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  • Lo sport dans les sciences sociales : de chimère à réalité
    Marco Pasini (sous la direction de)

    M@gm@ vol.11 n.1 Janvier-Avril 2013

    LA NAZIONALE DI CALCIO FRA ICONICITÀ E USI POLITICI


    Sara Ferrari

    ferrarisara@yahoo.it
    Dottore di ricerca in Società dell’informazione, Università degli Studi di Pavia.

    L’iconicità non esiste, viene inventata. Dato che le burocrazie statali sono immensamente potenti e dispongono di enormi risorse, spesso sono in possesso anche degli strumenti  (i mezzi di comunicazione, per esempio) per costruire l’iconicità, ricavandola da un variegato mondo culturale. (Hezfeld, 2003:78).

    Dopo aver esplicitato, adottando la definizione di Michael Herzfeld, la prospettiva entro cui saranno analizzate le iconicità attive nel calcio,  scopo di questo articolo sarà la creazione di un  ambito di discorso su come gli Stati-Nazione utilizzino  la forza retorica dell’immagine iconografica (Herzfeld, 2003: 77) attinta da quella parte del mondo culturale rappresentata dal calcio.

    Il modo migliore per trattarne mi sembra la breve articolazione di diversi case studies Il primo riguarda la manipolazione del calcio durante il fascismo italiano e durante la vittoria nel Mondiale 2006 oltre al ruolo simbolico assunto dall’architettura di nuovi stadi nella messa in atto di quell’ identità nazionale includente l’idea della “purezza della razza italica”, progetto che appariva complicarsi nelle eterogenee dimensioni locali, paradossalmente esplicitate attraverso il calcio stesso. Altri casi riguardano  rappresentazioni e  usi che, in diversi periodi storico-politici, si sono legati alla Nazionale francese, culminati con l’elogio della Francia “multirazziale”, vincitrice dei campionati del mondo nel 1998 e il ruolo dei gruppi organizzati di tifosi nella dissoluzione della ex-Jugoslavia. Concludo con il caso dei Mondiali di calcio in Sudafrica nel 2010, un contesto dove lo sport e la sua etnicizzazione hanno rappresentato durante l’apartheid la diversità e successivamente un tentativo politico di unità attraverso l’icona delle squadre sportive nazionali.

    Gli Azzurri,  dal fascismo al 2006

    Lo scrittore di regime Marcello Galliam a metà degli anni Venti scrisse:

    lo sport è quell’arte fatale che ha dato l’ultimo colpo all’antica mentalità conservatrice e retrograda: se oggi esiste il fascismo puro, ha il suo trionfo nelle palestre e negli stadi ( in Martin, 2006: 66).

    Come nota Turnaturi (in Corbin, 1996) durante il periodo fascista non vi era scambio fra i vari ceti sociali durante le attività “ricreative", nonostante la retorica sull'interclassismo e gli sforzi del regime per standardizzare gli stili di vita. Ogni ceto sceglieva quindi le attività per il tempo libero più consone alle proprie risorse e alla propria cerchia sociale.  Scrive Turnaturi (1996:211):

    Gli operai nei treni popolari, le élite liberali nei loro severi salotti e nei rifugi alpini, l'aristocrazia e la borghesia vicine al fascismo nelle crociere e nei grandi alberghi, ognuno era comunque rigidamente collocato al suo posto di divertimento.
    Come luoghi di massa a possibilità di divertimento interclassista non restavano che i grandi stadi, dove proletari e borghesi consumavano uno dei nuovi riti nazionali.

    Il fascismo investì dunque nel campionato nazionale di calcio capendone subito la portata simbolica nella costruzione della comunità immaginata; allo stesso tempo doveva però controllare le pulsioni legate alle identità locali, espresse anch’esse nel tramite delle squadre di calcio. Con le vittorie nella competizione mondiale, in patria nel 1934, in Francia nel 1938, e con la vittoria al torneo olimpico di Berlino nel 1936, il calcio divenne a pieno titolo strumento di propaganda, interna e internazionale, attraverso l’elogio della “superiorità fisica”. Come nota Martin inoltre (2006:271):

    il calcio era per il regime un’occasione ghiotta di esprimere la sua idea di società organica, in cui gli individui erano spersonalizzati e i loro bisogni sottomessi a quelli della massa collettiva, governata dalla figura del capo.

