Un regard systémique sur l'interculturalité
Cecilia Edelstein (sous la direction de)
M@gm@ vol.11 n.3 Septembre-Décembre 2013
IL SERVIZIO INTERCULTURA DELL’ISTITUTO DI TERAPIA FAMILIARE DI FIRENZE
Giancarlo Francini
francinig@cybermarket.it
Psicologo, psicoterapeuta, didatta SITF e AIMS, Istituti di Terapia Familiare di Siena, Firenze, Bologna. Presidente Associazione CoMeTe, Coordinatore del Servizio Intercultura dell’Istituto di Terapia Familiare di Firenze.
Cristina Lorimer
cristina.lorimer@fastwebnet.it
Psicologa, psicoterapeuta, mediatrice familiare e didatta nel corso di Psicologo Scolastico presso l’Istituto di Terapia Familiare di Pisa-Livorno. E’ didatta AIMS e socio fondatore dell’Associazione Intercultura e del Servizio Post-divorzio dell’ITFF; collabora con l’Associazione Nosotras e tiene uno sportello di consulenza psicologica per immigrati. Esercita la libera professione di terapeuta familiare.
Premesse
Il Servizio Intercultura dell’Istituto di Terapia Familiare di Firenze nasce per venire incontro a una situazione comune a tutto il territorio nazionale, in cui la presenza d’immigrati è ormai così consistente da rendere necessario uno spazio dedicato che ne accolga la sofferenza psicologica, sia per il dolore legato alla migrazione, sia per la delusione e le difficoltà dipendenti dai problemi connessi all’inserimento in un nuovo ambiente. I dati Caritas e Migrantes del 2011 ci dicono che i residenti stranieri in Toscana sono il 10,6% del totale e che il 4% dei bambini nati ha la madre straniera. Questo significa che il nostro Paese sta andando incontro a una profonda trasformazione e che è indispensabile curare il passaggio a una società multietnica.
Il nostro servizio è di seconda soglia e accoglie utenti che non provengono dal servizio psichiatrico si articola in diversi tipi d’intervento:
- Sportello di ascolto del disagio;
- Consulenza;
- Terapia individuale, per coppie e famiglie;
- Gruppi di sostegno;
- Corsi di formazione per operatori (assistenti sociali, educatori, volontari…).
Per fare tutto ciò è indispensabile, da una parte, una continua autoformazione e, dall’altra, dei contatti con tutte le agenzie attive sul territorio, con particolare attenzione alle associazioni d’immigrati. La maggior parte delle persone che si rivolgono a noi ha problemi con il proprio assetto di vita (come vivere, come stare in rapporto) e sono alla ricerca di un sufficiente benessere in un contesto non sempre amico e comunque nuovo; quasi tutti hanno un qualche tipo di lavoro e conoscono abbastanza la lingua italiana. Fortunatamente, alcuni terapeuti conoscono l’inglese o lo spagnolo, conoscenze che aiutano in situazioni in cui non c’è ancora conoscenza della lingua. Lavoriamo anche con coppie miste e in situazioni di ricongiungimenti familiari.
Il Servizio Intercultura si pone all'interno del sistema socio-sanitario come un servizio di seconda soglia, dove cioè si arriva perché inviati da chi accoglie la persona in primissima battuta e non riceve utenti provenienti dal servizio psichiatrico. Nei rapporti con i migranti e con i cittadini provenienti da un'altra cultura, non possiamo più arroccarci dietro l'idea liberatoria e volontaristica dell'assistenza generica, ma dobbiamo sforzarci di affrontare, con una certa specializzazione, aspetti della salute dei cittadini che sono appunto influenzati dalla loro provenienza culturale o dalle loro specifiche esperienze migratorie o, ancora, dalla loro difficile esistenza all'interno di un percorso d’inserimento sociale.
