Un numero di Magma dedicato al tema “Memoria, Autobiografia e Immaginario”
non può che essere vario e molteplice nei contenuti e nella forma.
Non può che presentare contributi che chiamano in causa realtà locali
e internazionali, tempi complessi: ieri ed oggi, ieri e domani.
Abbiamo messo in evidenza, nella prima sezione di questo numero,
due temi fondamentali e trasversali: le memorie ed il loro contesto,
l’immaginazione e l’immaginario. Le memorie risentono del tempo,
del luogo e del contesto nel quale sono elaborate e raccolte, e
il ruolo della politica e del potere ne condiziona il loro vissuto
e la loro stessa rielaborazione e interpretazione. L’immaginazione
come particolare forma di rappresentazione della realtà, di conoscenza
riproduttiva e ri-costruttiva, è anche reinterpretazione creativa
nel processo della narrazione della storia individuale e sociale.
L’immaginario individuale, sociale e sacrale, come forma estetica
delle narrazioni individuali e collettive, è parte costitutiva del
pensiero e della coscienza delle donne e degli uomini, e ci svela
a capacità di evocare e di creare dei soggetti, di rappresentarsi
il mondo, attraverso la funzione dell’immaginazione simbolica. I
contributi che abbiamo selezionato e che compaiono in questo numero
all’interno delle altre sezioni, sviluppano questi due temi chiave
tra spazi angusti e ampie distese che travalicano confini; confini
tra terre abitate, confini tra discipline.
Forse perché da lunghi anni mi interesso di sociologia qualitativa,
mi sembra di aver visto crescere l’importanza del tema della memoria,
anche se secondo logiche a volte diverse e contraddittorie, di spinta
e accettazione da un lato, di negazione ed oblio dall’altro. Certamente,
di attenzione e dibattito tra gli studiosi, tra diverse discipline.
Da tempo si interessano di memoria, di memorie, si adoperano per
individuarle, raccoglierle, trasmetterle sia la storia orale che
la sociologia qualitativa. Nel loro ambito si ritrovano, si individuano,
si raccolgono memorie personali e di gruppo, memorie che sono quindi
rappresentazioni sociali. Che vengono ascoltate, accolte, rielaborate
(le memorie vivono dinamiche di ricordo e oblio), valorizzate e
comunicate. E non solo: gli studiosi che ricorrono alla raccolta
di interviste in profondità, intese a fare emergere memorie, a ricostruire
‘storie di vita’ o magari tranches de vie, quelli che utilizzano
materiali biografici per ricostruire un certo periodo storico, un
ambiente, una tematica, sono, insieme, di regola, anche dei seminatori
di memorie.
L’immaginazione, questa particolare forma di rappresentazione della
realtà che produce ed elabora un oggetto di conoscenza senza che
gli stimoli relativi ad esso siano effettivamente presenti nel sistema
senso-percettivo, gioca nella vita quotidiana un ruolo importante
quanto - e forse più - delle idee e delle parole. Immaginare aiuta
a ricostruire la memoria e a sostanziare l’auto-biografia. La conoscenza
è troppo complessa per attuarla solo con le parole. Per conoscere
occorrono strumenti diversi, concorrenti: e tra questi l’immaginario
è tanto importante che, come diceva Federico Fellini, “nulla si
sa, tutto s’immagina”. L’immaginazione è uno strumento potente per
ridefinire i veri confini della dimensione passata, riscoprendo
una dimensione essenziale della memoria, non solo attraverso le
parole ma attraverso le immagini. Ed in effetti, il mental imagery
è una associazione di linguaggio verbale e figurativo. L’antico
dibattito sulle “immagini nella mente”, che metteva in contrasto
la teoria proposizionale (basata su concetti e verbalizzazioni)
e la teoria analogica (pittorica, analoga alla elaborazione percettiva),
è stato superato dalla constatazione che entrambe le teorie sono
valide in differenti condizioni.
Nous pouvons concevoir une sociologie de l’écriture ordinaire, pour
saisir le processus d’ouverture et décentrement des sujets. Les
individus, devenant les auteurs de leur biographie, font l’expérience
de la conscience poétique et mythique dans le mouvement de l’écriture
autobiographique. La tâche du mythanalyste engage une exploration
inédite de cette expérience, la pratique de l’écriture de soi dans
les territoires existentiels et symboliques de la quête autobiographique.
Nous interrogeant sur la fonction et la signification profonde des
écritures autobiographiques, nous allons repenser un travail de
recherche ayant pour objet l’intertextualité des textes vivants.
La découverte de sensibilités et consciences mythobiographiques
est au rendez-vous dans le travail du chercheur.
ÉCRITURES DE SOI, MÉMOIRES VISUELLES, CRÉATION
ARTISTIQUE
Une pratique d’écriture aussi liée que le « genre autobiographique
» à la remémoration, à la construction et à la formalisation de
l’identité personnelle, comme image de soi pour autrui et à la question
essentielle de l’individualité dans la modernité ne saurait rester
étrangère au questionnement sur le pourquoi et le comment de tels
récits. Cette interrogation ne va pas sans quelques difficultés
à la fois théoriques et méthodologiques. Tout au long des XIXème
et XXème siècles, les professeurs français des différents ordres
d’enseignement ont été amenés à rédiger des mémoires ou des souvenirs
professionnels. Si certains de ces récits ont pu devenir célèbres
ou passer à la postérité du fait de la notoriété de leurs auteurs,
il semble bien que la quasi-totalité de la production littéraire
produite par les différentes catégories d’enseignants soit tombée
dans un impressionnant oubli. Pour comprendre la réalité de ces
pratiques nous avons été conduit à étudier les différents aspects
des récits autobiographiques rédigés par quelques professeurs de
lettres de la Sorbonne entre 1880 et 1940.