    La stampa fascista, in occasione della semifinale del 1938 contro la Seleçao brasiliana, nonostante includa calciatori bianchi, scrive di “duello fra la forza bruta nei negri e gli esponenti della disciplinata bravura italica” (in Valeri, 2005:113).  Le vittorie e le competizioni mondiali sono quindi un potente strumento di propaganda e legittimazione ideologica. Ma un forte ruolo in tal senso è da attribuirsi anche alla costruzione di  nuovi stadi e campi sportivi.  Come nota Tim Benton (in Martin:103):

    in ogni località in cui si radunava un gran numero di persone, edifici, statue e dipinti erano utilizzati per trasformare il cameratismo in tribalismo, l’orgoglio in senso di superiorità, il senso di appartenenza nell’odio dei diversi. […] Le costruzioni ebbero un ruolo fondamentale in questo processo politico.

    Unite alle vittorie della Nazionale, e alle relative retoriche messe in atto in quelle occasioni, è facile capire come la costruzione di nuovi stadi si prestasse agli scopi organici del regime, attraverso un uso dell’ estetica architettonica che rappresentasse “in seno al razionalismo europeo una decisa tendenza italiana lineare ed intransigente” (Il quadrante, rivista di architettura,1933, in Martin, ib: 114).  Il programma di costruzione degli stadi fu esportato altresì nelle colonie nell’ambito del programma di “italianizzazione”. Scrive Martin:

    l’ingegner Bono fu incaricato di progettare uno stadio dotato di decise linee architettoniche romane degne della nuova Tripoli fascista, nel tentativo evidente di formare la nuova identità della colonia e italianizzarla ulteriormente(ib.: 118).

    Lo stadio quindi simboleggiava la “grandezza fascista”; allo stadio Littoriale di Bologna, ad esempio, una statua di Mussolini domina la tibuna.

    Statua di Mussolini al Littoriale. Cartolina dell'epoca.

    Le costruzioni di nuovi stadi e le esaltazioni fasciste riguardo le vittorie della Nazionale sono quindi da considerarsi iconicità, visive e retoriche, simbolizzanti “la volontà di potenza” e la “purezza razziale vincente”.  Infatti:

    l’eterogeneità dell’iconicità è ciò che la rende adatta alle esigenze riduzioniste dell’ideologia: semplifica le verità scomode, complicate e confusionarie circa le diversità etniche e di altro tipo(Herzfeld, 1997:93).

    Sovviene alla mente, in un altro contesto e in un’altra epoca rispetto a quella fascista, un commento di Silvio Berlusconi relativo la vittoria della Nazionale italiana nel Mondiale 2006: “Guarda quel Prodi, è anche fortunato”. La vittoria del 2006 venne quindi politicizzata; la aNzionale arriva a rivestire un ruolo iconico simile a quello degli anni fascisti. Come nota Filippo Ceccarelli [1], il trionfo di Berlino riavvicina “Palazzo e Nazionale”; la politica sembra andare al ritmo del football: pratiche ormai troppo frequenti nelle aule parlamentari italiane ricordano modelli di comportamento in voga negli stadi, quali standing ovation, lanci di fazzoletti e talvolta perfino la “ola”, in un’estensione dell’immaginario calcistico negli spazi della politica, della pubblicità, del sacro nell’accezione di Durkheim: la “società che celebra sé stessa”.  La coppa del mondo diventa una sorta di Santo Graal, un oggetto-feticcio, che dona un’immediata unità nazionale e una potente e comunicativa aurea di visibilità allo Stato-Nazione. Che poi quest’unità nazionale duri il tempo di una notte di festa collettiva nelle piazze non conta, rimarrà comunque nelle memorie collettive della comunità immaginata, con i suoi ritornelli canori e le sue immagini iconiche, come la foto di Fabio Cannavaro che alza la Coppa o la famosa testata di Zidane, immagine-simbolo di una Nazionale  francese arrendevole e sconfitta.

