Comprendere l'utopia: quale(i) utopia(e)?
Georges Bertin (dir.)
M@gm@ vol.10 n.3 Settembre-Dicembre 2012
I FIORI DEL MANDORLO: LE MICROUTOPIE DI TOPOLÓ E PARALUP NEL PAESAGGIO DELL’UTOPIA
Augusto Debernardi
augudebe@gmail.com
Presidente Iniziativa Europea (www.iniziativaeuropea.it); Laureato in Sociologia all'Università degli studi di Trento è stato componente dell’équipe del Prof. Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste.
I fiori del mandorlo sono i primi fiori che sbocciano quando l’inverno non è ancora del tutto finito e ne segnano la fine. Sono anche un simbolo di giovinezza, di rinascita. La mitologia fa risalire la nascita del mandorlo al’evirazione cruenta di Agdistis, essere bisessuale nato dalla fecondazione della terra dal seme di Zeus che non riesce a fecondare Cibele. Agdistis interpreta il ruolo della ferocia che spaventa perfino gli dei dell’Olimpo, dunque la sua evirazione pare annunciata. Ma c’è anche un’altra narrazione, più romantica, dovuta alla compassione che la dea Atena provò per Fillide che temendo di essere stata abbandonata dal proprio promesso sposo, Demofonte (o Acamante) figlio di Teseo, oppure che esso fosse morto, si tolse la vita. La pietà della dea fece sì che Fillide fosse trasformata nel mandorlo. Demofonte quando tornò in Tracia e seppe della morte della sua promessa pianse tanto abbracciando il mandorlo ed Atena, allora, trasformò quelle lacrime in fiori anche se il mandorlo era ancora privo di foglie. La fioritura si ripropone così all’inizio di ogni primavera, di un nuovo ciclo. Non ci sono ancora le foglie, ma già ci sono i fiori….
La Frazione di Topolò
Se vai su una cartina geografica dell’Italia troverai a nordest la regione del Friuli Venezia Giulia col suo bel confine con la Slovenia, fino a una ventina di anni fa parte integrante della Repubblica di Yugoslavia [1]. Trova la provincia di Udine. Al suo confine orientale, proprio al suo estremo e decisamente sul confine con la Slovenia vedrai un punto che si chiama Topolò. Un piccolissimo puntino. Topolò (topol) vuol dire pioppo in sloveno. Sta a circa 600 Mt sul livello del mare in una zona fitta di boschi e si distende su un pendio piuttosto ripido. Questa forma dà a Topolò un aspetto molto alpino anche se non si trova a chissà quale altezza. Un paesetto, amministrativamente una frazione del comune di Grimacco nella valle principale che è la valle del Natisone. Dista un 34 km da Udine e una ventina da Cividale del Friuli. Si arriva per una strada non molto ampia che fende i declivi boschivi della valle. Topolò ha subito lo spopolamento, dovuto alle difficoltà della vita in ambiente alpino e poi per la questione della cortina di ferro (confine orientale del cosiddetto mondo occidentale). Non più di una trentina di residenti. Così il borgo abbarbicato nella valle del Coderiana, appena sopra il bivio di Clodig come a dirci che né i boschi né la vegetazione se lo sono mangiato né sono riusciti a ricoprirlo di muschi e licheni per fare un substrato di humus capace di far prosperare arbusti e roverelle.
Non che non abbiano provato ad allargare le crepe dei muri della casette, non che non abbiano fatto marcire travi e franare pareti… ma hanno trovato sulla loro marcia un ostacolo decisamente nuovo, un ostacolo culturale. In ogni caso il borgo sta così abbarbicato, in alto rispetto a dove ti trovi mentre ci vuoi arrivare, tanto da farti pensare che non può che venerare San Michele, che ne è proprio il santo patrono con una festa verso la fine di settembre. Un borgo che è divenuto così importante con “Stazione Topolò”_ Postaja Topolove. Poesia. E stazione per dirci dello scambio fra esseri che passano ma anche che sostano e si riforniscono. La fama di questa “stazione” sta nella manifestazione che tocca vari campi dell' arte e della comunicazione: filmati, disegno, fotografia, musica, poesia, teatro. E' una manifestazione internazionale che si svolge ogni anno nel mese di luglio dove sono impegnati nel campo della ricerca e della sperimentazione artisti di varie discipline, provenienti da diversi paesi del mondo. Gli artisti vengono ospitati nel piccolo borgo di Topolò dove effettuano un "intervento" sulla base degli stimoli ricevuti dal luogo stesso. Artisti, che fanno gli artisti. Topolò diventa hospitable, albergo diffuso, gîte ruraux, capace di dare accoglienza ed ospitalità a chi, artista, partecipa e sente la dimensione della frazione ed esprime la sua cultura che diventa cultura del topos. Topolò ha iniziato così il suo restauro, la sua rinascita nel rispetto ambientale.