Le texte autobiographique potentiel se rattache curieusement à des
configurations du fragment. L’écrivain oulipien écrit par fragments.
Les fragments sont alors un petit univers en miettes. L’écriture
fragmentaire remonte au moment de l’entrée dans la bibliothèque.
Je me souviens, Les amnésiques n’ont rien vécu d’inoubliable, Autobiographie,
chapitre dix, Pas un jour sont fait de fragments ; ce choix est
alors justifié à la manière oulipienne de la liste, de l’inventaire.
La cohérence déforme, l’incohérence est totalisante, potentielle.
Ce morcellement du moi exprime l’ambiguïté de l’écriture, la canalisation
de l’être dans le livre. Seul le travail est là, comme un être universel.
En réponse à cette impasse, l’autobiographe oulipien confie la charge
de reconstituer son être émietté à l’autre, au lecteur. L’autre
alors dévolue la tâche de faire le portrait de l’écrivain à partir
des fragments multiples laissés par l’écriture, de faire un texte
cohérent de ce récit abandonné à l’image et au son. Plusieurs ressemblances
fondamentales se dégagent pourtant de l’écriture potentielle autobiographique
: l’importance et la complexité des rapports entre le langage, l’image,
et le son, la fragmentation et la cohérence du vécu, le rangement
du moi dans le souvenir et la pensée, le lyrisme et la force de
l’inachèvement de l’écriture potentielle.
La memoria e l’identità di un quartiere con materiale visuale e
biografico, interviste e documentazione storica. La problematica
che si cerca di sviluppare in modo trasversale credo dia una certa
originalità alla proposta. Memoria e autobiografia attraverso la
visione di sé e come questa viene elaborata e raccolta in contesti
culturali e sociali. Come le narrazioni iconografiche sono influenzate
e l'immaginario sociale diviene modalità di riproduzione delle rappresentazioni
individui-società. La comprensione e l’interpretazione della memoria
autobiografica e l’immaginario nella testualità della scrittura
di sé per mezzo della luce (foto-grafia), nasce dalle analisi teoriche
e metodologiche, delle riflessioni sull’esperienza di ricerca empirica
riguardo le visualizzazioni autobiografiche, mettendo in prospettiva
un approccio biografico delle storie di vita e una sociologia visuale
dell’immaginario.
Au cours de cet article, nous examinons un corpus de créations dans
le champ des arts du spectacle vivant en Belgique, au sein desquelles
des performeurs, à la fois sujets et lieux de l’énonciation, développent
des formes esthétiques d'écriture vivante de soi. Pour certains
artistes, l’art de la performance est un terrain privilégié pour
évoquer l’expérience du « moi » dont ils sont les protagonistes.
Des femmes et des hommes deviennent les auteurs de leur biographie,
sous forme d’un langage vivant qui dépasse le cadre de la représentation
et de ses codes. Avec ou sans masque fictionnel, ils mettent en
place des moyens originaux pour exprimer ce que les instruments
classiques de l’expression ne peuvent pas formuler. Entre réalité
et imaginaire, ils communiquent « ce que dire ne veut plus dire
», et traduisent des réalités mais aussi des souvenirs de la mémoire
individuelle et collective sur le plan de la création artistique.
Oggi, a sessanta anni di distanza, in un mutato contesto, in una
Italia meno povera, più protesa sul futuro, alcuni dei militari
di allora hanno pubblicato scarni brani di diario, hanno offerto
memorie ricostruite oggi, a partire da furtivi e forzatamente rapidi
appunti di allora: emerge un materiale inedito che da un lato contribuisce
a dare elementi per una ricostruzione storica, dall’altra ha certamente
un valore affettivo, familiare: si fa sentire, evidentemente, l’esigenza
di raccontare cosa è avvenuto perché si sente il dovere della memoria.
Perché si riconosce il diritto alla memoria delle giovani generazioni,
dei propri nipoti. Nei decenni trascorsi i ricordi si sono forse
stemperati, si è imparato a conviverci. Si è probabilmente più in
grado, a distanza di decenni, di fare una rilettura dei fatti di
allora, di farsene una ragione. Di cercare di attribuire a questa
devastante esperienza un qualche senso, un significato. E quindi
oggi alcuni parlano, altri scrivono. Dicono che nella cattività
hanno riscoperto la libertà, la democrazia.
Attraverso questo elaborato, frutto di un iniziale resoconto di
un più ampio progetto di ricerca, si intende riflettere sul rapporto
tra esperienza di rifugio e il complesso ambito della salute mentale.
Condotta all’interno di un Centro di Salute mentale di Bologna,
l’indagine cerca di riflettere, con una modalità attiva, su le strategie
più opportune per intervenire con persone provenienti da questo
tipo di esperienza. Siamo all’interno di un setting già da anni
strutturato secondo un taglio pluriprospettico, dove l’approccio
medico-psichiatrico s’incontra con lo sguardo antropologico. Le
due figure utilizzano l’ausilio di un mediatore linguistico-culturale.