    Allez les Black-Blanc-Beur!

    A giudizio di Jean-Loup Amselle (1999) la retorica mediatica sulla vittoria della Nazionale di calcio francese nel Mondiale del 1998 non fa che confermare, ribaltandola, la visione del Front National di Jean-Marie Le Pen. Nel porre l’accento sulle differenze, nel riferirsi a “Black,Blanc,Beur” infatti, non si fa altro che rafforzare la credenza nelle “razze”, e nelle loro differenze.

    L’iconicità, retorica e visiva, sulla Nazionale vincente s’inserisce così in quel metodo di gestione delle differenze, che crea e legittima le diversità, invece di annullarle in seno al corpo statale.

    Amselle (1996) qualifica la politica francese come falsamente assimilatrice, in quanto sottintende una logica implicitamente volta al mantenimento di etnie chiuse su se stesse. Il principio di base della Repubblica di Francia sembra infatti essere volto all’assimilazione dei cittadini, isolati nelle loro specificità culturali. Tale presupposto contraddice l’esistenza della differenziazione originaria, fra Franchi e Gallo-Romani, impregnante gran parte della storiografia francese. Questa sorta di opposizione duale primaria, nelle sue versioni recenti, sembra sfociare nella bipartizione fra un’  “etnia” francese maggioritaria ed “etnie” minoritarie. Nota Amselle (1996:170):

    la conception française de l’assimilation cohabite avec une théorie pluriethnique du corps national (Francs-Gallo-Romains) et dans bien des écrits de stricte obédience républicaine, comme on l’a vu à propos des officier des Bureaux arabes et des Affaires indigènes, l’assimilation suppose l’absorption d’un groupe par un autre ou le mélange de ces deux groupes.

    Parlare d’assimilazione, così come retorizzare sull’integrazione, è un processo che mette in atto visioni ideologiche volte all’ irriducibilità delle differenze. Nel caso francese tali sfondi ideologico-politici vanno necessariamente inquadrati anche in riferimento ai presupposti coloniali, volti alla costruzione di una “grande Francia” in patria e oltremare. La retorica coloniale si scontra però con un’ambigua realtà in cui il cittadino francese “d’outremer” è considerato un immigrato, un francese di second’ordine. Tali visioni sembrano trovare riflesso ed allegoria ancora nella Nazionale di calcio. Gastaut  (2006: 234) scrive:

    au cours des années 1980, la situation des jeunes issus de l’immigration trouve aussi quelque écho dans le monde du football. La marche des Beurs de 1983, l’émergence de SOS  Racisme in 1985 révèlent à l’opinion publique une France multiculturelle. Au même moment, les exploits de l’équipe de France à l’occasion des Coupes de monde 1982 et 1986, son succès à l’Euro 1984 confirment cette réalité: l’équipe de France est composée de nombreux descendants d’immigrés, véritable reflet de la société française.

    Le Pen, dal canto suo, utilizzò l’immagine della Nazionale a strumento di propaganda, polemizzando su “ces Français d’origine étrangére qui ne chantent pas La Marseillaise” (in Gastaut, 2006: 235), dimenticando, o ignorando, come les enfants de la patrie [2] siano stati reclutati nei Bleus.

    Nazionali combattute e frammentate

    Un  altro caso significativo su come il calcio sia stato portatore di sensi identitari è relativo al tragico periodo che ha portato alla dissoluzione jugoslava; in quella guerra “vicina a casa” numerosi avvenimenti sportivi si sono intrecciati con avvenimenti politici; il sentimento sportivo è stato strumentalizzato dagli ultrà nazionalisti, spesso legati alle èlite al potere, in un contesto che preludeva gli scontri “etnici”.

    Valerio Marchi (1994), dalla cui lettura sono tratte le conoscenze esposte di seguito, notò come il fenomeno del tifo sia attecchito nei territori jugoslavi in modo sorprendente, forse perché tanti giovani, oltre a trovare nel movimento ultrà forme d’espressione e aggregazione, hanno colto, nell’imitazione delle forme consuete del tifo, un modo per sentirsi “vicini” all’Europa occidentale.

