erano tenuti a inviare in modo circolare delle relazioni scritte sugli incontri avvenuti, riportando soprattutto le considerazioni, le riflessioni, i propri dubbi e gli aspetti di criticità. A volte i coordinatori rispondevano immediatamente via mail, a volte invece si aspettava l’incontro di supervisione per discutere a fondo i temi proposti. Già nella fase di scambi di mail emergevano moltissimi stimoli che non erano soltanto i dubbi di giovani professionisti che si misuravano con pratiche nuove, ma era anche il mettere insieme i vari approcci e i vari modi di pensare su come affrontare una relazione d’aiuto. La specificità dell’intercultura è stata una cosa abbastanza nuova per tutti, sebbene alcuni tirocinanti si fossero laureati con tesi legate agli aspetti psicologici della migrazione.
Nel 2008 è partito finalmente “Famiglie, Territori, Inte(g)razione”, grazie alla segnalazione dell’allora Assessore ai Servizi Sociali, Elena Carnevali, che si era resa conto che un progetto di questa portata, totalmente affidato alla buona volontà di Shinui e senza uno statuto solido, rischiava di non riuscire a sopravvivere, disperdendo un patrimonio di esperienze ricco e straordinario.
Nel 2008 è stato individuato un bando che, grazie alla Legge 328/2000, ha consentito l’accesso al finanziamento pubblico di progetti che avevano come scopo: “La riduzione del disagio familiare (famiglie uni-personali, madri sole con minori ecc.), la valorizzazione e l’accompagnamento alla genitorialità consapevole e alla conciliazione della vita familiare con azioni dedicate, in particolare, a coppie e famiglie straniere, con l’obiettivo di favorire il sostegno alle famiglie, alle coppie e la tutela del minore e favorire l’integrazione delle famiglie straniere nel contesto locale.”
Dal 2008 al 2011 il lavoro, di cui ho descritto i vari step, è diventato finalmente riconosciuto e finanziato dall’ambito 1 (ambito che comprende il Comune di Bergamo e altri 6 comuni limitrofi).
Il progetto
La forma in cui si è strutturato il progetto prevedeva l’interazione di tre soggetti: Shinui - Centro di Consulenza sulla Relazione, l’associazione Aiuto Donna - uscire dalla violenza, (un’associazione che si occupa delle donne maltrattate) e il Comune di Bergamo - Assessorato delle Politiche Sociali. Il progetto stabiliva che, qualora i Servizi Sociali o l’Associazione Aiuto Donna avessero individuato delle situazioni problematiche di tipo psicologico – relazionale che coinvolgessero famiglie, minori o singoli, poteva essere attivato, attraverso Shinui, un intervento di supporto.
Il Centro metteva a disposizione la sua esperienza pluriennale nel tema degli aspetti psicologici dei processi migratori di bambini, adulti e famiglie, offrendo una piattaforma capace di costruire dei progetti mirati sulle situazioni che venivano segnalate.
A questo punto la struttura era diventata molto più solida e poteva garantire un’équipe multidisciplinare composta da professionisti supervisori, psicoterapeuti e altri rappresentanti della relazione di aiuto (counselor, mediatori culturali, educatori) che supportavano il lavoro dei tirocinanti.
Per tre anni i giovani professionisti in formazione che si sono susseguiti hanno preso in carico decine di nuclei familiari, adulti e minori, provenienti da ogni parte del mondo (Benin, Bolivia, Brasile, Costa d’Avorio, Iran, Marocco, Perù, Romania, Togo, Tunisia, ecc.) e inviati dagli Assistenti Sociali territoriali, ma anche dal Servizio Migrazioni del Comune di Bergamo.
I problemi che le situazioni ponevano erano molti e diversi: famiglie conflittuali, famiglie che dovevano affrontare i problemi connessi al ricongiungimento dei vari membri dopo anni di lontananza, donne che dovevano elaborare il dolore di avere i figli lontani, famiglie cui si rimproverano criteri educativi incompatibili con la nostra cultura.