Il setting ha preso forma nell’intento di fornire un servizio quantomeno
sensibile alle particolari richieste che provengono da pazienti
migranti, dunque da soggetti provenienti da luoghi altri. Si è fatto
uso degli strumenti provenienti dall’antropologia della sofferenza
sociale, disciplina attenta a investigare su quanto le dinamiche
di potere e i meccanismi di posizionamento sociale possano essere
considerati come veri e propri agenti patoplastici e della narratologia,
quest’ultima usata con l’intento di leggere nei racconti clinici
il modo in cui rifugiati e richiedenti rappresentano questa particolare
esperienza di migrazione. Il vissuto di sospensione emerge come
contenitore in grado di descrivere la condizione che questi soggetti
vivono per gran parte del loro percorso. A giocare un ruolo importante
sono i sistemi di accoglienza stessi, strutturati secondo logiche
precise, tese a scandire il percorso per “divenire rifugiati” in
fasi chiare e piuttosto rigide. I sistemi di accoglienza possono
essere descritti come una giostra liminale, sopraelevata dalla realtà,
dove questi soggetti entrano in un percorso teso in primo luogo
a manipolare, cucire la loro storia in modo da riuscire a presentare
la loro esperienza trascorsa in un modo adeguato e riconoscibile
con il fine di riuscire ad entrare nei criteri stabiliti per essere
considerati degni di ottenere la protezione internazionale.
Le memorie dei coloni ritraggono la realtà coloniale, testimoniando
la progressiva iscrizione dei loro corpi all’interno di un territorio
già segnato dal potere coloniale e che loro contribuiranno a segnare
in questo senso, una progressiva presa di coscienza, attraverso
i discorsi, le pratiche, gli oggetti e i simboli, del proprio ruolo
di “civilizzatori”. Se le cerimonie organizzate all’uopo dalle autorità
coloniali e la sistemazione nei poderi furono le prime fasi di adattamento
alla nuova situazione e all’alterità, il lavoro di valorizzazione
delle terre dei poderi fu il più importante strumento di risoluzione
materiale e culturale di quella situazione critica. Se l’alterità
etnica è assente o fa solo da sfondo alle memorie (che quasi non
nominano la popolazione locale), al contrario estremamente vivo
è il ricordo dell’ordine coloniale iscritto nel territorio: i simboli
del potere coloniale (la via Balbia, i villaggi agricoli), i simboli
della conquista (la croce e i monumenti ai caduti fascisti). La
situazione coloniale, preannunciata dai discorsi delle autorità
e dal richiamo alla missione civilizzatrice, è ritrovata iscritta
nel territorio e, infine, incarnata dai coloni stessi.
Avocat engagé, Robert Badinter s'est retrouvé en situation de mettre
en pratique ses idéaux. Son dernier livre, Les épines et les roses,
publié chez Fayard (Paris, 2011) est le récit de son parcours de
ministre de la Justice. Cet ouvrage soulève ainsi des questions
sur les rapports entre mémoires rédigées et image de soi, mais aussi
entre la mémoire du sujet et la mémoire collective à laquelle il
participe. En racontant sa version du passé, l'auteur entend influencer
la lecture de celui-ci et contrôler, en partie, le souvenir qui
en sera gardé dans l'opinion. Car, bien qu'il se présente tout au
long de l'ouvrage comme un homme ordinaire, arrivé de manière inattendue
au pouvoir, Robert Badinter omet de rappeler que tout son parcours
postérieur à cette expérience de ministre s'est déroulée à des niveaux
de responsabilité en lien étroit avec le pouvoir politique. Après
cet accès momentané au pouvoir exécutif, Robert Badinter a ainsi
été président du Conseil constitutionnel, fonction à forte dimension
politique, avant d'accéder à des fonctions prestigieuses au niveau
international. Enfin, son parcours politique s'est poursuivi par
son élection au Sénat et donc par une participation directe à l'exercice
du pouvoir législatif. Bien sûr, les responsabilités ne sont pas
les mêmes, et pour quelqu'un qui s'est souvent refusé à parler de
lui, se mettre en scène en tant que garde des Sceaux revêt une signification
particulière. Il s'agit ainsi de rendre pérenne le souvenir d'un
combat et d'une action dont les résultats les plus forts – abolition
de la peine de mort et réforme du code pénal – continuent de façonner,
à leur manière, la société française. Mais au-delà du bilan, ce
retour sur le passé est également l'occasion de s'ériger en juge
du temps présent. Le combat n'est pas terminé et cet ouvrage se
veut aussi une oeuvre militante. En analysant cette volonté de se
présenter en citoyen ordinaire et de se démarquer du reste de la
classe politique, il s'agira ainsi de voir ce qui, dans le récit,
relève du mythe personnel et de son inscription dans une histoire
plus large qui est celle d'une mythologisation de la gauche française.
Le mythe sert ici de support au récit, pour donner du sens aux actes
et les inscrire dans une histoire bien plus grandiose, démentant
en cela la volonté d'humilité pourtant professée de la première
à la dernière page. Cette posture n'est d'ailleurs pas sans poser
problème dans la mesure où elle semble mettre à profit le discrédit
croissant dont souffrent les élus et les décideurs politiques dans
leur ensemble. Le combat tel qu'il est mené, en se posant sur le
terrain de la morale, pourrait ainsi être interprété dans un tout
autre sens que celui voulu par l'auteur.
La publication en 2006 de l’autobiographie de Günter Grass, Pelures
d’oignon, fait scandale : cet homme si engagé du côté des plus faibles
s’est engagé volontairement dans la Waffen SS ! Cet aveu est difficile
de la part de l’auteur. Il lui faut peler amèrement l’oignon du
souvenir, multiplier les questions, cherchant alors des réponses
pour comprendre son attitude d’alors, des réponses qui ne peuvent
que le rendre coupable à ses yeux comme à celui de son lectorat.
Aussi son pacte autobiographique tourne-t-il, pour l’essentiel,
autour de la question du jugement. Il n’hésite pas à se dédoubler,
faisant de son « Moi » passé un personnage que son « Moi » présent
juge sévèrement. Les métaphores de la honte se multiplient, donnant
lieu à un cache-cache entre les deux « Moi » de l’auteur qui ne
va pas sans s’achever sur la victoire du « Moi » présent, lequel
se dit coupable pour renforcer une thèse qui lui est chère, celle
de la co-responsabilité : c’est l’ensemble du peuple allemand qui
est co-responsable face au Mal nazi. Mémoire et Imagination se réconcilient
au nom d’un engagement dont le présent prend acte.