    Il primo club di sostenitori di un team calcistico pare sia stato la Torcida dell’Hajduk Spalato [3]. Un vero e proprio tifo organizzato comparve  dai primi anni Ottanta fra i supporter della Stella Rossa di Belgrado [4]. I rivali cittadini del Partizan, riuniti nella Stars’ Army, si auto-nominarono come Grobari (beccamorti). La presenza degli ultrà negli anni Ottanta a  Belgrado, vetrina del calcio internazionale, destò preoccupazione nelle autorità che non esitarono nei tentativi di repressione dei movimenti, con metodi spesso violenti. Il movimento ultrà iniziò ad assumere valenze lontane dall’ambito sportivo a partire dal campionato 1986/87. Durante un’enorme rissa scatenatasi a Belgrado fra ultrà della Stella Rossa e rivali del Partizan vennero devastati numerosi esercizi pubblici soprattutto di proprietà di musulmani albanesi; la violenza del tifo inizio così ad assumere il carattere dello scontro “etnico”. Dopo questo episodio una cinquantina di giovani vennero arrestati e condannati a pene variabili fra gli otto e i ventiquattro mesi di reclusione. Qualche mese dopo questi avvenimenti, lo stupro di una bambina serba da parte di alcuni albanesi scatenò una campagna politica a carattere xenofobo, si arrivò ad invocare la liberazione degli ultrà arrestati, dipingendoli come eroi cetnici.

    Manifestazioni d’identificazione nazionalista, mediate e rappresentate nel tifo calcistico, vi verificarono anche negli stadi croati: i due gruppi rivali della Torcida Hajduk e dei Bad Blue Boys, ultrà della Dinamo Zagabria, si coalizzarono fra loro in occasione di partite contro squadre serbe. Il campionato 1988/89 anticipò la guerra negli stadi, fin dagli inizi della competizione si registrarono violenti scontri fra ultrà serbi e croati. Durante le competizioni europee numerosi i problemi di ordine pubblico, fra gli episodi più gravi durante un Partizan Belgrado-Roma un principio d’incendio rischiò di provocare una strage.

    Sul finire degli anni Ottanta nacquero nuovi gruppi ultrà: la Horde Sla di Sarajevo, i Vultures di Banja Luka, i Varvari di Titograd e i Komiti di Skopje ebbero fama tranquilla mentre la United Force, skinheads-ultrà di una piccola squadra belgradese, la Rad, creò numerose complicazioni relative l’ ordine pubblico. Negli stadi serbi e croati divenne un problema anche la diffusione di sostanze stupefacenti (soprattutto a Spalato) e armi di vario genero (soprattutto in Serbia). La proliferazione di gruppi ultrà in tutte le repubbliche jugoslave aggiunse quindi benzina al fuoco delle contese “etniche”. Un esempio di come il football sia stato e sia un potente catalizzatore e vettore identitario, è il gruppo Armada di Rijeka: a partire dai tardi anni Ottanta adottò slogan e canzoni in lingua italiana, rivendicando in questo modo un’identità istriana di ascendenza italica, quindi diversa dalla “croaticità”.

    Secondo Marchi (1994) la diffusione della rivista Ciao Tifo fu la causa principale della proliferazione di gruppi ultrà; probabilmente tale fenomeno è anche da ricercarsi nel complesso insieme di questioni che portarono alle separazioni jugoslave, comprese le questioni più globali come  la dissoluzione delle ideologie dominanti, metaforizzate nella loro caduta il 9 novembre 1989, a Berlino.

    Un inquietante punto interrogativo è relativo al se ci sia stata una precisa volontà politica da parte dei “signori della guerra” jugoslavi nel fomentare le violenze negli stadi, al fine di destabilizzare ulteriormente una situazione che da lì a breve avrebbe portato al primo atto della lunga e tragica serie di conflitti e assedi.