Un esempio tipico in cui ricorrono temi noti a chi si occupa di immigrati fu, ad esempio, una famiglia complessa in cui la mamma, separata dal marito, che si era nel frattempo ricostruito un altro nucleo familiare, era stata denunciata per maltrattamenti, abuso di disciplina. I bambini erano stati allontanati per un periodo e la madre poteva vederli solo in incontri protetti. In questo caso il tipo di intervento è stato un lavoro con la madre, all’interno di un percorso individuale, per aiutarla a riconoscere il danno, pur partendo dalla consapevolezza che i criteri educativi sono una variabile culturale, e un lavoro di mediazione con i due genitori insieme (di nazionalità diverse) sulla costruzione di una genitorialità condivisa. E’ stato un intervento lungo che ha coinvolto moltissimo non soltanto il servizio inviante, ma anche il CBF – Centro Bambino e Famiglia dell’ASL e l’Oratorio del quartiere San Giorgio.
Un’altra famiglia segnalata, proveniente dalla Costa d’Avorio, viveva con difficoltà un ricongiungimento tardivo tra il marito, da anni in Italia e già seguito dai Servizi psichiatrici, la giovane seconda moglie e il figlio quasi coetaneo della ragazza, nato dal primo matrimonio. Una situazione familiare ad alto rischio, anche in questo caso gestita in collaborazione con i Servizi e con i tirocinanti; questi si recavano a casa per aiutare l’incontro tra generazioni e per facilitare l’inserimento dei due giovani all’interno di un mondo totalmente nuovo, in assenza di una figura maschile solida.
Sono questi solo due piccoli esempi, accanto ai tre presentati in apertura, del tipo di situazioni su cui ci veniva chiesto di lavorare.
Metodologia di lavoro
Nella seconda parte di questo intervento, dopo aver esposto la struttura e gli aspetti organizzativi del progetto, vorrei ragionare su tre temi che mi sembrano di grande interesse: il setting domiciliare, la costruzione della rete e la valenza formativa insita in questo progetto.
a) La visita domiciliare
Fin dagli albori la scelta di andare a casa delle persone è stata un elemento centrale. I tirocinanti hanno sempre incontrato gli utenti nelle loro abitazioni, a parte qualche raro caso che abbiamo visto in studio.
L’idea di un setting domiciliare è stato per molto tempo un tabù per molti approcci psicologici. Nell’intervento sistemico pluralista, invece, viene considerato una risorsa: fornisce informazioni che nascono dall’osservazione diretta, favorisce il joining perché consente di condividere spazi di solito inaccessibili, aiuta il rapporto di co-costruzione della relazione con gli utenti e attiva, con la presenza dell’operatore all’interno del sistema, i processi di cambiamento (Edelstein, 2007).
Rispetto alle visite domiciliari, tuttavia, ci si è chiesti quale significato avrebbero attribuito gli utenti a questa modalità di intervento. I tirocinanti avevano la preoccupazione di come sarebbero stati accolti: come sarebbe stata vissuta l’irruzione nelle loro abitazioni? Sarebbe scattata l’identificazione con gli operatori sociali, con il rischio di attribuire la funzione di controllo e di giudizio che spesso viene loro associata? Questo si è rivelato un falso problema: a volte le resistenze ci sono state, ma in linea di massima poter entrare nelle case è stato molto più agevole di quanto si possa pensare. Le porte si sono spalancate e ciò ha permesso di costruire delle relazioni di sostegno psicologico molto ricche.