Qualche tempo fa e precisamente a far tempo dal 1990 c’è stata la grandissima moda della mappa del genoma umano che si è conclusa nell’anno 2000 con la scoperta che i geni umani sono all’incirca 24mila. Il doppio dei vermi, quasi come i topi. La ricerca però continua. Tutto si sarebbe risolto, è stato detto, con lo studio dei geni… tutti noi sapendo la nostra scrittura Dna, ciò che fu scritto, avremmo potuto confrontarci con le probabilità più o meno grandi di ammalarci di qualche cosa di già scritto. Fiumi di denaro in quella direzione. Ma anche perché avremmo potuto curarci dalle malattie determinate dai geni, proprio come alterazione del Dna, che sono comprese fra i seguenti numeri: 400 e 6000. In pochi rimanemmo attenti al mondo delle relazioni umane e sociali ed alla loro influenza e la zona d’ombra sul sociale anziché diminuire si è allargata. Che dire oggi quando sappiamo che il nostro Dna riceve informazioni (ordini, in un certo senso) da ciò che subiamo? Da ciò che ci dicono e che ci fanno, addirittura. Se ne occupa l’epigenetica. Veniamo a sapere secondo il canone della scienza in auge che i bambini maltrattati modificano il loro Dna che viene anche ritrasmesso ai loro discendenti che magari saranno ancor meno resistenti allo stress! Una forma di resilienza all’incontrario per le doppie eliche e con esse e per il genere umano. Ricordo ancora, procedendo per libera associazione, che con mia moglie dicevo che oltre ai geni ci sarebbero stati anche i “memi” cioè i geni della cultura… Beh, senza dimenticare Richard Dawkins in the Selfish Gene (il gene egoista), sembra che ci siamo arrivati ad ammettere che la ‘cultura’ conta eccome nei comportamenti umani e riesce anche a modificare sequenze di Dna.
Letture poetiche nelle strade di Topolò
Questa breve reminiscenza soltanto per dire che non è che ci sia proprio un rapporto diretto, causa-effetto fra l’arte e la vita di una frazione, ma per sottolineare la capacità degli artisti di trasformare le sensazioni in qualche cosa di diverso e di visibile… facendo semplicemente gli artisti, niente altro che gli artisti siano essi poeti/e, musicisti/e, scultori scultrici. Appunto. Tra varie apparenze si fanno largo, ad un'altra profondità, i volti e le espressioni della gente stretti da architetture che incombono su di loro, da costruzioni dell'uomo che costringono, sì, ma che rivelano anche la loro fragilità nella forma tutta rugosa che hanno, imperfetta, lavorata dal tempo. Le persone brillano tra queste vie e questi muri come un lampo di vita, una luce, un respiro che pare più vero di ciò che hanno intorno. Si perde il senso di cosa sia astratto e cosa concreto e non si capisce chi domini, se un muro piagato dagli anni, ma immobile, come un guardiano del tempo, o l'espressione viva e irriducibile di una persona che è costretta lì in mezzo, chiusa da quel confine che rappresenta la sua storia e i vincoli di cui è portatrice. Ma ogni tanto arriva la nebbia e si impossessa di tutto, copre e porta via.... La realtà gioca senz'altro con il nostro modo di guardarla e si espone attraverso chi è bravo a ritrarla con una sua semplicità disarmante, che spesso non si vuole vedere: la semplicità della vita e dei sentimenti, una normalità che sfida ogni epoca e che ci rende tutti figli di uno stesso destino. Quando siamo immersi nelle nostre passioni, ci mordono senza respiro e ci fanno credere di appartenere a noi solamente. Ma quando ci danno un po' di sollievo le vediamo negli altri e ci commuovono, ci fanno sorridere. Ecco, queste immagini ci commuovono, perché ci portano a Topolò e da lì ci fanno vedere quello che non cambia mai ma che se manca, se è represso, se è negato, se ci è impedito ci cambia, ci modifica fino al Dna. Comportamenti mutanti, senso diverso. Quando scorgiamo l'eternità che si agita in ogni vita, in quel momento sentiamo che questa è la nostra verità ma ci accorgiamo anche che questa verità è la trama della nostra illusione. E l'illusione è come un'immagine, come un tassello di paesaggio, che ognuno vedrà a modo suo ma che nondimeno percepirà come tutti gli altri. Ecco per arrivare a fare Topolò si è fatta ‘politica’. La politica cioè si realizza come relazione(i) e produce e invera, realizza obiettivi che non possono essere pianificati a priori. Gli obiettivi di piano richiedono risposte preformate, gli obiettivi creati e colti dalle relazioni procedono e non ammettono risposte preformate rendendo vane le false coscienze ideologiche.