    Durante il campionato 1989/1990 si verificarono diversi incidenti soprattutto fra gruppi ultrà della Stella Rossa di Belgrado e della Dinamo Zagabria. Per molti fu una partita fra le due squadre [5] a segnare l’inizio della guerra d’indipendenza croata. Più che di una sfida sportiva si trattò di una battaglia a tutto campo, in cui furono coinvolti anche i giocatori.  Zvonimir Boban  centrocampista della compagine croata, assestò un colpo di Karatè a un poliziotto serbo, divenendo così un eroe del movimento per l’indipendenza. Boniface (2006) nota come i supporters croati, durante le  partite contro rappresentative serbe, intonino cori rivolti a Milosevic, sulla falsariga di “Slobo, tu non potrai sfuggire ai nostri coltelli" [6] . Di contro i nazionalisti serbi reclutarono militanti fra gli ultrà e diffusero negli stadi vessilli raffiguranti il generale Draza Mihajlovic [7]. Zelino Raznatovic, peggio noto con il nome di Arkan, uno fra i principali criminali di guerra serbi, era capo ultrà nelle file della Stella Rossa. A guerra finita dichiarò che durante una partita contro la Dinamo Zagabria comprese che la guerra vera, da lui prevista e anticipata sugli spalti degli stadi, stava per iniziare.

    A Spalato, il 26 settembre 1990, gli ultrà del Hadjuk bruciarono la bandiera Jugoslava [8]. Lo Stato federale era simbolicamente morto (Boniface, 2006, 49). Qualche mese dopo Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza. La sovranità delle neonate repubbliche si materializzò simbolicamente nel campionato jugoslavo 1991/92, al quale le squadre croate e slovene non parteciparono, anche se ormai in pochi potevano mantenere l’interesse per i “conflitti” in uno stadio. La Stella Rossa di Belgrado partecipò comunque alle competizioni europee, giocando in territori neutrali. La stagione 1992/93 diede il via ai campionati nazionali di Croazia e di Slovenia, ufficialmente riconosciuti dalla FIFA. Al campionato jugoslavo continuarono a partecipare formazioni serbe, montenegrine e il Borac di Banja Luja, città bosniaca a maggioranza serba.

    Boniface (2006) osserva come l’adesione al massimo ente calcistico sia quasi più necessaria, per un neonato Stato indipendente, del riconoscimento da parte dell’ONU. L’adesione alla FIFA dona infatti, a una popolazione traumatizzata e stremata dalla guerra, un marcatore identitario nazionale immediatamente visibile e potenzialmente ludico. In occasione della semifinale fra Francia e Croazia nel campionato mondiale del 1998 l’allenatore croato Miroslav Blazevic dichiarò di essere considerato un eroe nel suo Paese, avendo infatti vinto nel 1982 il campionato jugoslavo con la Dinamo Zagabria contribuì a risvegliare in tale occasione il sentimento e l’orgoglio identitario croato [9]. Il presidente dell’epoca, Franjo Tudjman, approfittò dell’euforia per la raggiunta semifinale mondiale chiedendo alla Dinamo Zagabria di abbandonare lo storico nome per assumere quello di Croatia. Secondo Tudjnam tale modifica avrebbe potuto contribuire all’affermazione nel mondo della neonata Repubblica, allorché mantenere il nome Dinamo evocherebbe in “Occidente” l’heritage bolscevico e balcanico.