Come operatori allora abbiamo cominciato a comprendere che diversi erano gli strumenti da usare e diverse le discipline coinvolte. Abbiamo cominciato a distinguere ciò che è approccio di base, che potremmo definire etnopsicologia, da interventi specifici quali la mediazione culturale, l'intervento di counseling interculturale, la psicoterapia interculturale.
Nella prima categoria, ci sono tutte quelle conoscenze di base che ormai dovrebbero far parte del bagaglio degli operatori: la consapevolezza di vivere in una società multiculturale e che ogni società che nella storia abbiamo visto evolvere, altro non era che una società multiculturale, e quindi una società che dovrebbe aver superato la logica emergenziale per passare a riflettere e organizzarsi intorno all'idea della convivenza e della cittadinanza. Se osserviamo la società attuale da questo punto di vista, ci accorgiamo di alcuni elementi ormai incontrovertibili: la famiglia non ha più la struttura che l'ha caratterizzata fino a sessanta anni fa, ma assomiglia sempre di più a una rete di legami con storia, relazioni che possono coinvolgere anche persone non conviventi e lontane tra di loro, addirittura lontane tra continenti. Inoltre, le differenze, che da sempre hanno caratterizzato le individualità presenti nella collettività, si sono trasformate oggi in differenze culturali in base alla provenienza (ma forse non è sempre stato così? Non c'è sempre stato un sud o un altrove da cui il diverso veniva?), e questo genera complesse relazioni di paure e pregiudizi reciproci, tra la confusione spaesante dell'indigeno e la confusione dello stare “tra” del migrante.
Quando soggetti diversi tra loro entrano in contatto si generano inevitabili malintesi; ma questi malintesi sono la base per lo scambio tra soggetti se non ci facciamo prendere dalla paura. Quindi, come operatori in una società multiculturale, dovremmo cominciare a riflettere sul ruolo che la cultura ha nella formazione della nostra identità: ognuno ha un'immagine di sé all'interno di un contesto culturalmente determinato e riesce a esprimersi (e quindi forse anche a sentire) utilizzando simboli e immagini provenienti dalla propria cultura; l’inevitabile confronto che ci troviamo a vivere con l'altro non esclude la considerazione di fondo che la propria cultura e quella dell'altro abbiano pari dignità e siano da rispettare purché aperte all'incontro e allo scambio. La cultura si manifesta spesso in simboli e oggetti, così come gli oggetti abitano i nostri contesti di vita e frequentemente parlano al nostro posto: quindi possiamo sintetizzare che la cultura ci circonda e noi vi siamo immersi come in una seconda pelle e siamo costretti ad usarla ma anche a dialogare con essa: questo è il nostro universo culturale e con questo dobbiamo fare i conti così come dovranno farli i migranti che incontriamo.
Già da questa prima veloce panoramica su temi dell'etnopsicologia, è evidente come gli operatori non possano più esimersi dal conoscerli e confrontarcisi nel lavoro quotidiano di base.
Gli interventi successivi, specialistici invece, sono il counseling interculturale, la mediazione culturale e la psicoterapia.
Per quanto riguarda la mediazione interculturale, essa «si rivolge a sistemi umani allargati (famiglie, gruppi, servizi, aziende, istituzioni) in cui convivono “etnie” diverse, esiste una pluralità di “linguaggi”, con l’obiettivo di valorizzare le differenze, di creare un linguaggio condiviso e di dissolvere in modo non violento conflitti dovuti all’apparente incompatibilità di “culture” diverse» (Edelstein, 2004, p. 17), proprio per la presenza delle contrapposte confusioni, quella del migrante e quella dell'indigeno, si formano dei conflitti. La mediazione interviene sia all'interno di queste situazioni che nella loro prevenzione. Questo ci aiuta a dare una definizione di mediazione interculturale, non come panacea di tutti i mali o come l'intervento di moda, bensì come la creazione di un terreno comune, all’interno del quale incontrarsi e riconoscersi reciprocamente, attraverso il “dare a Cesare quel che è di Cesare” e l’analisi dell’emotività prodotta dall’incontro, con l’aiuto di un’interfaccia responsabile (Francini, 2003; Francini, 2005/2006). D'altra parte, questo ci aiuterà a definire meglio quali siano gli ambiti della mediazione culturale, quali anche gli approcci, differenziando tra la mediazione linguistico-culturale (interpretariato) e la mediazione interculturale.