Dall’altra parte dell’Italia, posizionandoci cioè al suo nordovest, abbiamo Paralup. Ancor più difficile da localizzare sulla cartina geografica, ancor più “nuovo” e piccino. Esattamente all’ovest, verso il confine con la Francia, nella valle Stura che va fino al colle della Maddalena o col de Larche da dove, in territorio francese, si scende nella Alta Provenza. Paralup è una piccola borgata, nemmeno una frazione, del comune di Rittana in provincia di Cuneo a 1400 Mt sul livello del mare. E’ quasi sul crinale con la valle Grana. Posti rinomati per l’arte culinaria e ottimi funghi. Una borgata totalmente abbandonata, con le piccole case in pietra semi diroccate o completamente tali. Nel 1943 fu la sede originaria della prima brigata partigiana di “Giustizia e Libertà” con a capo Duccio Galimberti fucilato dal piombo nazifascista nel dicembre del 1944 con una raffica alla schiena nei pressi del comune di Centallo. In quell’anno, con un inverno rigido passarono in quelle vecchie baite diroccate Dante Livio Bianco, Nuto Revelli, Italo Berardengo, Giorgio Bocca (che non fece tanto mistero del suo giudizio che considerava aristocrazia partigiana quella che nasceva a Paralup) ed altri ancora: nomi illustri e meno noti della lotta di liberazione della nostra Resistenza. Sappiamo come andò, ma non ancora del tutto. Per esempio Paralup è il segno concreto di quel “Mondo dei vinti” di Nuto Revelli: spopolamento della montagna, vita agra dei contadini, miseria di chi per trarre di che vivere non ha proprietà e rendite. Fatica e fame, certo caratteristiche da non rimpiangere ma nemmeno da dimenticare.
La Fondazione Nuto Revelli animata dal figlio Marco, nostro amico, ha deciso di impegnarsi nel recupero di questo borgo alpino, nella sua rivitalizzazione. In maniera diversa, con la cultura della Resistenza sullo sfondo e non solo, qui a Paralup. Il progetto di Paralup è sì recupero della borgata (poche casette) ma la scelta appare molto più razionale, più programmatica di quanto accade a Topolò ma non sarebbe lecito denegare che anche qui si procede altresì da una fiducia nel sentire, nel sentimento di libertà (che ripropone ciò che dette origine alla Resistenza) e fors’anche nell’amore verso il padre “Nuto” (a Topolò, forse l’amore per la compagna di vita, poeta). Una scelta che testimonia e documenta il territorio nel suo possibile sviluppo sostenibile che conserva il patrimonio culturale (mondo dei vinti ma anche anelito della libertà) fin dalla scelta dei materiali che sono quelli di quel territorio e di quella cultura adatta per permettere l’ascolto, lo studio la ricerca di un tempo che non passa mai ma che sa modificare i geni attraverso i memi. Da lassù, da Paralup, scrive un giornalista come Marcello Raveduzzo (sul Fatto quotidiano) si dominano le vallate e la pianura sottostanti. E’ dunque un luogo ideale per scrutare le mosse dell’avversario e per individuare le vie di fuga in caso di attacco nemico. Dove , camminando faticosamente ad oltre 1300 metri d’altezza, si comprende che la Resistenza, ogni forma di resistenza, comporta sforzo fisico, concentrazione continua, impegno esemplare: sapere cosa fare, dove andare, come agire. Come la libertà, cioè responsabilità che può inebriare ma anche prefigurare. Una concreta manifestazione del dovere come sacrificio.