    La nazionale croata della semifinale mondiale del 1998 assume quindi anche il significato di “mito fondatore”. Un mito sempre più popolare e rappresentativo in una Repubblica ove quando gioca la Nazionale pare tutto si fermi per seguirla [10]. Il sito internet d’informazione Osservatorio Balcani nel giugno 2006 pose l’attenzione su come la Croazia sia stata in preda a trance da “febbre mondiali”; per tutta la competizione il calcio fu quasi unico argomento di conversazione, ovunque fu un’ esposizione dei colori nazionali e pare la maggioranza, attraverso il calcio, arrivi a dimenticare preoccupazioni sociali ed economiche. Secondo l’agenzia di sondaggi Optimun Media Direction i croati detennero il gradino più alto del  podio, davanti a serbi e tedeschi, per il tempo passato davanti agli schermi televisivi nel seguire il Mondiale di Germania 2006. Tralasciando i dubbi, sempre insiti in un sondaggio sugli ascolti televisivi, esso si presta comunque a interessanti interpretazioni e interrogativi: forse le popolazioni di neonati Stati indipendenti cercano, a maggior ragione e meno inconsapevolmente rispetto a Stati-Nazione più “datati”, visibilità, sentimenti d’appartenenza e mobilitazioni identitarie attraverso le proprie Nazionali sportive? Sicuramente il calcio permette al sentimento nazionale d’esprimersi creando spazi e modi di mobilitazione generalmente ma non sempre,  come abbiamo visto, pacifici o liberi da interferenze politiche. Il calcio è, fra l’altro, un’ ottima riserva da cui attingere materiale simbolico a uso nazional-popolare e iconico, come il cd  dell’inno della Nazionale di Bosnia e Herzegovina che acquistai a Sarajevo nell’agosto 2006, icona veicolante il “senso dello Stato-Nazione post-guerra” e di  una martoriata,  imposta e sfuggente identità.

    La Nazione Arcobaleno e i suoi colori

    La Nazionale di calcio sudafricana soprannominata Bafana Bafana (ragazzi, ragazzi in lingua Zulu) è stata, durante il periodo del Mondiale di calcio 2010, portatrice delle principali narrative mediatiche nel periodo della competizione oltre che una potente metafora volta a simbolizzare l'unità della “Nazione Arcobaleno”, rappresentandone allo stesso tempo la contraddittoria e complessa multi-etnicità sudafricana.

    Così il tifo verso  i Bafana è stato commentato da alcuni lettori sulle pagine del Cape Times, il quotidiano più popolare a Città del Capo:

    Boys. You are the heroes of our nation. You brought unity to this wonderful country of ours, Wear that sweater with pride- green for the ever growing support and gold for the wealth earned from this World Cup. Viva Bafana Bafana.

    Come on South Africans! You should be ashamed of yourselves. All the car guards I have spoken to in the last couple of weeks are supporting Bafana Bafana and they are not South Africans. I am proudly South Africa, driving with my mirror flags.

    La mirror flag, la bandiera da esporre sugli specchietti retrovisori delle auto, spopolava prima e durante il Mondiale di calcio.

    Il sentimento di unità nazionale passa infatti anche attraverso l'estetica dei simboli come le bandiere d'incitamento alla Nazionale di calcio, gli specchietti retrovisori imbandierati dei propri colori e le magliette gialle dei Bafana Bafana che il Governo sudafricano stesso invitava a indossare durante i  Football Fridays, giorno della settimana in cui, a partire da molti mesi prima l'inizio dell'evento sportivo, i sudafricani erano invitati a recarsi al lavoro, a scuola, a far la spesa con indosso la maglietta della Nazionale di calcio. In egual modo in occasione della coppa del mondo di cricket, svoltasi in India, Bangladesh e Sri Lanka a inizio 2011 i media e il Governo invitarono i sudafricani a indossare, sempre il venerdì, la maglia dei Proteas (soprannome della Nazionale di cricket, dal nome del fiore simbolo del Sudafrica). Per il mondiale di rugby del settembre 2011 il Dipartimento dello Sport sudafricano e l'International Marketing Council lanciarono il progetto  “Ekhaya, Magnificent Fridays and Play Your Part”. Ecco le motivazioni della campagna in questione nelle parole di Iggy Sathekge, uno dei direttori (al sito www.magnificentfridays.co.za, accesso 20 agosto 2010):

    South Africa has a proud history of being a successful sporting nation. Sports is a catalyst for promoting nation building. The IMC has partnered with SRSA to mobilize support for the Rugby World Cup 2011 and All Africa Games 2011 anchored around the Magnificent Fridays campaign, we encourage all South Africans to Play their Part in this regards. Brand SA (South Africa) may be the custodian but the brand belongs to all of us, each of you here today is the builder of this brand that which we love so much: Brand SA. If we all act with unity of purpose, we will contribute to growing our reputation in SA and internationally.

    Così il vestire una maglietta della Nazionale diventa anche un veicolo di promozione del “marchio Sudafrica”.