Cet article est une analyse des récits autobiographiques de deux
écrivains anglophones africains aux parcours atypiques. Le premier,
Blame Me on History (1986) du sud-africain Bloke Modisane, est écrit
dans le contexte de l’apartheid et met en exergue le ressenti de
son auteur et sa vision de l’identité nationale en Afrique du Sud.
Le second, The Eloquence of the Scribes (2006), est de l’écrivain
ghanéen Ayi Kwei Armah. Dans ce mémoire, il expose les raisons pour
lesquelles il milite pour une identité continentale africaine. A
travers la mise en tension de leurs points de vue, cet article cherche
à poser la question du nationalisme et des identités en Afrique
: est-il nécessaire que chaque état cherche à enraciner ses valeurs
dans une identité nationale ou est-il préférable que les nations
africaines s’unissent pour bâtir et consolider une identité continentale
? L’analyse aboutit à la conclusion selon laquelle les identités
nationales sont à promouvoir s’il y a la manifestation d’une adversité
aussi complexe que l’Apartheid. Cependant, les velléités annexionnistes
telles que la colonisation et le discours exclusif de l’Apartheid
ayant pris fin, il serait judicieux d’envisager la promotion d’une
identité apposée à l’ensemble de l’Afrique, ce qui pourrait rendre
l’ensemble du continent plus dynamique que les systèmes nationaux
statiques qui ont émergé après la fin de la colonisation occidentale.
L’oralità non esaurisce la sua funzione in un mero passaggio verbale
di conoscenza, il sapere trasmesso infatti contiene in esso un’implicita
visione del mondo, sedimentatasi da voce a voce, nel tempo. La memoria
popolare dunque può essere considerata un archivio di interpretazioni
della realtà, interiorizzate e condivise. La tradizione orale divine
così autobiografia collettiva di una società che ha fatto del suo
sapere metafora ed insegnamento. La “popolarità” di un fenomeno
culturale deve essere concepita come uso piuttosto che come origine,
come fatto e non come essenza, come posizione relazionale e non
come sostanza. La letteratura orale costituisce, dunque, un patrimonio
di informazioni ma soprattutto un archivio di testimonianze per
una, nessuna, centomila voci dal passato. Partendo da tale considerazione,
dall’analisi di proverbi e fiabe di tradizione orale e popolare
della Campania si è giunti a rintracciare un atteggiamento culturale
codificato, quello fortemente connotato dalla diffidenza verso il
genere femminile.
Dans cet article seront passées en revue quelques œuvres littéraires
contemporaines françaises et allemandes, écrites par les enfants
de la génération de guerre dite coupable. Il s'agit pour la plupart
d'enfants de nazis, de collaborateurs plus ou moins actifs, de suiveurs
impliqués à des degrés différents dans la machinerie du Troisième
Reich durant la Seconde Guerre Mondiale. Il sera question d'explorer
la manière dont les deux nations se confrontent au passé obscur
de leurs parents et grands-parents et d'étudier le discours intergénérationnel
en-deçà d'une pensée purement nationale, en proposant une étude
comparative qui tienne compte des ressemblances et des divergences
dans le travail de mémoire sur l'histoire familiale. L'imaginaire
y représente un outil primordial dans la confrontation au passé,
capable de donner voix au vide, aux non-dits, à la douleur, à l'ineffable,
tout en proposant un éclairage nouveau sur une époque très étudiée
par l'historiographie et arrivant à un certain degré de saturation.
A partir d'une étude du genre du « roman familial » et des sous-genres
qui s'y rapportent il sera question de penser l'intrication, la
synergie entre autobiographie, mémoire et imaginaire dans la mise
en œuvre d'un véritable travail de mémoire littéraire.
La mémoire familiale est constituée par l’accumulation de souvenirs
produits par des anecdotes, des événements, des moments importants
qui ponctuent la vie d’une famille. Ces souvenirs forment une histoire
commune et intime aux membres d’une même famille constituée d’un
nombre plus ou moins important de personnes unies par le sentiment
d’appartenance à un même groupe. Face à l’aspect éphémère de la
vie, les souvenirs des moments vécus doivent être incarnés durablement
par des éléments capables de conserver la mémoire familiale. C’est
pourquoi de nombreux objets sont accumulés par une famille. Ils
sont considérés comme des preuves tangibles de son existence et
surtout ils permettent d’effectuer un travail de mémoire. Ils peuvent
être de différentes natures : un vêtement, une mèche de cheveux,
un faire part de mariage, etc. bref tout ce qui permet de construire
le souvenir, de faire surgir l’histoire familiale est susceptible
d’être conservé. Ces objets qui sont très souvent sans grande valeur,
forment les reliques, les traces de la mémoire familiale ; ils sont
précieusement gardés et consciencieusement archivés. La mémoire
familiale est donc basée sur la transformation de l’évènement éphémère
en souvenir durable par le biais d’objets. Ceux-ci incarnent la
réalité d’une histoire commune et familiale. Cependant, parfois
un décalage peut se produire entre la réalité de l’histoire familiale
et sa transformation en souvenirs. L’objet collecté peut ne pas
correspondre à la réalité ; l’objectivité des faits est ainsi écartée
dans l’élaboration de la mémoire. Il en résulte une mémoire partielle,
tronquée, fantasmée, changée, brouillée, perturbée : l’imaginaire
s’est alors peut-être immiscé dans sa construction… Mon propos sera
ici de montrer à travers certains exemples artistiques basés sur
l’utilisation de la photographie, comment la réalité est détournée
au sein de certains codes de représentation et comment l’imaginaire
investit parfois la mémoire familiale.