Per certi versi le cose sono più chiare nell'intervento di counseling interculturale, dove la richiesta predispone, al di là dell'esistenza di un conflitto, ad un incontro tra differenze e all'analisi della domanda. Noi ci rifacciamo alla definizione di Edelstein: «Il Counseling Interculturale è una professione che si rivolge a persone (individui, gruppi, famiglie, comunità) appartenenti a gruppi minoritari con l’obiettivo di favorirne l’inserimento, l’adattamento e l’integrazione, di migliorarne la salute mentale e di dare supporto nell’affrontare le crisi di transizione culturale tipiche dei processi migratori» (Edelstein, 2004, p. 14). L'intervento del counselor rispetto all'attivazione delle risorse della persona che ha di fronte obbliga ad una conoscenza e ad una rimessa in discussione dei temi della cultura e dell'identità, ma anche della storia personale e dei legami con la propria famiglia di origine oltre che con il proprio paese natale.
Infine la clinica, che affronta la sofferenza e la sintomatologia espressa da tali vissuti, si confronta con la “culturalità” propria di quella sofferenza, o meglio sarebbe dire con la specificità di quella sofferenza, perché al di là dei nostri schemi la sofferenza si presenta sempre come propria di quell'individuo, della sua storia e dei suoi legami fondamentali. Per noi questo vuol dire confrontarci sia con l'etnopsichiatria sia con il nostro modello di psicoterapia sistemico relazionale. Vedremo più avanti come abbiano sviluppato questa riflessione cercando di mettere in pratica l'intervento terapeutico con persone provenienti da culture altre.
L’ascolto e … il malinteso: l’incontro con l’alterità
Nel nostro modo di lavorare è centrale l’ascolto. Nel momento dell’incontro si stabilisce la relazione e attraverso di questa, nell’ascolto della vita dell’altro, della sua storia, dei riti che l’accompagnano, si passa dalla dimensione cognitiva a quella relazionale. «Non è possibile quindi prendersi cura, senza stare in relazione, senza “esserci” in quel momento e in quel territorio d’incontro specifico. Nell’incontro all’interno dello spazio condiviso e nella relazione di cura, quello che passa tra i partecipanti a quel dato incontro è un sistema di significati, di nessi logici e di esperienze sensibili, che vanno a caratterizzare un cambiamento di visuale per entrambi e che vanno a toccare e, in senso psicosomatico, sensibilizzare entrambi» (Francini, 2004/2005, p. 126).
Le persone che accedono al servizio parlano tutte italiano in maniera sufficiente da non aver bisogno dell’interprete, ma nello spazio dell’incontro è sempre possibile il malinteso, che per Jankelevitch, è «(…) un quasi niente, » (Jankelevitch, 1987, p. 233), perché se fosse stato qualcosa di più ce ne accorgeremmo e se fosse qualcosa di meno non sarebbe significativo. Il malinteso ci permette di capire che c’è qualcosa del mio pensiero che non sono riuscito a dire: è quello spazio in cui le culture s’incontrano e si scoprono diverse «perché i malintesi sono lo spazio in cui avviene l’incontro tra le culture che si confrontano scoprendosi diverse.