    Anche le bandiere rappresentano oggetti iconici particolarmente visibili nei luoghi del calcio. Non a caso nel contesto del Cape Town Stadium le bandiere del vecchio Sudafrica dell’apartheid figurano fra gli oggetti vietati, quasi come se fossero un'arma anti-Nazione contundente e pericolosa. In effetti le bandiere possono essere considerate un'arma sociale a tutti gli effetti. Una bandiera “diversa” può rovinare  l'unità e l'identità nazionale “da stadio”, veicolata  dall'estetica dei tanti simboli legati allo sport. Possiamo parlare quindi di una sorta di “identità cromatica”, un' identità sensoriale veicolata in uno stadio o in una piazza attraverso il campo visivo e le emozioni del momento, un’identità che può durare il tempo di una partita di calcio o di rugby in cui si supporta (o meno) una squadra sportiva.

    Considerare la Nazionale di calcio sudafricana come coerente, stabile e riconosciuto da ogni punto di vista simbolo costruttore della Nazione è fuorviante e porta a ridurre la dimensione identitaria a una coesione nazionale che talvolta a Cape Town  può apparire profondamente contraddittoria e dinamica. Per comprendere meglio questo punto occorre illustrare brevemente la situazione politica attuale in Sudafrica. L'ANC (African National Congress), il partito di Nelson Mandela, rappresenta la maggioranza attualmente al Governo. La provincia del Western Cape, con la sua capitale Città del Capo, è l'unica zona dove il partito DA (Democratic Alliance) detiene la maggioranza  nel governo provinciale e municipale. Nelle ultime elezioni municipali nel maggio 2011, il DA ha “tenuto” la guida politica della città con una maggioranza intorno al 70%. L'elettorato dell' ANC è  rappresentato soprattutto dagli abitanti delle townships a maggioranza neri. La popolazione bianca e coloured di Città del Capo rappresenta invece l'elettorato di maggioranza dei DA. Anche nelle scelte di voto possiamo intuire come l'identità razziale sia, dopo quasi un ventennio dalle prime elezioni libere sudafricane, una determinante importante. Dal canto loro le Nazionali sportive metaforizzano le complessità insite nelle questioni relative l’identità razziale sudafricana e le loro diramazioni politiche. Così a Cape Town durante una delle conversazioni [11] più interessanti sull'argomento mi venne raccontato, da tre conoscenti coloured, che la squadra dei Bafana Bafana partecipante al Mondiale 2010 era formata quasi in esclusiva da giocatori neri, poiché l'ANC è “nera”  e ha potere decisionale e di forte influenza sulla SAFA (South African Football Association), l’ organismo sportivo a governo del calcio che, secondo i miei interlocutori, per ragioni politiche tende a non selezionare calciatori bianchi e coloured nella Nazionale, nonostante lo meritino. Inoltre durante le conversazioni sull’argomento emerse come per alcuni fosse stato scelto il Soccer City a Johannesburg quale stadio della finalissima del 2010  per lo stesso motivo, essendo appunto  il potere politico dell’ANC più pregnante a Johannesburg rispetto a Cape Town.

    In riferimento al complesso e contraddittorio sentimento di coesione nazionale veicolato dal supporto alla Nazionale durante il Mondiale di calcio Pshasha Seakamela dell'Istituto per la Giustizia e la Riconciliazione di Cape Town si chiese [12] :

    is this sudden love for soccer just a matter of sweeping our difference under the carpet for foreign visitors? How far will our patriotic displays, as shown by all race groups during this tournament, go beyond the World Cup? Can we prolong this spirit and wave the flags of reconciliation and transformation, even after the end of the tournament?

    Potremmo cercare una risposta a queste domande pensando a Nelson Madiba Mandela durante il Mondiale di rugby del 1995, raccontato peraltro dal filmInvictus in cui è rappresentato un Sudafrica post-apartheid che attraverso il tifo per gli Springboks [13] cerca di trovare un’identità collettiva nel superamento delle divisioni razziali. Mandela, nel film come nella realtà, è stato fortemente convinto del fatto che lo sport possa essere un importante elemento di coesione nazionale. Madiba ha infatti fortemente spinto, quand'era al Governo, per ospitare il Mondiale 2010, ne è sempre stato un convinto fautore: chiedergli cosa ne pensi oggi potrebbe forse portarci a  risposte sfiduciate.