Alcune case in abbandono a Paralup
Lì si comprende che ogni lotta contro i poteri totalitari, fascisti o mafiosi, merita lo sforzo, la concentrazione e l’impegno di ognuno di noi, quale testimonianza del dovere civile e morale formante il tessuto etico di questa giovane nazione che ancora deve fare la sua resistenza e resilienza. L’idea di ridare vita a Paralup parte nel 2006 quando il regista Teo De Luigi, il regista del film sul leggendario capo partigiano Duccio Galimberti, lanciò l'idea di recuperare la vecchia borgata dove aveva girato una parte del suo film. Ebbe subito il coinvolgimento della Fondazione Nuto Revelli che è riuscita ad attivare la Regione Piemonte con degli appositi finanziamenti ai quali si sono anche aggiunti quelli di alcune fondazioni bancarie. Da “terre alte del Piemonte” , settimanale piemontese d’informazione, dell’ottobre 2009 leggiamo: “Il progetto di Paralup è quello di mantenere l'esistente e di integrare le parti mancanti, soltanto tre baite hanno ancora un tetto, con strutture interne in legno non trattato, una sorta di scatola inserita nel perimetro della baita che sarà l'ambiente in cui verranno allestiti i locali. In questo modo le case non verranno ricostruite con pietra e lose, ma al termine del cantiere la borgata avrà nuovamente il suo aspetto originario con spazi chiusi e quindi fruibili”. Tre baite diventeranno sede della parte museale e dell'accoglienza; ci sarà la casa del custode, un bar, una cucina ed un refettorio aperti a tutti. Le altre case saranno adibite a rifugio a basso costo. Un piccolo gruppo di baite che si trova in una zona leggermente separata dal cuore della borgata sarà adibita a zona residenziale, destinata a studiosi che si devono fermare per più tempo a Paralup. Le baite saranno tutte raggiunte dalla banda larga per chi deve usare il computer e avranno i comfort di un albergo con acqua calda e fredda, la fognatura, la corrente elettrica, il riscaldamento, il telefono, la televisione. Anche l'arrivo a Paralup sarà come una volta: le due strade che attraversano la borgata rimarranno percorribili solo a piedi, verrà allestito un parcheggio mezzo chilometro prima delle baite per permettere un avvicinamento a Paralup più lento e più consono alla vita di montagna. Se non ci saranno intoppi o massicce nevicate, il recupero della borgata a 25 chilometri da Cuneo, dovrebbe terminare entro il prossimo anno. Vogliamo ricollocare Paralup all'incrocio tra esperienza culturale, ricostruzione storica e iniziativa turistica, offrendolo come spazio attrezzato e qualificato in cui realizzare e favorire l'incontro, la rielaborazione collettiva, la conoscenza del passato ma anche del presente, l'esplorazione di soluzioni e di possibilità per il futuro”.
Il progetto di Paralup parte sempre dalla pratica culturale (una memoria storica per un film ) ma a differenza di Topolò il volano è l’ambiente, il monumento diffuso, l’architettura ecosostenibile che sa usare materiali importanti come il legno mentre a Topolò è l’arte nelle sue strade che stimola una rinascita e dà uno stop all’invasione degli arbusti ed allo sgretolamento dei muri. Due modi di inverare l’utopia. Parliamo dell’ ou-topos (non luogo) e poi dell’eu-topos (luogo felice). Stazione è l’eu-topos cioè il luogo felice dell’arte e della poesia che dà senso ad un ou-topos.