Maria Immacolata Macioti - Orazio Maria Valastro
Un numero di Magma dedicato al tema “Memoria, Autobiografia e Immaginario” non può che essere vario e molteplice nei contenuti e nella forma. Non può che presentare contributi che chiamano in causa realtà locali e internazionali, tempi complessi: ieri ed oggi, ieri e domani. Abbiamo messo in evidenza, nella prima sezione di questo numero, due temi fondamentali e trasversali: le memorie ed il loro contesto, l’immaginazione e l’immaginario. Le memorie risentono del tempo, del luogo e del contesto nel quale sono elaborate e raccolte, e il ruolo della politica e del potere ne condiziona il loro vissuto e la loro stessa rielaborazione e interpretazione. L’immaginazione come particolare forma di rappresentazione della realtà, di conoscenza riproduttiva e ri-costruttiva, è anche reinterpretazione creativa nel processo della narrazione della storia individuale e sociale. L’immaginario individuale, sociale e sacrale, come forma estetica delle narrazioni individuali e collettive, è parte costitutiva del pensiero e della coscienza delle donne e degli uomini, e ci svela a capacità di evocare e di creare dei soggetti, di rappresentarsi il mondo, attraverso la funzione dell’immaginazione simbolica. I contributi che abbiamo selezionato e che compaiono in questo numero all’interno delle altre sezioni, sviluppano questi due temi chiave tra spazi angusti e ampie distese che travalicano confini; confini tra terre abitate, confini tra discipline.
Maria Immacolata Macioti
Forse perché da lunghi anni mi interesso di sociologia qualitativa, mi sembra di aver visto crescere l’importanza del tema della memoria, anche se secondo logiche a volte diverse e contraddittorie, di spinta e accettazione da un lato, di negazione ed oblio dall’altro. Certamente, di attenzione e dibattito tra gli studiosi, tra diverse discipline. Da tempo si interessano di memoria, di memorie, si adoperano per individuarle, raccoglierle, trasmetterle sia la storia orale che la sociologia qualitativa. Nel loro ambito si ritrovano, si individuano, si raccolgono memorie personali e di gruppo, memorie che sono quindi rappresentazioni sociali. Che vengono ascoltate, accolte, rielaborate (le memorie vivono dinamiche di ricordo e oblio), valorizzate e comunicate. E non solo: gli studiosi che ricorrono alla raccolta di interviste in profondità, intese a fare emergere memorie, a ricostruire ‘storie di vita’ o magari tranches de vie, quelli che utilizzano materiali biografici per ricostruire un certo periodo storico, un ambiente, una tematica, sono, insieme, di regola, anche dei seminatori di memorie.
Santo Di Nuovo
L’immaginazione, questa particolare forma di rappresentazione della realtà che produce ed elabora un oggetto di conoscenza senza che gli stimoli relativi ad esso siano effettivamente presenti nel sistema senso-percettivo, gioca nella vita quotidiana un ruolo importante quanto - e forse più - delle idee e delle parole. Immaginare aiuta a ricostruire la memoria e a sostanziare l’auto-biografia. La conoscenza è troppo complessa per attuarla solo con le parole. Per conoscere occorrono strumenti diversi, concorrenti: e tra questi l’immaginario è tanto importante che, come diceva Federico Fellini, “nulla si sa, tutto s’immagina”. L’immaginazione è uno strumento potente per ridefinire i veri confini della dimensione passata, riscoprendo una dimensione essenziale della memoria, non solo attraverso le parole ma attraverso le immagini. Ed in effetti, il mental imagery è una associazione di linguaggio verbale e figurativo. L’antico dibattito sulle “immagini nella mente”, che metteva in contrasto la teoria proposizionale (basata su concetti e verbalizzazioni) e la teoria analogica (pittorica, analoga alla elaborazione percettiva), è stato superato dalla constatazione che entrambe le teorie sono valide in differenti condizioni.
Orazio Maria Valastro
Nous pouvons concevoir une sociologie de l’écriture ordinaire, pour saisir le processus d’ouverture et décentrement des sujets. Les individus, devenant les auteurs de leur biographie, font l’expérience de la conscience poétique et mythique dans le mouvement de l’écriture autobiographique. La tâche du mythanalyste engage une exploration inédite de cette expérience, la pratique de l’écriture de soi dans les territoires existentiels et symboliques de la quête autobiographique. Nous interrogeant sur la fonction et la signification profonde des écritures autobiographiques, nous allons repenser un travail de recherche ayant pour objet l’intertextualité des textes vivants. La découverte de sensibilités et consciences mythobiographiques est au rendez-vous dans le travail du chercheur.
Christine Plasse Bouteyre
Une pratique d’écriture aussi liée que le « genre autobiographique » à la remémoration, à la construction et à la formalisation de l’identité personnelle, comme image de soi pour autrui et à la question essentielle de l’individualité dans la modernité ne saurait rester étrangère au questionnement sur le pourquoi et le comment de tels récits. Cette interrogation ne va pas sans quelques difficultés à la fois théoriques et méthodologiques. Tout au long des XIXème et XXème siècles, les professeurs français des différents ordres d’enseignement ont été amenés à rédiger des mémoires ou des souvenirs professionnels. Si certains de ces récits ont pu devenir célèbres ou passer à la postérité du fait de la notoriété de leurs auteurs, il semble bien que la quasi-totalité de la production littéraire produite par les différentes catégories d’enseignants soit tombée dans un impressionnant oubli. Pour comprendre la réalité de ces pratiques nous avons été conduit à étudier les différents aspects des récits autobiographiques rédigés par quelques professeurs de lettres de la Sorbonne entre 1880 et 1940.