Il malinteso è il confine che prende forma, ma è anche la zona dell’incontro in cui è possibile conoscersi e conoscere il conoscibile e intuire lo sconosciuto» (La Cecla, 2003, p. 9). Il malinteso ci spiazza, ci toglie le sicurezze dei nostri pregiudizi, ci apre un nuovo territorio da esplorare in cui, mentre aiutiamo l’altro a riflettere sulla propria identità, ci confrontiamo con la nostra. Solo il riconoscimento dei diversi livelli culturali in cui siamo inseriti ci permetterà di aprirci all’altro. Condividiamo con quelli che abitano questo Paese un’identità, quella di essere italiani, apparteniamo ad una famiglia ma abbiamo poi anche un’individualità che è nostra personale e che nasce dalle nostre esperienze di vita e dalle nostre diverse appartenenze. Sussultiamo quando sentiamo l’etichetta “gli italiani sono mafiosi o gli italiani sono mammoni”, rivendichiamo il nostro diritto a non essere definiti così, una definizione che non ci sta solo stretta, ma non ci appartiene proprio. Senza essere migranti soffriamo gli stereotipi che ci vengono attribuiti.
Nel nostro lavoro ci sono due opposti pericoli di cui essere consapevoli: da una parte, come abbiamo già accennato, gli stereotipi e i pregiudizi, le scorciatoie più facili che ci danno l'illusione di poter conoscere l'altro; dall’altra, le fascinazioni che ci portano ad eccessi di empatia potenzialmente intrusivi e confusivi. È indispensabile, invece, uscire dalla dimensione sovra individuale in cui ci fanno scivolare pregiudizi ed entusiasmi per avvicinarsi alla cultura che attraversa e viene vissuta dalla persona, scoprire come lei la traduce dentro di sé e come ci si confronta. L'immagine di donne coperte da un burqa nero che lascia scoperti solo gli occhi in un negozio di abiti variopinti ci provoca un attimo di disorientamento: come rendere coerente un’immagine così con i nostri pre-giudizi? Solo chi fa parte di quella cultura può darci una chiave di lettura: la sua. Da qui nascono racconti di violenze ma anche di libertà di una società femminile che nelle proprie stanze si diverte e sfoggia con le amiche gli abiti colorati facendoci sospettare che forse non è per gli uomini che ci si veste ma per le donne...
Gaia Petraglia (2011; p. 38) ci ricorda che «l'incontro con l'alterità costringe a confrontarci, in ultima istanza, con l'estraneo presente in noi stessi ».
Per fare questo lavoro ci siamo subito resi conto di quanto fosse importante avere un contatto forte con il territorio e in questo ci sono venuti incontro: l'Istituto di Terapia Familiare di Firenze, le associazioni di volontariato quali “Nosotras”, le assistenti sociali conosciute in occasione di altri progetti.
L'evento migrazione
Per noi che veniamo da una formazione sistemico relazionale, che abbiamo conosciuto l'esperienza di Minuchin e tutti i prodotti dell'approccio strutturale, il fatto che il ciclo vitale delle famiglie (e delle persone) sia segnato da una serie di eventi critici, definiti dalla sociologia in parte normativi (la nascita, il matrimonio, la morte) in parte paranormativi, cioè inattesi e a volte traumatici è cosa nota. L’evento critico può rappresentare sempre un’occasione evolutiva, ma rappresenta anche un elemento di discontinuità, e in questo senso l’evento cosiddetto paranormativo, è ancora più dirompente nella vita delle persone, perché percepito come non atteso, non contemplato come possibile e vissuto come non condivisibile tra i più (seppure siano eventi largamente esperiti dall’essere umano). La migrazione si presenta nella storia di un individuo e della sua famiglia come un evento critico perlopiù inatteso, che segna la sua esistenza in una “vita” prima, una “vita” durante e una dopo, in maniera significativa e irreversibile. Affrontare questo evento e non cercare di dimenticarlo è la parte centrale del nostro lavoro.