E’ l’utopia plausibile che come tutte le utopia in pratica contiene del velleitarismo e della trasgressione verso i quali si cimenta la conflittualità di pochissimi. Capita sempre. Anche a Topolò, dove una signora ce la mette tutta per denunciare l’indenunciabile! Già perché ogni qualvolta si finisce a gestire una specie di godimento (dell’anima, dello spirito, della libertà espressiva…) ci si imbatte nella frustrazione, nella paura, nell’odio: tre sentimenti complicati e difficili, regressivi spessissimo. Sono in realtà quei sentimenti di chi si terrorizza dell’unità (presunta unità od unità del nulla) che viene spezzata. Già perché qualsivoglia movimento democratico, di base è istituente e negante le istituzioni date, compresa quella dello spopolamento. Già perché quando ci si muove nell’eu-epistemocrazia o aristocrazia significa non tanto raccontare storie inventate bensì riorganizzare rapporti stabili fra ciò che è visibile e ciò che è dicibile e tale diventa. Una specie di innovazione semantica. Dove la “poiesisi” (poesia) diventa auto poiesi cioè riproducente se stessa in quanto semplicemente ‘vivente’. La logica ferrea, repressiva delle identità viene scalfita dal paesaggio possibile, quel paesaggio che nemmeno i corpi più attenti o presunti tali erano più in grado di percepire, come appunto dovrebbero poterlo fare le gerarchie dirigenziali delle istituzioni. Si parte dal rifiuto della divisione fra territorio e saperi e conoscenze per ricomporre un paesaggio (nuovo) e dunque nuovi sé. Quando la politica smette di riservarsi l’altezza per rigettare il sociale nell’oscurità, quando la disciplina o le discipline smettono di non guardare le loro zone d’ombra - come nella medicina il sociale, come nella poesia il suo tempo e così pure la letteratura, la fisica etc. – abbiamo la proposta democratica di un movimento innovativo che non mira al potere, ma scalfisce quello che già c’è, sicuramente compresa l’idea della disuguaglianza come regola generale immodificabile ed immodificata. Diritto al potere, allora. Qui il nocciolo pratico dell’esperienza utopica. La dimensione dell’arcaico, dell’immutabile, dell’istituito nella sua concretezza di istituzioni e loro rigidità perché anch’esse autopietiche viene messa tra parentesi oppure denegata coscientemente. Non in virtù di una arroganza bensì nella pratica, nel praticamente vero di un paesaggio diverso che diventa metodo concettuale. Alla base di una democrazia probabilmente ci stanno le tribù, i gruppi, l’ochlos ovvero la turba, turbolente che non riesce più a padroneggiare la sua unità oppure l’uno.
Alcune case in abbandono a Paralup
Il ‘demos’ disfa le parti, frantuma l’uno e rende utopico il luogo e il paesaggio si invera. Chi pensa che sia possibile tracciare una linea netta di chiara separazione fra il registro del superfluo e ciò che è necessario va incontro alle frustrazioni. Pensate ad esempio alle frustrazioni di tutti gli accusatori e polizia finanziaria che sono alla pedissequa e continua ricerca di malfattori fra cittadini intesi ora come evasori oppure come decisori che procurano danni erariali. In quest’ottica gli accusatori oltre ad una teorizzazione quanto mai paranoidea non si accorgono che dimenticano le funzioni e poteri che sono attribuite proprio ai cittadini che occupano ruoli che poi vengono riconfermati nel giudizio con varie assoluzioni. Costruzione non di paesaggi bensì di idee astratte che giustificano ex ante certi teoremi piuttosto che dei fatti. (come il caso dei dirigenti della sanità triestina prima accusati di aver sperperato denari per acquisto di farmaci nelle farmacie e poi ampiamente assolti dai giudici della Corte dei Conti - come era facile prevedere ( Il Piccolo 14 marzo 2012) – perché la cosa rientrava nei loro poteri e funzioni. Tenere in considerazione il proprio stile di vita e quello comune o degli altri è ciò che avviene soltanto nelle democrazie. Per questo si complica il “diritto” che viene a fare i conti non solo con la legge ma anche con il sapere e spesso con i vissuti. L’arte riesce a farci percepire ciò che si vede e ciò che non si vede, mette rapporti, li invera nel suo permetterli e – come minimo - additarli. Non ha lo sguardo di chi dice “vediamo cosa c’è sotto” oppure non si bea della suddivisione fra democrazia formale e sostanziale, bensì inietta uno sguardo di fiducia. Cos’ i nostri due casi – Topolò e Paralup – riescono a far si che nel registro della società democratica ci siano degli “uni” in più.