Olga Amarie
Le texte autobiographique potentiel se rattache curieusement à des configurations du fragment. L’écrivain oulipien écrit par fragments. Les fragments sont alors un petit univers en miettes. L’écriture fragmentaire remonte au moment de l’entrée dans la bibliothèque. Je me souviens, Les amnésiques n’ont rien vécu d’inoubliable, Autobiographie, chapitre dix, Pas un jour sont fait de fragments ; ce choix est alors justifié à la manière oulipienne de la liste, de l’inventaire. La cohérence déforme, l’incohérence est totalisante, potentielle. Ce morcellement du moi exprime l’ambiguïté de l’écriture, la canalisation de l’être dans le livre. Seul le travail est là, comme un être universel. En réponse à cette impasse, l’autobiographe oulipien confie la charge de reconstituer son être émietté à l’autre, au lecteur. L’autre alors dévolue la tâche de faire le portrait de l’écrivain à partir des fragments multiples laissés par l’écriture, de faire un texte cohérent de ce récit abandonné à l’image et au son. Plusieurs ressemblances fondamentales se dégagent pourtant de l’écriture potentielle autobiographique : l’importance et la complexité des rapports entre le langage, l’image, et le son, la fragmentation et la cohérence du vécu, le rangement du moi dans le souvenir et la pensée, le lyrisme et la force de l’inachèvement de l’écriture potentielle.
Marco Pasini
La memoria e l’identità di un quartiere con materiale visuale e biografico, interviste e documentazione storica. La problematica che si cerca di sviluppare in modo trasversale credo dia una certa originalità alla proposta. Memoria e autobiografia attraverso la visione di sé e come questa viene elaborata e raccolta in contesti culturali e sociali. Come le narrazioni iconografiche sono influenzate e l'immaginario sociale diviene modalità di riproduzione delle rappresentazioni individui-società. La comprensione e l’interpretazione della memoria autobiografica e l’immaginario nella testualità della scrittura di sé per mezzo della luce (foto-grafia), nasce dalle analisi teoriche e metodologiche, delle riflessioni sull’esperienza di ricerca empirica riguardo le visualizzazioni autobiografiche, mettendo in prospettiva un approccio biografico delle storie di vita e una sociologia visuale dell’immaginario.
Barbara Roland
Au cours de cet article, nous examinons un corpus de créations dans le champ des arts du spectacle vivant en Belgique, au sein desquelles des performeurs, à la fois sujets et lieux de l’énonciation, développent des formes esthétiques d'écriture vivante de soi. Pour certains artistes, l’art de la performance est un terrain privilégié pour évoquer l’expérience du « moi » dont ils sont les protagonistes. Des femmes et des hommes deviennent les auteurs de leur biographie, sous forme d’un langage vivant qui dépasse le cadre de la représentation et de ses codes. Avec ou sans masque fictionnel, ils mettent en place des moyens originaux pour exprimer ce que les instruments classiques de l’expression ne peuvent pas formuler. Entre réalité et imaginaire, ils communiquent « ce que dire ne veut plus dire », et traduisent des réalités mais aussi des souvenirs de la mémoire individuelle et collective sur le plan de la création artistique.
Maria Immacolata Macioti
Oggi, a sessanta anni di distanza, in un mutato contesto, in una Italia meno povera, più protesa sul futuro, alcuni dei militari di allora hanno pubblicato scarni brani di diario, hanno offerto memorie ricostruite oggi, a partire da furtivi e forzatamente rapidi appunti di allora: emerge un materiale inedito che da un lato contribuisce a dare elementi per una ricostruzione storica, dall’altra ha certamente un valore affettivo, familiare: si fa sentire, evidentemente, l’esigenza di raccontare cosa è avvenuto perché si sente il dovere della memoria. Perché si riconosce il diritto alla memoria delle giovani generazioni, dei propri nipoti. Nei decenni trascorsi i ricordi si sono forse stemperati, si è imparato a conviverci. Si è probabilmente più in grado, a distanza di decenni, di fare una rilettura dei fatti di allora, di farsene una ragione. Di cercare di attribuire a questa devastante esperienza un qualche senso, un significato. E quindi oggi alcuni parlano, altri scrivono. Dicono che nella cattività hanno riscoperto la libertà, la democrazia.
Elisa Mencacci
Attraverso questo elaborato, frutto di un iniziale resoconto di un più ampio progetto di ricerca, si intende riflettere sul rapporto tra esperienza di rifugio e il complesso ambito della salute mentale. Condotta all’interno di un Centro di Salute mentale di Bologna, l’indagine cerca di riflettere, con una modalità attiva, su le strategie più opportune per intervenire con persone provenienti da questo tipo di esperienza. Siamo all’interno di un setting già da anni strutturato secondo un taglio pluriprospettico, dove l’approccio medico-psichiatrico s’incontra con lo sguardo antropologico. Le due figure utilizzano l’ausilio di un mediatore linguistico-culturale. Il setting ha preso forma nell’intento di fornire un servizio quantomeno sensibile alle particolari richieste che provengono da pazienti migranti, dunque da soggetti provenienti da luoghi altri. Si è fatto uso degli strumenti provenienti dall’antropologia della sofferenza sociale, disciplina attenta a investigare su quanto le dinamiche di potere e i meccanismi di posizionamento sociale possano essere considerati come veri e propri agenti patoplastici e della narratologia, quest’ultima usata con l’intento di leggere nei racconti clinici il modo in cui rifugiati e richiedenti rappresentano questa particolare esperienza di migrazione. Il vissuto di sospensione emerge come contenitore in grado di descrivere la condizione che questi soggetti vivono per gran parte del loro percorso. A giocare un ruolo importante sono i sistemi di accoglienza stessi, strutturati secondo logiche precise, tese a scandire il percorso per “divenire rifugiati” in fasi chiare e piuttosto rigide. I sistemi di accoglienza possono essere descritti come una giostra liminale, sopraelevata dalla realtà, dove questi soggetti entrano in un percorso teso in primo luogo a manipolare, cucire la loro storia in modo da riuscire a presentare la loro esperienza trascorsa in un modo adeguato e riconoscibile con il fine di riuscire ad entrare nei criteri stabiliti per essere considerati degni di ottenere la protezione internazionale.