L'evento migratorio è il punto di partenza nel nostro incontro con l'altro: diventa importante esplorare il perché della partenza, le speranze, gli impegni presi con chi è rimasto, le modalità di comunicazione della propria scelta (Edelstein, 2002; 2003; 2004), (Sayad, 2002). Anche il viaggio, che si presenta di solito come un'esperienza formativa o addirittura trasformativa, quasi sempre non raccontabile o non comprensibile per chi non l'abbia vissuta, è parte di una “morte” o una “nascita”. Questo è il bagaglio che si porta dietro il migrante, questi elementi condizionano lo stare nel nuovo Paese. È da queste situazioni che nasce la ricerca di un’identità che integri il passato con il presente, per andare verso il futuro (Edelstein, 2000). L'identità originale è perduta, o perlomeno in gran parte sepolta dietro tali vicende trasformative. Spesso anche la lingua viene sentita come persa e la cultura si affievolisce o si mitizza come qualcosa di lontano, di mancante e/o idealizzata. Quella nuova va creata negoziando tra la propria lealtà alle origini e le proposte del Paese d'accoglienza. Il lavoro più difficile è dare un significato positivo all'essere qui, quando le illusioni sono tramontate, le speranze deluse e, malgrado un panorama così difficile, riuscire ad essere generativi e guardare avanti. Il migrante arriva a star seduto meglio sia nella sedia del paese ospitante sia nella sedia del proprio paese, (Ciola, 1995) quando comprende che sta qui per dare il suo contributo e recupera, anche in forma critica, la propria cultura e la propria lingua.
La migrazione è un elemento di discontinuità che richiama il senso di perdita e rottura e vanno aiutati il migrante e l’operatore a riconoscerla come elemento importante nella vita delle persone, senza dimenticare di lavorare anche sulla cultura, sul significato che gli elementi caratteristici di una cultura (seppure quotidiani) hanno per quella persona.
L'evento migratorio si situa all'interno della storia della persona e ha il senso di un periodo critico da elaborare in connessione ai modi in cui questo è avvenuto e alle specifiche caratteristiche della persona stessa.
Il lavoro sull'evento migratorio è la parte che accomuna il lavoro del mediatore culturale, del counselor e del terapeuta, poiché ogni intervento non può che passare, prima o poi, dalla rievocazione dell'esperienza migratoria.
La clinica
Un grande antropologo come De Martino, studiando il fenomeno delle “tarantolate” del salentino, ha mostrato come quel sintomo che lo psicologo della spedizione avrebbe potuto descrivere come sintomo isterico, si presentava alla comunità parlando un linguaggio culturale comprensibile a chi apparteneva a quel territorio; era evidente che la cura passava attraverso una forma e un linguaggio culturalmente determinati, ma contemporaneamente ben comprensibili dal paziente e dalla comunità di appartenenza: «In altre parole una crisi nevrotica veniva letta dalla comunità di appartenenza del soggetto e dal tarantato stesso, come legata al morso della taranta e al suo simbolismo culturalmente determinato; allo stesso tempo il superamento di tale stato era affidato a rituali culturalmente condizionati ma ugualmente condivisi tra i praticanti, il tarantato e la comunità di appartenenza» (Francini, 2004/2005, p.127).
Questo concetto ci ha in parte assillato in parte guidato nella nostra ricerca. Abbiamo cioè cercato di rispondere alla sofferenza dell'altro, cercando di accogliere la forma simbolica e culturale con cui veniva espressa, andando alla ricerca di una relazione che permettesse di dare una risposta altrettanto accolta anche culturalmente.
Lo stesso De Martino, infatti, ci guidava: «De Martino, nell'analisi del tarantismo, ci fornisce una chiave di lettura della modalità in cui questo processo di costruzione della forma del sintomo isterico avviene: è la “plasmazione culturale”. E' cioè un processo di modellamento e trasformazione culturale che subisce una data situazione esistenziale, attraverso la quale si attribuisce un significato altro a ciò che succede al soggetto: nell'isteria di conversione studiata da Freud, gli impulsi vengono trasformati in malattia da curare, cioè subiscono una conversione somatica, tanto da permettere al soggetto di essere riammesso (anche se come malato o come ex-malato o guarito), nella comunità. Nel caso del tarantismo vengono trasformati in effetti del veleno della taranta o come effetti della disarmonia venutasi a creare nel rapporto con S. Paolo, di cui la taranta è strumento» (Francini, 1998, p. 42).