Posso provare a descrivere ciò che molti di noi hanno visto frequentando le case dei nostri utenti, in particolare maghrebini: il grande divano pieno di cuscini di raso o di velluto, l’enorme tappeto per terra che copre tutto il pavimento, il tavolo attorno a cui ruota l’attività della famiglia e su cui quasi sempre c’è del cibo. In un angolo della stanza la televisione accesa collegata attraverso la parabola col Paese, e che tutto il tempo dell’incontro continua a lanciare parole nella lingua d’origine. Questa, secondo me, è stata una grossa scoperta per tutti, che ha rimesso in discussione l’idea etnocentrica di integrazione come rincorsa dei nostri modelli culturali e che, invece, ha costretto a confrontarsi con un mondo molto più complesso, con le sue coordinate estetiche e le particolarità linguistiche con cui si dovevano fare i conti. Io credo che, per tutti, l’esperienza di entrare in queste case sia stato un motivo di scoperta e di revisione di certi stereotipi depositati nella testa.
Un altro importante elemento dell’incontro, che favorisce enormemente il joining, è il cibo. Andare nelle case voleva dire quasi sempre trovare una merenda ricca con torte e pasticcini dolcissimi; alcuni operatori si lamentavano alle supervisioni che stavano ingrassando a vista d’occhio. Io ricordo, in particolare, una famiglia dalla quale tornavo sempre con quattro o cinque pani enormi. Non potevo assolutamente esimermi da portar via con me, dopo ogni incontro, quel pane arabo.
Trascorrere del tempo nelle case ha rinforzato enormemente la relazione e ha consentito poi di essere accolti nei momenti di festa e di celebrazione degli utenti, o, spesso, di essere invitati per un soggiorno al Paese d’origine, dando vita a una relazione terapeutica lontana dall’immagine tradizionale del terapeuta neutro e staccato.
Qui si innesta una seconda resistenza su cui tanto ci siamo confrontati nelle supervisioni. Molti operatori provenivano da approcci diversi da quello pluralista sistemico e per l’appunto obiettavano: “Ma dove va a finire la neutralità del setting? E dove si situa la nostra professionalità? Ci muoviamo in una relazione terapeutica o in una relazione di amicizia?” In realtà molto spesso emergevano le fragilità personali, perché incontrare l’altro in casa sua e nel suo terreno fa scoprire molte cose sul proprio gender, sui problemi legati alla propria età, sull’appartenenza al mondo dominante; mette in rapporto con le proprie contraddizioni, molto più di quando si riceve nel proprio studio. Questo è stato un motivo sicuramente di destabilizzazione per molti dei tirocinanti e i momenti di supervisione sono stati fondamentali per cercare di mantenere i confini e per cercare di aiutare a superare i momenti di impasse, di fatica e di difficoltà. Penso comunque che la scelta del setting domiciliare sia stata molto formativa per tutti. Questa esperienza ha certamente rimesso in discussione molti presupposti: per fare un esempio, gli universitari di Padova, con certe idee sul proprio mestiere, sono usciti profondamente cambiati.
b) La costruzione di una rete
Un altro tema di riflessione è stato il lavoro sulla rete (Edelstein, 2010). Il progetto era nato con l’intento di coinvolgere comunque altri soggetti attivi nel territorio che lavoravano con i cittadini stranieri. Di fatto questo lavoro si è enormemente sviluppato e ha aperto nuove prospettive. Non è stato semplicemente un insieme di persone messe in collegamento, ma lentamente abbiamo costruito una rete costruttiva e autoformativa. Ci siamo trovati in certe situazioni, per esempio con la famiglia marocchina multi-problematica che ho presentato in apertura, a discutere almeno in tredici persone. Per affrontare i problemi sollevati dalla Scuola in rapporto ai bambini, si riunivano: la preside della scuola, i quattro insegnanti dei quattro figli, gli insegnanti di sostegno, la neuropsicologa, la psicologa dell’ASL, l’operatore del Centro Diurno. Una marea di persone che nelle riunioni portava, una a una, il proprio pezzo di lettura, per poi iniziare a creare intrecci e a produrre qualcosa di unico e complesso che andava molto oltre la semplice moltiplicazione dei punti di vista.