Caterina Miele
Le memorie dei coloni ritraggono la realtà coloniale, testimoniando la progressiva iscrizione dei loro corpi all’interno di un territorio già segnato dal potere coloniale e che loro contribuiranno a segnare in questo senso, una progressiva presa di coscienza, attraverso i discorsi, le pratiche, gli oggetti e i simboli, del proprio ruolo di “civilizzatori”. Se le cerimonie organizzate all’uopo dalle autorità coloniali e la sistemazione nei poderi furono le prime fasi di adattamento alla nuova situazione e all’alterità, il lavoro di valorizzazione delle terre dei poderi fu il più importante strumento di risoluzione materiale e culturale di quella situazione critica. Se l’alterità etnica è assente o fa solo da sfondo alle memorie (che quasi non nominano la popolazione locale), al contrario estremamente vivo è il ricordo dell’ordine coloniale iscritto nel territorio: i simboli del potere coloniale (la via Balbia, i villaggi agricoli), i simboli della conquista (la croce e i monumenti ai caduti fascisti). La situazione coloniale, preannunciata dai discorsi delle autorità e dal richiamo alla missione civilizzatrice, è ritrovata iscritta nel territorio e, infine, incarnata dai coloni stessi.
Alexandra Borsari
Avocat engagé, Robert Badinter s'est retrouvé en situation de mettre en pratique ses idéaux. Son dernier livre, Les épines et les roses, publié chez Fayard (Paris, 2011) est le récit de son parcours de ministre de la Justice. Cet ouvrage soulève ainsi des questions sur les rapports entre mémoires rédigées et image de soi, mais aussi entre la mémoire du sujet et la mémoire collective à laquelle il participe. En racontant sa version du passé, l'auteur entend influencer la lecture de celui-ci et contrôler, en partie, le souvenir qui en sera gardé dans l'opinion. Car, bien qu'il se présente tout au long de l'ouvrage comme un homme ordinaire, arrivé de manière inattendue au pouvoir, Robert Badinter omet de rappeler que tout son parcours postérieur à cette expérience de ministre s'est déroulée à des niveaux de responsabilité en lien étroit avec le pouvoir politique. Après cet accès momentané au pouvoir exécutif, Robert Badinter a ainsi été président du Conseil constitutionnel, fonction à forte dimension politique, avant d'accéder à des fonctions prestigieuses au niveau international. Enfin, son parcours politique s'est poursuivi par son élection au Sénat et donc par une participation directe à l'exercice du pouvoir législatif. Bien sûr, les responsabilités ne sont pas les mêmes, et pour quelqu'un qui s'est souvent refusé à parler de lui, se mettre en scène en tant que garde des Sceaux revêt une signification particulière. Il s'agit ainsi de rendre pérenne le souvenir d'un combat et d'une action dont les résultats les plus forts – abolition de la peine de mort et réforme du code pénal – continuent de façonner, à leur manière, la société française. Mais au-delà du bilan, ce retour sur le passé est également l'occasion de s'ériger en juge du temps présent. Le combat n'est pas terminé et cet ouvrage se veut aussi une oeuvre militante. En analysant cette volonté de se présenter en citoyen ordinaire et de se démarquer du reste de la classe politique, il s'agira ainsi de voir ce qui, dans le récit, relève du mythe personnel et de son inscription dans une histoire plus large qui est celle d'une mythologisation de la gauche française. Le mythe sert ici de support au récit, pour donner du sens aux actes et les inscrire dans une histoire bien plus grandiose, démentant en cela la volonté d'humilité pourtant professée de la première à la dernière page. Cette posture n'est d'ailleurs pas sans poser problème dans la mesure où elle semble mettre à profit le discrédit croissant dont souffrent les élus et les décideurs politiques dans leur ensemble. Le combat tel qu'il est mené, en se posant sur le terrain de la morale, pourrait ainsi être interprété dans un tout autre sens que celui voulu par l'auteur.
Aurélie Renault
La publication en 2006 de l’autobiographie de Günter Grass, Pelures d’oignon, fait scandale : cet homme si engagé du côté des plus faibles s’est engagé volontairement dans la Waffen SS ! Cet aveu est difficile de la part de l’auteur. Il lui faut peler amèrement l’oignon du souvenir, multiplier les questions, cherchant alors des réponses pour comprendre son attitude d’alors, des réponses qui ne peuvent que le rendre coupable à ses yeux comme à celui de son lectorat. Aussi son pacte autobiographique tourne-t-il, pour l’essentiel, autour de la question du jugement. Il n’hésite pas à se dédoubler, faisant de son « Moi » passé un personnage que son « Moi » présent juge sévèrement. Les métaphores de la honte se multiplient, donnant lieu à un cache-cache entre les deux « Moi » de l’auteur qui ne va pas sans s’achever sur la victoire du « Moi » présent, lequel se dit coupable pour renforcer une thèse qui lui est chère, celle de la co-responsabilité : c’est l’ensemble du peuple allemand qui est co-responsable face au Mal nazi. Mémoire et Imagination se réconcilient au nom d’un engagement dont le présent prend acte.