In un certo senso la relazione terapeutica basata sulla disponibilità e sull'interesse diventa la base per una maggiore comprensione e per una forma a ritroso di “plasmazione”, attraverso la quale la persona sofferente si sente riconosciuta, confermata e quindi posta in una cornice in cui può appartenere e apprendere.
I temi ricorrenti nella clinica sono quelli del desiderio, della speranza, contrapposti a delusione, mancanza, nostalgia: la migrazione è centrale.
La migrazione, comunque avvenga, comporta perdita e rottura oltre a una percezione di “doppia appartenenza” o di “doppia assenza” (Sayad, 2002). L'attenzione, l'interesse, la curiosità del terapeuta per la storia dell'altro fa sì che contemporaneamente si costruisca la relazione e si ricompattino aspetti della persona che nell'evento migrazione avevano subito ferite o si erano frantumati. In questo lavoro è fondamentale l'assetto del terapeuta rispetto al dare valore alla differenza che sola permette una reale vicinanza. La relazione si sostanzia nell'interesse e nel riconoscimento del valore della specificità dell'altro (terapeuta verso paziente e paziente verso terapeuta). Ci si confronta con la mancanza di radicamento, con la percezione di provvisorietà, con le continue interruzioni dovute alle emergenze in una incessante alternanza tra nostalgia e taglio con il passato.
Successivamente, diventa accessibile la storia della persona e della sua famiglia: possiamo quindi utilizzare il genogramma storico e andare a cogliere insieme all'altro la sua specifica vicenda all'interno della vicenda familiare. In questo contesto, certe vicende legate alla migrazione trovano un significato più armonico nella ricostruzione dei significati relazionali all'interno della storia che ci racconta. La terapia diventa allora un paziente lavoro di tessitura a quattro mani in cui culture, esperienze ed emozioni s'intrecciano. Attraverso la narrazione e la rielaborazione delle storie si cuce un nuovo abito per la persona sofferente accogliendo le sue visioni della guarigione.
In questo lavoro di ricostruzione della propria vicenda relazionale, è evidente che tutto viene espresso con forti connotazioni culturali, poiché intriso di cicli vitali diversi, di simboli e significati socialmente determinati ecc. Noi non pensiamo che il terapeuta debba conoscere tutte le culture dei propri pazienti, cosa impossibile, ma neanche che possa avvalersi di un mediatore culturale, poiché sarebbe irrealizzabile avere un mediatore per ogni cultura incontrata. Collegandoci con l'esperienza dell'etnopsichiatria (ma in fondo per tradirla) riteniamo che l’esperto della propria cultura sia il paziente, e quindi che sia a lui che dobbiamo chiedere informazioni e delucidazioni sulla sua cultura o sul significato specifico che nella sua cultura e nella sua epistemologia locale (per dirla con Bateson), propria cioè della cultura della sua famiglia e della sua ristretta comunità di appartenenza, abbia una data vicenda o un dato evento del ciclo vitale.
Di conseguenza, nel terapeuta deve esserci non solo curiosità ma interesse, voglia di conoscere, voglia di sapere come quella persona ha inserito nella propria vita gli aspetti tipici della propria cultura d’origine. Nell’ascolto deve quindi passare il riconoscimento e l’interesse per l’altro, il riconoscimento del suo valore. La relazione deve quindi essere autentica e al terapeuta è assegnato il compito di essere stabile e affidabile; un’affidabilità che tiene le braccia aperte. Deve essere in grado di accogliere e ospitare dentro di sé e accettare l’imprevedibile. Accogliere il taglio e il dolore, sapendo che da lì maturerà una posizione che recupera parte delle radici. Un proverbio arabo dice «Beato colui che riesce a dare ai propri figli radici e ali». Riprendendo forse questo proverbio B. Ulsamer (2000) intitola il suo libro “Senza radici non si vola”: il terapeuta lavora perché si ritrovino le radici per consentire poi al paziente di volare.