Queste riunioni hanno avuto anche momenti difficili in cui ci si trovava di fronte a pregiudizi, a generalizzazioni e alla fatica di capirsi. Alcuni confronti sono stati anche duri, ma i cambiamenti che si avviavano di volta in volta, dopo queste lunghe ed estenuanti riunioni di rete, erano assolutamente evidenti. Mi ricordo un insegnante di sostegno che, al termine della riunione, mi ha fermato e mi ha detto: “io veramente ho scoperto che non avevo capito niente di questo bambino”. Con il bambino di cui si parlava, l’insegnante si muoveva con un certo impaccio e diceva: “ Lo vedevo con la testa ciondolare sul banco e pensavo: è disinteressato, non capta nulla. Poi ho sentito parlare la neuropsichiatra che ha spiegato come si forma la visione del mondo in un bambino con questi problemi neurologici e ho capito dove stava il problema. Ho capito quando abbiamo discusso tutti insieme il valore di un orologio rubato nell’intervallo e restituito tre giorni dopo”. Poter parlare, esprimersi e confrontarsi in tredici sul significato del gesto di un bambino che ruba l’orologio a un altro compagno di classe e lo restituisce due giorni dopo, ha fatto crescere consapevolezza dei processi, ampliato i significati, consentito di inserire l’evento in un contesto. La co-costruzione di idee e lo scambio nella rete hanno rappresentato anche un’occasione per discutere questioni etiche e produrre nuove idee condivise, oltre a costruire progetti con una visione d’insieme. Infine, le famiglie stesse spesso partecipavano alle riunioni di rete: non più “parlare di” ma “parlare con” ha reso possibile la costruzione di un “Noi” (Edelstein, 2013), attraverso il riconoscimento degli stessi clienti. L’esperienza di rete professionale è stata un momento importantissimo di crescita per tutti, forse uno degli elementi più preziosi del progetto.
c) La valenza formativa dell’esperienza nel campo
L’ultimo punto su cui voglio attrarre l’attenzione è proprio l’enorme valenza formativa anche sul piano teorico che questa esperienza ha rappresentato.
In tutti i nostri dibattiti erano in qualche modo presenti i capiscuola, i riferimenti di molti approcci: dal pensiero sistemico batesoniano a quello umanistico rogersiano o psicoanalitico freudiano, dagli approcci sistemici di Minuchin o Andolfi a quello pluralista di Edelstein, dalle prime idee etnopsichiatriche di Devereux e Nathan a quelle sviluppate da Moro, Inglese, Losi e Beneduce; tutte queste voci emergevano nei dibattiti creando un coro armonioso. È stato un momento di grande formazione interna e di elaborazione che spingeva a mettere in discussione senza sosta le premesse epistemologiche e teoriche del nostro lavoro. Ed è stato anche un importante momento di formazione all’esterno, perché tutti i soggetti che sono stati coinvolti hanno dovuto confrontarsi col vasto tema dell’intercultura, delle migrazioni e delle variabili culturali della psicodiagnosi, a partire da questioni molto concrete. La conferma è stata la richiesta spontanea, da parte delle assistenti sociali e del Servizio affido, di un incontro di verifica con i Servizi sociali, nonostante gli assistenti sociali siano oberati sia di lavoro che di corsi di aggiornamento. Questo lavoro, quindi, ha seminato anche attese e richieste nuove.
Conclusioni
Il futuro. Nel 2011 il progetto si è arrestato, non c’è più stato un finanziamento. Siamo consapevoli della fase di crisi che il Paese attraversa, del fatto che manchino fondi, che le priorità stiano cambiando. Sta di fatto che questo, al pari di tanti altri progetti di cui abbiamo sentito parlare oggi, finisce e non è più finanziato.