    In conclusione appare quindi riduttivo e poco corrispondente alle complessità del reale sostenere semplicemente che una Nazionale di calcio sia un simbolo di coesione e identità nazionale. Lo è, ma per momenti spazio-temporali più o meno duraturi e in un modo molto dipendente dalle emozioni collettive e dalle rappresentazioni mediatiche relative “l'estetica e l’iconicità del tifo”. Come e se questi momenti collettivi caratterizzati da forti emotività  rimandanti alla coesione nazionale possano incidere sulle percezioni identitarie future è una questione altamente complessa, che a mio avviso richiederebbe ampi studi comparativi. Proviamo per esempio a pensare ancora all'Italia campione del mondo nel 2006 o ai Black-Blanc-Beur campioni nel 1998.  Chi scende in piazza o nelle strade a festeggiare successi sportivi percepisce un sentimento di unità nazionale e di identità condivisa ma ciò non elimina le dinamiche e le contraddizioni identitarie che possiamo quotidianamente leggere attraverso il calcio (pensiamo per esempio alle forti rivalità campanilistiche del campionato di Serie A, oltre che dei campionati minori).   Più in generale, e ciò appare piuttosto evidente nei case studies illustrati, la sfera politica e il discorso pubblico cercano e spesso trovano, attraverso lo sport e le sue icone, sensi identitari immediatamente riconoscibili e quindi facilmente manipolabili a uso politico.

    Bibliografia

    Amselle Jean-Loup, Logiques métisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Payot&Rivages, Paris, 1990. Trad.it.  Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
    Amselle Jean-Loup, Vers un multiculturalism français:l’empire du coutume, Aubier, Paris, 1996.
    Boniface Pascal, Football & mondialisation, Armand Colin, Paris, 2006.
    Corbin Alain, L'Avènement des loisirs (1850-1960), Flammarion, Paris, 1995 L'invenzione del tempo libero, Laterza, Roma-Bari, 1996.
    Gastaut Yvan, Mourlane Stéphane, Le football dans nos sociétés. Une culture populaire 1914-1998, Éditions Autrement, Paris, 2006.
    Herzfeld Michael, Cultural Intimacy. Social Poetics in the Nations State, Routledge, New York, 1997. Trad.it  Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, L’ Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003.
    Marchi Valerio, Ultrà: le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa, Eurispes-Koinè, Roma, 1994.
    Martin Simon, Football and Fascism. The National Game under Mussolini. Trad. it. Calcio e fascismo, Mondadori, Milano, 2006.
    Valeri Mauro, La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio, Edup, Roma, 2005.

    Note

    1] In Repubblica, 10 luglio 2006.

    2] Mi riferisco qui al primo verso della Marsigliese, l' inno nazionale francese: Allons! Enfants de la Patrie!

    3] Squadra fondata nel 1951, quindi relativamente tardi rispetto ai club dell’altra parte dell’Adriatico, da un gruppo di studenti dell’Università di Zagabria.

    4] Club intitolato a Bosko Kajganic, giocatore morto in un incidente stradale. Dopo qualche anno si aggiunse il club dei Red Devils.

    5] 13 marzo 1990.

    6] Kebo, Zagreb, Courrier International, n°233, 20 aprile 1995.

    7] Il capo dei cetnici, forze nazionaliste serbe. 

    8] Ibid.

    9] L’Équipe, 6 luglio 1998, giorno precedente la semifinale Francia-Croazia.

    10] Osservazione personale relativa all’agosto 2005; durante una vacanza a Makarska tutto la cittadina, nonostante il “pienone turistico” del periodo, era fermo davanti agli schermi tv per  seguire un amichevole della nazionale.

    11] Diario di ricerca, 27 luglio 2010.

    12] In Cape Times, 16 giugno 2010.

    13] Soprannome della Nazionale di rugby

     



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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