I problemi maggiori nascono dal continuo intreccio tra difficoltà di tipo psicologico e difficoltà pratiche quali: la casa, il lavoro, il permesso di soggiorno...
Oltre al lavoro individuale, con le coppie o le famiglie, abbiamo sperimentato anche interventi con i gruppi: di donne, di operatori, su temi quali la genitorialità o la propria storia. Lavorare con i gruppi è molto utile perché si crea una nuova “famiglia” in cui è più facile accettare le differenze. Si fa presto a dire migrante; questa, infatti, è una generalizzazione che accomuna persone molto diverse che hanno in comune il fatto di avere lasciato il proprio paese di origine, ma per il resto provengono da culture differenti e interagiscono con la nostra in modo diverso.
Gli strumenti
La nostra valigia degli attrezzi contiene stimoli per mettere in comune, per conoscersi e conoscere:
- Il collage sulla migrazione;
- Gli oggetti metaforici come cimeli che permettono il collegamento con la propria storia, che rappresentano una parte di sé;
- L'intervista geografico-storica (partendo dalla carta geografica si arriva alla storia della persona e al suo genogramma);
- I film (in particolare nella formazione).
Alcune degli interventi fatti
- Gruppi con operatori nel volontariato;
- Progetto “peer tutoring”. Un gruppo di volontari ha formato in alcune scuole superiori di Firenze dei ragazzi disponibili a fare da tutor ai nuovi alunni immigrati inseriti nella scuola. Il progetto è stato accolto con entusiasmo dai futuri tutor che potevano aiutare i nuovi arrivati mettendo a disposizione la formazione, ma soprattutto la loro esperienza d’immigrazione o di figli d'immigrati. Malgrado l'entusiasmo, il progetto si è interrotto per mancanza di fondi;
- Progetto “mamma segreta”. La regione Toscana tiene molto a questo progetto e sono stati quindi fatti dei focus group e un seminario finale con gli operatori coinvolti: educatori, assistenti sociali, ostetriche, ginecologhe. I focus group sono stati un’occasione preziosa di confronto in cui gli operatori hanno espresso le loro difficoltà e i vissuti nell'incontro con le donne che dovevano decidere se interrompere la gravidanza o iniziare il percorso che portava ad un eventuale abbandono o meglio “affido” ad altri del bambino;
- Incontri con gli assistenti sociali della città di Firenze per costruire insieme un nuovo protocollo di accoglienza per gli immigrati che si rivolgono ai servizi;
- Corso per le assistenti sociali di Massa per costruire una prospettiva più ampia e consapevole sul mondo degli immigrati e le sue caratteristiche culturali;
- Lezione nell'ambito del corso per gli avvocati d'ufficio del comune di Firenze con particolare attenzione alle problematiche dell'adolescente immigrato.
Conclusioni
Il nostro lavoro prosegue, nonostante le difficoltà, perché crediamo che questo sia un appuntamento importante con i nostri tempi. L’opportunità che ci dà Shinui di costruire una rete per riflettere sui temi dell’immigrazione e mettere a punto modalità d’intervento e collaborazione ci sembra preziosa. Viviamo tempi difficili, tutta la società sta cercando un nuovo assetto. La parola “crisi” dal greco krisiz, significa scelta, e sono proprio le nostre scelte di oggi che costruiranno il domani. Preferiamo quindi pensare che sia necessario non arrendersi alle difficoltà di finanziamento, ai problemi organizzativi, per dare valore agli incontri con l’Altro, anche se mette in crisi le nostre sicurezze. È un lavoro che ci costringe a una continua riflessione su di noi, sul senso del nostro lavoro, ma ci apre anche lo sguardo su nuovi mondi portandoci a percorrere quella strada verso una cultura “meticcia” che sarà il futuro.
Bibliografia
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