Credo sia stata una perdita molto importante, perché ha frenato un processo di crescita, di sensibilità e di competenze preziosissimo in un territorio come quello di Bergamo, dove la percentuale di immigrati è altissima.
Mi sono interrogata su quali cambiamenti apporterei oggi, alla luce del percorso fatto.
Prima di tutto mi è pesato, preparando questa relazione, la mancanza di documentazione, cosa che ci invita a riflettere su come spesso manchi l’abitudine a documentare il lavoro fatto. Mi ricordo di un diario che un bambino aveva scritto quando ancora il progetto si chiamava “Non solo compiti”: un quaderno pieno di disegni in cui si respirava la luce e i colori del Marocco, ma di cui non è rimasta traccia. Una cosa rimasta, invece, è la bellissima tesi di Ilaria, un’allieva del Corso di Counseling e Terapie Interculturali, che ha partecipato al progetto come tirocinante e ha lavorato sul caso della ragazza iraniana che vi ho presentato in apertura. La tesi ripercorre il lavoro di ricognizione della storia intergenerazionale di questa donna che ha ricostruito le storie di tutte le donne della sua famiglia, donne che in qualche modo erano state tutte capaci di opporsi ed è riuscita così a recuperare il perché, il senso del suo essere qui. Un lavoro bellissimo che si è concluso bene, perché questa ragazza oggi è cambiata molto. Adesso studia, si è iscritta all’Università, è decisa a riprendere in mano il suo futuro e a ricostruire un progetto di vita lacerato e strappato dall’esilio.
Questo ci riporta a quanto è importante la documentazione degli strumenti, delle tecniche nuove, come quelle ad esempio che fanno parte del grande campo delle modalità espressive non verbali, che può costituire un materiale che potremmo utilizzare maggiormente in formazione.
Concludo con un altro ammonimento sul futuro che si ricollega al tema che è emerso forte nel Convegno: occorre una formazione continua, spregiudicata e coraggiosa. Dobbiamo metterci in discussione ogni giorno e continuare a riflettere su come cambia il processo migratorio, perché il cambiamento è velocissimo. Siamo passati da flussi migratori che riguardavano in genere soprattutto i giovani maschi, a un’immigrazione che vede protagoniste, ad esempio, donne sole, ai ricongiungimenti familiari, alla migrazione forzata. Continuamente ci accorgiamo di cambiamenti enormi che richiedono di rimettere in discussione tutto quello che sappiamo. Basti pensare a Skype e a come questo strumento abbia cambiato profondamente il rapporto dei migranti col Paese d’origine. Oggi, per esempio, Skype mette in contatto quotidianamente la madre migrante con i suoi figli, qualora non siano qui con lei. Tutte le sere si parlano e lei può mostrare dove vive. Non soltanto lei vede i suoi parenti, ma dal Paese la vedono qui. E questo sta generando e portando dei cambiamenti tra qui e là giganteschi, di cui non possiamo non prendere atto.
Bibliografia
Edelstein C. 2007, Il counseling sistemico pluralista. Dalla teoria alla pratica, Erickson, Trento.
Edelstein C. 2010, Interdisciplinarietà e reti di professionisti. Il lavoro clinico con i migranti, «Riflessioni sistemiche», Vol 3.
Edelstein C. 2013, L’epistemologia del Noi nel modello sistemico pluralista: il riconoscimento dell’Altro come processo circolare, dinamico e riflessivo nei percorsi d’aiuto, «Riflessioni sistemiche», Vol 8.
Letture di approfondimento
Bennett M. J. 2002, Principi di comunicazione interculturale, Franco Angeli, Milano.
Castiglioni I. 2005, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Carocci Editore, Roma.
Edelstein C. 2003, La costruzione del sè nella comunicazione interculturale, «Studi Zancan», vol. 6 Monografia: Famiglie immigrate e società multiculturale.
Tognetti Bordogna M. 2004, (a cura di), I colori del Welfare, Franco Angeli, Milano.
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