Kouamé Adou
Cet article est une analyse des récits autobiographiques de deux écrivains anglophones africains aux parcours atypiques. Le premier, Blame Me on History (1986) du sud-africain Bloke Modisane, est écrit dans le contexte de l’apartheid et met en exergue le ressenti de son auteur et sa vision de l’identité nationale en Afrique du Sud. Le second, The Eloquence of the Scribes (2006), est de l’écrivain ghanéen Ayi Kwei Armah. Dans ce mémoire, il expose les raisons pour lesquelles il milite pour une identité continentale africaine. A travers la mise en tension de leurs points de vue, cet article cherche à poser la question du nationalisme et des identités en Afrique : est-il nécessaire que chaque état cherche à enraciner ses valeurs dans une identité nationale ou est-il préférable que les nations africaines s’unissent pour bâtir et consolider une identité continentale ? L’analyse aboutit à la conclusion selon laquelle les identités nationales sont à promouvoir s’il y a la manifestation d’une adversité aussi complexe que l’Apartheid. Cependant, les velléités annexionnistes telles que la colonisation et le discours exclusif de l’Apartheid ayant pris fin, il serait judicieux d’envisager la promotion d’une identité apposée à l’ensemble de l’Afrique, ce qui pourrait rendre l’ensemble du continent plus dynamique que les systèmes nationaux statiques qui ont émergé après la fin de la colonisation occidentale.
Veronica Polese
L’oralità non esaurisce la sua funzione in un mero passaggio verbale di conoscenza, il sapere trasmesso infatti contiene in esso un’implicita visione del mondo, sedimentatasi da voce a voce, nel tempo. La memoria popolare dunque può essere considerata un archivio di interpretazioni della realtà, interiorizzate e condivise. La tradizione orale divine così autobiografia collettiva di una società che ha fatto del suo sapere metafora ed insegnamento. La “popolarità” di un fenomeno culturale deve essere concepita come uso piuttosto che come origine, come fatto e non come essenza, come posizione relazionale e non come sostanza. La letteratura orale costituisce, dunque, un patrimonio di informazioni ma soprattutto un archivio di testimonianze per una, nessuna, centomila voci dal passato. Partendo da tale considerazione, dall’analisi di proverbi e fiabe di tradizione orale e popolare della Campania si è giunti a rintracciare un atteggiamento culturale codificato, quello fortemente connotato dalla diffidenza verso il genere femminile.
Franziska Georgii
Dans cet article seront passées en revue quelques œuvres littéraires contemporaines françaises et allemandes, écrites par les enfants de la génération de guerre dite coupable. Il s'agit pour la plupart d'enfants de nazis, de collaborateurs plus ou moins actifs, de suiveurs impliqués à des degrés différents dans la machinerie du Troisième Reich durant la Seconde Guerre Mondiale. Il sera question d'explorer la manière dont les deux nations se confrontent au passé obscur de leurs parents et grands-parents et d'étudier le discours intergénérationnel en-deçà d'une pensée purement nationale, en proposant une étude comparative qui tienne compte des ressemblances et des divergences dans le travail de mémoire sur l'histoire familiale. L'imaginaire y représente un outil primordial dans la confrontation au passé, capable de donner voix au vide, aux non-dits, à la douleur, à l'ineffable, tout en proposant un éclairage nouveau sur une époque très étudiée par l'historiographie et arrivant à un certain degré de saturation. A partir d'une étude du genre du « roman familial » et des sous-genres qui s'y rapportent il sera question de penser l'intrication, la synergie entre autobiographie, mémoire et imaginaire dans la mise en œuvre d'un véritable travail de mémoire littéraire.
Jérôme Moreno
La mémoire familiale est constituée par l’accumulation de souvenirs produits par des anecdotes, des événements, des moments importants qui ponctuent la vie d’une famille. Ces souvenirs forment une histoire commune et intime aux membres d’une même famille constituée d’un nombre plus ou moins important de personnes unies par le sentiment d’appartenance à un même groupe. Face à l’aspect éphémère de la vie, les souvenirs des moments vécus doivent être incarnés durablement par des éléments capables de conserver la mémoire familiale. C’est pourquoi de nombreux objets sont accumulés par une famille. Ils sont considérés comme des preuves tangibles de son existence et surtout ils permettent d’effectuer un travail de mémoire. Ils peuvent être de différentes natures : un vêtement, une mèche de cheveux, un faire part de mariage, etc. bref tout ce qui permet de construire le souvenir, de faire surgir l’histoire familiale est susceptible d’être conservé. Ces objets qui sont très souvent sans grande valeur, forment les reliques, les traces de la mémoire familiale ; ils sont précieusement gardés et consciencieusement archivés. La mémoire familiale est donc basée sur la transformation de l’évènement éphémère en souvenir durable par le biais d’objets. Ceux-ci incarnent la réalité d’une histoire commune et familiale. Cependant, parfois un décalage peut se produire entre la réalité de l’histoire familiale et sa transformation en souvenirs. L’objet collecté peut ne pas correspondre à la réalité ; l’objectivité des faits est ainsi écartée dans l’élaboration de la mémoire. Il en résulte une mémoire partielle, tronquée, fantasmée, changée, brouillée, perturbée : l’imaginaire s’est alors peut-être immiscé dans sa construction… Mon propos sera ici de montrer à travers certains exemples artistiques basés sur l’utilisation de la photographie, comment la réalité est détournée au sein de certains codes de représentation et comment l’imaginaire investit parfois la mémoire familiale.