Questo crea turbolenza, esattamente come le molecole dell’acqua quando essa raggiunge la temperatura di ebollizione. Non sono cioè delle mere fiere del sapere bensì sono arte e storia, sono presenze e partecipazione e rendono vera l’uguaglianza di chi c’è e la additano. Realizzano la soggettivazione di vari momenti individuali che trovano il loro contatto relazionale ed in esso si realizzano. Una eguaglianza che non diventa ideologia perché si sa benissimo che si è diversi, si occupano ruoli diversi e gerarchie nella e della società diverse, ma la gerarchia non è il baricentro dei comportamenti che si sostanziano nei due topos. Non c’è nessuna incarnazione dell’ obbedienza, cemento importante di comunità dove si è “schiavi dei propri fratelli” come nei monasteri benedettini. C’è piuttosto una messa in forma della parola, viene reso visibile ciò che altrimenti sarebbe nascosto.
A Topolò la poesia a Paralup la resistenza. A tutti coloro che partecipano, che in qualche maniera sono presenti è data la resilienza, forma di adattamento partecipativa, forse emancipante. La pratica moderna di queste due piccoli luoghi di un’utopia contemporanea che si realizza e che ho conosciuto si discostano dai modelli dell’era utopica che segna la nostra storia e l’urbanistica che è giunta fino a noi e che in qualche maniera prende atto dell’era industriale e del capitalismo che prospera su tutto e tutti e supera barriere materiali e mentali (Icaria di Étienne Cabet; il socialismo utopico di Robert Owen; la neo tecnocrazia - Le nouveau Christianisme - di Claude-Henri de Saint-Simon; il falansterio di Charles Fourier - che stimolerà anche Le Corbusier -; il familisterio di Jean Baptiste Godin, “Victoria” di James Buckingham dove il censo basato sulla ricchezza sembra ricordarci l’urbanistica medioevale; La ciudad lineal di Arturo Soria; La città industriale di Tony Garnier; La garden city di Ebenezer Howard e non dimentichiamo la “città futurista” di Marinetti e “La città che sale” e “il manifesto dell’architettura futurista” di Umberto Boccioni del 1911). In queste utopie citate possiamo anche notare il senso del “recinto” in quanto istituzione o recinto istituzionale che sembra dare ragione a François Tosquelles [2] che ne addita la funzione pedagogica. A differenza dell’”utopia” di una società che non ha più bisogno del manicomio perché si affida alla scienza – non alla politica – e non riesce però a “liberarsi della necessità del carcere” evitando così di rinunciare agli squallori e ai degradi obbrobriosi delle sue carceri e che però fugge dal concetto stesso di utopia realizzata proprio perché si affida alla scienza e non capisce né ammette che invece è la politica che realizza l’utopia perché invera obiettivi nelle relazioni concrete con le persone, relazioni sociali, e non a cause di astratte pianificazioni nelle due realtà topologiche – Topolò e Paralup – vediamo la condivisione. Nella società, a proposito dell’assenza del manicomio, non c’è separazione alcuna perché viene condivisa la scienza; nei due topos oltre alla condivisione della logica razionale notiamo la separazione, ovvero la condivisione di essere lì e dunque diversi e dunque separati dal canone del letterato, della omologazione alla letteratura o alla storia. Lì ci si ritrova, ci si sta. Una comunità – ricordando Jaques Rancière in “Aux bords du politique” - che dice parole e rende visibile l’origine e la ripete. Qui c’è passione, là c’è omologazione, assenza di utopia.
Note
1] Tosquelles: psichiatra catalano, trasferitosi in Francia nel 1940 dopo essere stato condannato a morte dal regime di Franco; lavorò all’ospedale psichiatrico di Saint-Alban in Lozère dove ricoprì il ruolo di infermiere prima di diventarne direttore e partecipò alla Resistenza e fu il fondatore del movimento di psicoterapia istituzionale.
2] La Repubblica di Slovenia nasce nel giugno del 1991. Quando fu dichiarata l’indipendenza io e mia moglie Marina varcammo il confine secondario di Trieste per assaporare il clima della nascita di un nuovo stato. Era una giornata estiva ma senza sole, l’aria era davvero cupa, quasi immobile e le guardie di confine sembravano spaesate e molto intimorite. Le persone erano frettolose e non ci badavano più di tanto e aspettavano il peggio… ma la guerra scelse altri territori fra i confini della Croazia, Serbia, Bosnia….
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